Islanda

Islanda
arcobaleno sotto la cascata di Skogafoss in Islanda

domenica 10 maggio 2015

Saggi di Estetica




Frammentario artistico fondamentale


Ogni opera d’arte, di qualsiasi genere, potrebbe essere trasformata e migliorata scientificamente, fino a diventare meravigliosa. A partire da una potrebbero prodursene tante. È alquanto plausibile che la produzione di molte grandi opere vincenti sia stata di fatto almeno in larga misura scientifica: altro che “ispirazione geniale”, e che in altre opere che sono risultate alla fine meno efficaci abbia fatto difetto proprio la scientificità del lavoro; al massimo ad una idea presentatasi per caso si è lavorato metodicamente, sebbene io credo che ci sia – e se ancora non c’è bisogna trovarlo – un metodo per farsi venire le idee stesse, creare le condizioni che provocano le ispirazioni, anziché aspettarle - quando potrebbero non arrivare mai, o anche solo acuire la sensibilità per gli elementi esteriori ed interiori che solitamente le provocano, o la capacità di distinguerli dal superfluo in cui sono immersi nella vita quotidiana. Ma la scientificità è divenire metodico e consapevole, e già lo osservò Nietzsche, che ovunque si mostra il divenire di qualcosa, ne risentono la sua brillantezza e l’ammirazione del pubblico: questa presuppone lo stupore, il non capire come sia stato possibile creare quella cosa, il prenderla come data, finita, come apparsa dal nulla, il non visualizzarne la nascita ed i passaggi intermedi, il vederla come un’anomalia, una folgorazione, una genialata. Se si parte dal punto A e la soluzione è il punto D, e in mezzo ci sono i punti intermedi B e C, si disse, <<il genio è la capacità di giungere da A a D senza passare per B e C.>> Noi ci chiederemo come mai sia possibile. Se si trattasse di un di un labirinto di cui si deve trovare l’uscita, la “genialità” corrisponderebbe alla scoperta di un sottopassaggio, o di una via laterale o aerea che consente di evitare i tortuosi passaggi intermedi. Forse se scoprissimo questa botola, e magari anche il modo casuale con cui è stata trovata, smetteremmo di ammirare il genio. Forse ammireremmo di più la forza che ha consentito all’uomo normale di entrare nel labirinto e vincendo ogni resistenza giungere dall’altra parte. Poi mostra anche l’origine e lo sviluppo di questa forza, se davvero è tale, e sparirà anche questa ammirazione, fino a che non ammireremo più nulla. Concedo però che molto spesso, soprattutto nella filosofia, si possano trovare delle botole che conducono alla soluzione di un problema per una via più semplice che non quella che appare necessario affrontare, o che molti si possano aggirare eternamente per il labirinto in questione, ritornando sui propri passi e perdendo l’orientamento, e magari un’uscita non c’è nemmeno. Una grande benedizione della logica è che una proposizione può essere dedotta non solo da un’altra, ma da molte altre, che ci si possa arrivare da molti punti e dunque non è necessario che tutti abbiano le stesse conoscenze [quindi lo stesso insieme di proposizioni], per risolvere un problema, il che poi è il motivo per cui le scienze si trovano spesso a confermarsi a vicenda, partendo ognuna da assunti differenti e proseguendo con il proprio metodo, eventualmente inconsapevole del contemporaneo lavoro dell’altra. Nella Volontà nella Natura Schopenhauer fu lieto delle conferme che le scienze naturali sembrarono dare alle sue teorie, che le due forze avessero scavato un tunnel dentro una montagna partendo da direzioni opposte e si fossero trovate a metà, stringendosi la mano. Smonta un concetto erroneo, notane l’infondatezza o limitane la portata, e ti eviterai peregrinazioni inutili e tormentose. Critica la ragione come provò a fare Kant e magari ti risparmierai di favoleggiare sulla metafisica.
Ma la vera scienza, e l’unico metodo, è di non essere mai l’uomo giusto nel momento sbagliato, è votarsi alla creazione artistica quando la volontà, con la giusta energia, si trovi di fronte ad una realtà da fronteggiare, e non manchi ben la tecnica laddove si presenti l’istinto dell’arte.

Leggiamo una poesia e ci chiediamo di cogliere esattamente ciò che l’autore intendeva dire. Altri sostengono invece che nella poesia dobbiamo cogliere ciò che ognuno di noi vuole cogliere ed evincere, o ciò che può, e che l’interpretazione del significato è libera ed arbitraria. Che in questo modo “la facciamo nostra. Io avanzo l’ipotesi che esista invece una corrispondenza biunivoca tra una realtà e la sua espressione verbale. La nostra interiorità tradotta in un testo e con esso divenuta comunicabile. Che esista dunque un modo sommo, l’unico modo di dire qualcosa di preciso. Se lo dici in un altro modo, tu dici qualcos’altro. Le tue parole corrispondono ad una realtà diversa, o più complessa, o più semplice. La pretesa ambiziosa del linguaggio è la sua capacità di evocare nel lettore un sentimento - perché anche i pensieri sono vissuti come sentimenti: ed il linguaggio vincente ed adeguato raggiunge appunto questo scopo. Se non lo raggiunge, o si tratta di un cattivo scritto oppure di qualcosa rispetto al quale, al lettore, manca lo sfondo esistenziale: egli non può comprendere perché gli manca l’esperienza. In questi due casi il testo è criptico. Ma nello stato d’animo adeguato ad apprezzare la poesia, ovvero quello che conosce già per esperienza il contenuto ed è pronto a riceverne un’evocazione fulminea, esiste appunto una dicitura ideale e sola. Tutto il soggettivo è un’aggiunta richiesta dall’esigenza di creare una conoscenza mancante o quello stato d’animo recettivo al materiale. Soltanto i concetti generali si possono prestare a più interpretazioni, appunto perché gli mancano le determinazioni: versi che contengono parole astratte sono appunto imprecisi, e queste vengono tradotte in qualcosa di preciso da ogni lettore, riconducendosi alla sua esperienza e con la sua fantasia. Non si lamentino gli scrittori che vengono fraintesi sul significato originario delle proprie espressioni, se hanno usato solo espressioni astratte: perché ognuno le concretizza a modo suo, necessariamente, se non conosce la biografia dell’autore. Il momento in cui gustiamo la poesia è la concretizzazione, questo è il momento toccante. Il gusto delle massime generali è invece il gusto del possesso, dell’onnicomprensivo.

Sono un fautore della continuità tra prosa e poesia: la differenza sta fondamentalmente nella divisione in versi, perché tutto il resto, l’utilizzo del lessico, le figure, la sintassi, deve appartenere ad entrambe perché c’è un unico modo di dire perfettamente qualcosa. Una poesia poco chiara è mediocre. Una prosa pesante è mediocre. Per ogni contenuto si rivela ideale un determinato compromesso tra poesia e prosa.
Quando ti allontani dalla consapevolezza nella quale hai scritto un testo, e lo rileggi, tutto sembra meno liquido, sembra procedere a scatti e mancare un sottofondo che renda vivido e scorrevole il tutto, più completo e comprensibile, una prosodia più trascinante ed avvolgente, intensa. Mancano parole, manca uno stile che ricrei quello che c’era in origine: il sottofondo empirico del testo. Ma ogni individuo necessiterebbe allora di introduzioni proprie, e si dovrebbero scrivere tanti testi sulla medesima questione, quanti sono gli stati d’animo dei tanti lettori: per cui si richiede che siano loro ad adeguarsi al testo, a trovare il contesto che manca, non viceversa. Del resto ogni volta che invece abbiamo tutte le carte in regola per comprendere appieno il testo nella sua versione più scarna ed essenziale, quel sovrappiù ci appesantisce, frena ed annoia.

Il poeta intuisce ed enuncia in un afflato ciò che lo scienziato, freddo, determina. Ma lo scienziato dell’anima deve essere il poeta. Nessun letterato può fare grande letteratura senza possedere con fermezza nozioni chiare ed esatte circa il materiale di cui parla.

Esempio della frase di Ungaretti [La Pietà 1928]

La carne si ricorda appena
Che una volta fu forte

Se l’autore non lasciasse credere di aver compreso che è il corpo a ricordare, se non possedesse quindi questa scienza del pensiero e del sentimento, tali versi non potrebbero essere apprezzati.


La vera poesia è sangue che diventa inchiostro. Ma l’inchiostro rischia di diventare sangue.


La letteratura è dapprima arte della caccia e poi arte culinaria.


Estetica come fisiologia del contatto con oggetti esterni.


La letteratura deve dire cose che non si possono vedere, sentire, toccare, odorare, gustare. Sotto tutti questi piani essa è infatti inferiore alle altre arti, ne è un surrogato sbiadito, impoverito, impuro, distorto, debole, inefficace. La letteratura opera con i concetti. I concetti sono i simboli delle percezioni. Il singolo concetto, come potere impressivo ed evocativo, è sempre inferiore al suo corrispettivo empirico, che viene reso in maniera assai più vicina al vero dalla pittura o dalla musica. La peculiarità della letteratura è quella di poter giustapporre, sovrapporre o mescolare, una serie di dati empirici anche disparati fornendone un ibrido assai particolare. Ma i singoli elementi percettivi sono stati raccolti il più delle volte separatamente oppure già come ibridi più semplici: ad esempio un umore di tristezza dinanzi ad un paesaggio naturale radioso e lussureggiante. Tutte le arti, se sfruttate sino ai limiti intrinseci delle loro possibilità espressive, hanno un potere sintetico. Ma la sintesi è sempre un impoverimento della realtà, così come è inevitabile che, osservando il mondo da una mongolfiera in ascensione, la nostra visuale perda sempre di più il contatto con i particolari man mano che saliamo. La sintesi è nata dalla necessità di vedere tutto subito, tutto insieme. Ma chi ha determinato questa necessità? La fretta e la complicatezza disorganizzata del mondo moderno hanno condizionato anche l’arte.


La poesia è una forma letteraria che si avvale dell’aspetto pittorico nella disposizione del testo, e dell’aspetto musicale nella ritmica e nel suono. Quanto al contenuto concettuale, essa non può che presentare oggetti belli da vedere o piacevoli agli altri sensi. Ci si può riferire alla poesia come ad una composizione di parole ricamate o parole tempestose, perché appunto deve rendere in parole la bellezza di un ricamo o di una tempesta, o di quant’altro ha un effetto estetico potente in natura. Se voglio essere semplice ed efficace dunque devo usare la parola ricamo e la parola tempesta, o qualcosa che in modo ben verosimile mi dia la sensazione tratta dalla visione originale. In questo caso, definendo la poesia composizione ricamata o composizione tempestosa, ho creato un oggetto nuovo che potrebbe essere bello alla vista, ovvero un ricamo fatto di parole, o una tempesta fatta di parole, e rappresentando questo oggetto in parole ho scritto una nuova poesia: quell’espressione era dunque autoreferenziale. Infatti dire parole tenui è pleonastico, dacché se dico tenue mi riferisco già all’effetto che ha avuto su di me l’oggetto che poi ho chiamato tenue, ad esempio un muro beige o la luce in una stanza.


Possiamo gustare una soggettiva del personaggio qualora il personaggio sappia restare ben nascosto ed i nostri occhi davvero sostituirsi ai suoi. Ma se il personaggio per sbaglio entra nel campo visivo, abbiamo ora una pseudo soggettiva, in cui vediamo come nella vita un paesaggio ed i compagni che assieme a noi lo vedono, dal che scatta un confronto tra impressioni e atteggiamenti e l’effetto estetico è plurimo, in quanto può stridere, infastidendoci, aumentare la sensazione di potenza, essendo le loro reazioni identiche alle nostre, confermandoci, oppure può disgustarci, invaderci, divertirci, stupefarci, farci restare ammirati, e in generale un’immagine può prevalere sulle altre: quella del personaggio, quella del paesaggio, o quella del rapporto tra i due, tutti confrontati con la nostra soggettività.



Immaginiamo una soggettiva di un personaggio che corre in un sentiero dissestato in mezzo alle foreste, che potrebbe essere un soldato. Quello che vede lui lo vediamo noi, quello che sente lui lo sentiamo noi, ma non abbiamo accesso diretto alle altre sensazioni. Possiamo averne però un accesso indiretto: se il soldato ansima, noi possiamo evocare la fatica associando l’effetto, già sperimentato, alla causa. Se urla possiamo percepire in maniera mnemonica e dunque attutita il dolore. A ciò che non è direttamente percepibile occorre fornire un accesso associativo.


L’emblema è un oggetto particolare talmente potente e pregno da contenere in sé tutti gli altri oggetti simili e dunque capace di rappresentare un concetto generale.


I concetti generali possono presentarsi in poesia come in prosa. Essi espandono la visuale e catturano una realtà più grande, ma in poesia come in prosa essi hanno efficacia solo qualora si appoggino sugli esempi particolari. In numero plurale, qualora deboli. In numero singolare, qualora si tratti di un esempio molto forte ovvero emblematico, che in tal caso addirittura sostituisce il concetto poiché nulla resta a quest’ultimo da esprimere che non fosse già intrinseco al nostro esempio.


L’analogia paragona il rapporto tra due elementi di una realtà, al rapporto tra due elementi di un’altra realtà. L’astrazione raccoglie in un concetto generale la totalità di questi rapporti analoghi.


Le parole hanno un campo semantico, ovvero una modificazione del significato in funzione del contesto. Quando leggiamo tale parola all’interno di un contesto, il suo significato dominante sarà quello determinato da tal contesto, ma gli altri significati danzeranno intorno a quello principale tentando anche di intriderlo e trasfonderlo. Voglio chiamarlo fenomeno dell’aura semantica.


Le abbreviazioni allungano. Esse sono una becera trappola. Mettendo delle abbreviazioni uno fa solo un poco di fatica in meno a scrivere e molta più fatica a leggere. Il modo migliore che ha un segno di rappresentare un oggetto è di somigliargli il più possibile. Più il segno è distante dall’oggetto, più dobbiamo lavorare con la mente per completarlo o per trasformarlo.


Le semplificazioni complicano. Una cosa è semplificare quello che è indebitamente complesso, togliere dunque il superfluo e il non attinente. Altra è pretendere di migliorare un prodotto sottraendone elementi essenziali o modificandone arbitrariamente la struttura. Quando un prodotto è perfetto, non vi sono elementi inessenziali e la precisa struttura fa parte della sua essenza.
Essenza significa infatti identità. Da essa dipende la funzione.
Se togli anche solo qualcosa non è più lo stesso prodotto.


I saggi di estetica sono le opere stesse, e qualsiasi estensione teorica, motivata dal fatto che non abbiamo sotto gli occhi il corrispettivo pratico appartenente ad un'altra branca, o non abbiamo il modo di studiarlo subito, corrisponde al tentativo di gettare una rete su un insieme di fenomeni e raccoglierli a noi affinché non scappino. Essa va sempre costruita sull’esempio e intorno all’esempio, sulla singola riuscita creazione senza la quale non esiste astrazione.


Le analogie servono a chi si occupa della generalità delle cose e dunque del rapporto tra serie di oggetti, e di queste ultime deve cogliere dunque solo la struttura e non i particolari. Ma allo specialista di un’area concettuale l’analogia è incomprensibile. Infatti per capirla egli dovrebbe conoscere sia la prima sia la seconda, come le due sponde tra le quali si getta un ponte. È ovvio che non si possa gettare un ponte se si possiede una sola sponda. Questo tentativo lascia il nostro ponte sospeso nel vuoto, nel quale esso cade inesorabile poiché privo di sostegni sufficienti. Pertanto ogni disciplina deve essere imparata nei termini della disciplina stessa, non potendosi puntellare con sicurezza su altri campi semantici, ad eccezione di quei fenomeni che tutti conoscono e dunque possono essere considerati metafore universali, come ad esempio questa del ponte. Ma il parlare allegorico odora di esoterismo e quest’ultimo è sempre passibile di sospetto: perché mi parli in codice? E se invece la tua allegoria vuol avere un potere comunicativo maggiore, hai verificato che ce l’abbia? Un fenomeno naturale può essere emblematico poiché dal grande impatto sensoriale, ma appunto l’esempio partecipa della regola, non è qualcosa di estraneo ad essa, e la mia metafora, cui posso aggiungerne altre, va a tessere quel manto concettuale che tutto si uniforma in una comprensione dell’intero ambito fenomenico che illustra quel concetto. In questo caso l’allegoria è utile, ed è una roba da filosofi. Ma altrimenti è un complicarsi la vita. Un dover illustrare un fenomeno sconosciuto tramite un altro che eventualmente si conosce ancora meno, sicché uno deve scervellarsi due volte perché il codice risulta ancora più oscuro dell’originale. Ammesso poi che il rapporto analogico sia reale e preciso, e che non ci si imbatta in metafore forzate e tirate per i capelli, e che uno non si metta a tradurre termini tra due lingue nessuna delle quali padroneggia fino in fondo. Che l’allegoria non costituisca inoltre un velame volto a coprire la banalità di un concetto che, espresso chiaramente, sarebbe stato comprensibilissimo ed anche poco interessante, mentre con la veste allegorica passa per profondo.


Una poesia difficile da memorizzare è difettosa. Se tu hai dato ad essa una unità tematica, uno svolgimento logico ed una musicalità, un verso richiama l’altro. È come un fiume a cui è stato scavato un letto perfetto: l’acqua che parte dalla sorgente o vi cade in un punto qualsiasi, arriverà alla foce ed attraverso quel preciso percorso, laddove esso sia privo di sacche di ristagno, ambigue biforcazioni, falle di dispersione laterali o cunicoli sotterranei oscuri e senza uscita.


Esiste una leggerezza che riguarda i contenuti ed altra che riguarda la forma.
La banalità è leggera perché parla di argomenti senza peso e difficoltà. Lo stile rende leggeri i contenuti in sé più ponderosi e difficili, e trasfonde il tagliente in sollazzevole. Nella letteratura le cose stanno semplicemente nel seguente modo. È preciso onere dello scrittore aver sostenuto e scandagliato un territorio che altri non aveva forze o strumenti per indagare autonomamente. È preciso onere dello scrittore presentarlo in modo piacevole, senza che il lettore debba leggere con la stessa fatica che ha compiuto lui a scrivere. Quest’ultima può essere stata temperata in lui dal metodo ma, che lo sia stata o meno, non se ne deve avvertire il lezzo in fase di lettura, e nemmeno un residuo di terreno non dissodato deve essere lasciato sulle spalle del lettore per quella che evidentemente è stata una pigrizia o incapacità dello scrittore. Se uno il lavoro se lo deve alla fine fare da solo non è giusto che spenda soldi. Un libro deve avere le Risposte e devono suonare come un usignolo che intona la nostra canzone preferita. I libri che si leggono tutto d’un fiato e si rileggono con piacere sono gli unici meritevoli del nostro tempo. Questi sono i libri che probabilmente hanno richiesto la maggior mole di lavoro, come imperiose cattedrali infine mostrate a migliaia di occhi entro cui si imprimono luminosi e duraturi, il cui peso non li schiaccia invero adesso ma li sostiene, la cui potenza si travasa in loro e dal nucleo erompe all’esterno con fiducia. Dopo ogni lettura devi sentirti potenziato, non stracciato. Te ne devi uscire di casa che ti senti un eroe dei fumetti ed è come se ogni realtà potesse essere plasmata e dominata, ti senti uno stratega sul liscio binario di un treno futuristico, che guarda fuori quieto perché una meta gli sorride argentina.


Se questo è il dovere degli scrittori, diciamo adesso dove si fermano i diritti del lettore. Se un uomo ha scritto mille pagine cristalline senza ombra di prolissità e nelle quali ogni singola parola è insostituibile ed è parte dell’essenza del messaggio, egli lettore ha il dovere di leggere il libro da cima a fondo con quella quantità di impegno che non può essere sostituita dal lavoro dello scrittore, e non si può permettere frasi del tipo: Fammi un riassunto di quello che dice. In parole povere. In sostanza. Questa frase è una mancanza di rispetto, chi la pronuncia è sicuramente un cialtrone che non merita le nostre opere, in quanto non fa la sua parte laddove noi abbiamo fatto la nostra.


Un libro che deve essere studiato è mal scritto.
Se è ben scritto, basta leggerlo.


Tra alcuni musicisti vi è uno snobismo che tradisce la consapevolezza di un fallimento e la vuole meschinamente occultare. Un musicista può giustamente snobbare il giudizio di una persona di cattivo o basso gusto. Ma non può nascondersi, allorché le sue opere non piacciano, nella ridicola scusa che le sue composizioni siano rivolte a musicisti. Ed essi non vogliono dire esplicitamente intenditori, ma proprio professionisti: lasciando invero implicito che solo chi suona e compone possa intendersi di musica e avere buon gusto. Il proverbio è…
Non devi essere una gallina per dire che un uovo non è tondo. Ma il genere di composizioni che sogliono rifugiarsi nell’elitarismo professionale, dinanzi alla fredda reazione di un pubblico composto non da cialtroni ma da persone sensibili e dunque con le carte in regola per apprezzare anche le cose più complesse, nella genialità per pochi (in realtà meschini venditori di poco per molto e non-intenditori di buona musica): tali opere sono spesso di quel genere cervellotico, macchinoso, strampalato, arzigogolato, informe, spento, a-tematico, a-tonale, a-bulico, a-settico, vacuo che pervadono il mercato musicale e pretendono immeritati allori.


Sul valore dell’ordine


Mettere ordine in casa è un’esperienza più istruttiva che non leggere la Critica del Giudizio di Kant. L’esperienza si divide in etica ed estetica: nella prima il nostro corpo espelle materiale, nella seconda lo ingerisce. Mettere ordine e pulizia all’interno dell’ambiente in cui si vive è un’esperienza etica ed estetica contemporaneamente. Infatti il nostro corpo espelle materiale tramite il movimento, ed il cervello si sgruma e sgranchisce, rendendosi prestante al suo fine, ovvero coordinare i movimenti del corpo. Nello stesso tempo rendiamo l’ambiente circostante più bello, ovvero atto alla risanazione del nostro corpo tramite un contatto benefico: si realizza ora una immedesimazione che è invero un’estensione dell’Io. Quando due oggetti entrano in contatto divengono un oggetto solo, entro le cui parti avviene una sorta di fenomeno osmotico: essi s’influenzano nel bene e nel male, con la loro pulizia e la loro sporcizia, con il loro ordine ed il loro disordine. La letteratura è un surrogato per una azione o contemplazione a cui non abbiamo accesso. Se ci mettiamo seduti ad un tavolo a scrivere anziché agire nel mondo reale per la risoluzione dei nostri problemi, il nostro istinto risanatore influenzerà la nostra mano a descrivere azioni di cui avremmo bisogno e che non stiamo compiendo: ne riceviamo una sorta di sgrossatura interiore del ceppo del male, un appagamento mentale ed attutito, che lascia nel fondo un languore enorme ed un vuoto opprimente, giacché non sappiamo se le nostre forze residue e quella chiarezza mentale che abbiamo ottenuto saranno sufficienti ad eseguire quello che abbiamo ipotizzato. Se invece ci mettiamo a scrivere quando la casa è disordinata o sporca, il nostro istinto risanatore porterà la nostra mano a descrivere le azioni di pulitura e ordinamento che di fatto non stiamo compiendo, o fantasticherà di un ambiente già pulito nel quale ci vorremmo trovare. La stessa cosa avviene se scriviamo in un ambiente naturale poco propizio alla scrittura, ad esempio una scomoda panchina, un parco gradevole alla vista ma nel quale siamo disturbati da insetti o dal vento, da un vociare di bambini o da un piovigginare improvviso. Filosofeggeremo in versi in maniera critica, consolatoria, astratta, violenta o ironica contro gli elementi di fastidio. Esiste infatti, in questa come in tutte le cose, una gerarchia. La positività dell’ambiente fisico è la base su cui innestare i fronzoli letterari, le decorazioni del pensiero; allo stesso modo che la salute del corpo è la base per ogni altro ottenimento. Che ai geni piaccia vivere nel caos è una sciocchezza, poiché ogni intelligenza tende alla pulizia e all’ordine: la sua è una teleologia intrinseca. Il prendere presto buone abitudini al riguardo è un gran segno di intelligenza, nonché un pilastro dell’educazione.


Solitamente i libri sono molto più interessanti come oggetti che non per quello che c’è scritto.



Esempio di poesia ambigua ed autoreferenziale


Carducci, a un poeta di montagna (prima strofa)

Nascesti dentro d’un secchion da latte,
E a scrivere imparasti in una botte,
Accordando le rime irte ed astratte
A lo scoppiar de le castagne cotte


Il significato potrebbe essere una critica al detto poeta di montagna, che non ha il diritto di parlare di cose spiritualmente elevate (le rime irte ed astratte), di cui si occupa la poesia, quando è di umili origini e conosce solo ambienti paesani e quello stile di vita grezzo e frugale. Oppure il significato è qualcosa di opposto, trattasi di un elogio del poeta montanaro che è riuscito ad astrarre concetti elevati e sottili dall’ambiente semplice in cui viveva, o a trovarne analogie con cose più spirituali. In tal caso anche la concezione poetica del Carducci risulta capovolta in quanto egli ritiene che una capacità ed un difficoltoso pregio della poesia consistano proprio in questo. Notiamo che con entrambe le interpretazioni, la poesia risulta autoreferenziale, in quando dà un esempio di ciò che sta dicendo. Infatti, anche il Carducci ha accordato rime irte ed astratte ad un secchion da latte. Sia che si intenda la parola rime nel significato di argomenti oppure nel significato letterale di rima. Inoltre tutta la poesia nel suo insieme esprime un concetto irto ed una tematica difficile, ovvero il rapporto tra concretezza e astrazione nella poesia, o l’utilizzo dell’analogia.



Sull’anima di De André


De André è un’anima antica, che sembra aver attraversato i secoli cantati dai suoi fratelli, da cui ha attinto tante ispirazioni restituendovi infine le note della nostalgia, l’affresco appassionato di nuovi personaggi stagliati laggiù attraverso un artista del presente, o richiamati a noi attraverso l’analogia, la consapevolezza che, diacronicamente, le forme e le voci cambiano, ma il dramma esistenziale resta lo stesso. Questa è la sensibilità ottocentesca di un uomo che ha visto il novecento. La sua visione dell’esistenza è pessimista ma non rinunciataria, è amara ma anche ironica, è critica ma non sprezzante, è relativizzante e incline alla ricerca, egli è un’anima che infine perdona tutti, buoni e cattivi, nel balsamo della compassione, nel destino comune che tutti ci lega. Verso poi quella natura che partecipa della caducità e del dolore umani, ha un atteggiamento di gratitudine per la sua funzione consolatoria, che trova il suo climax nell’arte. Ciò che si respira in tutta l’opera di De André è il contrasto di questa vita così brutta da vivere e così bella da vedere. Egli però ama talmente i suoi personaggi ed i loro contesti da volerli non solo contemplare, ma entrare in loro in penetrazione, immedesimarsi per comprenderli, riscattarli, salvarli, anche se ciò comporta il dolore: è questo uno dei motivi per cui le sue canzoni ci sembrano avere un tale “spessore” emotivo e concettuale, anche laddove le storie si appoggiano su melodie semplici e arrangiamenti essenziali, e non già solo una superficie gradevole. Il ruolo consolatorio assunto dalla natura è esemplificato perfettamente nel Canto del servo pastore.


Dove fiorisce il rosmarino c’è una fontana scura
dove cammina il mio destino c’è un filo di paura
qual è la direzione nessuno me lo imparò
qual è il mio vero nome ancora non lo so

Quando la luna perde la lana e il passero la strada
quando ogni angelo è alla catena ed ogni cane abbaia
prendi la tua tristezza in mano e soffiala nel fiume
vesti di foglie il tuo dolore e coprilo di piume

Sopra ogni cisto da qui al mare c’è un po’ dei miei capelli
sopra ogni sughera il disegno di tutti i miei coltelli
l’amore delle case l’amore bianco vestito
io non l’ho mai saputo e non l’ho mai tradito

Mio padre un falco mia madre un pagliaio stanno sulla collina
i loro occhi senza fondo seguono la mia luna
notte notte notte sola sola come il mio fuoco
piega la testa sul mio cuore e spegnilo poco a poco


Nel disco Tutti morimmo a stento compare un affresco naturalistico dal forte potere sintetico della sua visione della vita, dipinto tra impressionismo ed espressionismo, ovvero la canzone Inverno.


Sale la nebbia sui prati bianchi
come un cipresso nei camposanti
un campanile che non sembra vero
segna il confine fra la terra e il cielo

Ma tu che vai, ma tu rimani
vedrai la neve se ne andrà domani
rifioriranno le gioie passate
col vento caldo di un’altra estate

Anche la luce sembra morire
nell’ombra incerta di un divenire
dove anche l’alba diventa sera
e i volti sembrano teschi di cera

Ma tu che vai, ma tu rimani
anche la neve morirà domani
l’amore ancora ci passerà vicino
nella stagione del biancospino

La terra stanca sotto la neve
dorme il silenzio di un sonno greve
l’inverno raccoglie la sua fatica
di mille secoli da un’alba antica

Ma tu che stai, perché rimani?
un altro inverno tornerà domani
cadrà altra neve a consolare i campi
cadrà altra neve sui camposanti


Gli stessi Intermezzi rivelano questo ibrido di pessimismo cosmico e di curiosità imperitura, addirittura alla ricerca di fiori d’altri mondi, di colori che non sappiamo…


Gli arcobaleni d’altri mondi
hanno colori che non so
Lungo i ruscelli d’altri mondi
nascono fiori che non ho


E in tutto questo ricompare un’indomita riflessione sui temi esistenziali, un bando alle certezze, un cambio dei punti di vista…


Sopra le tombe d’altri mondi
nascono fiori che non so
Ma fra i capelli d’altri amori
muoiono fiori che non ho


Il tema del bello che nasce dal brutto era già stato sintetizzato dalla chiusa di Via del Campo: dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior. Qui ricompare in un anelito a visitare l’arte aliena. Segue una considerazione sulla limitatezza della vita umana che, come non ti rende partecipe di quanto possiede di bello, analogamente ti preserva da possibili tormenti che investono altri.


Poi viene il terzo intermezzo, quello più pessimista


La polvere, il sangue, le mosche, l’odore
per strada e fra i campi la gente che muore
E tu, tu la chiami guerra e non sai che cos’è
e tu, tu la chiami guerra e non ti spieghi perché

L’autunno negli occhi, l’estate nel cuore
la voglia di dare, l’istinto di avere
E tu, tu lo chiami amore e non sai che cos’è
e tu, tu lo chiami amore e non ti spieghi perché


Qui si respira una punta di moralismo che tenta di individuare ed accenna una ipotesi sulle cause per cui la vita è infelice: l’egoismo, l’ignoranza dell’uomo, la sua ambiguità incapace di risolversi, che lo portano alle pene di guerra e d’amore, qui messe in parallelo. L’autunno negli occhi può essere interpretato in vari modi. Può riferirsi ad un volto invecchiato dietro il quale esiste ancora un cuore rigoglioso di passioni ed esigenze. Oppure ad un occhio che ora è più maturo e dunque dovrebbe giudicare meglio, ma ancora mantiene appunto l’egoismo del suo cuore giovane e smanioso di vivere. Altrimenti, l’autunno degli occhi è una nota negativa che si riferisce ad uno sguardo reso più stanco dal tempo, più confuso ancora, nel comprendere la strada che appagherà il suo cuore sempre ugualmente avido. Addirittura questi occhi potrebbero essere autunnali e destinati a degenerare ancora verso l’inverno a simboleggiare il percorso che rende l’animo dell’uomo sempre più duro e cinico, verso la vita e verso gli altri, dal momento che essa vita si fa sempre più cruda e difficile, con il cuore sempre più frustrato di quei bisogni che invero non passano mai, fino a renderci insensibili anche alle sue piccole bellezze.

Sino alla fine il suo canto s’apprende alla trascendenza facendoti toccare un vivo pescatore che avanza nella sua barca di buio chiedendosi se quella luce lontana più bassa delle stelle sarà la stessa mano che l’accende e la spegne…e mentre snocciola il primo verso siam rapiti come dalla candela che il vento muove…

Non sappiamo con lui quale sia la mano che illumina le stelle, ma l’affresco che ce ne ha dato ci fa venire voglia di cercarla senza colpo ferire e senza tetri abbandoni…

L’arte qui è più forte del dubbio che esprime, quello che nella vita sarebbe qualcosa di scomodo.

Anche l’amore di cui parla Faber è qualcosa di antico, che difficilmente troviamo nel nostro tempo. Riesce a farti invaghire di queste fanciulle di fantasia stagliate in quel loro mondo. Ammetto di essermi aggirato nelle colline intorno a Brisighella cercando di visualizzare una ragazza in veste medievale e capelli di grano.

Ma non v’è dubbio su quale sia l’ospite d’onore della sua galleria. Un pezzo finale gli sarà dedicato, ma non poteva fare a meno di una introduzione. Il suo ingresso è preparato dal cupo leitmotiv del disco, uomini e donne che dormono su una collina, ma ecco che la musica rallenta e si fa arpeggio, la voce cambia tono: l’anima più vicina a Faber sta per ricevere la sua celebrazione…musica, vino, anticonformismo, occhio che sa osservare, ridere rauco, vita piena e senza rimpianti: siamo riusciti ad essere questo? Ave a te, suonatore Jones!


Sulla rappresentazione dell’Ignoto


Prendiamo ora in considerazione queste parole di René Magritte

Quando la gente cerca di trovare significati simbolici in ciò che dipingo, cerca una situazione confortevole, qualcosa di sicuro cui aggrapparsi, per difendersi dal vuoto. E' anche disposta ad usare oggetti senza cercare in essi alcuna intenzione simbolica, ma quando osserva i quadri non riesce a sopportare di non trovare per essi alcuna utilità. Così va in cerca di un significato che le consenta di uscire dall'incertezza, e poiché non capisce quale sia, dovrebbe meditare quando si trova di fronte al quadro.

L'immagine di Lautréamont, per esempio, l'incontro casuale di un ombrello e di una macchina per cucire su un tavolo da dissezione, potrebbe anche essere descritta, in un certo modo di espressione, come simbolica: di disordine, dal momento che le cose non si trovano dove dovrebbero essere; ma ciò equivale anche a lasciarsi sfuggire la poesia e il mistero intrinseci dell'immagine. La gente che cerca significati simbolici percepisce senza dubbio questo mistero, ma desidera liberarsene. E' spaventata. Chiedendo: ‘che cosa significa?' esprime il desiderio che tutto diventi comprensibile. Quando invece non si rifiuta il mistero, si ottiene una risposta del tutto diversa. Si chiedono altre cose. Un poeta amico mio, per esempio, quando vide per la prima volta L'amabile verità, disse: ‘Per un istante, fui preso dal panico’. E' proprio questo instante di panico che ha importanza, e non una qualsiasi spiegazione di esso. Un istante di panico è quello che mi fa rientrare in me stesso. Questi sono gli istanti privilegiati che trascendono la mediocrità. Ma per questo non c'è bisogno dell'arte. Sono cose che possono capitare in qualsiasi momento.".

Commento

Non v’è nulla in arte che sia gradevole se non si riconduce ad un aumento della sensazione di forza e quindi di sicurezza. I film horror, i thriller, sono emozionanti poiché v’è sempre una sorta di distacco dalla situazione reale: non siamo noi i protagonisti che vivono quelle esperienze angoscianti. L’angoscia che piace non è la nostra, la paura che piace non è la nostra, il dolore che piace non è il nostro. Questo mondo in cui viviamo è pieno di disordine, di sensazioni sgradevoli, di errori, entro i quali noi cerchiamo la nostra strada, la migliore condotta, la nostra sicurezza, guarigione, salvezza, liberazione, crescita, il nostro ordine, ed una conoscenza che non illumini chiaramente non può servire a questi scopi. In tale mondo noi siamo anche chiamati a precise responsabilità, compiti, necessità, siamo sommamente coinvolti, ed anche qualora queste istanze siano eteronome e percepite come avulse al nostro io, ai nostri valori, idee, obiettivi, sappiamo comunque che ne abbiamo o ne avremmo di autonome, sicché la vita resta in ogni caso un problema da risolvere. Ora, se noi amiamo rifugiarci in un’arte che a sua volta è angosciosa, dubbiosa, inquietante, impanicante, è perché essa non lo è realmente, a meno che non lo sia in positivo come un sano scuotersi d’acque stagnanti, come una scossa galvanizzante, come uno schiaffo che ci risveglia dal torpore, cui dovrà seguire l’azione vittoriosa e risolutiva. Innanzitutto, quest’arte ci affranca, come vuole Magritte, dal senso di responsabilità e dalla fatica di cercare spiegazioni a cui conseguono soluzioni. Inoltre, rappresentare il mistero significa averlo in qualche modo svelato, o per lo meno afferrato, se non addirittura messo nella gabbia di un dipinto pittorico, filmico, letterario e così immobilizzato, posto sotto controllo. Ancora una volta siamo noi i padroni, non il mistero. Oggetti eterogenei uniti nello stesso luogo? Non vuole questa immagine imporci nuove domande e già suggerirci risposte? Che essa sia o meno simbolica, o emblematica di una realtà generale, essa d’una realtà ci parla, in quanto l’ha afferrata meglio di noi e fotografata. Che il lettore s’accontenti della superficie di questa immagine, senza sprofondare arditamente in ciò che essa implica, questa potrebbe essere pigrizia, incapacità, pura assenza di bisogno, sicché di nuovo egli si trova appagato e non certo afflitto da dubbi o minacce alcuni. La commistione di oggetti eterogenei potrebbe voler dire: chi è la causa di questo caos, sia esso materiale o spirituale? O ancora: siamo sicuri che ciò che sembra stridere per natura non lo faccia soltanto in virtù delle nostre abitudini e pregiudizi? E qual è l’origine di tali abitudini e pregiudizi? Siamo sicuri che quegli oggetti non abbiano invero delle relazioni reali o potenziali? Che cosa la realtà nasconde dietro la nostra miopia? E come potremmo noi stessi modificarla? Che quegli oggetti non possano avere nuove relazioni artistiche, come appunto alcune il pittore ne ha fornite? Che non si possa entrare in questi oggetti per scoprirne trascurati segreti? Quante micrologie e macrologie ci sono ancora inaccessibili? Che quest’oggetto ingrandito in modo apparentemente casuale non avesse invero volontà e ragioni, forza e possibilità per diventare più grande? E quell’altro invece di rimpicciolirsi? E questo di uscire da quello, quello entrare in quell’altro? Gli oggetti cambiar forma, colore, materiale, avvicinarsi come mai hanno fatto, allontanarsi come nessuno ha mai pensato che potessero, sovrapporsi o invertirsi ruoli e fattezze? Come vediamo, è ancora una espansione della conoscenza e con essa della possibilità d’azione ad affascinarci, deliziarci: un avvicinamento alla nostra sicurezza, che giammai può corrispondere né sorgere, per definizione, dal dubbio, dall’ignoto.



La condizione umana di René Magritte





Possibile interpretazione


Ad un primo impatto veniamo colti dall’illusione ottica di un muro incompleto, per poi renderci conto che si tratta di un quadro che ritrae lo sfondo naturalistico, che si trova dietro la porta ad arco. Una prima superficiale lettura sarebbe quindi questa: siamo condizionati, nella visione della realtà, da pregiudizi e convinzioni che ci portano fuori strada. Se ci facciamo caso il paesaggio dipinto nel quadro ha esattamente la stessa larghezza della porta, ed è soltanto spostato verso destra poiché ritratto da un differente punto di vista, quello del pittore: anche l’estensione del paesaggio ad opera del quadro è quindi un’illusione nella quale cadiamo per superficialità. Ma si può portare avanti questa linea ermeneutica che accetta il quadro (l’arte) come elemento che possiede la capacità di estendere il paesaggio retrostante oltre la visione consentita dal muro della casa. La casa potrebbe essere dunque vista come simbolo del sistema, delle convenzioni, delle regole, del materialismo: cosa c’è di più duramente e cinicamente materialistico, che nello stesso tempo esprime la rigidità di alcune regole, dell’immagine di una casa in costruzione? La casa tuttavia è una figura ambigua in questo quadro, in quanto non ci sono elementi sufficienti per affermare che ci sia una contrapposizione tra essa (e ciò che rappresenta) ed il paesaggio esterno. Sono entrambi raffigurati in termini miti, tenui e minimalisti. Sembra esserci, anzi, non già un contrasto, ma una continuità, anche perché il paesaggio esterno sembra facilmente accessibile: attraverso una porta che non presenta inferriate o fili spinati, ma neppure un’anta da aprire. Possiamo dunque uscire quando vogliamo. Il cavalletto del pittore è un elemento significativo in quanto non sembra un normale cavalletto, è più robusto e somiglia alle impalcature e alle casseforme in legno tipiche delle case in costruzione: in altri quadri simili Magritte presenta cavalletti più esili ed eleganti. Questo potrebbe significare che l’arte poggia sulle stesse fondamenta del rigido e duro lavoro della società materialista: ma le consente anche di vedere più lontano espandendo la visuale, o addirittura di far vedere l’impossibile come fosse possibile [si vedano a questo proposito i disegni di Escher] - o di portare dentro la casa un frammento della bellezza che c’è fuori. Ma ripeto che la contrapposizione tra dentro e fuori non è molto palese in questo dipinto. Resta da interpretare il pallone nero. In un primo momento mi ha fatto pensare ad un riempitivo, e nero per fare contrasto cromatico con il resto del quadro, piuttosto monotono, o per inserire il classico elemento surreale, inquietante, ignoto, fuori contesto. Ma ho pensato che il pallone è il simbolo del gioco dei bambini, ed in questo caso è nero a rappresentare l’effetto mortifico o colpevolizzante che la società, la “casa”, ha su questa funzione vitale. A quanto pare nemmeno l’arte può riscattare il gioco del bambino, restituirgli l’innocenza e la libertà, perché il pallone nero si trova completamente fuori dal quadro: l’arte non è infatti un gioco, ma una cosa seria ed un business. Il pallone, come il quadro, è ancora dentro la casa, e sembra guardare fuori senza potervi andare, gravato dalla pesantezza di una colpa. Se l’autore avesse voluto ascrivere all’arte anche quel potere, avrebbe forse inserito un altro pallone, giallo o rosa per esempio, all’interno del quadro, magari più piccolo e galleggiante sul mare e quindi in lontananza rispetto alla realtà immediata, e comunque all’interno di quello spazio pittorico che aveva appunto esteso tale realtà. Ma non so dire se ciò sarebbe stato di buon gusto, probabilmente no. Il pittore non lo ha fatto e quindi mi allontano da questa lettura. Lanciandovi ora un nuovo sguardo il quadro appare infatti completo così, non servono altri elementi. Sarebbe una congestione concettuale eccessiva. In arte non puoi dire troppe cose contemporaneamente, è una regola fondamentale. Mancava proprio solo quella palla scura, e lui l’ha piazzata. Dipinto fantastico.


Osservazioni sulla retorica della scienza,
della poesia, della religione.


Prendiamo ora spunto da queste parole di John Stuart Mill

Oggetto della poesia è dichiaratamente quello di agire sulle emozioni; in questo la poesia è sufficientemente distinta da ciò che Wordsworth afferma essere il suo opposto logico, e cioè non la prosa, ma il dato di fatto o scienza. L’uno si rivolge alla credenza, l’altra ai sentimenti. L’uno agisce per mezzo della convinzione e della persuasione, l’altra per mezzo della commozione. L’uno agisce presentando una proposizione all’intelletto, l’altra offrendo interessanti oggetti di contemplazione alla sensibilità.


Commento

Sulla freddezza scientifica, sul fatto che la scienza si rivolga al solo intelletto, ben molto resta da dimostrare. I matematici trovano sublimemente emozionanti i loro teoremi e le rispettive dimostrazioni, quel linguaggio percepito come assolutamente preciso e univoco, la capacità che hanno gli strumenti matematici di rappresentare, descrivere ed in questo modo quasi impadronirsi dei fenomeni naturali. Un mio amico matematico affermò che nessuna poesia o brano musicale gli avesse mai dato paragonabili emozioni, né lo avesse mai altrettanto interessato. Quanto a fisici e naturalisti, anch’essi si emozionano sia nell’aspetto osservativo del lavoro, sia in quello interpretativo, l’aspetto creativo che produce una ipotesi ed architetta esperimenti che la possano smentire o confermare, nella ricerca causale il cui rigore gli dona un senso inebriante di sicurezza, poiché non salta neppure un passaggio e non trascura nemmeno un fattore, il che rappresenterebbe un errore ed una debolezza, una lacuna nella padronanza del fenomeno. Lo scienziato è critico nei confronti dei letterati e dei filosofi che si appagano di quelle che secondo lui non sono altro che definizioni imprecise o indeterminate, che possono significare tutto e nulla ed il loro contrario, giochi di parole, costruzioni artistiche arbitrarie, rappresentazioni selettive e scriteriate, spiegazioni abborracciate, pregiudiziali, ipotesi non dimostrate, forzate, impressioni fugaci, soggettive, circostanziali, reti di congetture, insomma un regno di sogno costruito sulle nuvole che non dà la minima sicurezza e affidabilità. Se di tali cose, dunque, abbisogna l’uomo scienziato, essa letteratura non gli darà neppure forti emozioni, non lo soddisferà, anzi lo lascerà perplesso e sovente infastidito. Altrettanto falso, viceversa, è che la letteratura parli solo al cuore e catturi attraverso la commozione e non affatto la persuasione o la convinzione, ammettendo pure che questi stessi termini, utilizzati sia in filosofia che nella scienza, siano alquanto indeterminati e non si sappia a quali facoltà umane corrispondano, se davvero sono differenti, ed in tal caso quale rapporto abbiano. Accettando temporaneamente questa relativa indeterminatezza, posso affermare che la letteratura di qualità, sia nel grado prosaico che in quello più sintetico della poesia, contiene una forza persuasiva molto alta, e non viene affatto percepita come meno rigorosa rispetto alla scienza. Anzi, essa risulta ancor più affascinante e trascinante poiché sfrutta lo stupore lasciando impliciti vari passaggi, che però il poeta ha attraversati tutti senza lacune, poiché altrimenti non sarebbe mai giunto a quella conclusione a meno che non fosse ispirato dal padreterno. La retorica della religione è incentrata sulla posizione che assume il padreterno nei confronti dell’uomo. Questo pathos della distanza risulta assai persuasivo, più che prolissi ragionamenti di comuni mortali o risibili prove scientifiche. Francesco De Gregori canta persino

Il verde della prateria dimostrava in maniera lampante l’esistenza di Dio
Del dio che progetta la frontiera e costruisce la ferrovia

Già, perché anche l’Uomo può sentirsi talvolta un dio...

Certo che se la grandezza dell’Onnipotente confrontata coi limiti dell’uomo non bastasse, in un mondo che diventa sempre più illuminato e colto, si cerca di invertire quello che in origine era un rapporto di inimicizia completa, quello tra scienza e fede in cui la prima era proibita dalla seconda e messa al rogo, in un accordo collaborazionista, come prima era già avvenuto con la filosofia. Se dunque non è scontato che le scoperte scientifiche smonteranno banalmente i precetti della fede religiosa, ecco che si vanno a scomodare anche i filosofi e gli scienziati, con le loro prove a sostegno di ciò che una volta non aveva bisogno di prove. Fatto sta che a tutt’oggi, il buon Dio non è ancora facilmente raggiungibile dalle frecce della filosofia e della scienza. È stato colpito invero in diversi punti, ma non è morto e nessuno è riuscito ancora a catturarlo, tirandolo giù dai cieli, mettendolo in gabbia, denudandolo e mostrandolo per quel ciarlatano travestito che molti scettici sospettavano Egli fosse. Se la religione ha una sua retorica, come è certo che ce l’abbia la poesia, essa non manca neppure alla scienza. Innanzitutto la scienza sfrutta il pregiudizio che guarda di sghimbescio la soggettività. Sceglie di avvalersi di strumenti che non siano il corpo umano, la selettività dell’arbitrio all’interno dei fenomeni, e non potendo sì astrarre dalla capacità di giudizio e dai ragionamenti che inevitabilmente appartengono ancora all’uomo, in questo caso allo scienziato, essa si distacca dal criticismo o dall’idealismo, assumendo come caposaldo il principio del realismo che vede le cause e le conseguenze nella natura e non già solo nell’intelletto umano, crede nella validità del dato empirico e ciò che la mente umana suppone come interconnesso, tale deve essere anche nella realtà esterna. Anche la scienza compiva una arbitraria ed assiologica discriminazione nell’indagine dei fenomeni, aggrappandosi saldamente ai fenomeni naturali e misurabili con gli strumenti che si possedevano, lasciando da parte l’Uomo. Fino a quando, con il positivismo, essa ha preteso di estendere i propri metodi oggettivi allo studio delle discipline umanistiche fino ad allora considerate soggettive e non misurabili e pertanto non scientifiche. Inoltre, la scienza si mette al sicuro dall’accusa di parzialità sancita dall’emozione con la quale esprime quella che è comunque una opinione. Il discorso scientifico deve essere freddo, non deve palesare sentimenti alcuni anche qualora vi fossero sottesi. La freddezza della scienza significa implicitamente: non son io che dico questo, la natura stessa te lo dice, io non ho rabbia né apprensione, né commozione, gioia, volontà, io sono un messaggero della natura, piatto, secco e pressoché invisibile… Ben evidente è come anche questo metodo sfrutti il pregiudizio negativo circa la soggettività umana e se ne metta al sicuro. Il matematico, nelle sue dimostrazioni, tende a dire tutto per evitare di sbagliare, a costo di essere pedante. Il poeta in gamba sa invece cosa dire e cosa tacere, in ordine allo scopo che vuole ottenere, al pubblico cui si rivolge nella circostanza specifica. Ma egli è tenuto a sapere le cose tale e quale ad uno scienziato, altrimenti la sua poesia risulta debole, anche dal lato emotivo. La letteratura peraltro non è carente di dichiarazioni stentoree, lapidarie, massimamente astratte, sintetiche, paragonabili ad equazioni matematiche, fisiche, chimiche, come non è vuota di argomentazioni puntigliose e ordinate. La sintesi in poesia e filosofia avviene comunque come ultimo stadio, dopo un vasto e ripetuto studio di fenomeni, dopo un laborioso vaglio di ipotesi e pre-sillogismi, confronti, paragoni, esperimenti, tale e quale ad una storica equazione scientifica o matematica. Soltanto ad un alto livello di maturità un letterato è in grado di produrre una massima o un aforisma su due piedi, di esprimersi sinteticamente all’improvviso cogliendo nel segno e senza sentirsi annegare, come fa invece colui che vuole improvvisare senza aver ordinatamente esplorato il vasto raggio dei fenomeni, esperitone confini e rapporti, formandosi una mappa mentale gradualmente scolpita, scremata del superfluo e lucidata, entro la quale viaggia frequentemente tenendone battuti i solchi e pertanto riesce ad essere agile e brillante, adattandosi alla situazione del momento sulla quale il suo sistema piove e calza senza stridere, allorché è stato fondato correttamente, e gli consente di sintetizzare con ironia e rapidità nuove osservazioni, spunti, commenti. Ogni pensiero, ogni emozione, che riusciamo a suscitare nel prossimo, hanno come fine implicito quello di portare ad una azione, e sappiamo che l’azione deve essere, appunto, motivata. L’esperienza diretta può suscitare una reazione ed ogni ragionamento serve ad identificare un soggetto nei confronti del quale – percependone ora le caratteristiche – dobbiamo avere tale reazione. Se il poeta descrive un’azzurra cascata, e suscita una emozione piacevole nel lettore, quel verso di poesia equivale all’affermazione L’azzurra cascata è bella. La dimostrazione della veridicità di tale affermazione è l’emozione che il lettore ha provato. Se volesse intervenire lo scienziato, intavolerebbe una tirata del tipo L’azzurra cascata è bella in quanto la luce deviata dalle gocce d’acqua ha tale frequenza e va a stimolare i centri del piacere attraverso il nervo ottico; per un effetto sinestesico legato all’esperienza precedentemente compiuta l’azzurro biancastro della cascata provoca una sensazione tattile di freschezza e quant’altri precisi approfondimenti biochimici e fisici. Ma se ci pensiamo è superfluo per convincere quel lettore che la cascata è bella ed anzi, non potranno mai sostituire la sensazione diretta, e invano si sforzerebbero di convincerlo, qualora la sensazione proclamasse il contrario. La spiegazione scientifica, sempre qualora si leghi ed attinga al serbatoio della nostra memoria di cose esperite, al di fuori del quale noi non conosciamo né capiamo nulla, ci può far accedere a percezioni indirette e pertanto maggiormente attutite e spente. Concludo con l’affermare che sia la poesia che la scienza risultano davvero efficaci solo allorché uniscano l’aspetto emotivo a quello intellettuale, poiché la differenza è soltanto illusoria. Ciò che è piacevole è anche convincente, ciò che è convincente è anche piacevole. Infatti, una convinzione non è che la percezione di una forza, e la percezione della forza aumenta soltanto qualora assorbiamo qualcosa di più sano e pertanto più razionale.



L’estetica ridotta all’osso


Oggettivo e soggettivo sono due modi in cui due corpi vengono in contatto, ed è solo questa differenza relazionale che rende quei due termini differenti, poiché altrimenti sarebbero sinonimi. Si parla di oggetti quando gli enti che entrano in contatto non modificano la propria struttura, mantengono integra la propria identità e pertanto, nel caso fossero animali, non provano sensazioni. Si parla invece di soggetti quando, nel contatto, uno scambio ed una modificazione avvengono e pertanto gli oggetti, qualora fossero animali, provano delle sensazioni.
Alla luce di questa concezione posso dichiarare che la bellezza e la bruttezza sono soggettive, mentre la perfezione è oggettiva. Le prime sono soggettive poiché sono le sensazioni che si attivano in due oggetti che entrano in contatto innescando uno scambio di sostanze: il più perfetto prova una sensazione sgradevole, il meno perfetto una sensazione gradevole. Se sono corrispondentemente imperfetti godono entrambi, come un atomo di idrogeno e uno di cloro, poiché ognuno ha da donare ciò che l’altro ha da ricevere. Se non sono complementari soffrono invece entrambi, poiché ognuno scarica del materiale indesiderato. Un oggetto perfetto può dunque prodursi dall’unione di due oggetti singolarmente imperfetti, ed il tal caso il piacere soggettivo di questi corrisponde alla creazione di un nuovo oggetto, il quale in sé stesso è asettico, come ogni perfezione, ma che lascia alle singole, anime mutile dei componenti il piacere di completarsi, di riavvicinarsi alla loro identità intrinseca sottrattagli dal tempo, dalle contaminazioni, ma che determina ogni lor desiderio,
è il fine ultimo d’ogni loro gesto, la figura che si staglia dietro le nebbie spirituali, dietro ogni loro vago anelito, l’ultima aspirazione, l’Idea. Quando si assemblano invece due enti perfetti non vi è alcuna sensazione, ovvero nessuna modificazione nei due componenti, bensì la nascita di un nuovo ente, anch’esso perfetto e dunque non passibile di corruzione. I concetti di bellezza e bruttezza hanno significato solo in ambito temporale ovvero nell’ambito di oggetti contaminati, la cui identità non è più quella originaria, che chiamiamo allora soggetti in quando oggetti viventi e perciò alla ricerca della propria identità perduta. L’ente più grande ovvero il mondo, è l’ultimo a pacificarsi, poiché la sua perfezione presuppone la perfezione dei singoli elementi ed infine quella della struttura cosmica. I filosofi sono gli araldi e gli artefici di questa pacificazione, sono gli esteti estremi, e per tale ragione gli individui più infelici. Originariamente siamo tutti perfetti, siamo Idee platoniche, dobbiamo ritrovare la nostra identità ed infine la nostra posizione, assemblarci compiendo l’Idea del Bene a cui non corrisponde alcuna sensazione poiché enti perfetti perdono la sensibilità. La sensibilità serve a distinguere ciò che va accolto da ciò che va scartato, poiché il primo ci avvicina alla nostra integrità originaria, il secondo ce ne allontana. Il filosofo è molto sensibile alle incoerenze poiché deve dissolverle. Dare un giudizio oggettivo è l’ossimoro, l’impossibile. Significherebbe infatti annullar se stessi, poiché solo l’oggetto deve permanere, non una sua filtrazione operata da noi soggetti, adattata istintivamente ai nostri bisogni già nelle sedi degli organi di senso, giudicata infine dal nostro intelletto sulla base della soddisfazione ricevuta, assimilata in tal modo ad altri oggetti che abbiamo concettualizzato come emblemi di un particolare tipo di vantaggio o di danno che sono in grado di attuare in noi, una versione infarcita di materiale che abbiamo tratto da altrove o noi stessi sintetizzato. Poiché tale è un giudizio e tutto questo è esattamente il contrario dell’oggettività. Ma se un oggetto è tale dunque, poiché non ha relazione assiologica con altri oggetti, che chiamiamo in tal caso soggetti, ecco ch’esso resta al di fuori d’ogni discussione, ch’è in fondo la solita guerra tra egoismi per trarre dal mondo esterno il massimo possibile. Il perfetto sta al di fuori della discussione estetica: si percepisce solo qualcosa di imperfetto in quanto ancora passibile di corruzione e scambio materico. Si discute di estetica per un fine economico. Ciò che è in ballo nella discussione sono la validità di un’opera, di uno stile, di una schiera di artisti dai quali vogliamo continuare a trarre piacere, che desideriamo quindi essere dominanti e coltivati ovunque, per massimizzare il nostro vantaggio. Mentre tali opere, stili, artisti, coscienti del proprio valore estetico, non già dunque della loro perfezione, che ancor ben non possiedono e che vogliono istintivamente raggiungere, la quale sfugge alla sensibilità, essi si lamentano di non esser apprezzati, poiché se tanto hanno da dare, soggettivamente, certo, altrettanto potrebbero dunque prendere, ed il loro stomaco geme affamato per mancanza di clienti. La perfezione esclude la contemplazione ed altresì l’auto-contemplazione ovvero il narcisismo. Se d’uno specchio in cui rimirarsi l’uomo abbisogna ancor non è perfetto, ogni immedesimazione prende piede allorché la percezione diretta della propria forza decade. Laddove uomo è vago d’Apparir, lì ha ben finito d’Essere.



Verso la totalità artistica


Palazzeschi parla della nascita del futurismo in pittura

“Le quattro ombre vedute sfilare nell’oscurità del corridoio erano Boccioni, Russolo, Carrà…e un quarto che per difetto di coraggio, molto probabilmente, si dileguò subito dopo. Erano venuti ad offrire la loro collaborazione associando al movimento giovanile dei poeti quello dei giovani rappresentanti le arti figurative in una medesima aspirazione di rinnovamento, ciò che lasciava misurare la linfa vitale del seme gettato che nel campo dell’arte fruttificava spontaneamente”

Un uomo pensa una cosa bella e la esprime con immagini metaforiche, molte prese dalla natura, oppure vi affianca queste ultime: talvolta questo risponde allo scopo di rafforzare, anche indebitamente, il significato di ciò che si dice, esagerare la sua vastità o profondità, oppure appoggiarsi a qualcosa già riconosciuto come valido ed autorevole. Talaltra invece questo risponde allo scopo, assai dominante soprattutto nell’ambito artistico, di totalizzare la bellezza, di lanciare ponti che uniscano in un solo puzzle tutte le cose degne di nota e rappresentazione, cucire assieme tutti gli scampoli di stoffe preziose in una Suprema Veste, armonizzare in un unico concerto ogni suono gradevole giammai udito. Non fosse che tale retto proposito, che può essere realizzato solo coralmente, viene sporcato e dunque non completato ad opera dell’uomo e della vanità umana, allorché si accorre ai possedimenti estetici, si compete nella produzione artistica, si vuole arrivare per primi e giovare di un eterno diritto d’autore, si vuol essere Colui che ha detto Tutto. Ma nessuno può dire tutto, come tutto non può fare, ed ognuno è nato per dire perfettamente qualcosa e niente altro. Ancora una volta vediamo l’origine del male nello scambiarsi o essere scambiato per qualcuno che non si è.



Il soggetto diventa oggetto

Nietzsche sostiene che scopo della natura e della cultura sia quello di produrre il genio, ovvero colui che è destinato ad essere il metro ed il giudice del valore di tutte le cose. Questa concezione è troppo parziale, poiché scopo della natura e della cultura è di perfezionarsi totalmente. Ma si percepisce in Nietzsche l’ansia per la secolare mancanza di un valido elemento apicale della società, il filosofo, quello che deve altresì essere riconosciuto come tale, quello che garantisce l’equilibrio generale e senza il quale altre perfezioni sono scoordinate tra loro e dunque mai stabili. La totalità dei bisogni di un uomo può essere soddisfatta solo dall’intero cosmo, pertanto, nessuno diventerà mai totalmente perfetto, ovvero totalmente oggetto, sino a che l’intero cosmo non lo diventerà. L’oggettività viene raggiunta solo tramite l’appagamento della soggettività, dunque l’eliminazione di tutte le scorie. Questo tuttavia avviene per gradi, ed il primo grado da raggiungere è quello della posizione sociale dalla quale il tuo peculiare talento, la tua sensibilità e profondità visiva, possano fare il loro lavoro elidendo il marcio. Tutti i bisogni sono contingenti, poiché solo nel tempo, nel regno della contaminazione che tende ad annullarsi esistono bisogni. Quando stai combattendo un problema confacente al tuo ruolo fondamentale, quello che ti differenzia giustamente dagli altri, lo si considera un bisogno naturale e dunque meno contingente di quello che ti trovi invece ad affrontare fuori luogo, poiché è stato creato dall’inadempienza di altri, ed una ulteriore inadempienza ti lascia in mano a te stesso a risolverlo. Tuttavia in senso lato anche il bisogno professionale è contingente. Ognuno deve diventare quello che è, ed è in qualche modo vero, platonicamente, che il filosofo nel suo percorso conoscitivo vada a cercare quello che già conosce, ma può apprendere, rammentare, solo attraverso il mondo empirico, solo tramite l’esperienza. Ci sono tre motivi per cui si disprezza la soggettività, corrispondenti a tre accezioni del termine. Uno, nell’accezione più generale, poiché soggettività è sinonimo di bisogno, sofferenza, corruzione, infelicità. Due, perché in una persona che assume il ruolo di giudice in un ambito, un bisogno contingente soverchia il bisogno d’ufficio e dunque un oggetto viene deprecato immeritatamente o un altro immeritatamente approvato. Tre, perché un giudice non è all’altezza del suo compito e dunque, senza intenzione, si trova a maneggiare una realtà che lo sovrasta, e la sua soggettività diventa ora non quella di favorire un bisogno contingente, ma quella dei suoi limiti intrinseci che mutilano, distorcono e depauperano la realtà e dunque non possono rendere ad essa giustizia ossia appagamento. Ma il dovere d’ufficio non trascende ancora la soggettività, solo è il mezzo con cui poterla davvero appagare e giungere così all’oggettività. Anche il giudice più competente ed onesto è soggettivo, e soddisfa un bisogno. La differenza è che l’appagamento del bisogno personale corrisponde in tal caso a quello del bisogno generale, ed in tal modo esso è giusto. Le cose che egli approva, sono dunque approvabili, il che significa accettabili da tutti poiché davvero benefiche per ognuno, senza che gli incompetenti possano rendersene conto per giudizio diretto. Un giudice che fosse oggettivo nel vero senso della parola, ovvero non avesse alcuna relazione con l’imputato, non potrebbe di fatto giudicare, perché se ne starebbe altrove, intonso, incorruttibile come i metalli nobili, in quanto già perfetto e dunque già oggetto, egli non potrebbe avere alcuna reazione nel contatto con esso: la quale è invece necessaria affinché si attui un cambiamento nel sistema, in tal caso intervenendo sull’imputato, prendendo una decisione nei suoi confronti.


Quanto all’oggettività in arte, essa nega l’artista, già che se presenti l’oggetto per se stesso questi rappresenta se stesso e non ne sei tu l’autore, ma se già parli di qualcosa che pure è esterno e non è un dipinto dell’anima tua, ne sei ben l’interprete e dunque poni in esso qualcosa di te. Tu lo filtri, lo scomponi, lo modifichi, lo elabori, lo storci, lo strizzi, lo gonfi, lo tingi, l’aspiri, lo depauperi, l’infarcisci, lo geli, lo sciogli, lo scabri, l’addolci, lo curi, lo deturpi, l’abbassi, l’innalzi, lo giudichi, lo fai tuo e l’utilizzi per un fine. Se l’oggetto non ti piace te ne vendichi subito con un giudizio che è invero una azione distruttiva simulata. Tu vuoi ben imporre anche agli altri di fare lo stesso anche se non sono pronti ad approvare la tua reazione poiché diversi come fruitori. A te non importa come gli altri giungano alla tua stessa reazione: purché vi giungano e vi si accodino in fretta, e per ottenerlo hai diverse strade. Distorci l’oggetto di modo che a contatto col loro deplorevole arretrato gusto esso ottenga un effetto sgradevole e dunque la reazione da te desiderata. Oppure devi cercare di far maturare il loro gusto in breve tempo, e questo lo fai quasi sempre in maniera nervosa infastidita e brutale poiché è un compito sgradito, sei irritato di tale diritto di giudicare attestato a persone immeritevoli di farlo e del cui consenso ed appoggio senti di avere comunque bisogno per il peso sociale che questi hanno. Se non riesci a fare nessuna delle due cose, puoi usare la prepotenza nell’imprimere il tuo giudizio nel corpo e nell’anima dei fruitori, alzando la voce e inasprendo i toni, usando espressioni crude, anche se questo li fa soffrire poiché manca un sostrato idoneo, per disaffinità intrinseca, per immaturità o per mal disposizione contingente. Fatto sta che questo trauma cui li sottoponi è parzialmente efficace ed essi reagiscono o adeguando il sottofondo al giudizio impresso oppure cercando di demolire quest’ultimo ed espellerlo da sé, come un trapianto di tessuto estraneo alla propria natura, la qual prima o poi erompe imperiosa e tutto a sé adatta. Un critico egocentrico giova della sua correlazione con l’oggetto, il quale ha un valore proprio ed una realtà senza i quali il critico non sarebbe nulla: ma egli desidera apporre ad esso il suo sigillo, la sua firma, la sua immagine, ed a seconda che sia meno o più presuntuoso sceglie di farsi lui pubblicità tramite un bell’oggetto di già apprezzato dal pubblico, o al contrario pretende che la perizia ed il giudizio positivo del grande critico bagnino l’oggetto di prestigiosa luce, che sol da lui esso riceva il marchio di qualità, un posto nel panorama presente, nella storia e l’abilitazione al circuito artistico, di lui che è superiore ad ogni opera e ben d’in alto la comprende.


L’Io nell’Arte

L’esperienza si divide in etica ed estetica, dicemmo, nella prima si espelle materiale, nella seconda lo si ingerisce. Il fine supremo del cosmo è quello di sanificarsi totalmente e dunque totalmente estetizzarsi ed eticizzarsi. In concetto di totalità fa coincidere questi due concetti. Ogni scoria va abbandonata ed espulsa, ogni atomo di energia positiva ghermito ed inglobato. Ogni deficienza, ogni negligenza in queste due operazioni, da parte di chicchessia, inquina il mondo. Distinguere l’arte dalla vita, in tale contesto, è fuori luogo: l’arte è una attività all’interno della vita che può purificare chi la produce e chi la contempla. Essa è fallimentare e spregevole nella misura in cui non raggiunge questo scopo. Ogni corrente artistica che non sia una nuova filosofia o scienza estetica, ma soltanto la prepotenza di un gusto rispetto ad un altro, voglia essere classicismo, modernismo, romanticismo, simbolismo, impressionismo, espressionismo, futurismo, non risolve il problema. Il potere sanificante del futurismo non può essere generalizzato, altrimenti esso sarebbe stato accolto ben più amichevolmente, anche presso persone dalle limitate capacità razionali. Si tratta, invece, di istinti volti alla soddisfazione di bisogni. Nella farmacia artistica universale deve presenziare ogni tipo di compressa, unguento, polvere, sciroppo, shampoo, magico elisir, ed ogni prodotto avere una precisa posologia. Si può condannare una corrente artistica solo dimostrando che i suoi prodotti non fanno bene a nessuno. Altrimenti, si condanni una errata posologia, un dosaggio eccessivo, una somministrazione avventata al soggetto sbagliato, un predominio sul mercato che soffoca i bisogni altrui, maggiormente sani o al contrario ben più malati e deboli. Più raffinati o grezzi. Oppure bisogna attaccare il farmaco in sé, nella sua composizione inefficace o intrisa di effetti collaterali. In quest’ultimo caso si fa della filosofia estetica, si vuole innovare la scienza farmaceutica. Qui ogni critica costruttiva è bene accetta. Ma non bisogna mai confondere questo nobile intento con la prepotenza di chi vuole imporre un gusto brutalizzando le esigenze altrui. L’arte romantica e sentimentale, i solipsismi tormentati dell’animo, l’estetizzazione del macabro, del decadente, del sofferente, è perfettamente comprensibile che risultino disgustosi e stantii al palato d’uomini che scoppiano di salute. I futuristi ostentano energia, benessere, sicurezza, fierezza, prontezza all’azione, dietro ogni parola traspare crudamente l’affermazione dio quanto mi sento bene, e credono ingenui o volutamente barbarici verso il prossimo, che tale schiaffo cruento, le loro sdegnose per quanto brillanti provocazioni, possano davvero provocare un rivolgimento positivo nell’anima di persone afflitte da problemi reali, e non già da debolezze intellettuali tra cui la più grave ed invisa è la vigliaccheria, che non consente di prendere la direzione giusta e liberarsi dal male. Non dunque uomini guasti da filosofie sbagliate, ma semplicemente e consapevolmente guasti, alla ricerca di rimedi specifici, potessero avere anch’essi, come ultimo stadio, la vigorosa azione futurista, tracotante, distruttrice, sbarazzatrice, beffarda, cinica, dura, scabra, semplice, nuova. L’errore di chi abbisogna e gode di queste cose è supporre che tutti ne abbisognino e ne godano, che siano pronti per esse, allorché un progressivo miglioramento delle condizioni di vigore e salute debba necessariamente condurre al bellicismo cruento e gioioso. Se anche ciò non fosse vero, qui compare l’egoismo ferino che sente come maggiormente benefico, dunque giusto e prioritario, lo strigliare, schiaffeggiare, calpestare, trascurare, deridere e spazzare via brutalmente, con pieno diritto, tutta la declinazione della debolezza che compare loro davanti, che fa storcere loro il naso e frena la loro corsa. Dunque tutti quei bolsi, rammolliti, infiacchiti, marciti, appesantiti, illanguiditi, timorosi, cauti, insicuri, oppressi, angustiati, intrisi di sentimenti fetidi e complessi, ancor non scaricati nell’appagamento dell’azione. Tutto ciò che è ancor legato ad un passato che non giova più al presente e dunque nemmeno al futuro, oppure è la conseguenza di una mancanza di forza personale di cui non possiamo avere rispetto, per rispetto nostro. Il predominio dell’egoismo giovane e vitale su quello vecchio e moribondo. La priorità dell’Io è sintomo d’infelicità dello stesso. Quando invece esso scoppia di salute, come una bomba vuol esplodere e devastare l’ambiente esterno, il quale come minimo diventa più interessante, con le possibilità di espansione che offre, i nuovi strumenti di cui impossessarsi, sconfitte oramai le interiori miserie e piaghe, di cui più non vogliamo sentir parlare. Gli oggetti meccanici ed elettronici ora appaiono il nuovo traguardo della nostra corporea ma ancor fisiologica efficienza. La nostra solidità vuol diventare adesso quella dell’acciaio, del marmo, la nostra agilità quella di una corrente elettrica, il nostro dinamismo trasformista quello di un moderno laboratorio chimico, la perfezione dei nostri movimenti quella di un meccanismo d’orologeria, la nostra potenza quella di un cannone mitragliatore. Ancora dunque l’Io non è scomparso, solo si avvale di nuovi strumenti che lo appagano e perfezionano ulteriormente. Ancora esso non parla dell’acciaio ma del suo desiderio di diventare acciaio, della sua brama di mitragliare il mondo, del gusto che gli dà un boato, della potenza che gli infonde la comprensione d’una strategia bellica, della sua voglia trepidante di novità, del suo disgusto per ciò che ha superato e di cui non ha più bisogno. L’io sofferente anch’esso, dal canto suo, s’appoggia alla natura per parlar di se stesso, e non parla di un paesaggio di cipressi ma della distensione che esso provoca in lui, ed appena il futurista, che non ha bisogno di distendersi perché è già disteso e non può immedesimarsi in tale presentato effetto, sente questo ego indesiderato trapelare sotto le descrizioni oggettive, dalle quali invece voleva trarre qualcosa che fosse utile a lui, sicché lo sdegna e lo vuol toglier di mezzo, questo ego che scorge altrove nei fenomeni naturali trovare analogie ai suoi processi interiori, e finge di parlare di rocce che si sgretolano per dire al lettore che egli si sta sgretolando, di frutti che cadono per qualcosa in lui che cade, di uno zefiro di vento per un soffio di speranza che ha avuto dalla sua vita e a noi non vediamo cosa ce ne possa importare, di un raggio di sole che si insinua ardito e luminescente a tagliare un clima travagliato e tinge una natura desolata per eroicizzare qualcosa di analogo che è avvenuto dentro di lui grazie alla sua forza d’animo che non s’è fatta abbattere e anche questo a noi non interessa, che grazie all’impatto visivo dei fenomeni naturali vuol impattarci ciò che è meno accessibile ovvero i suoi fenomeni interni, che vuol rendere comprensibili questi tramite quelli. Cosa cerchiamo in una poesia? Dati empirici raccolti in lettere che abbiano un potere direttamente e positivamente efficace sul nostro stato d’animo. Oppure qualcosa di interiore nella cui espressione possiamo immedesimarci e pertanto averne soddisfazione al pari dell’autore, che si tratti di qualcosa di totalmente interno oppure del rapporto tra esso e una realtà esterna adeguatamente rappresentata. Cerchiamo azioni simulate e soddisfacenti nelle quali immedesimarci. Giudizi appaganti che condividiamo. O ancora noi cerchiamo una illuminazione, la comprensione lampante di un processo non ancora razionalizzato.


Senza i messaggi filosofici di cui sono intrise, le mie poesie finirebbero in un cesso futurista. Essi sono infatti universali e pertanto potenzialmente utili a tutti. Sappiano gli spiriti nobili distinguere uomo che sfrutta la poesia per parlar di se stesso, da uomo che sfrutta se stesso per fare poesia.



La Forza nell’Arte


Non possiamo togliere la Soggettività dall’arte. È necessario togliere da essa invece la Debolezza, ciò che la rende inefficace. Nella creazione l’artista vuol compiere un atto di forza, ed il fruitore tale atto di forza vuole ricevere, di esso vuol partecipare. Una tappa importante abbiamo raggiunto: che qui parli serena. Spurghiamo la letteratura da ogni debole soggettività. Nella misura in cui un uomo assume la dignità di opera d’arte, possa egli entrare nell’arte a pieno titolo e con piena figura. Ma quanto a inezie quotidiane, miserie, dispute, malate stanchezze, giustificazioni, torti, rancori, rabbie, dubbi malaccorti, pedanti descrizioni, prolisse riflessioni di vaghezza irresoluta, ogni egoistica lagna e noia che faccia scadere ogni scritto, tutte le scorie, dunque, di cui l’uomo spogliarsi debba e voglia: lasciamole ebbene ai camerini, alle latrine e ai lavabi del retropalco, alle palestre e agli studi medici, al conforto di una radura amichevole. Rispolveriamo adesso la rettitudine del concetto di pudore. Dell’uomo carismatico son belli invero, interessanti anche rutti e peti, pianti e sospiri, sbadigli e frottole, canti sguaiati, la birra preferita o vecchie squallide foto. Ma il carisma, la forza centrale ch’ogni debolezza sostiene, è condizione necessaria. Qualsiasi dolore o debolezza possono entrare nell’arte: purché l’artista ne parli con fortezza, purché egli sia più forte di loro. Non dovrai cancellar fiumi d’inchiostro dunque, se sempre miglior dignità canora hai dato alle melodie dei tuoi interni rivi, contenuti dalle forti braccia dei tuoi argini intellettivi, e trasfusi di frequente in tematiche universali dell’uomo.



Proviamo ad esprimere questi concetti in versi…


Le lettere purghiam d’ogni sconcezza
Deboli intromissioni son bandite
Ma se tu uomo d’Arte sei all’altezza
In essa puoi entrar come un’attrice

Ma se d’inezia o misera stanchezza
Di rabbia o dubbio vuoi scandir parola
Fallo nel retroscena, ti è concessa
Ma non giammai sul palco, non ci piova!


Raccolto noi il concetto di pudore
Sappiam che d’uomo forte anche gli sputi
Pianti sospiri e frottole hanno onore

Ma senza il gran carisma che l’aiuti
Ogni piccola scoria crea fetore
Dov’egro è il cuor, gli artisti sian forzuti!



Analisi del sonetto


La struttura delle rime è questa…

A
B
A
B

A
C
A
C

D
E
D

E
D
E



Tutto il sonetto è concettualmente unitario e la struttura interna è finalizzata a rendere al meglio quel concetto. Nelle due quartine c’è un predominio del verso in A, spezzato da due assonanze, in B, nella prima quartina, e in C, nella seconda quartina. Il dominio è anche concettuale, con il leitmotiv che vede confliggere le sconcezze e le stanchezze con le altezze di cui non son degne, e che sono concesse solo laddove non recano danno all’estetica. Le parole sconcezza e concessa sono quindi sonoramente affini e quasi omonime, ma semanticamente opposte. All’interno delle quartine le rime d’interruzione hanno sia un valore portante che un valore estetico, come avviene spesso in architettura, sia sul piano sonoro sia su quello concettuale. Mentre le due quartine si presentano come un ammonimento, le due terzine sono una sorta di argomentazione, che risponde ad eventuali obbiettori e che perviene infine alla medesima conclusione. Nelle due terzine c’è un notevole equilibrio sonoro e concettuale. Nei sei versi che le compongono, le rime sono equamente spartite: nella prima terzina domina la D, intermezzata dal verso in E, il quale troverà i suoi echi nella seconda terzina, dove si presenta nel binomio qui dominante di primo e terzo verso, intermezzato a sua volta da un verso in D, che ristabilisce il contatto col precedente binomio facendo rialzare la testa al primo dei due suoni antagonisti, pur lasciando il predominio al suo oppositore. Se D ha aperto la discussione, l’ultima parola spetterà infatti ad E. Questa sensazione di equilibrio è molto piacevole a chi non parteggi per nessuno, come lo è una partita di calcio equilibrata, invece sgradita ai tifosi delle singole squadre, che sentono, vedono, desiderano a senso unico e vorrebbero un dominio totale. Se immettiamo l’aspetto concettuale nella nostra analisi, vediamo che esso crea un equilibrio ulteriore all’interno delle terzine compensando il predominio in esse di una rima rispetto all’altra: nella prima terzina, il verso centrale racchiude e chiude con un concetto molto forte, quello dello sputo, e nella seconda terzina il verso centrale presenta e chiude con il concetto di fetore, altrettanto forte: quei due concetti da soli sembrano sostenere le due morse sonore in cui sono inseriti. Tuttavia, se il peso delle rime è il medesimo per ogni lettore, il peso dei concetti, in base al quale varia l’equilibrio generale del pezzo, è soggettivo. Non è detto infatti che tutti sentano i concetti di sputo e fetore come più forti rispetto a quelli di pudore e onore, aiuto e forzuto. Ma la soluzione di tale problema non spetta all’artista.


Possiamo estendere il discorso dicendo che in arte la temperanza è fondamentale.
Allorché si presentino tematiche scabrose ed emotivamente intense, questa può essere ottenuta tramite la bella forma, oppure inserendo degli elementi di compensazione delle emozioni dominanti. Ma chi vuol parlare di arte e tende a bollare come patetico tutto ciò che sia in qualche modo degno di essere rappresentato, è solo un uomo che non ha capito come stanno le cose, che vorrebbe arrivare a sottrarre all’arte tutto ciò che solo può ispirarla, poiché essendo ciò qualcosa di fondamentalmente ed originariamente negativo, egli ha paura di sentirlo e tanto più di venirne giudicato, e si aggrappa allora a quella freddezza che non è invero nemmeno tale, poiché sarebbe ancora un sentimento, ad un cinismo che però non entra come personaggio della commedia o tragedia, ma è un puro e semplice disprezzo del sentimento e della vicenda umana che sottendono ad ogni creazione artistica e così facendo tali gretti importuni ed offensivi individui astraggono se stessi da qualsiasi forma d’arte. Sottraendosi del tutto alla dimensione artistica, epperò volendo continuare ad occuparsi di arte, questo genere di persone non comprenderà né tantomeno creerà nulla di significativo. A ben maggiori miserie umane essi danno voce tramite giudizi e atteggiamenti, dal ché sottrarsi alla soggettività senza esser ancora divenuti oggetto, dicemmo, è impossibile.

Ancora proviamo a dire queste cose in tre versioni poetiche gradualmente più versificate.


I

diventa tu un motore di vetro
alimentato ad azoto liquido
ma sol come antidoto
& gabbia d’inchiostro

resti nel nulla chi non esprime niente
nemmeno il nulla che è ma non sente


II

Diventa pure tu un motor di vetro
che azoto freddo liquido alimenta
gabbia d’inchiostro & antidoto sia il metro
ma che distinto suon comunque io senta

Resti nel nulla chi non dice niente
nemmeno il nulla ch’è però non sente


III

Diventa pure tu motor di vetro
che freddo azoto liquido alimenta
gabbia d’inchiostro & antidoto sia il metro

purché distinto suon comunque io senta
e importa poco sai quant’ei sia tetro
ma ch’egli non sia nulla e che non menta



Riflessione generale sulle strutture in arte


Perché abbiamo bisogno di stendere il nostro materiale spartendolo in capitoli, strofe, versi? È la stessa necessità che ci costringe a dividere un pasto in portate ed a sminuzzare il cibo prima di ingerirlo: abbiamo bisogno di nuclei di nutrimento che siano digeribili e piacevoli in sé stessi, dall’aspetto in qualche modo conclusivo e compiuto, come quanti di energia, nuclei che risultino infine totalmente appaganti solo nella precisa sequenza e quantità in cui sono strutturati, senza eccedere nel superfluo dopo l’acquietamento della fame.



Il diario


Il livello di pudore del diario ha sicuramente pretese minori, poiché è un una confessione dallo scopo principalmente terapeutico o auto confortante, sia essa solitaria oppure destinata a qualche intimo. Quanto a contenuti, il diario può esser fetido zerbino in parte, non mirabile scultura elevata dal grato piedistallo acciocché sia intonsa da vili mani e solo impreziosita dai luminosi raggi che del sole la investono mentre essa guarda il cielo. Il diario è una creazione egoistica, pertanto deve soddisfare solo il tuoi gusti e le tue esigenze. Queste le deve, tuttavia, soddisfare. Il che presuppone una maestria, un contegno, delle regole. Il rigore richiesto da un diario non riguarda dunque i contenuti, ma la forma. Esso deve chiarificare i processi, poiché ciò ti consente di padroneggiarli, fissarli per assumere un atteggiamento positivo verso il futuro. Il diario deve rammentare la verità a te stesso, nonché imporla efficacemente ad eventuali lettori. Anch’esso deve essere, come ogni atto, un atto di forza. Essendo differente la sua funzione, il suo scopo, ciò di cui parla siano pure scorie. Ma che esse procedano con passo composto stagliandosi sul tessuto cartaceo in distinte impronte.



Memoria e autocoscienza


Non è vero per niente che al pensiero si accompagna sempre la consapevolezza che si sta pensando. Anzi questa, come ogni doppia consapevolezza, è impossibile. Poiché presuppone che siano presenti in un unico soggetto due punti di vista diversi. Nel preciso momento in cui ti rappresenti te stesso nell’atto di pensare, ecco che si disconnettono i pensieri oggettivi che stavi facendo; oppure la coscienza assume un punto di vista che comprenda in una sola visione entrambe le cose, purché non superino la nostra capacità di ritenzione dati, la qual visione rimane un oggetto unitario, mai una doppia consapevolezza: sicché questo lo puoi fare se è un altro il soggetto pensante, e tu lo guardi pensare nel senso che vedi anche tu l’oggetto che vede lui e contemporaneamente vedi anche lui, ma non pensi quello che pensa lui poiché lui è concentrato solo sull’oggetto e vi reagisce a suo modo, mentre tu sei concentrato proprio su quel binomio che visualizzi, il che è una immagine personale diversa da ogni altra. La tua è una pseudo soggettiva. Ma ogni pensiero, che nell’intima essenza non si differenzia per nulla da un sentimento, bensì pensiero e sentimento sono sempre un’unica cosa, viene registrato in memoria e noi possiamo ripercorrerne il flusso. Non possiamo approvare alcuna spiegazione causale se non confrontando quella che ci viene proposta con quella che abbiamo vissuto, sicché non possiamo capire nulla che non abbiamo vissuto e se qualcuno ci illumina su noi stessi è perché lui ha compiuto lo sforzo di rendere conscio ciò che per noi era inconscio. Razionalizzare se stessi, i propri processi, significa cambiare punto di vista ed osservare dall’alto le connessioni tra i vari elementi che compaiono nella nostra memoria nella precisa sequenza in cui li abbiamo percepiti. Se vengono saltati dei passaggi, nella spiegazione altrui, ecco che la mente va a cercare i pezzi mancanti, come avviene anche nei ragionamenti. Ragionare e ricordare infatti sono una medesima cosa, non esiste la logica pura, solo quella empirica. Anche il nostro corpo ha una memoria e la sua logica è quella che persegue tutte le proposizioni false, ovvero tutte le impurità nella precisa stratificazione gerarchica in cui l’hanno avvelenato, che esso intende eliminare. La nostra memoria è sempre vincolata al nostro stato di salute: perfezionato questo, essa è svuotata. Essa è un mezzo di monitoraggio, un archivio di stato, che può esser dato alle fiamme qualora non vi siano più minacce a quest’ultimo. Ma per avere una prospettiva storica della nostra vita e dunque di noi stessi, per viaggiare nei ricordi noi dobbiamo sottrarci alla coscienza particolare in cui siamo immersi. Se non cambiamo punto di vista noi non possiamo avere una prospettiva storica ovvero plurima, poiché la coscienza è antistorica, è un fotogramma non un film, ed il tempo è un ripiegamento dello spazio, sono immagini sovrapposte che diventano un blocco di cui sentiamo il peso, il qual peso viene poi sgravato dalla riproiezione della pellicola, tale per cui ogni immagine lascia il posto a quella successiva e viene dimenticata, sino a tornare al presente, analogamente unitario e dunque più leggero di quel malloppo inesplicato. Dunque è corretto dire che noi siamo immersi in un percorso causale, ma non ne siamo mai consapevoli, noi siamo determinati e determiniamo, noi subiamo e reagiamo, ma l’unico modo in cui possiamo realizzare una analisi è che la nostra coscienza si distacchi dal mondo esterno e si rivolga verso se stessa, ovvero verso la memoria. Ogni conoscenza è un rapporto, pertanto un io conoscente ed il suo corrispettivo esterno non spariscono mai, anche nell’introspezione, ovvero quando l’io conoscente sembra applicarsi a qualcosa di interno, che cadendo in realtà sotto i nostri sensi resta incluso nell’esteriorità. Quindi è corretto dire che al binomio Io-mondo esterno circostante si sostituisce il binomio Io-memoria. Ed essendo presente un soggetto, esso non può appunto essere altro che presente e mai uguale al passato, poiché tale magazzino di ricordi si confronta con l’uomo che siamo adesso e l’impressione che attua su di noi è differente da quella impressa sull’ego originario, sicché ciò che ricordiamo è sempre una nuova esperienza: ogni ricordo modifica il nostro stato generale, in meglio o in peggio, non esiste una riflessione innocua, ed allorché è stata una riflessione sanificatrice essa elide anche, nella stessa precisa misura, i ricordi. Il fatto che essi rimangano in qualche modo registrati in noi, e dunque ci basti sentire di nuovo un odore, guardare una foto, sentire una voce, recarsi in un luogo d’infanzia, per scatenare anche un vecchio sentimento, sembra suggerirci che la questione non è conclusa, non siamo completamente sanati, vi è ancora del nocivo in noi. Oppure, nel momento in cui troviamo un ricordo piacevole, esso è sempre accompagnato dalla nostalgia, ossia da una nota dolente, poiché lo rivogliamo, poiché avevamo lasciato qualcosa in sospeso che il nostro organismo, bramoso di felicità vuol completare, non ne ha ancora tratto tutto quel che voleva, quell’esperienza era stata solo parzialmente benefica e non ha corretto insanità precedenti, ed ora reagendo a quella soave antica visione sulla base dell’uomo che siamo oggi, altrimenti corrotto nel corso della vita, ecco che ci rendiamo conto quel ricordo, quella realtà avere un potenziale valore benefico anche sulla nuova situazione, ecco che si potenzia il suo valore di antidoto, ecco che la nostalgia aumenta e ci avvelena in tanto che ci trastulla. Il male e il bene aumentano la posta in gioco e siamo stimolati a cercare un’esperienza nuova che completi la vecchia e ci risani. Da un dolore più intenso siamo attirati verso la gioia più intensa che una tale esperienza potrebbe procurare. Possiamo compiere due cose contemporaneamente, se siamo duplici, tre cose se siamo triplici. Un’azione duplice può essere compiuta solo da un corpo duplice. Infatti possiamo camminare per strada, inconsapevolmente, mentre pensiamo agli affari nostri, ma un soggetto unitario non può mai essere contemporaneamente oggetto, ossia soggetto osservato. Quando osservi te stesso non sei più te stesso.



Los pétalos del tiempo caen inmensamente


Questo verso di Pablo Neruda, I petali del tempo cadono immensamente
viene utilizzato da Camilo Fernàndez per illustrare la teoria dello scarto.

Egli osserva

Il significato figurato mette in crisi una regola semantica per cui sappiamo che “il tempo non ha petali”. Questo verso costituisce uno scarto rispetto a una regola, la quale stabilisce che il “tempo” si trova in un campo semantico differente dal concetto convenzionale (cioè abituale) di “petalo”. Neruda lavora, in una prospettiva poetica, stabilendo un rapporto analogico molto raffinato fra la natura e il tempo. Tuttavia il processo è un po’ più complesso.

Voglio ora tentare di illustrare tale processo, poiché la versione sintetica fornitaci da Fernàndez non è solo imprecisa, bensì inesatta. Non possiamo innanzitutto comprendere il verso di Neruda se non diamo una definizione di tempo. Se la nostra definizione stride con le proprietà che qui egli attribuisce al tempo, diremo che questo verso non sta in piedi e sarà spiacevole leggerlo. Oppure possiamo intuire ed accogliere la definizione che ne dà Neruda stesso e notare allora la coerenza del verso ed apprezzarne il sapore. Quando io munisco un soggetto di un complemento di specificazione, pongo una ineffabile gerarchia. I petali del tempo mi dice innanzitutto che il tempo è qualcosa di più grande dei petali, i quali ne costituiscono solo delle parti. Se dico invece Il tempo dei petali, la gerarchia si inverte, è il petalo ad essere qualcosa di complesso, la cui temporalità è solo una caratteristica. Se la frase fosse stata Il tempo dei petali cade immensamente, la parola tempo sarebbe stata una personificazione dell’invecchiamento o della morte che, ora materiali e percepibili, si avventano sul fiore e ne fanno appassire e cadere i petali. Oppure ancora l’invecchiamento si identifica con il suo effetto, dunque la sua realtà, cioè le parti degenerate del fiore. Ma la frase è invece I petali del tempo. Già sapendo che cosa sono i petali, dobbiamo allora stabilire che cosa sia il tempo. Già l’espressione senso figurato è pleonastica ed ingenua, in quando non esiste alcun altro senso nei concetti generali, che non sia una di queste figurazioni. Potremmo tuttavia accettare quell’espressione nel significato di senso esplicitato di un concetto generale: in una delle tante figurazioni che esso può avere nella mente di chi lo pronuncia. Il tempo deve avere una di queste figurazioni. Sino a che non l’ha avuta, non possiamo nemmeno dire, come afferma Fernandèz, che esso non abbia petali. Il tempo (che Fernandèz ha posto tra virgolette non avendone esatta definizione), se inteso qual figura demiurgica può trovarsi fuori dal mondo dei fenomeni, nel qual caso non ha assolutamente un campo semantico e non è corretto dire che il poeta ha trasposto il termine un campo semantico insolito; oppure essere invece in tutte le cose, in un pantempismo, costituirne l’essenza. Nel primo caso il poeta ne fa un uso trascendente e dunque assurdo, perché se ogni decadere esiste in virtù del tempo non possiamo dire che il tempo stesso decade, a meno di non chiamare in causa Einstein. Non essendo qui fornita una definizione esplicita di tempo, non possiamo nemmeno dire che esso abbia dei petali, in qualsivoglia significato, sicché questa perturbazione avvenuta grazie all’inserimento di una nuova specie concettuale in un altro ecosistema semantico non è reale, e non ha creato dunque né lo shock iniziale né l’assestarsi di una nuova più ricca e forte configurazione, di quelle che aprono il cuore del lettore come ogni elevarsi della conoscenza e gli imprimono un senso di potenza, di cui ripaghiamo il poeta col dazio zuccherino dell’ammirazione, basata questa sul fatto che egli non ci ha fatto capire come ci sia arrivato, e ci ha sparato subito invece la sentenza finale. Tuttavia la definizione di tempo è fornita dal poeta, in maniera implicita, ed il risultato è che quella da lui tracciata non è affatto una analogia, ma una astrazione associata ad un emblema. Egli ci dice che Il tempo è il mondo e I petali sono le sue parti, le quali sono tutte caduche. Egli ha universalizzato un concetto originariamente legato ad alcuni fenomeni naturali, di cui uno è stato scelto come emblematico e che viene mentalmente sostituito a tutti gli altri cui potremmo pensare. Ha dunque espanso la nostra visuale a tutto il campo semantico possibile e ne ha indicato il principio regolatore. Questa è la potenza di quel verso. Inoltre esso assume una tinta delicata e romantica per aver trasformato ogni decadenza e morte a quella di un petalo.



Sulla musicalità in letteratura


Lasciamo ora la parola a Schopenhauer, in queste buone considerazioni sull’estetica della poesia, che necessitano però di alcune correzioni ed approfondimenti.

Potrebbe sembrare quasi alto tradimento nei confronti della ragione, usare anche solo la più lieve violenza ad un pensiero o alla precisa e corretta espressione di esso, nell’intenzione puerile di sentire dopo alcune sillabe il medesimo suono o anche per far sì che queste stesse sillabe assumano un andamento cadenzato. Ma, senza questa violenza, nascerebbero pochissimi versi: e ad essa è imputabile il fatto che, nelle lingue straniere, i versi siano molto più difficili da capire che non la prosa. Se potessimo gettare lo sguardo nel laboratorio segreto dei poeti, troveremmo che si cerca molto più spesso il pensiero per la rima, che non la rima per il pensiero: e anche in questo secondo caso, non sarà facile riuscirvi, se il pensiero non è flessibile. Eppure l’arte di comporre versi non si arrende di fronte a queste considerazioni e ha dalla sua tutte le epoche e tutti i popoli, talmente grande è il potere che metro e rima esercitano sull’animo e tanto efficace è il loro misterioso lenocinium. Vorrei spiegare la cosa in questo modo: un verso dalla rima ben riuscita suscita, con il suo effetto indicibilmente enfatico, una particolare sensazione, come se il pensiero, che esso esprime, esistesse già predestinato, anzi preformato nella lingua, e il poeta l’avesse solo estratto. Anche le idee banali acquistano con il ritmo e la rima una patina di nobiltà e, con questi ornamenti, fanno figura, come le ragazze dall’aspetto comune riescono a far colpo grazie all’abbigliamento. E non solo: anche pensieri distorti e sbagliati guadagnano un’apparenza di verità, se espressi in versi. D’altra parte, perfino passi celebri di poeti celebri si immiseriscono e diventano insignificanti, se li si traduce fedelmente in prosa. Se solo il vero è bello e se l’ornamento preferito della verità è la nudità, allora un pensiero, che si presenti grande e bello in prosa, avrà più valore di verità di uno che produce lo stesso effetto, se espresso in versi. Ora, che mezzi così esigui e dall’aspetto così infantile, come il metro e la rima, producano un effetto così potente, è un fatto molto strano che merita di essere studiato: io me lo spiego in questo modo. L’oggetto immediatamente dato nella percezione uditiva, ossia il puro e semplice suono delle parole, acquista, con il ritmo e la rima, una certa compiutezza e importanza in sé, poiché in tal modo diventa una specie di musica: perciò quel suono sembra esistere ora solo per se stesso e non più come semplice mezzo, come semplice segno di qualcosa, ossia del senso delle parole. Dilettare l’orecchio con il suono sembra essere l’unica funzione del verso, funzione con la quale sembra che si sia ottenuto tutto e che si siano soddisfatte tutte le esigenze. Che il verso racchiuda al tempo stesso anche un senso ed esprima un pensiero, si presenta allora come un’aggiunta inaspettata, al pari delle parole nella musica; come un dono inaspettato, che ci sorprende piacevolmente e ci soddisfa facilmente, giacché non pretendevamo nulla di simile: se poi questo pensiero è tale che sarebbe importante in sé, quindi anche espresso in prosa, allora ne siamo incantati. Della mia prima infanzia ho questo ricordo, di essermi dilettato per un certo tempo al suono armonioso dei versi, prima di fare la scoperta che essi contengono, anche e sempre, senso e pensieri. Di conseguenza, esiste anche, e probabilmente in tutte le lingue, una poesia fatta di puri suoni e quasi del tutto sprovvista di senso. Il sinologo Davis, nella prefazione alla sua traduzione del Lao Sang-erh or an heir in old age (Londra 1817), osserva che i drammi cinesi consistono in parte di versi destinati al canto, e aggiunge: “il loro senso spesso è oscuro e, per ammissione degli stessi cinesi, lo scopo principale di questi versi è di piacere all’orecchio, ragion per cui si trascura il senso e si giunge anche a sacrificarlo interamente all’armonia”. Queste parole non fanno forse venire in mente i cori di certe tragedie greche, spesso così difficili da decifrare? Il segno dal quale si riconosce immediatamente il vero poeta, sia di genere elevato sia di genere inferiore, è la naturalezza delle sue rime: esse si riuniscono spontaneamente come per decreto divino; i pensieri gli vengono in mente già in rima. Il prosatore occulto invece cerca la rima per il pensiero e lo scribacchino il pensiero per la rima. Molto spesso, da una coppia di versi in rima, si può riuscire a capire quale dei due ha per padre il pensiero e quale la rima. L’arte consiste nel dissimulare il secondo caso, affinché simili versi non abbiano l’aspetto di semplici riempitivi, di bouts-rimés. La mia sensazione (prove al riguardo non se ne danno) è che la rima sia, per natura, soltanto binaria: la sua efficacia si limita ad una sola ripetizione dello stesso suono e non si rafforza, se quest’ultimo viene ripetuto più volte. Perciò, appena una sillaba finale ha incontrato quella che ha il suo stesso suono, il suo effetto è esaurito; un’altra ripetizione del tono agisce semplicemente come una nuova rima, che ha per caso lo stesso suono, ma che non aumenta l’effetto: essa fa seguito alla rima precedente, senza però unirsi a essa, per produrre un’impressione più forte. Infatti, il primo tono non risuona attraverso il secondo fino al terzo: quest’ultimo è dunque un pleonasmo estetico, una doppia audacia che non serve a niente. Simili accumuli di rime non meritano perciò i pesanti sacrifici, che essi costano, in ottave, terzine e sonetti che sono la causa di quella tortura intellettuale, alla quale siamo talvolta sottoposti nel leggere simili produzioni: non è possibile infatti gustare una poesia, se bisogna rompersi la testa per leggerla. Che il grande spirito poetico riesca talvolta a dominare anche quelle forme e le loro difficoltà, nonché a muoversi in esse con disinvoltura e con grazia, non è sufficiente per raccomandarle, poiché, in sé, esse sono altrettanto inefficaci, quanto gravose.
E perfino nei buoni poeti, quando fanno uso di queste forme, si vede spesso la lotta tra la rima e il pensiero, lotta che si conclude con la vittoria ora dell’una ora dell’altro: quindi o il pensiero si atrofizza a causa della rima oppure quest’ultima deve accontentarsi di un debole à peu près. Stando così le cose, ritengo che, nei suoi sonetti, Shakespeare abbia testimoniato non la sua ignoranza, bensì il suo buon gusto, dando ad ogni quartina rime diverse. Comunque sia, il loro effetto acustico non viene minimamente indebolito da questo espediente e il pensiero riesce a far valere i suoi diritti molto di più che se fosse dovuto restare imprigionato nei soliti stivali spagnoli. È uno svantaggio per la poesia di una lingua possedere molte parole che non sono utilizzabili in prosa e, d’altra parte, non poter usare certe parole della prosa. Il primo inconveniente si ha soprattutto nelle lingue latina e italiana, il secondo in quella francese, dove, con un’espressione assai indovinata, lo si è recentemente definito la bégueulierie de la langue française. I due casi si riscontrano di rado nella lingua inglese e, ancor meno, in quella tedesca. Simili parole, esclusivamente riservate alla poesia, sono estranee al nostro animo, non ci toccano direttamente e perciò ci lasciano freddi. Esse costituiscono una lingua poetica convenzionale e sono, per così dire, sensazioni soltanto dipinte, invece che reali: esse escludono la profondità di sentimento. Mi sembra che la differenza tra poesia classica e poesia romantica, su cui si discute molto oggigiorno, consista in fondo nel fatto che la prima non conosce altri motivi, se non quelli puramente umani, reali e naturali, mentre la seconda fa valere, come motivi efficaci, anche quelli artificiosi, convenzionali e immaginari: a questa categoria appartengono i motivi derivanti dal mito cristiano, poi quelli del principio dell’onore cavalleresco, che è un’esagerazione e una fantasticheria, inoltre quelli dell’insulso e ridicolo culto cristiano-germanico della donna, e infine quelli del vaneggiante e lunare innamoramento iperfisico. A quale caricaturale deformazione dei rapporti umani e della natura umana conducano questi motivi, lo si può scorgere perfino nei migliori, tra i poeti del genere romantico, per esempio in Calderón. Senza parlare degli Autos, ricordo soltanto opere quali No siempre el peor es cierto (il peggio non è sempre certo), o El postero duelo en España (L’ultimo duello in Spagna) e simili commedie en capa y espada: a quegli elementi si aggiunge qui ancora la cavillosità scolastica nel dialogo, della quale si fa largo uso e che, a quell’epoca rientrava nella formazione culturale delle classi elevate. Com’è invece decisamente superiore la poesia degli antichi, nella sua costante fedeltà alla natura: se ne ricava che la poesia classica è incondizionatamente vera e giusta, mentre quella romantica è tale solo condizionatamente; un rapporto analogo è quello che intercorre tra l’architettura greca e quella gotica. D’altra parte però, bisogna osservare qui che tutte le opere drammatiche o narrative, ambientate nella Grecia antica o nella Roma antica, soffrono di questo inconveniente, che la nostra conoscenza dell’antichità, in particolare per quanto riguarda i dettagli della vita, è insufficiente, frammentaria e non ricavata dall’intuizione. Tutto ciò costringe allora il poeta a eludere molte cose e ad aiutarsi con luoghi comuni, cosicché egli va a cadere nell’astrazione e la sua opera perde quell’intuitività e quell’individualizzazione, che sono sempre essenziali alla poesia. Ecco ciò che dà a tutte queste opere quell’aria di vuoto e di noia, che è loro propria. In questo genere di rappresentazione, solo Shakespeare è esente da quegli inconvenienti, poiché egli, senza esitare, ha rappresentato, sotto il nome dei greci e dei romani, gli inglesi del suo tempo. A molti capolavori della poesia lirica, in particolare ad alcune opere di Orazio (si veda ad esempio la seconda del terzo libro) e a parecchie canzoni di Goethe (ad esempio Il lamento del pastore), è stato rimproverato di non avere una giusta connessione e di continuare a saltare da un pensiero all’altro. Ma qui il nesso logico è trascurato di proposito, per essere sostituito dall’unità del sentimento di fondo e dello stato d’animo espressi, unità che proprio così risalta meglio, giacché procede come un filo che raccoglie perle sparse e trasmette il veloce alternarsi degli oggetti presi in esame, come il passaggio da una tonalità all’altra è trasmesso nella musica dall’accordo di settima, grazie al quale il tono fondamentale, che continua a risuonare in esso, diventa la dominante della nuova tonalità. La proprietà che abbiamo descritto qui è soprattutto evidente e tocca perfino l’esagerazione nella canzone di Petrarca, che inizia con queste parole: “Mai non vo’ più cantare, com’io soleva”. Se l’elemento soggettivo domina dunque nella poesia lirica, nel dramma invece è presente, solo ed esclusivamente, quello oggettivo. Tra i due occupa un largo spazio intermedio la poesia epica, in tutte le sue forme e modificazioni, dalla romanza narrativa fino all’epos propriamente detto. Essa infatti, sebbene sia sostanzialmente oggettiva, contiene un elemento soggettivo più o meno pronunciato che trova la sua espressione nel tono, nella forma dell’esecuzione e anche in riflessioni sparse. Qui non perdiamo così interamente di vista il poeta, come accade invece nel dramma.

Alla base di ogni creazione artistica sta una insoddisfazione e dunque una pulsione ad esprimerla ovvero esternarla ed in tal modo guarirla. A questo scopo possono concorrere vari mezzi, che in ambito artistico giammai potranno eguagliare, bensì solo surrogare le forme di azione diretta cui l’accesso ci è sbarrato. Tuttavia l’effetto, se sfruttiamo al massimo la compagine di questi mezzi, può avere un impatto notevole, decisamente. La musica da sola è potentissima e padroneggiandone il linguaggio, la maggior parte delle nostre creazioni assumerebbero solo questa forma, in quanto sufficiente a spatannare fuori il nostro sentimento, rimuovendone gli elementi occlusivi, disciogliendone le soffocanti e orride incrostazioni, disperdendone i rivoli infidi e trasformandoli chimicamente da veleno a orgasmiche linfe, a colpi di ritmiche percussioni che scotono le membra dall’esterno all’interno e poi di nuovo all’esterno, melodie graffianti ed incisive, suoni zefiranti, edulcoranti, dilaceranti, armonie maestose, espansive, distensive, poi intarsi completivi e ghirlande sonore avvolgenti in sovraincisione. Questo stracanna il nostro sentimento in maniera abbastanza efficace, se proprio non desideriamo spianarle in faccia a qualcuno per filo e per segno: accuse, giudizi, domande, richieste, dichiarazioni, proteste, rivendicazioni, insulti, elogi, difese, atti d’amore, o ancora riflessioni da insinuare dapprima in noi, in modo da chiarificare il nostro animo, far dunque ancora ordine e pulizia al suo interno, rafforzandone le capacità di azione e le speranze con galvaniche scosse e proponimenti incoraggianti, e riversandole poi anche negli altri per ottenere considerazione, provocazione, stimolo, persuasione, inganno, modificazione, affermazione sottile oppur brutale, alleanza, ammirazione, amore, piacevole ostilità. Queste cose abbisognano del linguaggio verbale, che ben deve conciliarsi con quello musicale se vuol massimizzare l’effetto anziché il primo si guasti col secondo e confligga, allorché non si rispettino le debite proporzioni, la coerenza oppure l’arguto e voluto contrasto dei toni, o il lascito predominio dell’elemento di per se stesso più forte, cui l’altro deve essere solo un sostegno, un contorno, una spezia, senza disporre dunque sul campo mezzi esagerati ad esprimere qualcosa di ancor modesto nelle dimensioni, nel genere, nella difficoltà. La musica strumentale presenta anche il vantaggio di agire sulle emozioni senza scomodare gli intelletti, e questo la rende potente con minore esposizione e presa di responsabilità, dacché non espliciti le tue idee, le tue vicende, i tuoi propositi.
Adattare il pensiero alla rima, adattare la rima al pensiero, concepirli invece all’unisono? L’abbozzo di gerarchia fornita da Schopenhauer tra queste tre tecniche non è infondata, ed esprime invero la crescente maestria del poeta, che deve valersi di entrambi gli strumenti e solo inizialmente – quando cioè non li padroneggia – abbisogna di separare le due sezioni, scoprendo poi in fase congiuntiva delle incongruenze che sono naturali, in semplice virtù del fatto che egli cerca di dire qualcosa con i suoni, poi qualcosa con i concetti che però è altro: le due unità espressive non fanno parte del medesimo ibrido, allorché sarebbe invece chiaro qual parte spetti esprimere all’una e quale all’altra, e allora l’artista cerca adesso, più o meno goffamente, di conciliare le due cose, attingendo alla specifica ricchezza del suo armamentario di suoni e concetti e tramite l’agilità con cui vi si muove, adattando gli uni agli altri seconda che il Suono o qui invece il Concetto sembri essere più interessante, più forte e dunque più efficace in ordine allo scopo finale, sicché gli spetti un ruolo direttivo che l’altro deve assecondare a costo di mutilarsi, stirarsi, diminuirsi, allargarsi, distorcersi o addirittura snaturarsi, se non proprio sopprimersi con un gemito di nostalgia ed esser sostituito da qualcosa di completamente diverso e maggiormente adatto. Si va alla ricerca di questi strumenti, poiché nessuno ne ha esplorate le complete possibilità, occorre allenarsi al massimo senza pigrizia a partire dai risultati dei nostri precedenti tentativi espressivi. Quanto ne siamo stati appagati? Cosa è invero rimasto in noi da espellere? Quanto piacere abbiamo tratto dalla nostra opera? Siamo sicuri di non poter fare molto di più? Occorre sintetizzare il maggior numero di concetti sulla base delle nostre esperienze, analizzarle per saper dare ad ogni cosa il suo nome, sperimentare varie diciture, stringate, larghe, dirette, perifrastiche, concrete, astratte, esplicite, implicite, complete, reticenti, raccolte, distribuite, intrecciate, separate, coniare nuove locuzioni paradigmatiche, e pertanto riutilizzabili e adattabili, assicurarsi degli effetti di ogni figura, verificarli puntualmente nelle nostre nuove produzioni, almeno fino a che non saremo tanto esperti da poterci permettere di scrivere meccanicamente, ed all’interno di tutto questo, tenere in alta considerazione gli effetti eufonici o invece cacofonici delle nostre parole e frasi. Se c’è infatti qualcosa di più doloroso di quello che abbiamo dentro, è rendersi conto di averlo espresso male. I nostri strumenti si sviluppano però sotto la spinta delle nostre esigenze, dacché, non potranno mai superarle. Nessuno è stimolato a costruire strumenti che non userà, ma non può nemmeno acquisirli a priori rispetto alla nascita di un concreto bisogno espressivo. Accogliere il detto Impara l’arte e mettila da parte è una leggerezza che un filosofo non deve commettere, senza inquadrare subito e rettamente le condizioni tramite cui qualcosa possa e debba essere imparato. Un uomo dovrebbe avere la possibilità di crescere gradualmente. Come la gravità dei problemi dovrebbe aumentare solo, in un mondo ideale, parallelamente alla capacità di risolverli, anche solo nell’ambito dell’espediente artistico vale lo stesso. Un giovane artista non dovrebbe essere spremuto in un torchio esistenziale ed emotivo prima di aver acquisito la perizia espressiva, ed il suo più grave errore, ed altresì quello di un suo insegnante, è trascurare appunto l’acquisizione e l’allenamento di ogni minimo strumento e metodo a partire dalle sfide più semplici. La vita potrebbe infatti travolgerlo in qualsiasi momento con qualcosa di più grande di lui. Tale sforzo è dunque un investimento sulla nostra salute e sulla nostra professionalità futura. I sempliciotti per natura possono essere invece assai più trascurati. Parlo di coloro che hanno ben poco intorno e dentro, poco intenso, poco ricco, poco intricato, poco insolito. Alle loro opere artistiche bastano invero pochi luoghi comuni e frasi fatte, da un lato, ed i primi rudimenti della musica dall’altro, ad ottenere l’appagamento completo della loro esigenza. Essi imparano addirittura da quell’ambiente banale cui dovrebbero dare strumenti in quanto artisti e dunque persone con capacità di penetrazione e rappresentazione superiori a quelle del proprio pubblico. Forse la differenza sta nel fatto che uno è nato con una discreta voce e un carattere un poco più sfacciato dei suoi amici, una buona carica energetica, ha preso qualche lezione di chitarra e gli è passato per la testa di mettersi a scrivere qualcosa.




Memoria e scrittura


La memoria è un sistema difensivo contro attacchi plurimi. Di quanto ci viene presentato in veste artistica o teorica, noi non possiamo comprendere nulla che non abbiamo già vissuto, per quanto perfettamente esso sia stato espresso. Ciò che non è stato correttamente espresso presenta degli elementi di parziale affinità con quello che abbiamo vissuto, che noi comprendiamo subito e che connettiamo automaticamente con tutte le altre parti di quella realtà sedimentata in noi, in modo da poter correggere anche il modello esterno, scartar quello che non c’entra o riempir le sue mancanze. L’attività espressiva di quello che proviamo sottrae sempre qualcosa al naturale processo di guarigione, di riassestamento dell’equilibrio, di battaglia contro le cause del male: noi utilizziamo parte delle nostre energie in tale operazione espressiva, ma se vogliamo realizzarla dobbiamo agire a caldo, prima che le emozioni siano defluite e dunque il male rimosso, altrimenti non ci resta nulla da esprimere. A chi nuoce dunque l’espressione? Alla vittoria presente. A chi giova invece? Ad una serie di vittorie future. Al di là del guadagno che potremo ricevere dall’essere stati artefici di prodotti artistici validi a molti, noi stessi grazie al linguaggio abbiamo creato una copia, anche solo strutturale od incompleta, di quello che abbiamo fatto, orbene della soluzione che ne abbiamo trovato. È solo grazie alla creazione di questa copia che noi, quando si presenterà una situazione simile, potremo riconoscerla ovvero assimilarla a quella già vissuta, che senza il nostro modello mnemonico sarebbe andata perduta per sempre e noi dovremmo fare i conti con problemi sempre nuovi verso i quali non potremmo utilizzare metodi già acquisiti e dimostratisi vincenti. Ma la stessa incisione di segni, l’espressione di quello che abbiamo vissuto, è un’azione, che analogamente possiamo comprendere solo allorché l’abbiamo compiuta anche noi. Per cui non basta, per comprendere ciò che leggiamo, che abbiamo vissuto le esperienze di cui si sta parlando, dobbiamo anche averne vissuto la fotografia, la scrittura, poiché prima assimiliamo il segno esterno a quello già sedimentato in noi, che noi stessi abbiamo creato, quindi quest’ultimo all’esperienza vissuta. Per capire in pieno colui che parla devi aver già parlato come lui, non solo saper di cosa sta parlando. Ma se focalizziamo meglio ci rendiamo conto anche che la distinzione tra segno e ricordo è ingannevole, poiché il nostro ricordo si riduce alla percezione del segno, non ne è rimasto nient’altro in noi, che quel segno, e quando il segno fornito esteriormente stride con quello che invece abbiamo prodotto noi, esso stride immediatamente con la nostra esperienza, è subito questa che si ribella alla violenza che le vien fatta.
La rappresentazione non è uno sfogo, non dobbiamo cadere in questa confusione.
Quando la rappresentazione è uno sfogo, fa parte della guarigione, è una sua forma messa in atto con gli strumenti che abbiamo e non necessita di essere salvata a meno che non sia un’arma da poter riutilizzare analogamente. In tali casi non scriviamo quello che stiamo vivendo, lo combattiamo a parole, non dipingiamo una situazione, la modifichiamo a colpi di pennello, non cantiamo la nostra emozione, la sputiamo fuori cambiandola in una migliore. Insomma noi non descriviamo un processo ma in qualche modo lo scriviamo, vi prendiamo parte attiva.
Ma la rappresentazione come sfogo è qualcosa di molto più efficace della rappresentazione oggettiva del problema, che non interviene su di esso.
Quest’ultima ci consente di riconoscere il problema, ma riconoscere vuol dire risentire, e dunque risoffrire. Con una scrittura interventista invece, noi ci sfoghiamo. Esso può partire dalla constatazione, necessariamente di impatto doloroso, della stessa realtà che ci affligge e fornire ad essa una vendetta o distensione letteraria, oppure può esserci direttamente quest’ultima anche senza che ci sentiamo ribadire i panni in cui ci troviamo. Infatti possiamo leggere un tizio che spara improperi e frasi violente senza sapere con chi ce l’abbia ed ascoltarlo con gusto, nello stesso modo in cui apprezziamo un metal aggressivo anche senza badare al testo, poiché quel tessuto sonoro può adattarsi a svariati sottofondi esistenziali.


OPERAZIONE DI PERFEZIONAMENTO DELLE DEFINIZIONI.
LE DEFINIZIONI DEI DIZIONARI NON SONO PSICOLOGICAMENTE EFFICACI

Forniamo un esempio, preso dal dizionario Treccani

Che cosa è un CERCINE?

cércine (ant. cércino) s. m. [lat. cĭrcĭnus «compasso, cerchio», der. di cĭrcus «circonferenza»]. –

  1. Panno ravvolto in forma di cerchio, che si mette sul capo per sostenere pesi.


Iniziamo l’analisi dalla definizione. Dice panno ravvolto in forma di cerchio, ma io non so ancora attorno a cosa sia ravvolto, per cui la definizione è fluttuante, mi lascia un vuoto empirico, e questi mi piazzano una virgola, che è un segno d’interruzione intermedia che però non regge poiché la locuzione precedente non ha significato nemmeno parzialmente conclusivo, come è necessario prima di porre una virgola. Il completamento del concetto, il riempimento del vuoto attorno al quale doveva ravvolgersi il panno è stato compiuto da una testa, mentre prima, nel primo emistichio che abbiamo letto, esprimendo questo un concetto generale, veniva concretizzato in maniera soggettiva con qualche oggetto intorno al quale io potevo aver visto ravvolto un panno a forma di cerchio. Alla fine della definizione ci viene detto anche che esso serve per sostenere pesi, nel caso ce lo fossimo chiesti. Ma nessuno oggetto si metterebbe sul capo o da qualsiasi altra parte senza un motivo, e quando aneliamo ad una definizione abbisogniamo sempre di sapere la funzione di un oggetto, ed anzi senza una precisa funzione un oggetto non ha consistenza e comprensibilità, per cui quella domanda è scontata, ce la poniamo sempre, anche se in maniera inconsapevole. Quindi quell’informazione è necessaria all’interno di una definizione, e tutto il resto invero non ne è che una parte, ogni termine contribuisce a definire la funzione, poiché altro che una funzione non si può definire. Il problema diventa allora quello di stabilire dove devono comparire i singoli elementi della definizione. Senza sapere che il cercine è un panno io non posso capire la funzione. Senza sapere che viene ravvolto intorno alla testa io non posso capire la funzione. Senza sapere che serve per sostenere pesi io non posso capire la funzione.
Se io avessi la realtà di tale oggetto dinanzi agli occhi, in tutte le sue componenti, io la comprenderei al volo. Il fatto è che tali informazioni non possono essere date contemporaneamente in modo letterario, se non appunto esprimendole con un unico termine, che però guarda caso è la mia incognita, e nella definizione viene scomposta nelle sue parti. La definizione infatti connette oggetti che nella realtà empirica sono già uniti e unitariamente percepibili. Essendo le parti scomposte, nella definizione, quale che noi decidiamo di mettere davanti sarà sempre una immagine incompleta e fluttuante, e pertanto disagevole da rappresentare e mantenere in vigore sino al suo completamento. Potevamo infatti invertire la sequenza e dire…


cércine

Elemento (cioè un termine generico) utilizzato per sostenere pesi (e qui siamo ancora sul generico) con la testa (prima chiarificazione), costituito da un panno ravvolto attorno ad essa (seconda chiarificazione).

Questa definizione risulterebbe ancora più ostica da comprendere, poiché molto più vasto è il campo semantico che racchiude, nell’esatto ordine in cui i concetti sono presentati 1) Gli elementi 2) quelli utilizzati per sostenere pesi (quali pesi? …)
3) quelli utilizzati per sostenere pesi con la testa - che cerchiamo di passare in rassegna fino a quando non ci dicono che 4) si tratta di un panno (posizionato come?) presto detto 5) ravvolto intorno alla testa, sicché tiriamo un sospiro di sollievo per aver finalmente inquadrato di cosa si tratta, dopo aver sostenuto per qualche secondo lo scibile umano raccolto sotto il concetto di elemento.

Dal punto di vista oggettivo non c’è una gerarchia e dunque un ordine di priorità tra gli elementi definitori che vengono forniti, poiché tutti sono necessari ad esprimere il concetto. La gerarchia vi è invece dal punto di vista psicologico e soggettivo, perché si deve partire da ciò che ognuno padroneggia meglio, che ha di più chiaro nel suo bagaglio di conoscenze, e su di esso gradualmente porre delle nuove connessioni che creino di fatto un oggetto nuovo. È molto arduo innestare connessioni tra oggetti non ancora ben formati e solidi nella coscienza, per cui prima ci si dovrà preoccupare di formarli e solidificarli. Ma qui compare il problema centrale della soggettività della definizione ottimale, problema che non può essere risolto da un autore di dizionari, che deve fornire definizioni standard. Dunque si parte dai concetti meglio padroneggiati dalla maggioranza delle persone e da quelli maggiormente specifici per giungere al maggior livello di astrazione. Altrimenti si entra in un dizionario tematico per specialisti, in cui analogamente le definizioni partiranno dagli elementi più padroneggiati, che saranno già differenti, per specificare gradualmente i caratteri ancora ignoti. Questa gradualità, però, che si mantiene quale che sia il livello di approfondimento e dunque il target del dizionario, deve essere una condizione maggiormente rigida, poiché spesso viene violata con notevole leggerezza, producendo definizioni poco agevoli da comprendere, per non dire proprio oscure, in molti casi.

In prima posizione, nei dizionari, con le solite allunganti abbreviazioni, viene posta l’etimologia, che però, nel caso non costituisca un’efficace pre-definizione, una focalizzazione del campo e dunque una pre-scrematura di elementi, è qualcosa di pesante, poco illuminante, se non addirittura fuorviante. Io non ho bisogno, per capire la seguente definizione, che cercine in latino si diceva circinus, che significava compasso oppure cerchio, il quale a sua volta deriva da circus ovvero circonferenza: tutto questo non è che un allargamento del campo, utile solo su richiesta e comunque padroneggiabile solo allorché si abbia già chiaro che cosa sia un cercine. Dunque l’etimologia andrebbe tutt’al più posta alla fine, non all’inizio.
Questa prospettiva storica, questo ponte con l’antichità implica l’esigenza di fornire una descrizione di un fenomeno molto più complesso, ovvero una tradizione ed un trasformismo, messi a confronto, la quale esula dagli interessi di chi vuole semplicemente avere a che fare coi cercini nell’epoca attuale. Se i cercini sono cosa che non esiste più ma è tuttavia collegata con cose che esistono ancora, ecco che l’esigenza etimologica si presenta ugualmente. Tuttavia non è questo il caso. Quando pongo una etimologia fornisco un rapporto col passato: ed in questo caso dico che il circinus dei romani è lo stesso cercine che abbiamo oggi. Eppure i due termini non sono uguali e la cosa non è mai priva d’insidie. Possiamo certo assecondare un processo automatico della nostra mente che è quello di identificare le cose simili. Tuttavia, questo non può essere fatto in maniera diretta, ma tramite l’equiparazione di ciascun termine con un termine medio.

Per arrivare a dir che X = Y si deve prima dire che X = A e che anche Y = A

Se noi dunque vogliamo dare una definizione storica, visto che abbiamo preso in mano l’etimologia, possiamo riformularla in questo modo…

Il cercine è un panno ravvolto in forma di cerchio che si mette sul capo per sostenere pesi. (La parola cercine deriva dal latino circinus, ovvero compasso, cerchio). Il circinus era un panno ravvolto in forma di cerchio che si metteva sul capo per sostenere pesi.

Il fatto è che dal sistema X = A e Y = A non si potrà mai dedurre che X = Y se non li si sovrappone direttamente, fisicamente, mutando la X in una Y, perché comunque soltanto i secondi termini delle due uguaglianze sono davvero sovrapponibili in quanto identici. Questa operazione di assimilazione è arbitraria, istintiva, prepotente, ed in fondo scorretta, poiché mai al mondo due oggetti qualsiasi possono essere considerati uguali, altrimenti sarebbero un oggetto solo.
Ma noi siamo necessitati a farci strada nella vita equiparando oggetti diversi.

Nell’ultima definizione che abbiamo dato, la frase incidentale al centro è totalmente astraibile dalla definizione senza che ne muti la sostanza. Tuttavia abbiamo fornito e posto l’una di fianco all’altra le due definizioni identiche dei due differenti termini cercine e circinus: ore le abbiamo entrambe più chiare e siamo più facilitati a sovrapporle sino a farle diventare una sola. Per farlo, la definizione va arricchita nel seguente modo…

Il cercine è un panno ravvolto in forma di cerchio che si mette sul capo per sostenere pesi. Il circinus era un panno ravvolto in forma di cerchio che si metteva sul capo per sostenere pesi. Il circinus ha cambiato nome, ora si chiama cercine, ma è ancora la stessa cosa.

Se l’ultima frase noi non la scriviamo, la compie comunque la nostra mente, sicché conviene facilitarla scrivendola papale papale.

Essendo comparato il presente al passato, è inevitabile che i tempi verbali siano differenti, poiché noi dobbiamo infatti dire che cosa è rimasto uguale e cosa invece è cambiato per il semplice fatto che parliamo di due epoche diverse. Se noi partiamo definendo la nozione antica di circinus e vogliamo dire che oggi è la stessa cosa, prima dobbiamo visualizzare un antico romano nel contesto dell’antica Roma con in testa il circinus e poi lasciar sospeso in aria questo panno ravvolto, far sparire mentalmente il romano con la sua crapa e la sua Roma e sostituire il temporaneo vuoto con un uomo odierno posto nel contesto odierno, che porta lo stesso copricapo con un altro nome. Oppure dobbiamo fare esattamente l’opposto.


La fiamma artistica


Le porte di Parigi è il pezzo più toccante del Notre Dame anche per la scenografia in cui compaiono dei fuochi. La scenografia materiale di Giulietta & Romeo invece è scarna ed il resto è una proiezione sullo sfondo. Non è certamente altrettanto efficace. Piazza un fuoco da qualche parte ed otterrai un effetto magico. Il fuoco è il simbolo più potente dell’umanità sin dalla preistoria. Il fuoco magnetizza gli sguardi, più di una bella donna. La donna può suscitare il fuoco della passione, il fuoco della gelosia, tutte metafore del fuoco vero. Il fuoco è storicamente colui che ci ha salvato dal buio della notte, dal freddo, dalla cattiva alimentazione, cuoce la carne, uccide i germi, cauterizza una ferita, è fuoco purificatore. Certi ricordi sono ancora presenti nel nostro codice genetico, sicché ogni stilla di fiamma ha questo potere ipnotico.

Scena teatrale, da questo monologo alla mia destra, con schiocco delle dita erompe una fiamma. Il pubblico reagisce, ne è rapito, sicché io proseguo…

Fa paura, vero? Però è bello…voi ascoltate me, ma guardate lui, perché lui vi parla in maniera più intima, vi parla delle vostre origini e vi ricorda che non sareste nulla senza di lui…

La fiamma si alza minacciosa fino a lambire le quinte

che potrebbe distruggervi se solo volesse

Adesso la fiamma si riduce ad una candela

Non importa quanto la fiamma sia piccola, questo è il suo potere

Si spegne del tutto e siamo nel buio

Potrebbe essere…una lucciola!

La lucciola appare sullo sfondo nero e comincia a muoversi, la gente la segue

Lei vagola nel buio, non potete ignorarla perché solo lei può indicarvi una via

La lucciola sparisce – pausa – si accende una lanterna nella mia mano

Sicché noi pigliamo lucciole per lanterne, quando

La lanterna si spegne

Non ci sono lanterne

La riaccendo ruotando un pomello, ora la regge un supporto.

… … … … … … … … …

Se il fuoco si arrabbia può dunque uccidervi come…l’Oceano.

L’acqua fu meno mitica poiché era facile attingerne, mentre il fuoco dovette rubarlo Prometeo agli dei, poiché nessuno sapeva accenderlo. Poi la terra, la Madre Terra e l’Aria. La prime divinità furono personalizzazioni degli elementi naturali. Un’opera d’arte che voglia essere efficace deve pertanto partire dalle basi e la loro realtà si deve sentire il più chiaramente possibile, quale primo elemento che scuote l’uomo nei suoi interessi più profondi. Su questa base si possono innestare vicissitudini che investono elementi gradualmente meno vitali, ma che dell’esistenza completano il quadro, massimizzandone l’impatto.  

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