Frammentario
artistico fondamentale
Ogni opera
d’arte, di qualsiasi genere, potrebbe essere trasformata e
migliorata scientificamente, fino a diventare meravigliosa. A
partire da una potrebbero prodursene tante. È alquanto plausibile
che la produzione di molte grandi opere vincenti sia stata di fatto
almeno in larga misura scientifica: altro che “ispirazione
geniale”, e che in altre opere che sono risultate alla fine meno
efficaci abbia fatto difetto proprio la scientificità del lavoro; al
massimo ad una idea presentatasi per caso si è lavorato
metodicamente, sebbene io credo che ci sia – e se ancora non c’è
bisogna trovarlo – un metodo per farsi venire le idee stesse,
creare le condizioni che provocano le ispirazioni, anziché
aspettarle - quando potrebbero non arrivare mai, o anche solo acuire
la sensibilità per gli elementi esteriori ed interiori che
solitamente le provocano, o la capacità di distinguerli dal
superfluo in cui sono immersi nella vita quotidiana. Ma la
scientificità è divenire metodico e consapevole, e già lo osservò
Nietzsche, che ovunque si mostra il divenire di qualcosa, ne
risentono la sua brillantezza e l’ammirazione del pubblico: questa
presuppone lo stupore, il non capire come sia stato possibile creare
quella cosa, il prenderla come data, finita, come apparsa dal nulla,
il non visualizzarne la nascita ed i passaggi intermedi, il vederla
come un’anomalia, una folgorazione, una genialata. Se si parte dal
punto A e la soluzione è il punto D, e in mezzo ci sono i punti
intermedi B e C, si disse, <<il genio è la capacità di
giungere da A a D senza passare per B e C.>> Noi ci chiederemo
come mai sia possibile. Se si trattasse di un di un labirinto di cui
si deve trovare l’uscita, la “genialità” corrisponderebbe alla
scoperta di un sottopassaggio, o di una via laterale o aerea che
consente di evitare i tortuosi passaggi intermedi. Forse se
scoprissimo questa botola, e magari anche il modo casuale con cui è
stata trovata, smetteremmo di ammirare il genio. Forse ammireremmo di
più la forza che ha consentito all’uomo normale di entrare nel
labirinto e vincendo ogni resistenza giungere dall’altra parte. Poi
mostra anche l’origine e lo sviluppo di questa forza, se
davvero è tale, e sparirà anche questa ammirazione, fino a
che non ammireremo più nulla. Concedo però che molto spesso,
soprattutto nella filosofia, si possano trovare delle botole che
conducono alla soluzione di un problema per una via più semplice che
non quella che appare necessario affrontare, o che molti si possano
aggirare eternamente per il labirinto in questione, ritornando sui
propri passi e perdendo l’orientamento, e magari un’uscita non
c’è nemmeno. Una grande benedizione della logica è che una
proposizione può essere dedotta non solo da un’altra, ma da molte
altre, che ci si possa arrivare da molti punti e dunque non è
necessario che tutti abbiano le stesse conoscenze [quindi lo stesso
insieme di proposizioni], per risolvere un problema, il che poi è il
motivo per cui le scienze si trovano spesso a confermarsi a vicenda,
partendo ognuna da assunti differenti e proseguendo con il proprio
metodo, eventualmente inconsapevole del contemporaneo lavoro
dell’altra. Nella Volontà nella Natura Schopenhauer fu
lieto delle conferme che le scienze naturali sembrarono dare alle sue
teorie, che le due forze avessero scavato un tunnel dentro una
montagna partendo da direzioni opposte e si fossero trovate a metà,
stringendosi la mano. Smonta un concetto erroneo, notane
l’infondatezza o limitane la portata, e ti eviterai peregrinazioni
inutili e tormentose. Critica la ragione come provò a fare Kant e
magari ti risparmierai di favoleggiare sulla metafisica.
Ma la vera
scienza, e l’unico metodo, è di non essere mai l’uomo giusto nel
momento sbagliato, è votarsi alla creazione artistica quando la
volontà, con la giusta energia, si trovi di fronte ad una realtà da
fronteggiare, e non manchi ben la tecnica laddove si presenti
l’istinto dell’arte.
Leggiamo una
poesia e ci chiediamo di cogliere esattamente ciò che l’autore
intendeva dire. Altri sostengono invece che nella poesia
dobbiamo cogliere ciò che ognuno di noi vuole cogliere ed
evincere, o ciò che può, e che l’interpretazione del significato
è libera ed arbitraria. Che in questo modo “la facciamo nostra”.
Io avanzo l’ipotesi che esista invece una corrispondenza
biunivoca tra una realtà e la sua espressione verbale. La nostra
interiorità tradotta in un testo e con esso divenuta comunicabile.
Che esista dunque un modo sommo, l’unico modo di dire
qualcosa di preciso. Se lo dici in un altro modo, tu
dici qualcos’altro. Le tue parole corrispondono ad una realtà
diversa, o più complessa, o più semplice. La pretesa ambiziosa del
linguaggio è la sua capacità di evocare nel lettore un sentimento -
perché anche i pensieri sono vissuti come sentimenti: ed il
linguaggio vincente ed adeguato raggiunge appunto questo
scopo. Se non lo raggiunge, o si tratta di un cattivo scritto oppure
di qualcosa rispetto al quale, al lettore, manca lo sfondo
esistenziale: egli non può comprendere perché gli manca
l’esperienza. In questi due casi il testo è criptico. Ma nello
stato d’animo adeguato ad apprezzare la poesia, ovvero quello che
conosce già per esperienza il contenuto ed è pronto a riceverne
un’evocazione fulminea, esiste appunto una dicitura ideale e sola.
Tutto il soggettivo è un’aggiunta richiesta dall’esigenza di
creare una conoscenza mancante o quello stato d’animo recettivo al
materiale. Soltanto i concetti generali si possono prestare a più
interpretazioni, appunto perché gli mancano le determinazioni: versi
che contengono parole astratte sono appunto imprecisi, e queste
vengono tradotte in qualcosa di preciso da ogni lettore,
riconducendosi alla sua esperienza e con la sua fantasia. Non si
lamentino gli scrittori che vengono fraintesi sul significato
originario delle proprie espressioni, se hanno usato solo espressioni
astratte: perché ognuno le concretizza a modo suo,
necessariamente, se non conosce la biografia dell’autore. Il
momento in cui gustiamo la poesia è la concretizzazione, questo
è il momento toccante. Il gusto delle massime generali è
invece il gusto del possesso, dell’onnicomprensivo.
Sono un fautore
della continuità tra prosa e poesia: la differenza sta
fondamentalmente nella divisione in versi, perché tutto il resto,
l’utilizzo del lessico, le figure, la sintassi, deve appartenere ad
entrambe perché c’è un unico modo di dire perfettamente qualcosa.
Una poesia poco chiara è mediocre. Una prosa pesante è mediocre.
Per ogni contenuto si rivela ideale un determinato compromesso tra
poesia e prosa.
Quando ti
allontani dalla consapevolezza nella quale hai scritto un testo, e lo
rileggi, tutto sembra meno liquido, sembra procedere a scatti e
mancare un sottofondo che renda vivido e scorrevole il tutto, più
completo e comprensibile, una prosodia più trascinante ed
avvolgente, intensa. Mancano parole, manca uno stile che ricrei
quello che c’era in origine: il sottofondo empirico del testo. Ma
ogni individuo necessiterebbe allora di introduzioni proprie, e si
dovrebbero scrivere tanti testi sulla medesima questione, quanti sono
gli stati d’animo dei tanti lettori: per cui si richiede che siano
loro ad adeguarsi al testo, a trovare il contesto che manca,
non viceversa. Del resto ogni volta che invece abbiamo tutte le carte
in regola per comprendere appieno il testo nella sua versione più
scarna ed essenziale, quel sovrappiù ci appesantisce, frena ed
annoia.
Il poeta
intuisce ed enuncia in un afflato ciò che lo scienziato, freddo,
determina. Ma lo scienziato dell’anima deve essere il poeta. Nessun
letterato può fare grande letteratura senza possedere con fermezza
nozioni chiare ed esatte circa il materiale di cui parla.
Esempio della
frase di Ungaretti [La Pietà 1928]
La carne si
ricorda appena
Che una volta
fu forte
Se l’autore
non lasciasse credere di aver compreso che è il corpo a ricordare,
se non possedesse quindi questa scienza del pensiero e del
sentimento, tali versi non potrebbero essere apprezzati.
La vera poesia è
sangue che diventa inchiostro. Ma l’inchiostro rischia di diventare
sangue.
La letteratura è
dapprima arte della caccia e poi arte culinaria.
Estetica
come fisiologia del contatto con oggetti esterni.
La letteratura deve dire cose
che non si possono vedere, sentire, toccare, odorare, gustare. Sotto
tutti questi piani essa è infatti inferiore alle altre arti, ne è
un surrogato sbiadito, impoverito, impuro, distorto, debole,
inefficace. La letteratura opera con i concetti. I concetti sono i
simboli delle percezioni. Il singolo concetto, come potere impressivo
ed evocativo, è sempre inferiore al suo corrispettivo empirico, che
viene reso in maniera assai più vicina al vero dalla pittura o dalla
musica. La peculiarità della letteratura è quella di poter
giustapporre, sovrapporre o mescolare, una serie di dati
empirici anche disparati fornendone un ibrido assai particolare. Ma i
singoli elementi percettivi sono stati raccolti il più delle volte
separatamente oppure già come ibridi più semplici: ad esempio un
umore di tristezza dinanzi ad un paesaggio naturale radioso e
lussureggiante. Tutte le arti, se sfruttate sino ai limiti intrinseci
delle loro possibilità espressive, hanno un potere sintetico.
Ma la sintesi è sempre un impoverimento della realtà, così
come è inevitabile che, osservando il mondo da una mongolfiera in
ascensione, la nostra visuale perda sempre di più il contatto con i
particolari man mano che saliamo. La sintesi è nata dalla necessità
di vedere tutto subito, tutto insieme. Ma chi ha determinato questa
necessità? La fretta e la complicatezza disorganizzata del mondo
moderno hanno condizionato anche l’arte.
La poesia
è una forma letteraria che si avvale dell’aspetto pittorico nella
disposizione del testo, e dell’aspetto musicale nella ritmica e nel
suono. Quanto al contenuto concettuale, essa non può che presentare
oggetti belli da vedere o piacevoli agli altri sensi. Ci si può
riferire alla poesia come ad una composizione di parole ricamate o
parole tempestose, perché appunto deve rendere in parole la bellezza
di un ricamo o di una tempesta, o di quant’altro ha un effetto
estetico potente in natura. Se voglio essere semplice ed efficace
dunque devo usare la parola ricamo e la parola tempesta,
o qualcosa che in modo ben verosimile mi dia la sensazione tratta
dalla visione originale. In questo caso, definendo la poesia
composizione ricamata o composizione tempestosa, ho
creato un oggetto nuovo che potrebbe essere bello alla vista, ovvero
un ricamo fatto di parole, o una tempesta fatta di parole, e
rappresentando questo oggetto in parole ho scritto una nuova
poesia: quell’espressione era dunque autoreferenziale. Infatti dire
parole tenui è pleonastico, dacché se dico tenue mi
riferisco già all’effetto che ha avuto su di me l’oggetto che
poi ho chiamato tenue, ad esempio un muro beige o la luce in una
stanza.
Possiamo gustare
una soggettiva del personaggio qualora il personaggio sappia
restare ben nascosto ed i nostri occhi davvero sostituirsi ai suoi.
Ma se il personaggio per sbaglio entra nel campo visivo, abbiamo ora
una pseudo soggettiva, in cui vediamo come nella vita un
paesaggio ed i compagni che assieme a noi lo vedono, dal che scatta
un confronto tra impressioni e atteggiamenti e l’effetto estetico è
plurimo, in quanto può stridere, infastidendoci, aumentare la
sensazione di potenza, essendo le loro reazioni identiche alle
nostre, confermandoci, oppure può disgustarci, invaderci,
divertirci, stupefarci, farci restare ammirati, e in generale
un’immagine può prevalere sulle altre: quella del personaggio,
quella del paesaggio, o quella del rapporto tra i due, tutti
confrontati con la nostra soggettività.
Immaginiamo una
soggettiva di un personaggio che corre in un sentiero dissestato in
mezzo alle foreste, che potrebbe essere un soldato. Quello che vede
lui lo vediamo noi, quello che sente lui lo sentiamo noi, ma non
abbiamo accesso diretto alle altre sensazioni. Possiamo averne però
un accesso indiretto: se il soldato ansima, noi possiamo evocare la
fatica associando l’effetto, già sperimentato, alla causa. Se urla
possiamo percepire in maniera mnemonica e dunque attutita il dolore.
A ciò che non è direttamente percepibile occorre fornire un accesso
associativo.
L’emblema
è un oggetto particolare talmente potente e pregno da contenere in
sé tutti gli altri oggetti simili e dunque capace di rappresentare
un concetto generale.
I concetti
generali possono presentarsi in poesia come in prosa. Essi
espandono la visuale e catturano una realtà più grande, ma in
poesia come in prosa essi hanno efficacia solo qualora si appoggino
sugli esempi particolari. In numero plurale, qualora deboli. In
numero singolare, qualora si tratti di un esempio molto forte ovvero
emblematico, che in tal caso addirittura sostituisce il
concetto poiché nulla resta a quest’ultimo da esprimere che non
fosse già intrinseco al nostro esempio.
L’analogia
paragona il rapporto tra due elementi di una realtà, al rapporto tra
due elementi di un’altra realtà. L’astrazione raccoglie
in un concetto generale la totalità di questi rapporti analoghi.
Le parole
hanno un campo semantico, ovvero una modificazione del significato in
funzione del contesto. Quando leggiamo tale parola all’interno di
un contesto, il suo significato dominante sarà quello determinato da
tal contesto, ma gli altri significati danzeranno intorno a quello
principale tentando anche di intriderlo e trasfonderlo. Voglio
chiamarlo fenomeno dell’aura semantica.
Le abbreviazioni
allungano. Esse sono una becera trappola. Mettendo delle
abbreviazioni uno fa solo un poco di fatica in meno a scrivere e
molta più fatica a leggere. Il modo migliore che ha un segno di
rappresentare un oggetto è di somigliargli il più possibile. Più
il segno è distante dall’oggetto, più dobbiamo lavorare con la
mente per completarlo o per trasformarlo.
Le
semplificazioni complicano. Una cosa è semplificare quello
che è indebitamente complesso, togliere dunque il superfluo e il non
attinente. Altra è pretendere di migliorare un prodotto sottraendone
elementi essenziali o modificandone arbitrariamente la struttura.
Quando un prodotto è perfetto, non vi sono elementi inessenziali e
la precisa struttura fa parte della sua essenza.
Essenza
significa infatti identità. Da essa dipende la funzione.
Se togli anche
solo qualcosa non è più lo stesso prodotto.
I saggi di
estetica sono le opere stesse, e qualsiasi estensione teorica,
motivata dal fatto che non abbiamo sotto gli occhi il corrispettivo
pratico appartenente ad un'altra branca, o non abbiamo il modo di
studiarlo subito, corrisponde al tentativo di gettare una rete su un
insieme di fenomeni e raccoglierli a noi affinché non scappino. Essa
va sempre costruita sull’esempio e intorno all’esempio, sulla
singola riuscita creazione senza la quale non esiste astrazione.
Le analogie
servono a chi si occupa della generalità delle cose e dunque del
rapporto tra serie di oggetti, e di queste ultime deve cogliere
dunque solo la struttura e non i particolari. Ma allo specialista di
un’area concettuale l’analogia è incomprensibile. Infatti per
capirla egli dovrebbe conoscere sia la prima sia la seconda, come le
due sponde tra le quali si getta un ponte. È ovvio che non si possa
gettare un ponte se si possiede una sola sponda. Questo tentativo
lascia il nostro ponte sospeso nel vuoto, nel quale esso cade
inesorabile poiché privo di sostegni sufficienti. Pertanto ogni
disciplina deve essere imparata nei termini della disciplina stessa,
non potendosi puntellare con sicurezza su altri campi semantici, ad
eccezione di quei fenomeni che tutti conoscono e dunque possono
essere considerati metafore universali, come ad esempio questa del
ponte. Ma il parlare allegorico odora di esoterismo e quest’ultimo
è sempre passibile di sospetto: perché mi parli in codice? E se
invece la tua allegoria vuol avere un potere comunicativo maggiore,
hai verificato che ce l’abbia? Un fenomeno naturale può essere
emblematico poiché dal grande impatto sensoriale, ma appunto
l’esempio partecipa della regola, non è qualcosa di estraneo ad
essa, e la mia metafora, cui posso aggiungerne altre, va a tessere
quel manto concettuale che tutto si uniforma in una comprensione
dell’intero ambito fenomenico che illustra quel concetto. In questo
caso l’allegoria è utile, ed è una roba da filosofi. Ma
altrimenti è un complicarsi la vita. Un dover illustrare un fenomeno
sconosciuto tramite un altro che eventualmente si conosce ancora
meno, sicché uno deve scervellarsi due volte perché il codice
risulta ancora più oscuro dell’originale. Ammesso poi che il
rapporto analogico sia reale e preciso, e che non ci si imbatta in
metafore forzate e tirate per i capelli, e che uno non si metta a
tradurre termini tra due lingue nessuna delle quali padroneggia fino
in fondo. Che l’allegoria non costituisca inoltre un velame volto a
coprire la banalità di un concetto che, espresso chiaramente,
sarebbe stato comprensibilissimo ed anche poco interessante, mentre
con la veste allegorica passa per profondo.
Una poesia
difficile da memorizzare è difettosa. Se tu hai dato ad essa una
unità tematica, uno svolgimento logico ed una musicalità, un verso
richiama l’altro. È come un fiume a cui è stato scavato un letto
perfetto: l’acqua che parte dalla sorgente o vi cade in un punto
qualsiasi, arriverà alla foce ed attraverso quel preciso percorso,
laddove esso sia privo di sacche di ristagno, ambigue biforcazioni,
falle di dispersione laterali o cunicoli sotterranei oscuri e senza
uscita.
Esiste una
leggerezza che riguarda i contenuti ed altra che riguarda la forma.
La banalità
è leggera perché parla di argomenti senza peso e difficoltà. Lo
stile rende leggeri i contenuti in sé più ponderosi e
difficili, e trasfonde il tagliente in sollazzevole. Nella
letteratura le cose stanno semplicemente nel seguente modo. È
preciso onere dello scrittore aver sostenuto e scandagliato un
territorio che altri non aveva forze o strumenti per indagare
autonomamente. È preciso onere dello scrittore presentarlo in modo
piacevole, senza che il lettore debba leggere con la stessa fatica
che ha compiuto lui a scrivere. Quest’ultima può essere stata
temperata in lui dal metodo ma, che lo sia stata o meno, non se ne
deve avvertire il lezzo in fase di lettura, e nemmeno un residuo di
terreno non dissodato deve essere lasciato sulle spalle del lettore
per quella che evidentemente è stata una pigrizia o incapacità
dello scrittore. Se uno il lavoro se lo deve alla fine fare da solo
non è giusto che spenda soldi. Un libro deve avere le Risposte e
devono suonare come un usignolo che intona la nostra canzone
preferita. I libri che si leggono tutto d’un fiato e si rileggono
con piacere sono gli unici meritevoli del nostro tempo. Questi sono i
libri che probabilmente hanno richiesto la maggior mole di lavoro,
come imperiose cattedrali infine mostrate a migliaia di occhi entro
cui si imprimono luminosi e duraturi, il cui peso non li schiaccia
invero adesso ma li sostiene, la cui potenza si travasa in
loro e dal nucleo erompe all’esterno con fiducia. Dopo ogni lettura
devi sentirti potenziato, non stracciato. Te ne devi uscire di casa
che ti senti un eroe dei fumetti ed è come se ogni realtà potesse
essere plasmata e dominata, ti senti uno stratega sul liscio binario
di un treno futuristico, che guarda fuori quieto perché una meta gli
sorride argentina.
Se questo è il
dovere degli scrittori, diciamo adesso dove si fermano i diritti del
lettore. Se un uomo ha scritto mille pagine cristalline senza ombra
di prolissità e nelle quali ogni singola parola è insostituibile ed
è parte dell’essenza del messaggio, egli lettore ha il dovere di
leggere il libro da cima a fondo con quella quantità di impegno che
non può essere sostituita dal lavoro dello scrittore, e non si può
permettere frasi del tipo: Fammi un riassunto di quello che dice.
In parole povere. In sostanza. Questa frase è una mancanza di
rispetto, chi la pronuncia è sicuramente un cialtrone che non merita
le nostre opere, in quanto non fa la sua parte laddove noi abbiamo
fatto la nostra.
Un libro che
deve essere studiato è mal scritto.
Se è ben
scritto, basta leggerlo.
Tra alcuni
musicisti vi è uno snobismo che tradisce la consapevolezza di un
fallimento e la vuole meschinamente occultare. Un musicista può
giustamente snobbare il giudizio di una persona di cattivo o basso
gusto. Ma non può nascondersi, allorché le sue opere non piacciano,
nella ridicola scusa che le sue composizioni siano rivolte a
musicisti. Ed essi non vogliono dire esplicitamente intenditori,
ma proprio professionisti: lasciando invero implicito
che solo chi suona e compone possa intendersi di musica e avere buon
gusto. Il proverbio è…
Non devi
essere una gallina per dire che un uovo non è tondo. Ma il
genere di composizioni che sogliono rifugiarsi nell’elitarismo
professionale, dinanzi alla fredda reazione di un pubblico composto
non da cialtroni ma da persone sensibili e dunque con le carte in
regola per apprezzare anche le cose più complesse, nella genialità
per pochi (in realtà meschini venditori di poco per molto e
non-intenditori di buona musica): tali opere sono spesso di quel
genere cervellotico, macchinoso, strampalato, arzigogolato, informe,
spento, a-tematico, a-tonale, a-bulico, a-settico, vacuo che
pervadono il mercato musicale e pretendono immeritati allori.
Sul
valore dell’ordine
Mettere ordine
in casa è un’esperienza più istruttiva che non leggere la Critica
del Giudizio di Kant. L’esperienza si divide in etica ed
estetica: nella prima il nostro corpo espelle materiale, nella
seconda lo ingerisce. Mettere ordine e pulizia all’interno
dell’ambiente in cui si vive è un’esperienza etica ed estetica
contemporaneamente. Infatti il nostro corpo espelle materiale tramite
il movimento, ed il cervello si sgruma e sgranchisce, rendendosi
prestante al suo fine, ovvero coordinare i movimenti del corpo. Nello
stesso tempo rendiamo l’ambiente circostante più bello, ovvero
atto alla risanazione del nostro corpo tramite un contatto benefico:
si realizza ora una immedesimazione che è invero
un’estensione dell’Io. Quando due oggetti entrano in
contatto divengono un oggetto solo, entro le cui parti avviene una
sorta di fenomeno osmotico: essi s’influenzano nel bene e nel male,
con la loro pulizia e la loro sporcizia, con il loro ordine ed il
loro disordine. La letteratura è un surrogato per una azione o
contemplazione a cui non abbiamo accesso. Se ci mettiamo seduti ad un
tavolo a scrivere anziché agire nel mondo reale per la risoluzione
dei nostri problemi, il nostro istinto risanatore influenzerà la
nostra mano a descrivere azioni di cui avremmo bisogno e che non
stiamo compiendo: ne riceviamo una sorta di sgrossatura interiore del
ceppo del male, un appagamento mentale ed attutito, che lascia nel
fondo un languore enorme ed un vuoto opprimente, giacché non
sappiamo se le nostre forze residue e quella chiarezza mentale che
abbiamo ottenuto saranno sufficienti ad eseguire quello che abbiamo
ipotizzato. Se invece ci mettiamo a scrivere quando la casa è
disordinata o sporca, il nostro istinto risanatore porterà la nostra
mano a descrivere le azioni di pulitura e ordinamento che di fatto
non stiamo compiendo, o fantasticherà di un ambiente già pulito nel
quale ci vorremmo trovare. La stessa cosa avviene se scriviamo in un
ambiente naturale poco propizio alla scrittura, ad esempio una
scomoda panchina, un parco gradevole alla vista ma nel quale siamo
disturbati da insetti o dal vento, da un vociare di bambini o da un
piovigginare improvviso. Filosofeggeremo in versi in maniera critica,
consolatoria, astratta, violenta o ironica contro gli elementi di
fastidio. Esiste infatti, in questa come in tutte le cose, una
gerarchia. La positività dell’ambiente fisico è la base su cui
innestare i fronzoli letterari, le decorazioni del pensiero; allo
stesso modo che la salute del corpo è la base per ogni altro
ottenimento. Che ai geni piaccia vivere nel caos è una sciocchezza,
poiché ogni intelligenza tende alla pulizia e all’ordine: la sua è
una teleologia intrinseca. Il prendere presto buone abitudini al
riguardo è un gran segno di intelligenza, nonché un pilastro
dell’educazione.
Solitamente i
libri sono molto più interessanti come oggetti che non per quello
che c’è scritto.
Esempio di poesia ambigua ed autoreferenziale
Carducci, a un poeta di montagna
(prima strofa)
Nascesti dentro d’un secchion da
latte,
E a scrivere imparasti in una botte,
Accordando le rime irte ed astratte
A lo scoppiar de
le castagne cotte
Il significato
potrebbe essere una critica al detto poeta di montagna, che non ha il
diritto di parlare di cose spiritualmente elevate (le rime irte ed
astratte), di cui si occupa la poesia, quando è di umili origini e
conosce solo ambienti paesani e quello stile di vita grezzo e
frugale. Oppure il significato è qualcosa di opposto, trattasi di un
elogio del poeta montanaro che è riuscito ad astrarre
concetti elevati e sottili dall’ambiente semplice in cui viveva, o
a trovarne analogie con cose più spirituali. In tal caso anche la
concezione poetica del Carducci risulta capovolta in quanto egli
ritiene che una capacità ed un difficoltoso pregio della poesia
consistano proprio in questo. Notiamo che con entrambe le
interpretazioni, la poesia risulta autoreferenziale, in quando dà un
esempio di ciò che sta dicendo. Infatti, anche il Carducci ha
accordato rime irte ed astratte ad un secchion da latte. Sia
che si intenda la parola rime nel significato di argomenti
oppure nel significato letterale di rima. Inoltre tutta la
poesia nel suo insieme esprime un concetto irto ed una tematica
difficile, ovvero il rapporto tra concretezza e astrazione nella
poesia, o l’utilizzo dell’analogia.
Sull’anima
di De André
De André è
un’anima antica, che sembra aver attraversato i secoli cantati dai
suoi fratelli, da cui ha attinto tante ispirazioni restituendovi
infine le note della nostalgia, l’affresco appassionato di nuovi
personaggi stagliati laggiù attraverso un artista del presente, o
richiamati a noi attraverso l’analogia, la consapevolezza che,
diacronicamente, le forme e le voci cambiano, ma il dramma
esistenziale resta lo stesso. Questa è la sensibilità ottocentesca
di un uomo che ha visto il novecento. La sua visione dell’esistenza
è pessimista ma non rinunciataria, è amara ma anche ironica, è
critica ma non sprezzante, è relativizzante e incline alla ricerca,
egli è un’anima che infine perdona tutti, buoni e cattivi, nel
balsamo della compassione, nel destino comune che tutti ci lega.
Verso poi quella natura che partecipa della caducità e del dolore
umani, ha un atteggiamento di gratitudine per la sua funzione
consolatoria, che trova il suo climax nell’arte. Ciò che si
respira in tutta l’opera di De André è il contrasto di questa
vita così brutta da vivere e così bella da vedere. Egli però ama
talmente i suoi personaggi ed i loro contesti da volerli non solo
contemplare, ma entrare in loro in penetrazione, immedesimarsi per
comprenderli, riscattarli, salvarli, anche se ciò comporta il
dolore: è questo uno dei motivi per cui le sue canzoni ci sembrano
avere un tale “spessore” emotivo e concettuale, anche laddove le
storie si appoggiano su melodie semplici e arrangiamenti essenziali,
e non già solo una superficie gradevole. Il ruolo consolatorio
assunto dalla natura è esemplificato perfettamente nel Canto del
servo pastore.
Dove
fiorisce il rosmarino c’è una fontana scura
dove
cammina il mio destino c’è un filo di paura
qual
è la direzione nessuno me lo imparò
qual
è il mio vero nome ancora non lo so
Quando
la luna perde la lana e il passero la strada
quando
ogni angelo è alla catena ed ogni cane abbaia
prendi
la tua tristezza in mano e soffiala nel fiume
vesti
di foglie il tuo dolore e coprilo di piume
Sopra
ogni cisto da qui al mare c’è un po’ dei miei capelli
sopra
ogni sughera il disegno di tutti i miei coltelli
l’amore
delle case l’amore bianco vestito
io
non l’ho mai saputo e non l’ho mai tradito
Mio
padre un falco mia madre un pagliaio stanno sulla collina
i
loro occhi senza fondo seguono la mia luna
notte
notte notte sola sola come il mio fuoco
piega
la testa sul mio cuore e spegnilo poco a poco
Nel
disco Tutti morimmo a
stento compare un
affresco naturalistico dal forte potere sintetico della sua visione
della vita, dipinto tra impressionismo ed espressionismo, ovvero la
canzone Inverno.
Sale
la nebbia sui prati bianchi
come
un cipresso nei camposanti
un
campanile che non sembra vero
segna
il confine fra la terra e il cielo
Ma
tu che vai, ma tu rimani
vedrai
la neve se ne andrà domani
rifioriranno
le gioie passate
col
vento caldo di un’altra estate
Anche
la luce sembra morire
nell’ombra
incerta di un divenire
dove
anche l’alba diventa sera
e
i volti sembrano teschi di cera
Ma
tu che vai, ma tu rimani
anche
la neve morirà domani
l’amore
ancora ci passerà vicino
nella
stagione del biancospino
La
terra stanca sotto la neve
dorme
il silenzio di un sonno greve
l’inverno
raccoglie la sua fatica
di
mille secoli da un’alba antica
Ma
tu che stai, perché rimani?
un
altro inverno tornerà domani
cadrà
altra neve a consolare i campi
cadrà
altra neve sui camposanti
Gli
stessi Intermezzi
rivelano questo ibrido di pessimismo cosmico e di curiosità
imperitura, addirittura alla ricerca di fiori
d’altri mondi, di
colori che non
sappiamo…
Gli
arcobaleni d’altri mondi
hanno
colori che non so
Lungo
i ruscelli d’altri mondi
nascono
fiori che non ho
E
in tutto questo ricompare un’indomita riflessione sui temi
esistenziali, un bando alle certezze, un cambio dei punti di vista…
Sopra
le tombe d’altri mondi
nascono
fiori che non so
Ma
fra i capelli d’altri amori
muoiono
fiori che non ho
Il
tema del bello che nasce dal brutto era già stato sintetizzato dalla
chiusa di Via del Campo: dai
diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior.
Qui ricompare in un anelito a visitare l’arte aliena. Segue una
considerazione sulla limitatezza della vita umana che, come non ti
rende partecipe di quanto possiede di bello, analogamente ti preserva
da possibili tormenti che investono altri.
Poi
viene il terzo intermezzo, quello più pessimista
La
polvere, il sangue, le mosche, l’odore
per
strada e fra i campi la gente che muore
E
tu, tu la chiami guerra e non sai che cos’è
e
tu, tu la chiami guerra e non ti spieghi perché
L’autunno
negli occhi, l’estate nel cuore
la
voglia di dare, l’istinto di avere
E
tu, tu lo chiami amore e non sai che cos’è
e
tu, tu lo chiami amore e non ti spieghi perché
Qui
si respira una punta di moralismo che tenta di individuare ed accenna
una ipotesi sulle cause per cui la vita è infelice: l’egoismo,
l’ignoranza dell’uomo, la sua ambiguità incapace di risolversi,
che lo portano alle pene di guerra e d’amore, qui messe in
parallelo. L’autunno
negli occhi può
essere interpretato in vari modi. Può riferirsi ad un volto
invecchiato dietro il quale esiste ancora un cuore rigoglioso di
passioni ed esigenze. Oppure ad un occhio che ora è più maturo e
dunque dovrebbe giudicare meglio, ma ancora mantiene appunto
l’egoismo del suo cuore giovane e smanioso di vivere. Altrimenti,
l’autunno degli occhi è una nota negativa che si riferisce ad uno
sguardo reso più stanco dal tempo, più confuso ancora, nel
comprendere la strada che appagherà il suo cuore sempre ugualmente
avido. Addirittura questi occhi potrebbero essere autunnali e
destinati a degenerare ancora verso l’inverno a simboleggiare il
percorso che rende l’animo dell’uomo sempre più duro e cinico,
verso la vita e verso gli altri, dal momento che essa vita si fa
sempre più cruda e difficile, con il cuore sempre più frustrato di
quei bisogni che invero non passano mai, fino a renderci insensibili
anche alle sue piccole bellezze.
Sino
alla fine il suo canto s’apprende alla trascendenza facendoti
toccare un vivo pescatore che avanza nella sua barca di buio
chiedendosi se quella luce lontana più bassa delle stelle sarà la
stessa mano che l’accende e la spegne…e mentre snocciola il primo
verso siam rapiti come dalla candela che il vento muove…
Non
sappiamo con lui quale sia la mano che illumina le stelle, ma
l’affresco che ce ne ha dato ci fa venire voglia di cercarla senza
colpo ferire e senza tetri abbandoni…
L’arte
qui è più forte del dubbio che esprime, quello che nella vita
sarebbe qualcosa di scomodo.
Anche
l’amore di cui parla Faber è qualcosa di antico, che difficilmente
troviamo nel nostro tempo. Riesce a farti invaghire di queste
fanciulle di fantasia stagliate in quel loro mondo. Ammetto di
essermi aggirato nelle colline intorno a Brisighella cercando di
visualizzare una ragazza in veste medievale e capelli di grano.
Ma
non v’è dubbio su quale sia l’ospite d’onore della sua
galleria. Un pezzo finale gli sarà dedicato, ma non poteva fare a
meno di una introduzione. Il suo ingresso è preparato dal cupo
leitmotiv del disco, uomini e donne che dormono su una collina, ma
ecco che la musica rallenta e si fa arpeggio, la voce cambia tono:
l’anima più vicina a Faber sta per ricevere la sua
celebrazione…musica, vino, anticonformismo, occhio che sa
osservare, ridere rauco, vita piena e senza rimpianti: siamo riusciti
ad essere questo? Ave a te, suonatore Jones!
Sulla
rappresentazione dell’Ignoto
Prendiamo
ora in considerazione queste parole di René Magritte
Quando la gente cerca di trovare
significati simbolici in ciò che dipingo, cerca una situazione
confortevole, qualcosa di sicuro cui aggrapparsi, per difendersi dal
vuoto. E' anche disposta ad usare oggetti senza cercare in essi
alcuna intenzione simbolica, ma quando osserva i quadri non riesce a
sopportare di non trovare per essi alcuna utilità. Così va in cerca
di un significato che le consenta di uscire dall'incertezza, e poiché
non capisce quale sia, dovrebbe meditare quando si trova di fronte al
quadro.
L'immagine di Lautréamont, per
esempio, l'incontro casuale di un ombrello e di una macchina per
cucire su un tavolo da dissezione, potrebbe anche essere descritta,
in un certo modo di espressione, come simbolica: di disordine, dal
momento che le cose non si trovano dove dovrebbero essere; ma ciò
equivale anche a lasciarsi sfuggire la poesia e il mistero intrinseci
dell'immagine. La gente che cerca significati simbolici percepisce
senza dubbio questo mistero, ma desidera liberarsene. E' spaventata.
Chiedendo: ‘che cosa significa?' esprime il desiderio che tutto
diventi comprensibile. Quando invece non si rifiuta il mistero, si
ottiene una risposta del tutto diversa. Si chiedono altre cose. Un
poeta amico mio, per esempio, quando vide per la prima volta
L'amabile verità, disse: ‘Per un istante, fui preso dal panico’.
E' proprio questo instante di panico che ha importanza, e non una
qualsiasi spiegazione di esso. Un istante di panico è quello che mi
fa rientrare in me stesso. Questi sono gli istanti privilegiati che
trascendono la mediocrità. Ma per questo non c'è bisogno dell'arte.
Sono cose che possono capitare in qualsiasi momento.".
Commento
Non v’è nulla
in arte che sia gradevole se non si riconduce ad un aumento della
sensazione di forza e quindi di sicurezza. I film horror, i thriller,
sono emozionanti poiché v’è sempre una sorta di distacco dalla
situazione reale: non siamo noi i protagonisti che vivono quelle
esperienze angoscianti. L’angoscia che piace non è la nostra, la
paura che piace non è la nostra, il dolore che piace non è il
nostro. Questo mondo in cui viviamo è pieno di disordine, di
sensazioni sgradevoli, di errori, entro i quali noi cerchiamo la
nostra strada, la migliore condotta, la nostra sicurezza, guarigione,
salvezza, liberazione, crescita, il nostro ordine, ed una conoscenza
che non illumini chiaramente non può servire a questi
scopi. In tale mondo noi siamo anche chiamati a precise
responsabilità, compiti, necessità, siamo sommamente coinvolti, ed
anche qualora queste istanze siano eteronome e percepite come avulse
al nostro io, ai nostri valori, idee, obiettivi, sappiamo comunque
che ne abbiamo o ne avremmo di autonome, sicché la vita resta in
ogni caso un problema da risolvere. Ora, se noi amiamo rifugiarci in
un’arte che a sua volta è angosciosa, dubbiosa, inquietante,
impanicante, è perché essa non lo è realmente, a meno che non lo
sia in positivo come un sano scuotersi d’acque stagnanti, come una
scossa galvanizzante, come uno schiaffo che ci risveglia dal torpore,
cui dovrà seguire l’azione vittoriosa e risolutiva. Innanzitutto,
quest’arte ci affranca, come vuole Magritte, dal senso di
responsabilità e dalla fatica di cercare spiegazioni a cui
conseguono soluzioni. Inoltre, rappresentare il mistero significa
averlo in qualche modo svelato, o per lo meno afferrato, se non
addirittura messo nella gabbia di un dipinto pittorico, filmico,
letterario e così immobilizzato, posto sotto controllo. Ancora una
volta siamo noi i padroni, non il mistero. Oggetti eterogenei uniti
nello stesso luogo? Non vuole questa immagine imporci nuove domande e
già suggerirci risposte? Che essa sia o meno simbolica, o
emblematica di una realtà generale, essa d’una realtà ci parla,
in quanto l’ha afferrata meglio di noi e fotografata. Che il
lettore s’accontenti della superficie di questa immagine, senza
sprofondare arditamente in ciò che essa implica, questa
potrebbe essere pigrizia, incapacità, pura assenza di bisogno,
sicché di nuovo egli si trova appagato e non certo afflitto da dubbi
o minacce alcuni. La commistione di oggetti eterogenei potrebbe voler
dire: chi è la causa di questo caos, sia esso materiale o
spirituale? O ancora: siamo sicuri che ciò che sembra stridere per
natura non lo faccia soltanto in virtù delle nostre abitudini e
pregiudizi? E qual è l’origine di tali abitudini e pregiudizi?
Siamo sicuri che quegli oggetti non abbiano invero delle relazioni
reali o potenziali? Che cosa la realtà nasconde dietro la nostra
miopia? E come potremmo noi stessi modificarla? Che quegli oggetti
non possano avere nuove relazioni artistiche, come appunto alcune il
pittore ne ha fornite? Che non si possa entrare in questi oggetti per
scoprirne trascurati segreti? Quante micrologie e macrologie ci sono
ancora inaccessibili? Che quest’oggetto ingrandito in modo
apparentemente casuale non avesse invero volontà e ragioni, forza e
possibilità per diventare più grande? E quell’altro invece di
rimpicciolirsi? E questo di uscire da quello, quello entrare in
quell’altro? Gli oggetti cambiar forma, colore, materiale,
avvicinarsi come mai hanno fatto, allontanarsi come nessuno ha mai
pensato che potessero, sovrapporsi o invertirsi ruoli e fattezze?
Come vediamo, è ancora una espansione della conoscenza e con essa
della possibilità d’azione ad affascinarci, deliziarci: un
avvicinamento alla nostra sicurezza, che giammai può corrispondere
né sorgere, per definizione, dal dubbio, dall’ignoto.
La
condizione umana di René Magritte
Possibile interpretazione
Ad un primo impatto veniamo
colti dall’illusione ottica di un muro incompleto, per poi renderci
conto che si tratta di un quadro che ritrae lo sfondo naturalistico,
che si trova dietro la porta ad arco. Una prima superficiale lettura
sarebbe quindi questa: siamo condizionati, nella visione della
realtà, da pregiudizi e convinzioni che ci portano fuori strada. Se
ci facciamo caso il paesaggio dipinto nel quadro ha esattamente la
stessa larghezza della porta, ed è soltanto spostato verso destra
poiché ritratto da un differente punto di vista, quello del pittore:
anche l’estensione del paesaggio ad opera del quadro è quindi
un’illusione nella quale cadiamo per superficialità. Ma si può
portare avanti questa linea ermeneutica che accetta il quadro
(l’arte) come elemento che possiede la capacità di estendere il
paesaggio retrostante oltre la visione consentita dal muro della
casa. La casa potrebbe essere dunque vista come simbolo del sistema,
delle convenzioni, delle regole, del materialismo: cosa c’è di più
duramente e cinicamente materialistico, che nello stesso tempo
esprime la rigidità di alcune regole, dell’immagine di una casa in
costruzione? La casa tuttavia è una figura ambigua in questo quadro,
in quanto non ci sono elementi sufficienti per affermare che ci sia
una contrapposizione tra essa (e ciò che rappresenta) ed il
paesaggio esterno. Sono entrambi raffigurati in termini miti, tenui e
minimalisti. Sembra esserci, anzi, non già un contrasto, ma una
continuità, anche perché il paesaggio esterno sembra facilmente
accessibile: attraverso una porta che non presenta inferriate o fili
spinati, ma neppure un’anta da aprire. Possiamo dunque uscire
quando vogliamo. Il cavalletto del pittore è un elemento
significativo in quanto non sembra un normale cavalletto, è più
robusto e somiglia alle impalcature e alle casseforme in legno
tipiche delle case in costruzione: in altri quadri simili Magritte
presenta cavalletti più esili ed eleganti. Questo potrebbe
significare che l’arte poggia sulle stesse fondamenta del rigido e
duro lavoro della società materialista: ma le consente anche di
vedere più lontano espandendo la visuale, o addirittura di far
vedere l’impossibile come fosse possibile [si vedano a questo
proposito i disegni di Escher] - o di portare dentro la casa un
frammento della bellezza che c’è fuori. Ma ripeto che la
contrapposizione tra dentro e fuori non è molto palese in questo
dipinto. Resta da interpretare il pallone nero. In un primo momento
mi ha fatto pensare ad un riempitivo, e nero per fare contrasto
cromatico con il resto del quadro, piuttosto monotono, o per inserire
il classico elemento surreale, inquietante, ignoto, fuori contesto.
Ma ho pensato che il pallone è il simbolo del gioco dei bambini, ed
in questo caso è nero a rappresentare l’effetto mortifico o
colpevolizzante che la società, la “casa”, ha su questa funzione
vitale. A quanto pare nemmeno l’arte può riscattare il gioco del
bambino, restituirgli l’innocenza e la libertà, perché il pallone
nero si trova completamente fuori dal quadro: l’arte non è infatti
un gioco, ma una cosa seria ed un business. Il pallone, come il
quadro, è ancora dentro la casa, e sembra guardare fuori senza
potervi andare, gravato dalla pesantezza di una colpa. Se l’autore
avesse voluto ascrivere all’arte anche quel potere, avrebbe forse
inserito un altro pallone, giallo o rosa per esempio, all’interno
del quadro, magari più piccolo e galleggiante sul mare e quindi in
lontananza rispetto alla realtà immediata, e comunque all’interno
di quello spazio pittorico che aveva appunto esteso
tale realtà. Ma non so dire se ciò sarebbe stato di buon gusto,
probabilmente no. Il pittore non lo ha fatto e quindi mi allontano da
questa lettura. Lanciandovi ora un nuovo sguardo il quadro appare
infatti completo così, non servono altri elementi. Sarebbe una
congestione concettuale eccessiva. In arte non puoi dire troppe cose
contemporaneamente, è una regola fondamentale. Mancava proprio solo
quella palla scura, e lui l’ha piazzata. Dipinto fantastico.
Osservazioni
sulla retorica della scienza,
della
poesia, della religione.
Prendiamo ora spunto da queste parole
di John Stuart Mill
Oggetto della poesia è dichiaratamente
quello di agire sulle emozioni; in questo la poesia è
sufficientemente distinta da ciò che Wordsworth afferma essere il
suo opposto logico, e cioè non la prosa, ma il dato di fatto o
scienza. L’uno si rivolge alla credenza, l’altra ai sentimenti.
L’uno agisce per mezzo della convinzione e della persuasione,
l’altra per mezzo della commozione. L’uno agisce presentando una
proposizione all’intelletto, l’altra offrendo interessanti
oggetti di contemplazione alla sensibilità.
Commento
Sulla freddezza scientifica, sul fatto
che la scienza si rivolga al solo intelletto, ben molto resta da
dimostrare. I matematici trovano sublimemente emozionanti i loro
teoremi e le rispettive dimostrazioni, quel linguaggio percepito come
assolutamente preciso e univoco, la capacità che hanno gli strumenti
matematici di rappresentare, descrivere ed in questo modo quasi
impadronirsi dei fenomeni naturali. Un mio amico matematico affermò
che nessuna poesia o brano musicale gli avesse mai dato paragonabili
emozioni, né lo avesse mai altrettanto interessato. Quanto a fisici
e naturalisti, anch’essi si emozionano sia nell’aspetto
osservativo del lavoro, sia in quello interpretativo, l’aspetto
creativo che produce una ipotesi ed architetta esperimenti che la
possano smentire o confermare, nella ricerca causale il cui rigore
gli dona un senso inebriante di sicurezza, poiché non salta neppure
un passaggio e non trascura nemmeno un fattore, il che
rappresenterebbe un errore ed una debolezza, una lacuna nella
padronanza del fenomeno. Lo scienziato è critico nei confronti dei
letterati e dei filosofi che si appagano di quelle che secondo lui
non sono altro che definizioni imprecise o indeterminate, che possono
significare tutto e nulla ed il loro contrario, giochi di parole,
costruzioni artistiche arbitrarie, rappresentazioni selettive e
scriteriate, spiegazioni abborracciate, pregiudiziali, ipotesi non
dimostrate, forzate, impressioni fugaci, soggettive, circostanziali,
reti di congetture, insomma un regno di sogno costruito sulle nuvole
che non dà la minima sicurezza e affidabilità. Se di tali cose,
dunque, abbisogna l’uomo scienziato, essa letteratura non gli darà
neppure forti emozioni, non lo soddisferà, anzi lo lascerà
perplesso e sovente infastidito. Altrettanto falso, viceversa, è che
la letteratura parli solo al cuore e catturi attraverso la commozione
e non affatto la persuasione o la convinzione, ammettendo pure che
questi stessi termini, utilizzati sia in filosofia che nella scienza,
siano alquanto indeterminati e non si sappia a quali facoltà umane
corrispondano, se davvero sono differenti, ed in tal caso quale
rapporto abbiano. Accettando temporaneamente questa relativa
indeterminatezza, posso affermare che la letteratura di qualità, sia
nel grado prosaico che in quello più sintetico della poesia,
contiene una forza persuasiva molto alta, e non viene affatto
percepita come meno rigorosa rispetto alla scienza. Anzi, essa
risulta ancor più affascinante e trascinante poiché sfrutta lo
stupore lasciando impliciti vari passaggi, che però il poeta
ha attraversati tutti senza lacune, poiché altrimenti non sarebbe
mai giunto a quella conclusione a meno che non fosse ispirato dal
padreterno. La retorica della religione è incentrata sulla posizione
che assume il padreterno nei confronti dell’uomo. Questo pathos
della distanza risulta assai persuasivo, più che prolissi
ragionamenti di comuni mortali o risibili prove scientifiche.
Francesco De Gregori canta persino
Il verde della prateria dimostrava
in maniera lampante l’esistenza di Dio
Del dio che progetta la frontiera e
costruisce la ferrovia
Già, perché anche l’Uomo può
sentirsi talvolta un dio...
Certo che se la grandezza
dell’Onnipotente confrontata coi limiti dell’uomo non bastasse,
in un mondo che diventa sempre più illuminato e colto, si cerca di
invertire quello che in origine era un rapporto di inimicizia
completa, quello tra scienza e fede in cui la prima era proibita
dalla seconda e messa al rogo, in un accordo collaborazionista, come
prima era già avvenuto con la filosofia. Se dunque non è scontato
che le scoperte scientifiche smonteranno banalmente i precetti della
fede religiosa, ecco che si vanno a scomodare anche i filosofi e gli
scienziati, con le loro prove a sostegno di ciò che una volta non
aveva bisogno di prove. Fatto sta che a tutt’oggi, il buon Dio non
è ancora facilmente raggiungibile dalle frecce della filosofia e
della scienza. È stato colpito invero in diversi punti, ma non è
morto e nessuno è riuscito ancora a catturarlo, tirandolo giù dai
cieli, mettendolo in gabbia, denudandolo e mostrandolo per quel
ciarlatano travestito che molti scettici sospettavano Egli fosse. Se
la religione ha una sua retorica, come è certo che ce l’abbia la
poesia, essa non manca neppure alla scienza. Innanzitutto la scienza
sfrutta il pregiudizio che guarda di sghimbescio la soggettività.
Sceglie di avvalersi di strumenti che non siano il corpo umano, la
selettività dell’arbitrio all’interno dei fenomeni, e non
potendo sì astrarre dalla capacità di giudizio e dai ragionamenti
che inevitabilmente appartengono ancora all’uomo, in questo caso
allo scienziato, essa si distacca dal criticismo o dall’idealismo,
assumendo come caposaldo il principio del realismo che vede le cause
e le conseguenze nella natura e non già solo nell’intelletto
umano, crede nella validità del dato empirico e ciò che la mente
umana suppone come interconnesso, tale deve essere anche nella realtà
esterna. Anche la scienza compiva una arbitraria ed assiologica
discriminazione nell’indagine dei fenomeni, aggrappandosi
saldamente ai fenomeni naturali e misurabili con gli strumenti che si
possedevano, lasciando da parte l’Uomo. Fino a quando, con il
positivismo, essa ha preteso di estendere i propri metodi oggettivi
allo studio delle discipline umanistiche fino ad allora considerate
soggettive e non misurabili e pertanto non scientifiche. Inoltre, la
scienza si mette al sicuro dall’accusa di parzialità sancita
dall’emozione con la quale esprime quella che è comunque
una opinione. Il discorso scientifico deve essere freddo, non deve
palesare sentimenti alcuni anche qualora vi fossero sottesi. La
freddezza della scienza significa implicitamente: non son io che
dico questo, la natura stessa te lo dice, io non ho rabbia né
apprensione, né commozione, gioia, volontà, io sono un messaggero
della natura, piatto, secco e pressoché invisibile… Ben
evidente è come anche questo metodo sfrutti il pregiudizio negativo
circa la soggettività umana e se ne metta al sicuro. Il matematico,
nelle sue dimostrazioni, tende a dire tutto per evitare di sbagliare,
a costo di essere pedante. Il poeta in gamba sa invece cosa dire e
cosa tacere, in ordine allo scopo che vuole ottenere, al pubblico cui
si rivolge nella circostanza specifica. Ma egli è tenuto a sapere le
cose tale e quale ad uno scienziato, altrimenti la sua poesia risulta
debole, anche dal lato emotivo. La letteratura peraltro non è
carente di dichiarazioni stentoree, lapidarie, massimamente astratte,
sintetiche, paragonabili ad equazioni matematiche, fisiche, chimiche,
come non è vuota di argomentazioni puntigliose e ordinate. La
sintesi in poesia e filosofia avviene comunque come ultimo stadio,
dopo un vasto e ripetuto studio di fenomeni, dopo un laborioso vaglio
di ipotesi e pre-sillogismi, confronti, paragoni, esperimenti, tale e
quale ad una storica equazione scientifica o matematica. Soltanto ad
un alto livello di maturità un letterato è in grado di produrre una
massima o un aforisma su due piedi, di esprimersi sinteticamente
all’improvviso cogliendo nel segno e senza sentirsi annegare, come
fa invece colui che vuole improvvisare senza aver ordinatamente
esplorato il vasto raggio dei fenomeni, esperitone confini e
rapporti, formandosi una mappa mentale gradualmente scolpita,
scremata del superfluo e lucidata, entro la quale viaggia
frequentemente tenendone battuti i solchi e pertanto riesce ad essere
agile e brillante, adattandosi alla situazione del momento sulla
quale il suo sistema piove e calza senza stridere, allorché è stato
fondato correttamente, e gli consente di sintetizzare con ironia e
rapidità nuove osservazioni, spunti, commenti. Ogni pensiero, ogni
emozione, che riusciamo a suscitare nel prossimo, hanno come fine
implicito quello di portare ad una azione, e sappiamo che l’azione
deve essere, appunto, motivata. L’esperienza diretta può suscitare
una reazione ed ogni ragionamento serve ad identificare un soggetto
nei confronti del quale – percependone ora le caratteristiche –
dobbiamo avere tale reazione. Se il poeta descrive un’azzurra
cascata, e suscita una emozione piacevole nel lettore, quel verso di
poesia equivale all’affermazione L’azzurra cascata è bella.
La dimostrazione della veridicità di tale affermazione è l’emozione
che il lettore ha provato. Se volesse intervenire lo scienziato,
intavolerebbe una tirata del tipo L’azzurra cascata è bella in
quanto la luce deviata dalle gocce d’acqua ha tale frequenza e va a
stimolare i centri del piacere attraverso il nervo ottico; per un
effetto sinestesico legato all’esperienza precedentemente compiuta
l’azzurro biancastro della cascata provoca una sensazione tattile
di freschezza e quant’altri precisi approfondimenti biochimici
e fisici. Ma se ci pensiamo è superfluo per convincere quel lettore
che la cascata è bella ed anzi, non potranno mai sostituire la
sensazione diretta, e invano si sforzerebbero di convincerlo, qualora
la sensazione proclamasse il contrario. La spiegazione scientifica,
sempre qualora si leghi ed attinga al serbatoio della nostra memoria
di cose esperite, al di fuori del quale noi non conosciamo né
capiamo nulla, ci può far accedere a percezioni indirette e pertanto
maggiormente attutite e spente. Concludo con l’affermare che sia la
poesia che la scienza risultano davvero efficaci solo allorché
uniscano l’aspetto emotivo a quello intellettuale, poiché la
differenza è soltanto illusoria. Ciò che è piacevole è anche
convincente, ciò che è convincente è anche piacevole. Infatti, una
convinzione non è che la percezione di una forza, e la percezione
della forza aumenta soltanto qualora assorbiamo qualcosa di più sano
e pertanto più razionale.
L’estetica
ridotta all’osso
Oggettivo e soggettivo sono due modi in
cui due corpi vengono in contatto, ed è solo questa differenza
relazionale che rende quei due termini differenti, poiché altrimenti
sarebbero sinonimi. Si parla di oggetti quando gli enti che entrano
in contatto non modificano la propria struttura, mantengono integra
la propria identità e pertanto, nel caso fossero animali, non
provano sensazioni. Si parla invece di soggetti quando, nel contatto,
uno scambio ed una modificazione avvengono e pertanto gli oggetti,
qualora fossero animali, provano delle sensazioni.
Alla luce di
questa concezione posso dichiarare che la bellezza e la bruttezza
sono soggettive, mentre la perfezione è oggettiva. Le prime sono
soggettive poiché sono le sensazioni che si attivano in due oggetti
che entrano in contatto innescando uno scambio di sostanze: il più
perfetto prova una sensazione sgradevole, il meno perfetto una
sensazione gradevole. Se sono corrispondentemente imperfetti godono
entrambi, come un atomo di idrogeno e uno di cloro, poiché ognuno ha
da donare ciò che l’altro ha da ricevere. Se non sono
complementari soffrono invece entrambi, poiché ognuno scarica del
materiale indesiderato. Un oggetto perfetto può dunque prodursi
dall’unione di due oggetti singolarmente imperfetti, ed il tal caso
il piacere soggettivo di questi corrisponde alla creazione di un
nuovo oggetto, il quale in sé stesso è asettico, come ogni
perfezione, ma che lascia alle singole, anime mutile dei componenti
il piacere di completarsi, di riavvicinarsi alla loro identità
intrinseca sottrattagli dal tempo, dalle contaminazioni, ma che
determina ogni lor desiderio,
è il fine
ultimo d’ogni loro gesto, la figura che si staglia dietro le nebbie
spirituali, dietro ogni loro vago anelito, l’ultima aspirazione,
l’Idea. Quando si assemblano invece due enti perfetti non vi è
alcuna sensazione, ovvero nessuna modificazione nei due componenti,
bensì la nascita di un nuovo ente, anch’esso perfetto e dunque non
passibile di corruzione. I concetti di bellezza e bruttezza hanno
significato solo in ambito temporale ovvero nell’ambito di oggetti
contaminati, la cui identità non è più quella originaria, che
chiamiamo allora soggetti in quando oggetti viventi e perciò alla
ricerca della propria identità perduta. L’ente più grande ovvero
il mondo, è l’ultimo a pacificarsi, poiché la sua perfezione
presuppone la perfezione dei singoli elementi ed infine quella della
struttura cosmica. I filosofi sono gli araldi e gli artefici di
questa pacificazione, sono gli esteti estremi, e per tale ragione gli
individui più infelici. Originariamente siamo tutti perfetti, siamo
Idee platoniche, dobbiamo ritrovare la nostra identità ed infine la
nostra posizione, assemblarci compiendo l’Idea del Bene a cui non
corrisponde alcuna sensazione poiché enti perfetti perdono la
sensibilità. La sensibilità serve a distinguere ciò che va accolto
da ciò che va scartato, poiché il primo ci avvicina alla nostra
integrità originaria, il secondo ce ne allontana. Il filosofo è
molto sensibile alle incoerenze poiché deve dissolverle. Dare un
giudizio oggettivo è l’ossimoro, l’impossibile. Significherebbe
infatti annullar se stessi, poiché solo l’oggetto deve permanere,
non una sua filtrazione operata da noi soggetti, adattata
istintivamente ai nostri bisogni già nelle sedi degli organi di
senso, giudicata infine dal nostro intelletto sulla base della
soddisfazione ricevuta, assimilata in tal modo ad altri oggetti che
abbiamo concettualizzato come emblemi di un particolare tipo di
vantaggio o di danno che sono in grado di attuare in noi, una
versione infarcita di materiale che abbiamo tratto da altrove o noi
stessi sintetizzato. Poiché tale è un giudizio e tutto
questo è esattamente il contrario dell’oggettività. Ma se un
oggetto è tale dunque, poiché non ha relazione assiologica con
altri oggetti, che chiamiamo in tal caso soggetti, ecco ch’esso
resta al di fuori d’ogni discussione, ch’è in fondo la solita
guerra tra egoismi per trarre dal mondo esterno il massimo possibile.
Il perfetto sta al di fuori della discussione estetica: si percepisce
solo qualcosa di imperfetto in quanto ancora passibile di corruzione
e scambio materico. Si discute di estetica per un fine economico. Ciò
che è in ballo nella discussione sono la validità di un’opera, di
uno stile, di una schiera di artisti dai quali vogliamo continuare a
trarre piacere, che desideriamo quindi essere dominanti e coltivati
ovunque, per massimizzare il nostro vantaggio. Mentre tali opere,
stili, artisti, coscienti del proprio valore estetico, non già
dunque della loro perfezione, che ancor ben non possiedono e che
vogliono istintivamente raggiungere, la quale sfugge alla
sensibilità, essi si lamentano di non esser apprezzati, poiché se
tanto hanno da dare, soggettivamente, certo, altrettanto potrebbero
dunque prendere, ed il loro stomaco geme affamato per mancanza di
clienti. La perfezione esclude la contemplazione ed altresì
l’auto-contemplazione ovvero il narcisismo. Se d’uno specchio in
cui rimirarsi l’uomo abbisogna ancor non è perfetto, ogni
immedesimazione prende piede allorché la percezione diretta della
propria forza decade. Laddove uomo è vago d’Apparir, lì ha ben
finito d’Essere.
Verso
la totalità artistica
Palazzeschi
parla della nascita del futurismo in pittura
“Le quattro
ombre vedute sfilare nell’oscurità del corridoio erano Boccioni,
Russolo, Carrà…e un quarto che per difetto di coraggio, molto
probabilmente, si dileguò subito dopo. Erano venuti ad offrire la
loro collaborazione associando al movimento giovanile dei poeti
quello dei giovani rappresentanti le arti figurative in una medesima
aspirazione di rinnovamento, ciò che lasciava misurare la linfa
vitale del seme gettato che nel campo dell’arte fruttificava
spontaneamente”
Un uomo pensa
una cosa bella e la esprime con immagini metaforiche, molte prese
dalla natura, oppure vi affianca queste ultime: talvolta questo
risponde allo scopo di rafforzare, anche indebitamente, il
significato di ciò che si dice, esagerare la sua vastità o
profondità, oppure appoggiarsi a qualcosa già riconosciuto come
valido ed autorevole. Talaltra invece questo risponde allo scopo,
assai dominante soprattutto nell’ambito artistico, di totalizzare
la bellezza, di lanciare ponti che uniscano in un solo puzzle
tutte le cose degne di nota e rappresentazione, cucire assieme tutti
gli scampoli di stoffe preziose in una Suprema Veste, armonizzare in
un unico concerto ogni suono gradevole giammai udito. Non fosse che
tale retto proposito, che può essere realizzato solo coralmente,
viene sporcato e dunque non completato ad opera dell’uomo e della
vanità umana, allorché si accorre ai possedimenti estetici,
si compete nella produzione artistica, si vuole arrivare per
primi e giovare di un eterno diritto d’autore, si vuol essere Colui
che ha detto Tutto. Ma nessuno può dire tutto, come tutto non può
fare, ed ognuno è nato per dire perfettamente qualcosa e niente
altro. Ancora una volta vediamo l’origine del male nello scambiarsi
o essere scambiato per qualcuno che non si è.
Il
soggetto diventa oggetto
Nietzsche
sostiene che scopo della natura e della cultura sia quello di
produrre il genio, ovvero colui che è destinato ad essere il metro
ed il giudice del valore di tutte le cose. Questa concezione è
troppo parziale, poiché scopo della natura e della cultura è di
perfezionarsi totalmente. Ma si percepisce in Nietzsche l’ansia per
la secolare mancanza di un valido elemento apicale della società, il
filosofo, quello che deve altresì essere riconosciuto come tale,
quello che garantisce l’equilibrio generale e senza il quale altre
perfezioni sono scoordinate tra loro e dunque mai stabili. La
totalità dei bisogni di un uomo può essere soddisfatta solo
dall’intero cosmo, pertanto, nessuno diventerà mai totalmente
perfetto, ovvero totalmente oggetto, sino a che l’intero cosmo non
lo diventerà. L’oggettività viene raggiunta solo tramite
l’appagamento della soggettività, dunque l’eliminazione di tutte
le scorie. Questo tuttavia avviene per gradi, ed il primo grado da
raggiungere è quello della posizione sociale dalla quale il tuo
peculiare talento, la tua sensibilità e profondità visiva, possano
fare il loro lavoro elidendo il marcio. Tutti i bisogni sono
contingenti, poiché solo nel tempo, nel regno della contaminazione
che tende ad annullarsi esistono bisogni. Quando stai combattendo un
problema confacente al tuo ruolo fondamentale, quello che ti
differenzia giustamente dagli altri, lo si considera un bisogno
naturale e dunque meno contingente di quello che ti trovi invece ad
affrontare fuori luogo, poiché è stato creato dall’inadempienza
di altri, ed una ulteriore inadempienza ti lascia in mano a te stesso
a risolverlo. Tuttavia in senso lato anche il bisogno professionale è
contingente. Ognuno deve diventare quello che è, ed è in qualche
modo vero, platonicamente, che il filosofo nel suo percorso
conoscitivo vada a cercare quello che già conosce, ma può
apprendere, rammentare, solo attraverso il mondo empirico, solo
tramite l’esperienza. Ci sono tre motivi per cui si disprezza la
soggettività, corrispondenti a tre accezioni del termine. Uno,
nell’accezione più generale, poiché soggettività è sinonimo di
bisogno, sofferenza, corruzione, infelicità. Due, perché in una
persona che assume il ruolo di giudice in un ambito, un bisogno
contingente soverchia il bisogno d’ufficio e dunque un oggetto
viene deprecato immeritatamente o un altro immeritatamente approvato.
Tre, perché un giudice non è all’altezza del suo compito e
dunque, senza intenzione, si trova a maneggiare una realtà che lo
sovrasta, e la sua soggettività diventa ora non quella di favorire
un bisogno contingente, ma quella dei suoi limiti intrinseci che
mutilano, distorcono e depauperano la realtà e dunque non possono
rendere ad essa giustizia ossia appagamento. Ma il dovere d’ufficio
non trascende ancora la soggettività, solo è il mezzo con cui
poterla davvero appagare e giungere così all’oggettività. Anche
il giudice più competente ed onesto è soggettivo, e soddisfa un
bisogno. La differenza è che l’appagamento del bisogno personale
corrisponde in tal caso a quello del bisogno generale, ed in tal modo
esso è giusto. Le cose che egli approva, sono dunque approvabili,
il che significa accettabili da tutti poiché davvero benefiche per
ognuno, senza che gli incompetenti possano rendersene conto per
giudizio diretto. Un giudice che fosse oggettivo nel vero senso della
parola, ovvero non avesse alcuna relazione con l’imputato, non
potrebbe di fatto giudicare, perché se ne starebbe altrove, intonso,
incorruttibile come i metalli nobili, in quanto già perfetto e
dunque già oggetto, egli non potrebbe avere alcuna reazione
nel contatto con esso: la quale è invece necessaria affinché si
attui un cambiamento nel sistema, in tal caso intervenendo
sull’imputato, prendendo una decisione nei suoi confronti.
Quanto
all’oggettività in arte, essa nega l’artista, già che se
presenti l’oggetto per se stesso questi rappresenta se stesso e non
ne sei tu l’autore, ma se già parli di qualcosa che pure è
esterno e non è un dipinto dell’anima tua, ne sei ben l’interprete
e dunque poni in esso qualcosa di te. Tu lo filtri, lo scomponi, lo
modifichi, lo elabori, lo storci, lo strizzi, lo gonfi, lo tingi,
l’aspiri, lo depauperi, l’infarcisci, lo geli, lo sciogli, lo
scabri, l’addolci, lo curi, lo deturpi, l’abbassi, l’innalzi,
lo giudichi, lo fai tuo e l’utilizzi per un fine. Se l’oggetto
non ti piace te ne vendichi subito con un giudizio che è invero una
azione distruttiva simulata. Tu vuoi ben imporre anche agli altri di
fare lo stesso anche se non sono pronti ad approvare la tua reazione
poiché diversi come fruitori. A te non importa come gli altri
giungano alla tua stessa reazione: purché vi giungano e vi si
accodino in fretta, e per ottenerlo hai diverse strade. Distorci
l’oggetto di modo che a contatto col loro deplorevole arretrato
gusto esso ottenga un effetto sgradevole e dunque la reazione da te
desiderata. Oppure devi cercare di far maturare il loro gusto in
breve tempo, e questo lo fai quasi sempre in maniera nervosa
infastidita e brutale poiché è un compito sgradito, sei irritato di
tale diritto di giudicare attestato a persone immeritevoli di farlo e
del cui consenso ed appoggio senti di avere comunque bisogno per il
peso sociale che questi hanno. Se non riesci a fare nessuna delle due
cose, puoi usare la prepotenza nell’imprimere il tuo giudizio nel
corpo e nell’anima dei fruitori, alzando la voce e inasprendo i
toni, usando espressioni crude, anche se questo li fa soffrire poiché
manca un sostrato idoneo, per disaffinità intrinseca, per immaturità
o per mal disposizione contingente. Fatto sta che questo trauma cui
li sottoponi è parzialmente efficace ed essi reagiscono o adeguando
il sottofondo al giudizio impresso oppure cercando di demolire
quest’ultimo ed espellerlo da sé, come un trapianto di tessuto
estraneo alla propria natura, la qual prima o poi erompe imperiosa e
tutto a sé adatta. Un critico egocentrico giova della sua
correlazione con l’oggetto, il quale ha un valore proprio ed una
realtà senza i quali il critico non sarebbe nulla: ma egli desidera
apporre ad esso il suo sigillo, la sua firma, la sua immagine, ed a
seconda che sia meno o più presuntuoso sceglie di farsi lui
pubblicità tramite un bell’oggetto di già apprezzato dal
pubblico, o al contrario pretende che la perizia ed il giudizio
positivo del grande critico bagnino l’oggetto di prestigiosa luce,
che sol da lui esso riceva il marchio di qualità, un posto nel
panorama presente, nella storia e l’abilitazione al circuito
artistico, di lui che è superiore ad ogni opera e ben d’in alto la
comprende.
L’Io
nell’Arte
L’esperienza
si divide in etica ed estetica, dicemmo, nella prima si espelle
materiale, nella seconda lo si ingerisce. Il fine supremo del cosmo è
quello di sanificarsi totalmente e dunque totalmente estetizzarsi ed
eticizzarsi. In concetto di totalità fa coincidere questi due
concetti. Ogni scoria va abbandonata ed espulsa, ogni atomo di
energia positiva ghermito ed inglobato. Ogni deficienza, ogni
negligenza in queste due operazioni, da parte di chicchessia, inquina
il mondo. Distinguere l’arte dalla vita, in tale contesto, è fuori
luogo: l’arte è una attività all’interno della vita che può
purificare chi la produce e chi la contempla. Essa è fallimentare e
spregevole nella misura in cui non raggiunge questo scopo. Ogni
corrente artistica che non sia una nuova filosofia o scienza
estetica, ma soltanto la prepotenza di un gusto rispetto ad un altro,
voglia essere classicismo, modernismo, romanticismo, simbolismo,
impressionismo, espressionismo, futurismo, non risolve il problema.
Il potere sanificante del futurismo non può essere generalizzato,
altrimenti esso sarebbe stato accolto ben più amichevolmente, anche
presso persone dalle limitate capacità razionali. Si tratta, invece,
di istinti volti alla soddisfazione di bisogni. Nella farmacia
artistica universale deve presenziare ogni tipo di compressa,
unguento, polvere, sciroppo, shampoo, magico elisir, ed ogni prodotto
avere una precisa posologia. Si può condannare una corrente
artistica solo dimostrando che i suoi prodotti non fanno bene a
nessuno. Altrimenti, si condanni una errata posologia, un dosaggio
eccessivo, una somministrazione avventata al soggetto sbagliato, un
predominio sul mercato che soffoca i bisogni altrui, maggiormente
sani o al contrario ben più malati e deboli. Più raffinati o
grezzi. Oppure bisogna attaccare il farmaco in sé, nella sua
composizione inefficace o intrisa di effetti collaterali. In
quest’ultimo caso si fa della filosofia estetica, si vuole innovare
la scienza farmaceutica. Qui ogni critica costruttiva è bene
accetta. Ma non bisogna mai confondere questo nobile intento con la
prepotenza di chi vuole imporre un gusto brutalizzando le esigenze
altrui. L’arte romantica e sentimentale, i solipsismi tormentati
dell’animo, l’estetizzazione del macabro, del decadente, del
sofferente, è perfettamente comprensibile che risultino disgustosi e
stantii al palato d’uomini che scoppiano di salute. I futuristi
ostentano energia, benessere, sicurezza, fierezza, prontezza
all’azione, dietro ogni parola traspare crudamente l’affermazione
dio quanto mi sento bene, e credono ingenui o volutamente
barbarici verso il prossimo, che tale schiaffo cruento, le loro
sdegnose per quanto brillanti provocazioni, possano davvero provocare
un rivolgimento positivo nell’anima di persone afflitte da problemi
reali, e non già da debolezze intellettuali tra cui la più grave ed
invisa è la vigliaccheria, che non consente di prendere la direzione
giusta e liberarsi dal male. Non dunque uomini guasti da filosofie
sbagliate, ma semplicemente e consapevolmente guasti, alla ricerca di
rimedi specifici, potessero avere anch’essi, come ultimo stadio, la
vigorosa azione futurista, tracotante, distruttrice, sbarazzatrice,
beffarda, cinica, dura, scabra, semplice, nuova. L’errore di chi
abbisogna e gode di queste cose è supporre che tutti ne abbisognino
e ne godano, che siano pronti per esse, allorché un progressivo
miglioramento delle condizioni di vigore e salute debba
necessariamente condurre al bellicismo cruento e gioioso. Se anche
ciò non fosse vero, qui compare l’egoismo ferino che sente come
maggiormente benefico, dunque giusto e prioritario, lo strigliare,
schiaffeggiare, calpestare, trascurare, deridere e spazzare via
brutalmente, con pieno diritto, tutta la declinazione della debolezza
che compare loro davanti, che fa storcere loro il naso e frena la
loro corsa. Dunque tutti quei bolsi, rammolliti, infiacchiti,
marciti, appesantiti, illanguiditi, timorosi, cauti, insicuri,
oppressi, angustiati, intrisi di sentimenti fetidi e complessi, ancor
non scaricati nell’appagamento dell’azione. Tutto ciò che è
ancor legato ad un passato che non giova più al presente e dunque
nemmeno al futuro, oppure è la conseguenza di una mancanza di forza
personale di cui non possiamo avere rispetto, per rispetto nostro. Il
predominio dell’egoismo giovane e vitale su quello vecchio e
moribondo. La priorità dell’Io è sintomo d’infelicità dello
stesso. Quando invece esso scoppia di salute, come una bomba vuol
esplodere e devastare l’ambiente esterno, il quale come minimo
diventa più interessante, con le possibilità di espansione che
offre, i nuovi strumenti di cui impossessarsi, sconfitte oramai le
interiori miserie e piaghe, di cui più non vogliamo sentir parlare.
Gli oggetti meccanici ed elettronici ora appaiono il nuovo traguardo
della nostra corporea ma ancor fisiologica efficienza. La nostra
solidità vuol diventare adesso quella dell’acciaio, del marmo, la
nostra agilità quella di una corrente elettrica, il nostro dinamismo
trasformista quello di un moderno laboratorio chimico, la perfezione
dei nostri movimenti quella di un meccanismo d’orologeria, la
nostra potenza quella di un cannone mitragliatore. Ancora dunque l’Io
non è scomparso, solo si avvale di nuovi strumenti che lo appagano e
perfezionano ulteriormente. Ancora esso non parla dell’acciaio ma
del suo desiderio di diventare acciaio, della sua brama di
mitragliare il mondo, del gusto che gli dà un boato, della potenza
che gli infonde la comprensione d’una strategia bellica, della sua
voglia trepidante di novità, del suo disgusto per ciò che ha
superato e di cui non ha più bisogno. L’io sofferente anch’esso,
dal canto suo, s’appoggia alla natura per parlar di se stesso, e
non parla di un paesaggio di cipressi ma della distensione che esso
provoca in lui, ed appena il futurista, che non ha bisogno di
distendersi perché è già disteso e non può immedesimarsi in tale
presentato effetto, sente questo ego indesiderato trapelare sotto le
descrizioni oggettive, dalle quali invece voleva trarre qualcosa che
fosse utile a lui, sicché lo sdegna e lo vuol toglier di mezzo,
questo ego che scorge altrove nei fenomeni naturali trovare analogie
ai suoi processi interiori, e finge di parlare di rocce che si
sgretolano per dire al lettore che egli si sta sgretolando, di frutti
che cadono per qualcosa in lui che cade, di uno zefiro di vento per
un soffio di speranza che ha avuto dalla sua vita e a noi non vediamo
cosa ce ne possa importare, di un raggio di sole che si insinua
ardito e luminescente a tagliare un clima travagliato e tinge una
natura desolata per eroicizzare qualcosa di analogo che è avvenuto
dentro di lui grazie alla sua forza d’animo che non s’è fatta
abbattere e anche questo a noi non interessa, che grazie all’impatto
visivo dei fenomeni naturali vuol impattarci ciò che è meno
accessibile ovvero i suoi fenomeni interni, che vuol rendere
comprensibili questi tramite quelli. Cosa cerchiamo in una poesia?
Dati empirici raccolti in lettere che abbiano un potere direttamente
e positivamente efficace sul nostro stato d’animo. Oppure qualcosa
di interiore nella cui espressione possiamo immedesimarci e pertanto
averne soddisfazione al pari dell’autore, che si tratti di qualcosa
di totalmente interno oppure del rapporto tra esso e una realtà
esterna adeguatamente rappresentata. Cerchiamo azioni simulate e
soddisfacenti nelle quali immedesimarci. Giudizi appaganti che
condividiamo. O ancora noi cerchiamo una illuminazione, la
comprensione lampante di un processo non ancora razionalizzato.
Senza i messaggi
filosofici di cui sono intrise, le mie poesie finirebbero in un cesso
futurista. Essi sono infatti universali e pertanto potenzialmente
utili a tutti. Sappiano gli spiriti nobili distinguere uomo che
sfrutta la poesia per parlar di se stesso, da uomo che sfrutta se
stesso per fare poesia.
La
Forza nell’Arte
Non possiamo
togliere la Soggettività dall’arte. È necessario togliere da essa
invece la Debolezza, ciò che la rende inefficace. Nella creazione
l’artista vuol compiere un atto di forza, ed il fruitore tale atto
di forza vuole ricevere, di esso vuol partecipare. Una tappa
importante abbiamo raggiunto: che qui parli serena. Spurghiamo la
letteratura da ogni debole soggettività. Nella misura in cui un uomo
assume la dignità di opera d’arte, possa egli entrare nell’arte
a pieno titolo e con piena figura. Ma quanto a inezie quotidiane,
miserie, dispute, malate stanchezze, giustificazioni, torti, rancori,
rabbie, dubbi malaccorti, pedanti descrizioni, prolisse riflessioni
di vaghezza irresoluta, ogni egoistica lagna e noia che faccia
scadere ogni scritto, tutte le scorie, dunque, di cui l’uomo
spogliarsi debba e voglia: lasciamole ebbene ai camerini, alle
latrine e ai lavabi del retropalco, alle palestre e agli studi
medici, al conforto di una radura amichevole. Rispolveriamo adesso la
rettitudine del concetto di pudore. Dell’uomo carismatico
son belli invero, interessanti anche rutti e peti, pianti e sospiri,
sbadigli e frottole, canti sguaiati, la birra preferita o vecchie
squallide foto. Ma il carisma, la forza centrale ch’ogni debolezza
sostiene, è condizione necessaria. Qualsiasi dolore o debolezza
possono entrare nell’arte: purché l’artista ne parli con
fortezza, purché egli sia più forte di loro. Non dovrai cancellar
fiumi d’inchiostro dunque, se sempre miglior dignità canora hai
dato alle melodie dei tuoi interni rivi, contenuti dalle forti
braccia dei tuoi argini intellettivi, e trasfusi di frequente in
tematiche universali dell’uomo.
Proviamo ad esprimere questi concetti
in versi…
Le lettere purghiam d’ogni sconcezza
Deboli intromissioni son bandite
Ma se tu uomo d’Arte sei all’altezza
In essa puoi entrar come un’attrice
Ma se d’inezia o misera stanchezza
Di rabbia o dubbio vuoi scandir parola
Fallo nel retroscena, ti è concessa
Ma non giammai sul palco, non ci piova!
Raccolto noi il concetto di pudore
Sappiam che d’uomo forte anche gli
sputi
Pianti sospiri e frottole hanno onore
Ma senza il gran carisma che l’aiuti
Ogni piccola scoria crea fetore
Dov’egro è il cuor, gli artisti sian
forzuti!
Analisi del sonetto
La struttura delle rime è questa…
A
B
A
B
A
C
A
C
D
E
D
E
D
E
Tutto il sonetto è concettualmente
unitario e la struttura interna è finalizzata a rendere al meglio
quel concetto. Nelle due quartine c’è un predominio del verso in
A, spezzato da due assonanze, in B, nella prima quartina, e in C,
nella seconda quartina. Il dominio è anche concettuale, con il
leitmotiv che vede confliggere le sconcezze e le stanchezze
con le altezze di cui non son degne, e che sono concesse
solo laddove non recano danno all’estetica. Le parole sconcezza
e concessa sono quindi sonoramente affini e quasi omonime, ma
semanticamente opposte. All’interno delle quartine le rime
d’interruzione hanno sia un valore portante che un valore estetico,
come avviene spesso in architettura, sia sul piano sonoro sia su
quello concettuale. Mentre le due quartine si presentano come un
ammonimento, le due terzine sono una sorta di argomentazione, che
risponde ad eventuali obbiettori e che perviene infine alla medesima
conclusione. Nelle due terzine c’è un notevole equilibrio sonoro e
concettuale. Nei sei versi che le compongono, le rime sono equamente
spartite: nella prima terzina domina la D, intermezzata dal verso in
E, il quale troverà i suoi echi nella seconda terzina, dove si
presenta nel binomio qui dominante di primo e terzo verso,
intermezzato a sua volta da un verso in D, che ristabilisce il
contatto col precedente binomio facendo rialzare la testa al primo
dei due suoni antagonisti, pur lasciando il predominio al suo
oppositore. Se D ha aperto la discussione, l’ultima parola spetterà
infatti ad E. Questa sensazione di equilibrio è molto piacevole a
chi non parteggi per nessuno, come lo è una partita di calcio
equilibrata, invece sgradita ai tifosi delle singole squadre, che
sentono, vedono, desiderano a senso unico e vorrebbero un
dominio totale. Se immettiamo l’aspetto concettuale nella nostra
analisi, vediamo che esso crea un equilibrio ulteriore all’interno
delle terzine compensando il predominio in esse di una rima rispetto
all’altra: nella prima terzina, il verso centrale racchiude e
chiude con un concetto molto forte, quello dello sputo, e
nella seconda terzina il verso centrale presenta e chiude con il
concetto di fetore, altrettanto forte: quei due concetti da
soli sembrano sostenere le due morse sonore in cui sono inseriti.
Tuttavia, se il peso delle rime è il medesimo per ogni
lettore, il peso dei concetti, in base al quale varia
l’equilibrio generale del pezzo, è soggettivo. Non è detto
infatti che tutti sentano i concetti di sputo e fetore
come più forti rispetto a quelli di pudore e onore,
aiuto e forzuto. Ma la soluzione di tale problema non
spetta all’artista.
Possiamo estendere il discorso dicendo
che in arte la temperanza è fondamentale.
Allorché si presentino tematiche
scabrose ed emotivamente intense, questa può essere ottenuta tramite
la bella forma, oppure inserendo degli elementi di compensazione
delle emozioni dominanti. Ma chi vuol parlare di arte e tende a
bollare come patetico tutto ciò che sia in qualche modo degno di
essere rappresentato, è solo un uomo che non ha capito come stanno
le cose, che vorrebbe arrivare a sottrarre all’arte tutto ciò che
solo può ispirarla, poiché essendo ciò qualcosa di
fondamentalmente ed originariamente negativo, egli ha paura di
sentirlo e tanto più di venirne giudicato, e si aggrappa allora a
quella freddezza che non è invero nemmeno tale, poiché sarebbe
ancora un sentimento, ad un cinismo che però non entra come
personaggio della commedia o tragedia, ma è un puro e semplice
disprezzo del sentimento e della vicenda umana che sottendono ad ogni
creazione artistica e così facendo tali gretti importuni ed
offensivi individui astraggono se stessi da qualsiasi forma d’arte.
Sottraendosi del tutto alla dimensione artistica, epperò volendo
continuare ad occuparsi di arte, questo genere di persone non
comprenderà né tantomeno creerà nulla di significativo. A ben
maggiori miserie umane essi danno voce tramite giudizi e
atteggiamenti, dal ché sottrarsi alla soggettività senza esser
ancora divenuti oggetto, dicemmo, è impossibile.
Ancora proviamo a dire queste cose in
tre versioni poetiche gradualmente più versificate.
I
diventa tu un motore di vetro
alimentato ad azoto liquido
ma sol come antidoto
& gabbia d’inchiostro
resti nel nulla chi non esprime niente
nemmeno il nulla che è ma non sente
II
Diventa pure tu un motor di vetro
che azoto freddo liquido alimenta
gabbia d’inchiostro & antidoto
sia il metro
ma che distinto suon comunque io senta
Resti nel nulla chi non dice niente
nemmeno il nulla ch’è però non
sente
III
Diventa pure tu motor di vetro
che freddo azoto liquido alimenta
gabbia d’inchiostro & antidoto
sia il metro
purché distinto suon comunque io senta
e importa poco sai quant’ei sia tetro
ma ch’egli non sia nulla e che non
menta
Riflessione generale sulle strutture in arte
Perché abbiamo bisogno di stendere il
nostro materiale spartendolo in capitoli, strofe, versi? È la stessa
necessità che ci costringe a dividere un pasto in portate ed a
sminuzzare il cibo prima di ingerirlo: abbiamo bisogno di nuclei
di nutrimento che siano digeribili e piacevoli in sé stessi,
dall’aspetto in qualche modo conclusivo e compiuto, come quanti di
energia, nuclei che risultino infine totalmente appaganti solo nella
precisa sequenza e quantità in cui sono strutturati, senza eccedere
nel superfluo dopo l’acquietamento della fame.
Il
diario
Il livello di pudore del diario ha
sicuramente pretese minori, poiché è un una confessione dallo scopo
principalmente terapeutico o auto confortante, sia essa solitaria
oppure destinata a qualche intimo. Quanto a contenuti, il diario può
esser fetido zerbino in parte, non mirabile scultura elevata dal
grato piedistallo acciocché sia intonsa da vili mani e solo
impreziosita dai luminosi raggi che del sole la investono mentre essa
guarda il cielo. Il diario è una creazione egoistica, pertanto deve
soddisfare solo il tuoi gusti e le tue esigenze. Queste le deve,
tuttavia, soddisfare. Il che presuppone una maestria, un
contegno, delle regole. Il rigore richiesto da un diario non riguarda
dunque i contenuti, ma la forma. Esso deve chiarificare i processi,
poiché ciò ti consente di padroneggiarli, fissarli per assumere un
atteggiamento positivo verso il futuro. Il diario deve rammentare la
verità a te stesso, nonché imporla efficacemente ad eventuali
lettori. Anch’esso deve essere, come ogni atto, un atto di forza.
Essendo differente la sua funzione, il suo scopo, ciò di cui parla
siano pure scorie. Ma che esse procedano con passo composto
stagliandosi sul tessuto cartaceo in distinte impronte.
Memoria
e autocoscienza
Non è vero per
niente che al pensiero si accompagna sempre la consapevolezza che si
sta pensando. Anzi questa, come ogni doppia consapevolezza, è
impossibile. Poiché presuppone che siano presenti in un unico
soggetto due punti di vista diversi. Nel preciso momento in cui ti
rappresenti te stesso nell’atto di pensare, ecco che si
disconnettono i pensieri oggettivi che stavi facendo; oppure la
coscienza assume un punto di vista che comprenda in una sola visione
entrambe le cose, purché non superino la nostra capacità di
ritenzione dati, la qual visione rimane un oggetto unitario, mai una
doppia consapevolezza: sicché questo lo puoi fare se è un altro il
soggetto pensante, e tu lo guardi pensare nel senso che vedi anche tu
l’oggetto che vede lui e contemporaneamente vedi anche lui, ma non
pensi quello che pensa lui poiché lui è concentrato solo
sull’oggetto e vi reagisce a suo modo, mentre tu sei concentrato
proprio su quel binomio che visualizzi, il che è una immagine
personale diversa da ogni altra. La tua è una pseudo soggettiva. Ma
ogni pensiero, che nell’intima essenza non si differenzia per nulla
da un sentimento, bensì pensiero e sentimento sono sempre un’unica
cosa, viene registrato in memoria e noi possiamo ripercorrerne il
flusso. Non possiamo approvare alcuna spiegazione causale se non
confrontando quella che ci viene proposta con quella che abbiamo
vissuto, sicché non possiamo capire nulla che non abbiamo vissuto e
se qualcuno ci illumina su noi stessi è perché lui ha compiuto lo
sforzo di rendere conscio ciò che per noi era inconscio.
Razionalizzare se stessi, i propri processi, significa cambiare punto
di vista ed osservare dall’alto le connessioni tra i vari elementi
che compaiono nella nostra memoria nella precisa sequenza in cui li
abbiamo percepiti. Se vengono saltati dei passaggi, nella spiegazione
altrui, ecco che la mente va a cercare i pezzi mancanti, come avviene
anche nei ragionamenti. Ragionare e ricordare infatti sono una
medesima cosa, non esiste la logica pura, solo quella empirica. Anche
il nostro corpo ha una memoria e la sua logica è quella che persegue
tutte le proposizioni false, ovvero tutte le impurità nella precisa
stratificazione gerarchica in cui l’hanno avvelenato, che esso
intende eliminare. La nostra memoria è sempre vincolata al nostro
stato di salute: perfezionato questo, essa è svuotata. Essa è un
mezzo di monitoraggio, un archivio di stato, che può esser dato alle
fiamme qualora non vi siano più minacce a quest’ultimo. Ma per
avere una prospettiva storica della nostra vita e dunque di noi
stessi, per viaggiare nei ricordi noi dobbiamo sottrarci alla
coscienza particolare in cui siamo immersi. Se non cambiamo punto di
vista noi non possiamo avere una prospettiva storica ovvero plurima,
poiché la coscienza è antistorica, è un fotogramma non un film, ed
il tempo è un ripiegamento dello spazio, sono immagini sovrapposte
che diventano un blocco di cui sentiamo il peso, il qual peso
viene poi sgravato dalla riproiezione della pellicola, tale per cui
ogni immagine lascia il posto a quella successiva e viene
dimenticata, sino a tornare al presente, analogamente unitario e
dunque più leggero di quel malloppo inesplicato. Dunque è corretto
dire che noi siamo immersi in un percorso causale, ma non ne siamo
mai consapevoli, noi siamo determinati e determiniamo, noi
subiamo e reagiamo, ma l’unico modo in cui possiamo realizzare una
analisi è che la nostra coscienza si distacchi dal mondo esterno e
si rivolga verso se stessa, ovvero verso la memoria. Ogni conoscenza
è un rapporto, pertanto un io conoscente ed il suo corrispettivo
esterno non spariscono mai, anche nell’introspezione, ovvero quando
l’io conoscente sembra applicarsi a qualcosa di interno, che
cadendo in realtà sotto i nostri sensi resta incluso
nell’esteriorità. Quindi è corretto dire che al binomio Io-mondo
esterno circostante si sostituisce il binomio Io-memoria. Ed essendo
presente un soggetto, esso non può appunto essere altro che presente
e mai uguale al passato, poiché tale magazzino di ricordi si
confronta con l’uomo che siamo adesso e l’impressione che attua
su di noi è differente da quella impressa sull’ego originario,
sicché ciò che ricordiamo è sempre una nuova esperienza:
ogni ricordo modifica il nostro stato generale, in meglio o in
peggio, non esiste una riflessione innocua, ed allorché è stata una
riflessione sanificatrice essa elide anche, nella stessa precisa
misura, i ricordi. Il fatto che essi rimangano in qualche modo
registrati in noi, e dunque ci basti sentire di nuovo un odore,
guardare una foto, sentire una voce, recarsi in un luogo d’infanzia,
per scatenare anche un vecchio sentimento, sembra suggerirci che la
questione non è conclusa, non siamo completamente sanati, vi è
ancora del nocivo in noi. Oppure, nel momento in cui troviamo un
ricordo piacevole, esso è sempre accompagnato dalla nostalgia, ossia
da una nota dolente, poiché lo rivogliamo, poiché avevamo lasciato
qualcosa in sospeso che il nostro organismo, bramoso di felicità
vuol completare, non ne ha ancora tratto tutto quel che voleva,
quell’esperienza era stata solo parzialmente benefica e non ha
corretto insanità precedenti, ed ora reagendo a quella soave antica
visione sulla base dell’uomo che siamo oggi, altrimenti corrotto
nel corso della vita, ecco che ci rendiamo conto quel ricordo, quella
realtà avere un potenziale valore benefico anche sulla nuova
situazione, ecco che si potenzia il suo valore di antidoto, ecco che
la nostalgia aumenta e ci avvelena in tanto che ci trastulla. Il male
e il bene aumentano la posta in gioco e siamo stimolati a cercare
un’esperienza nuova che completi la vecchia e ci risani. Da un
dolore più intenso siamo attirati verso la gioia più intensa che
una tale esperienza potrebbe procurare. Possiamo compiere due cose
contemporaneamente, se siamo duplici, tre cose se siamo triplici.
Un’azione duplice può essere compiuta solo da un corpo duplice.
Infatti possiamo camminare per strada, inconsapevolmente, mentre
pensiamo agli affari nostri, ma un soggetto unitario non può mai
essere contemporaneamente oggetto, ossia soggetto osservato. Quando
osservi te stesso non sei più te stesso.
Los
pétalos del tiempo caen inmensamente
Questo verso di
Pablo Neruda, I petali del tempo cadono immensamente –
viene utilizzato
da Camilo Fernàndez per illustrare la teoria dello scarto.
Egli osserva
Il
significato figurato mette in crisi una regola semantica per cui
sappiamo che “il tempo non ha petali”. Questo verso costituisce
uno scarto rispetto a una regola, la quale stabilisce che il “tempo”
si trova in un campo semantico differente dal concetto convenzionale
(cioè abituale) di “petalo”. Neruda lavora, in una prospettiva
poetica, stabilendo un rapporto analogico molto raffinato fra la
natura e il tempo. Tuttavia il processo è un po’ più complesso.
Voglio ora
tentare di illustrare tale processo, poiché la versione sintetica
fornitaci da Fernàndez non è solo imprecisa, bensì inesatta. Non
possiamo innanzitutto comprendere il verso di Neruda se non diamo una
definizione di tempo. Se la nostra definizione stride con le
proprietà che qui egli attribuisce al tempo, diremo che questo verso
non sta in piedi e sarà spiacevole leggerlo. Oppure possiamo intuire
ed accogliere la definizione che ne dà Neruda stesso e notare allora
la coerenza del verso ed apprezzarne il sapore. Quando io munisco un
soggetto di un complemento di specificazione, pongo una ineffabile
gerarchia. I petali del tempo mi dice innanzitutto che il
tempo è qualcosa di più grande dei petali, i quali ne costituiscono
solo delle parti. Se dico invece Il tempo dei petali, la
gerarchia si inverte, è il petalo ad essere qualcosa di complesso,
la cui temporalità è solo una caratteristica. Se la frase fosse
stata Il tempo dei petali cade immensamente, la parola tempo
sarebbe stata una personificazione dell’invecchiamento o della
morte che, ora materiali e percepibili, si avventano sul fiore e ne
fanno appassire e cadere i petali. Oppure ancora l’invecchiamento
si identifica con il suo effetto, dunque la sua realtà, cioè le
parti degenerate del fiore. Ma la frase è invece I petali del
tempo. Già sapendo che cosa sono i petali, dobbiamo allora
stabilire che cosa sia il tempo. Già l’espressione senso
figurato è pleonastica ed ingenua, in quando non esiste alcun
altro senso nei concetti generali, che non sia una di queste
figurazioni. Potremmo tuttavia accettare quell’espressione nel
significato di senso esplicitato di un concetto generale: in
una delle tante figurazioni che esso può avere nella mente di chi lo
pronuncia. Il tempo deve avere una di queste figurazioni. Sino a che
non l’ha avuta, non possiamo nemmeno dire, come afferma Fernandèz,
che esso non abbia petali. Il tempo (che Fernandèz ha posto tra
virgolette non avendone esatta definizione), se inteso qual figura
demiurgica può trovarsi fuori dal mondo dei fenomeni, nel qual caso
non ha assolutamente un campo semantico e non è corretto dire che il
poeta ha trasposto il termine un campo semantico insolito; oppure
essere invece in tutte le cose, in un pantempismo, costituirne
l’essenza. Nel primo caso il poeta ne fa un uso trascendente e
dunque assurdo, perché se ogni decadere esiste in virtù del tempo
non possiamo dire che il tempo stesso decade, a meno di non chiamare
in causa Einstein. Non essendo qui fornita una definizione esplicita
di tempo, non possiamo nemmeno dire che esso abbia dei petali, in
qualsivoglia significato, sicché questa perturbazione avvenuta
grazie all’inserimento di una nuova specie concettuale in un altro
ecosistema semantico non è reale, e non ha creato dunque né lo
shock iniziale né l’assestarsi di una nuova più ricca e forte
configurazione, di quelle che aprono il cuore del lettore come ogni
elevarsi della conoscenza e gli imprimono un senso di potenza, di cui
ripaghiamo il poeta col dazio zuccherino dell’ammirazione, basata
questa sul fatto che egli non ci ha fatto capire come ci sia
arrivato, e ci ha sparato subito invece la sentenza finale. Tuttavia
la definizione di tempo è fornita dal poeta, in maniera implicita,
ed il risultato è che quella da lui tracciata non è affatto una
analogia, ma una astrazione associata ad un emblema. Egli ci dice che
Il tempo è il mondo e I petali sono le sue
parti, le quali sono tutte caduche. Egli ha universalizzato un
concetto originariamente legato ad alcuni fenomeni naturali, di cui
uno è stato scelto come emblematico e che viene mentalmente
sostituito a tutti gli altri cui potremmo pensare. Ha dunque espanso
la nostra visuale a tutto il campo semantico possibile e ne ha
indicato il principio regolatore. Questa è la potenza di quel verso.
Inoltre esso assume una tinta delicata e romantica per aver
trasformato ogni decadenza e morte a quella di un petalo.
Sulla
musicalità in letteratura
Lasciamo ora la
parola a Schopenhauer, in queste buone considerazioni sull’estetica
della poesia, che necessitano però di alcune correzioni ed
approfondimenti.
Potrebbe
sembrare quasi alto tradimento nei confronti della ragione, usare
anche solo la più lieve violenza ad un pensiero o alla precisa e
corretta espressione di esso, nell’intenzione puerile di sentire
dopo alcune sillabe il medesimo suono o anche per far sì che queste
stesse sillabe assumano un andamento cadenzato. Ma, senza questa
violenza, nascerebbero pochissimi versi: e ad essa è imputabile il
fatto che, nelle lingue straniere, i versi siano molto più difficili
da capire che non la prosa. Se potessimo gettare lo sguardo nel
laboratorio segreto dei poeti, troveremmo che si cerca molto più
spesso il pensiero per la rima, che non la rima per il pensiero: e
anche in questo secondo caso, non sarà facile riuscirvi, se il
pensiero non è flessibile. Eppure l’arte di comporre versi non si
arrende di fronte a queste considerazioni e ha dalla sua tutte le
epoche e tutti i popoli, talmente grande è il potere che metro e
rima esercitano sull’animo e tanto efficace è il loro misterioso
lenocinium. Vorrei spiegare la cosa in questo modo: un verso dalla
rima ben riuscita suscita, con il suo effetto indicibilmente
enfatico, una particolare sensazione, come se il pensiero, che esso
esprime, esistesse già predestinato, anzi preformato nella lingua, e
il poeta l’avesse solo estratto. Anche le idee banali acquistano
con il ritmo e la rima una patina di nobiltà e, con questi
ornamenti, fanno figura, come le ragazze dall’aspetto comune
riescono a far colpo grazie all’abbigliamento. E non solo: anche
pensieri distorti e sbagliati guadagnano un’apparenza di verità,
se espressi in versi. D’altra parte, perfino passi celebri di poeti
celebri si immiseriscono e diventano insignificanti, se li si traduce
fedelmente in prosa. Se solo il vero è bello e se l’ornamento
preferito della verità è la nudità, allora un pensiero, che si
presenti grande e bello in prosa, avrà più valore di verità di uno
che produce lo stesso effetto, se espresso in versi. Ora, che mezzi
così esigui e dall’aspetto così infantile, come il metro e la
rima, producano un effetto così potente, è un fatto molto strano
che merita di essere studiato: io me lo spiego in questo modo.
L’oggetto immediatamente dato nella percezione uditiva, ossia il
puro e semplice suono delle parole, acquista, con il ritmo e la rima,
una certa compiutezza e importanza in sé, poiché in tal modo
diventa una specie di musica: perciò quel suono sembra esistere ora
solo per se stesso e non più come semplice mezzo, come semplice
segno di qualcosa, ossia del senso delle parole. Dilettare l’orecchio
con il suono sembra essere l’unica funzione del verso, funzione con
la quale sembra che si sia ottenuto tutto e che si siano soddisfatte
tutte le esigenze. Che il verso racchiuda al tempo stesso anche un
senso ed esprima un pensiero, si presenta allora come un’aggiunta
inaspettata, al pari delle parole nella musica; come un dono
inaspettato, che ci sorprende piacevolmente e ci soddisfa facilmente,
giacché non pretendevamo nulla di simile: se poi questo pensiero è
tale che sarebbe importante in sé, quindi anche espresso in prosa,
allora ne siamo incantati. Della mia prima infanzia ho questo
ricordo, di essermi dilettato per un certo tempo al suono armonioso
dei versi, prima di fare la scoperta che essi contengono, anche e
sempre, senso e pensieri. Di conseguenza, esiste anche, e
probabilmente in tutte le lingue, una poesia fatta di puri suoni e
quasi del tutto sprovvista di senso. Il sinologo Davis, nella
prefazione alla sua traduzione del Lao Sang-erh or an heir in old age
(Londra 1817), osserva che i drammi cinesi consistono in parte di
versi destinati al canto, e aggiunge: “il loro senso spesso è
oscuro e, per ammissione degli stessi cinesi, lo scopo principale di
questi versi è di piacere all’orecchio, ragion per cui si trascura
il senso e si giunge anche a sacrificarlo interamente all’armonia”.
Queste parole non fanno forse venire in mente i cori di certe
tragedie greche, spesso così difficili da decifrare? Il segno dal
quale si riconosce immediatamente il vero poeta, sia di genere
elevato sia di genere inferiore, è la naturalezza delle sue rime:
esse si riuniscono spontaneamente come per decreto divino; i pensieri
gli vengono in mente già in rima. Il prosatore occulto invece cerca
la rima per il pensiero e lo scribacchino il pensiero per la rima.
Molto spesso, da una coppia di versi in rima, si può riuscire a
capire quale dei due ha per padre il pensiero e quale la rima. L’arte
consiste nel dissimulare il secondo caso, affinché simili versi non
abbiano l’aspetto di semplici riempitivi, di bouts-rimés. La mia
sensazione (prove al riguardo non se ne danno) è che la rima sia,
per natura, soltanto binaria: la sua efficacia si limita ad una sola
ripetizione dello stesso suono e non si rafforza, se quest’ultimo
viene ripetuto più volte. Perciò, appena una sillaba finale ha
incontrato quella che ha il suo stesso suono, il suo effetto è
esaurito; un’altra ripetizione del tono agisce semplicemente come
una nuova rima, che ha per caso lo stesso suono, ma che non aumenta
l’effetto: essa fa seguito alla rima precedente, senza però unirsi
a essa, per produrre un’impressione più forte. Infatti, il primo
tono non risuona attraverso il secondo fino al terzo: quest’ultimo
è dunque un pleonasmo estetico, una doppia audacia che non serve a
niente. Simili accumuli di rime non meritano perciò i pesanti
sacrifici, che essi costano, in ottave, terzine e sonetti che sono la
causa di quella tortura intellettuale, alla quale siamo talvolta
sottoposti nel leggere simili produzioni: non è possibile infatti
gustare una poesia, se bisogna rompersi la testa per leggerla. Che il
grande spirito poetico riesca talvolta a dominare anche quelle forme
e le loro difficoltà, nonché a muoversi in esse con disinvoltura e
con grazia, non è sufficiente per raccomandarle, poiché, in sé,
esse sono altrettanto inefficaci, quanto gravose.
E perfino nei
buoni poeti, quando fanno uso di queste forme, si vede spesso la
lotta tra la rima e il pensiero, lotta che si conclude con la
vittoria ora dell’una ora dell’altro: quindi o il pensiero si
atrofizza a causa della rima oppure quest’ultima deve accontentarsi
di un debole à peu près. Stando così le cose, ritengo che, nei
suoi sonetti, Shakespeare abbia testimoniato non la sua ignoranza,
bensì il suo buon gusto, dando ad ogni quartina rime diverse.
Comunque sia, il loro effetto acustico non viene minimamente
indebolito da questo espediente e il pensiero riesce a far valere i
suoi diritti molto di più che se fosse dovuto restare imprigionato
nei soliti stivali spagnoli. È uno svantaggio per la poesia di una
lingua possedere molte parole che non sono utilizzabili in prosa e,
d’altra parte, non poter usare certe parole della prosa. Il primo
inconveniente si ha soprattutto nelle lingue latina e italiana, il
secondo in quella francese, dove, con un’espressione assai
indovinata, lo si è recentemente definito la bégueulierie de la
langue française. I due casi si riscontrano di rado nella lingua
inglese e, ancor meno, in quella tedesca. Simili parole,
esclusivamente riservate alla poesia, sono estranee al nostro animo,
non ci toccano direttamente e perciò ci lasciano freddi. Esse
costituiscono una lingua poetica convenzionale e sono, per così
dire, sensazioni soltanto dipinte, invece che reali: esse escludono
la profondità di sentimento. Mi sembra che la differenza tra poesia
classica e poesia romantica, su cui si discute molto oggigiorno,
consista in fondo nel fatto che la prima non conosce altri motivi, se
non quelli puramente umani, reali e naturali, mentre la seconda fa
valere, come motivi efficaci, anche quelli artificiosi, convenzionali
e immaginari: a questa categoria appartengono i motivi derivanti dal
mito cristiano, poi quelli del principio dell’onore cavalleresco,
che è un’esagerazione e una fantasticheria, inoltre quelli
dell’insulso e ridicolo culto cristiano-germanico della donna, e
infine quelli del vaneggiante e lunare innamoramento iperfisico. A
quale caricaturale deformazione dei rapporti umani e della natura
umana conducano questi motivi, lo si può scorgere perfino nei
migliori, tra i poeti del genere romantico, per esempio in Calderón.
Senza parlare degli Autos, ricordo soltanto opere quali No siempre el
peor es cierto (il peggio non è sempre certo), o El postero duelo en
España (L’ultimo duello in Spagna) e simili commedie en capa y
espada: a quegli elementi si aggiunge qui ancora la cavillosità
scolastica nel dialogo, della quale si fa largo uso e che, a
quell’epoca rientrava nella formazione culturale delle classi
elevate. Com’è invece decisamente superiore la poesia degli
antichi, nella sua costante fedeltà alla natura: se ne ricava che la
poesia classica è incondizionatamente vera e giusta, mentre quella
romantica è tale solo condizionatamente; un rapporto analogo è
quello che intercorre tra l’architettura greca e quella gotica.
D’altra parte però, bisogna osservare qui che tutte le opere
drammatiche o narrative, ambientate nella Grecia antica o nella Roma
antica, soffrono di questo inconveniente, che la nostra conoscenza
dell’antichità, in particolare per quanto riguarda i dettagli
della vita, è insufficiente, frammentaria e non ricavata
dall’intuizione. Tutto ciò costringe allora il poeta a eludere
molte cose e ad aiutarsi con luoghi comuni, cosicché egli va a
cadere nell’astrazione e la sua opera perde quell’intuitività e
quell’individualizzazione, che sono sempre essenziali alla poesia.
Ecco ciò che dà a tutte queste opere quell’aria di vuoto e di
noia, che è loro propria. In questo genere di rappresentazione, solo
Shakespeare è esente da quegli inconvenienti, poiché egli, senza
esitare, ha rappresentato, sotto il nome dei greci e dei romani, gli
inglesi del suo tempo. A molti capolavori della poesia lirica, in
particolare ad alcune opere di Orazio (si veda ad esempio la seconda
del terzo libro) e a parecchie canzoni di Goethe (ad esempio Il
lamento del pastore), è stato rimproverato di non avere una giusta
connessione e di continuare a saltare da un pensiero all’altro. Ma
qui il nesso logico è trascurato di proposito, per essere sostituito
dall’unità del sentimento di fondo e dello stato d’animo
espressi, unità che proprio così risalta meglio, giacché procede
come un filo che raccoglie perle sparse e trasmette il veloce
alternarsi degli oggetti presi in esame, come il passaggio da una
tonalità all’altra è trasmesso nella musica dall’accordo di
settima, grazie al quale il tono fondamentale, che continua a
risuonare in esso, diventa la dominante della nuova tonalità. La
proprietà che abbiamo descritto qui è soprattutto evidente e tocca
perfino l’esagerazione nella canzone di Petrarca, che inizia con
queste parole: “Mai non vo’ più cantare, com’io soleva”. Se
l’elemento soggettivo domina dunque nella poesia lirica, nel dramma
invece è presente, solo ed esclusivamente, quello oggettivo. Tra i
due occupa un largo spazio intermedio la poesia epica, in tutte le
sue forme e modificazioni, dalla romanza narrativa fino all’epos
propriamente detto. Essa infatti, sebbene sia sostanzialmente
oggettiva, contiene un elemento soggettivo più o meno pronunciato
che trova la sua espressione nel tono, nella forma dell’esecuzione
e anche in riflessioni sparse. Qui non perdiamo così interamente di
vista il poeta, come accade invece nel dramma.
Alla base di
ogni creazione artistica sta una insoddisfazione e dunque una
pulsione ad esprimerla ovvero esternarla ed in tal modo guarirla. A
questo scopo possono concorrere vari mezzi, che in ambito artistico
giammai potranno eguagliare, bensì solo surrogare le forme di azione
diretta cui l’accesso ci è sbarrato. Tuttavia l’effetto, se
sfruttiamo al massimo la compagine di questi mezzi, può avere un
impatto notevole, decisamente. La musica da sola è potentissima
e padroneggiandone il linguaggio, la maggior parte delle nostre
creazioni assumerebbero solo questa forma, in quanto sufficiente a
spatannare fuori il nostro sentimento, rimuovendone gli elementi
occlusivi, disciogliendone le soffocanti e orride incrostazioni,
disperdendone i rivoli infidi e trasformandoli chimicamente da veleno
a orgasmiche linfe, a colpi di ritmiche percussioni che
scotono le membra dall’esterno all’interno e poi di nuovo
all’esterno, melodie graffianti ed incisive, suoni
zefiranti, edulcoranti, dilaceranti, armonie maestose,
espansive, distensive, poi intarsi completivi e ghirlande
sonore avvolgenti in sovraincisione. Questo stracanna il nostro
sentimento in maniera abbastanza efficace, se proprio non desideriamo
spianarle in faccia a qualcuno per filo e per segno: accuse, giudizi,
domande, richieste, dichiarazioni, proteste, rivendicazioni, insulti,
elogi, difese, atti d’amore, o ancora riflessioni da insinuare
dapprima in noi, in modo da chiarificare il nostro animo, far
dunque ancora ordine e pulizia al suo interno, rafforzandone le
capacità di azione e le speranze con galvaniche scosse e
proponimenti incoraggianti, e riversandole poi anche negli altri
per ottenere considerazione, provocazione, stimolo, persuasione,
inganno, modificazione, affermazione sottile oppur brutale, alleanza,
ammirazione, amore, piacevole ostilità. Queste cose abbisognano del
linguaggio verbale, che ben deve conciliarsi con quello musicale se
vuol massimizzare l’effetto anziché il primo si guasti col secondo
e confligga, allorché non si rispettino le debite proporzioni, la
coerenza oppure l’arguto e voluto contrasto dei toni, o il lascito
predominio dell’elemento di per se stesso più forte, cui l’altro
deve essere solo un sostegno, un contorno, una spezia, senza disporre
dunque sul campo mezzi esagerati ad esprimere qualcosa di ancor
modesto nelle dimensioni, nel genere, nella difficoltà. La musica
strumentale presenta anche il vantaggio di agire sulle emozioni senza
scomodare gli intelletti, e questo la rende potente con minore
esposizione e presa di responsabilità, dacché non espliciti le tue
idee, le tue vicende, i tuoi propositi.
Adattare il
pensiero alla rima, adattare la rima al pensiero, concepirli invece
all’unisono? L’abbozzo di gerarchia fornita da Schopenhauer tra
queste tre tecniche non è infondata, ed esprime invero la crescente
maestria del poeta, che deve valersi di entrambi gli strumenti e solo
inizialmente – quando cioè non li padroneggia – abbisogna di
separare le due sezioni, scoprendo poi in fase congiuntiva delle
incongruenze che sono naturali, in semplice virtù del fatto che egli
cerca di dire qualcosa con i suoni, poi qualcosa con i concetti che
però è altro: le due unità espressive non fanno parte del
medesimo ibrido, allorché sarebbe invece chiaro qual parte spetti
esprimere all’una e quale all’altra, e allora l’artista cerca
adesso, più o meno goffamente, di conciliare le due cose, attingendo
alla specifica ricchezza del suo armamentario di suoni e concetti e
tramite l’agilità con cui vi si muove, adattando gli uni agli
altri seconda che il Suono o qui invece il Concetto sembri essere più
interessante, più forte e dunque più efficace in ordine allo
scopo finale, sicché gli spetti un ruolo direttivo che l’altro
deve assecondare a costo di mutilarsi, stirarsi, diminuirsi,
allargarsi, distorcersi o addirittura snaturarsi, se non proprio
sopprimersi con un gemito di nostalgia ed esser sostituito da
qualcosa di completamente diverso e maggiormente adatto. Si va alla
ricerca di questi strumenti, poiché nessuno ne ha esplorate le
complete possibilità, occorre allenarsi al massimo senza pigrizia a
partire dai risultati dei nostri precedenti tentativi espressivi.
Quanto ne siamo stati appagati? Cosa è invero rimasto in noi da
espellere? Quanto piacere abbiamo tratto dalla nostra opera? Siamo
sicuri di non poter fare molto di più? Occorre sintetizzare il
maggior numero di concetti sulla base delle nostre esperienze,
analizzarle per saper dare ad ogni cosa il suo nome, sperimentare
varie diciture, stringate, larghe, dirette, perifrastiche, concrete,
astratte, esplicite, implicite, complete, reticenti, raccolte,
distribuite, intrecciate, separate, coniare nuove locuzioni
paradigmatiche, e pertanto riutilizzabili e adattabili, assicurarsi
degli effetti di ogni figura, verificarli puntualmente nelle nostre
nuove produzioni, almeno fino a che non saremo tanto esperti da
poterci permettere di scrivere meccanicamente, ed all’interno di
tutto questo, tenere in alta considerazione gli effetti
eufonici o invece cacofonici delle nostre parole e frasi. Se c’è
infatti qualcosa di più doloroso di quello che abbiamo dentro, è
rendersi conto di averlo espresso male. I nostri strumenti si
sviluppano però sotto la spinta delle nostre esigenze, dacché, non
potranno mai superarle. Nessuno è stimolato a costruire
strumenti che non userà, ma non può nemmeno acquisirli a priori
rispetto alla nascita di un concreto bisogno espressivo. Accogliere
il detto Impara l’arte e mettila da parte è una leggerezza
che un filosofo non deve commettere, senza inquadrare subito e
rettamente le condizioni tramite cui qualcosa possa e debba essere
imparato. Un uomo dovrebbe avere la possibilità di crescere
gradualmente. Come la gravità dei problemi dovrebbe aumentare solo,
in un mondo ideale, parallelamente alla capacità di risolverli,
anche solo nell’ambito dell’espediente artistico vale lo stesso.
Un giovane artista non dovrebbe essere spremuto in un torchio
esistenziale ed emotivo prima di aver acquisito la perizia
espressiva, ed il suo più grave errore, ed altresì quello di un suo
insegnante, è trascurare appunto l’acquisizione e l’allenamento
di ogni minimo strumento e metodo a partire dalle sfide più
semplici. La vita potrebbe infatti travolgerlo in qualsiasi momento
con qualcosa di più grande di lui. Tale sforzo è dunque un
investimento sulla nostra salute e sulla nostra professionalità
futura. I sempliciotti per natura possono essere invece assai più
trascurati. Parlo di coloro che hanno ben poco intorno e dentro, poco
intenso, poco ricco, poco intricato, poco insolito. Alle loro opere
artistiche bastano invero pochi luoghi comuni e frasi fatte, da un
lato, ed i primi rudimenti della musica dall’altro, ad ottenere
l’appagamento completo della loro esigenza. Essi imparano
addirittura da quell’ambiente banale cui dovrebbero dare strumenti
in quanto artisti e dunque persone con capacità di penetrazione e
rappresentazione superiori a quelle del proprio pubblico. Forse la
differenza sta nel fatto che uno è nato con una discreta voce e un
carattere un poco più sfacciato dei suoi amici, una buona carica
energetica, ha preso qualche lezione di chitarra e gli è passato per
la testa di mettersi a scrivere qualcosa.
Memoria
e scrittura
La memoria è un sistema difensivo
contro attacchi plurimi. Di quanto ci viene presentato in veste
artistica o teorica, noi non possiamo comprendere nulla che non
abbiamo già vissuto, per quanto perfettamente esso sia stato
espresso. Ciò che non è stato correttamente espresso presenta degli
elementi di parziale affinità con quello che abbiamo vissuto, che
noi comprendiamo subito e che connettiamo automaticamente con tutte
le altre parti di quella realtà sedimentata in noi, in modo da poter
correggere anche il modello esterno, scartar quello che non c’entra
o riempir le sue mancanze. L’attività espressiva di quello che
proviamo sottrae sempre qualcosa al naturale processo di guarigione,
di riassestamento dell’equilibrio, di battaglia contro le cause del
male: noi utilizziamo parte delle nostre energie in tale operazione
espressiva, ma se vogliamo realizzarla dobbiamo agire a caldo, prima
che le emozioni siano defluite e dunque il male rimosso, altrimenti
non ci resta nulla da esprimere. A chi nuoce dunque l’espressione?
Alla vittoria presente. A chi giova invece? Ad una serie di vittorie
future. Al di là del guadagno che potremo ricevere dall’essere
stati artefici di prodotti artistici validi a molti, noi stessi
grazie al linguaggio abbiamo creato una copia, anche solo strutturale
od incompleta, di quello che abbiamo fatto, orbene della soluzione
che ne abbiamo trovato. È solo grazie alla creazione di questa copia
che noi, quando si presenterà una situazione simile, potremo
riconoscerla ovvero assimilarla a quella già vissuta, che senza il
nostro modello mnemonico sarebbe andata perduta per sempre e noi
dovremmo fare i conti con problemi sempre nuovi verso i quali non
potremmo utilizzare metodi già acquisiti e dimostratisi vincenti. Ma
la stessa incisione di segni, l’espressione di quello che abbiamo
vissuto, è un’azione, che analogamente possiamo comprendere solo
allorché l’abbiamo compiuta anche noi. Per cui non basta, per
comprendere ciò che leggiamo, che abbiamo vissuto le esperienze di
cui si sta parlando, dobbiamo anche averne vissuto la fotografia, la
scrittura, poiché prima assimiliamo il segno esterno a quello già
sedimentato in noi, che noi stessi abbiamo creato, quindi
quest’ultimo all’esperienza vissuta. Per capire in pieno colui
che parla devi aver già parlato come lui, non solo saper di cosa sta
parlando. Ma se focalizziamo meglio ci rendiamo conto anche che la
distinzione tra segno e ricordo è ingannevole, poiché il nostro
ricordo si riduce alla percezione del segno, non ne è rimasto
nient’altro in noi, che quel segno, e quando il segno fornito
esteriormente stride con quello che invece abbiamo prodotto noi, esso
stride immediatamente con la nostra esperienza, è subito questa che
si ribella alla violenza che le vien fatta.
La rappresentazione non è uno sfogo,
non dobbiamo cadere in questa confusione.
Quando la rappresentazione è uno
sfogo, fa parte della guarigione, è una sua forma messa in atto con
gli strumenti che abbiamo e non necessita di essere salvata a meno
che non sia un’arma da poter riutilizzare analogamente. In tali
casi non scriviamo quello che stiamo vivendo, lo combattiamo a
parole, non dipingiamo una situazione, la modifichiamo a colpi di
pennello, non cantiamo la nostra emozione, la sputiamo fuori
cambiandola in una migliore. Insomma noi non descriviamo un
processo ma in qualche modo lo scriviamo, vi prendiamo parte
attiva.
Ma la rappresentazione come sfogo è
qualcosa di molto più efficace della rappresentazione oggettiva del
problema, che non interviene su di esso.
Quest’ultima ci consente di
riconoscere il problema, ma riconoscere vuol dire risentire,
e dunque risoffrire. Con una scrittura interventista invece,
noi ci sfoghiamo. Esso può partire dalla constatazione,
necessariamente di impatto doloroso, della stessa realtà che ci
affligge e fornire ad essa una vendetta o distensione letteraria,
oppure può esserci direttamente quest’ultima anche senza che ci
sentiamo ribadire i panni in cui ci troviamo. Infatti possiamo
leggere un tizio che spara improperi e frasi violente senza sapere
con chi ce l’abbia ed ascoltarlo con gusto, nello stesso modo in
cui apprezziamo un metal aggressivo anche senza badare al testo,
poiché quel tessuto sonoro può adattarsi a svariati sottofondi
esistenziali.
OPERAZIONE DI PERFEZIONAMENTO DELLE
DEFINIZIONI.
LE DEFINIZIONI DEI DIZIONARI NON SONO
PSICOLOGICAMENTE EFFICACI
Forniamo un esempio, preso dal
dizionario Treccani
Che cosa è un CERCINE?
cércine (ant. cércino)
s. m. [lat. cĭrcĭnus «compasso, cerchio», der. di cĭrcus
«circonferenza»]. –
- Panno ravvolto in forma di cerchio, che si mette sul capo per sostenere pesi.
Iniziamo l’analisi dalla definizione.
Dice panno ravvolto in forma di cerchio, ma io non so
ancora attorno a cosa sia ravvolto, per cui la definizione è
fluttuante, mi lascia un vuoto empirico, e questi mi piazzano una
virgola, che è un segno d’interruzione intermedia che però non
regge poiché la locuzione precedente non ha significato nemmeno
parzialmente conclusivo, come è necessario prima di porre una
virgola. Il completamento del concetto, il riempimento del vuoto
attorno al quale doveva ravvolgersi il panno è stato compiuto da una
testa, mentre prima, nel primo emistichio che abbiamo letto,
esprimendo questo un concetto generale, veniva concretizzato in
maniera soggettiva con qualche oggetto intorno al quale io potevo
aver visto ravvolto un panno a forma di cerchio. Alla fine della
definizione ci viene detto anche che esso serve per sostenere pesi,
nel caso ce lo fossimo chiesti. Ma nessuno oggetto si metterebbe sul
capo o da qualsiasi altra parte senza un motivo, e quando aneliamo ad
una definizione abbisogniamo sempre di sapere la funzione di
un oggetto, ed anzi senza una precisa funzione un oggetto non ha
consistenza e comprensibilità, per cui quella domanda è scontata,
ce la poniamo sempre, anche se in maniera inconsapevole. Quindi
quell’informazione è necessaria all’interno di una definizione,
e tutto il resto invero non ne è che una parte, ogni termine
contribuisce a definire la funzione, poiché altro che una funzione
non si può definire. Il problema diventa allora quello di stabilire
dove devono comparire i singoli elementi della definizione. Senza
sapere che il cercine è un panno io non posso capire la funzione.
Senza sapere che viene ravvolto intorno alla testa io non posso
capire la funzione. Senza sapere che serve per sostenere pesi io non
posso capire la funzione.
Se io avessi la realtà di tale oggetto
dinanzi agli occhi, in tutte le sue componenti, io la comprenderei al
volo. Il fatto è che tali informazioni non possono essere date
contemporaneamente in modo letterario, se non appunto esprimendole
con un unico termine, che però guarda caso è la mia incognita, e
nella definizione viene scomposta nelle sue parti. La definizione
infatti connette oggetti che nella realtà empirica sono già uniti e
unitariamente percepibili. Essendo le parti scomposte, nella
definizione, quale che noi decidiamo di mettere davanti sarà sempre
una immagine incompleta e fluttuante, e pertanto disagevole da
rappresentare e mantenere in vigore sino al suo completamento.
Potevamo infatti invertire la sequenza e dire…
cércine
Elemento (cioè un termine
generico) utilizzato per sostenere pesi (e qui siamo ancora
sul generico) con la testa (prima chiarificazione), costituito
da un panno ravvolto attorno ad essa (seconda chiarificazione).
Questa definizione risulterebbe ancora
più ostica da comprendere, poiché molto più vasto è il campo
semantico che racchiude, nell’esatto ordine in cui i concetti sono
presentati 1) Gli elementi 2) quelli utilizzati per sostenere pesi
(quali pesi? …)
3) quelli utilizzati per sostenere pesi
con la testa - che cerchiamo di passare in rassegna fino a quando non
ci dicono che 4) si tratta di un panno (posizionato come?) presto
detto 5) ravvolto intorno alla testa, sicché tiriamo un sospiro di
sollievo per aver finalmente inquadrato di cosa si tratta, dopo aver
sostenuto per qualche secondo lo scibile umano raccolto sotto il
concetto di elemento.
Dal punto di vista oggettivo non c’è
una gerarchia e dunque un ordine di priorità tra gli elementi
definitori che vengono forniti, poiché tutti sono necessari ad
esprimere il concetto. La gerarchia vi è invece dal punto di vista
psicologico e soggettivo, perché si deve partire da ciò che ognuno
padroneggia meglio, che ha di più chiaro nel suo bagaglio di
conoscenze, e su di esso gradualmente porre delle nuove connessioni
che creino di fatto un oggetto nuovo. È molto arduo innestare
connessioni tra oggetti non ancora ben formati e solidi nella
coscienza, per cui prima ci si dovrà preoccupare di formarli e
solidificarli. Ma qui compare il problema centrale della soggettività
della definizione ottimale, problema che non può essere risolto
da un autore di dizionari, che deve fornire definizioni standard.
Dunque si parte dai concetti meglio padroneggiati dalla maggioranza
delle persone e da quelli maggiormente specifici per giungere al
maggior livello di astrazione. Altrimenti si entra in un dizionario
tematico per specialisti, in cui analogamente le definizioni
partiranno dagli elementi più padroneggiati, che saranno già
differenti, per specificare gradualmente i caratteri ancora ignoti.
Questa gradualità, però, che si mantiene quale che sia il livello
di approfondimento e dunque il target del dizionario, deve
essere una condizione maggiormente rigida, poiché spesso viene
violata con notevole leggerezza, producendo definizioni poco agevoli
da comprendere, per non dire proprio oscure, in molti casi.
In prima posizione, nei dizionari, con
le solite allunganti abbreviazioni, viene posta l’etimologia, che
però, nel caso non costituisca un’efficace pre-definizione, una
focalizzazione del campo e dunque una pre-scrematura di elementi, è
qualcosa di pesante, poco illuminante, se non addirittura fuorviante.
Io non ho bisogno, per capire la seguente definizione, che cercine
in latino si diceva circinus, che significava compasso oppure
cerchio, il quale a sua volta deriva da circus ovvero
circonferenza: tutto questo non è che un allargamento del campo,
utile solo su richiesta e comunque padroneggiabile solo allorché si
abbia già chiaro che cosa sia un cercine. Dunque l’etimologia
andrebbe tutt’al più posta alla fine, non all’inizio.
Questa prospettiva storica, questo
ponte con l’antichità implica l’esigenza di fornire una
descrizione di un fenomeno molto più complesso, ovvero una
tradizione ed un trasformismo, messi a confronto, la quale esula
dagli interessi di chi vuole semplicemente avere a che fare coi
cercini nell’epoca attuale. Se i cercini sono cosa che non esiste
più ma è tuttavia collegata con cose che esistono ancora, ecco che
l’esigenza etimologica si presenta ugualmente. Tuttavia non è
questo il caso. Quando pongo una etimologia fornisco un rapporto col
passato: ed in questo caso dico che il circinus dei romani è
lo stesso cercine che abbiamo oggi. Eppure i due termini non
sono uguali e la cosa non è mai priva d’insidie. Possiamo certo
assecondare un processo automatico della nostra mente che è quello
di identificare le cose simili. Tuttavia, questo non può essere
fatto in maniera diretta, ma tramite l’equiparazione di ciascun
termine con un termine medio.
Per arrivare a dir che X = Y si deve
prima dire che X = A e che anche Y = A
Se noi dunque vogliamo dare una
definizione storica, visto che abbiamo preso in mano l’etimologia,
possiamo riformularla in questo modo…
Il cercine è un panno ravvolto
in forma di cerchio che si mette sul capo per sostenere pesi. (La
parola cercine deriva dal latino circinus, ovvero compasso, cerchio).
Il circinus era un panno ravvolto in forma di cerchio che si
metteva sul capo per sostenere pesi.
Il fatto è che dal sistema X = A e Y =
A non si potrà mai dedurre che X = Y se non li si sovrappone
direttamente, fisicamente, mutando la X in una Y, perché comunque
soltanto i secondi termini delle due uguaglianze sono davvero
sovrapponibili in quanto identici. Questa operazione di assimilazione
è arbitraria, istintiva, prepotente, ed in fondo scorretta, poiché
mai al mondo due oggetti qualsiasi possono essere considerati uguali,
altrimenti sarebbero un oggetto solo.
Ma noi siamo necessitati a farci strada
nella vita equiparando oggetti diversi.
Nell’ultima definizione che abbiamo
dato, la frase incidentale al centro è totalmente astraibile dalla
definizione senza che ne muti la sostanza. Tuttavia abbiamo fornito e
posto l’una di fianco all’altra le due definizioni identiche dei
due differenti termini cercine e circinus: ore le
abbiamo entrambe più chiare e siamo più facilitati a sovrapporle
sino a farle diventare una sola. Per farlo, la definizione va
arricchita nel seguente modo…
Il cercine è un panno ravvolto
in forma di cerchio che si mette sul capo per sostenere pesi. Il
circinus era un panno ravvolto in forma di cerchio che si
metteva sul capo per sostenere pesi. Il circinus ha cambiato
nome, ora si chiama cercine, ma è ancora la stessa cosa.
Se l’ultima frase noi non la
scriviamo, la compie comunque la nostra mente, sicché conviene
facilitarla scrivendola papale papale.
Essendo comparato il presente al
passato, è inevitabile che i tempi verbali siano differenti, poiché
noi dobbiamo infatti dire che cosa è rimasto uguale e cosa invece è
cambiato per il semplice fatto che parliamo di due epoche diverse. Se
noi partiamo definendo la nozione antica di circinus e
vogliamo dire che oggi è la stessa cosa, prima dobbiamo visualizzare
un antico romano nel contesto dell’antica Roma con in testa il
circinus e poi lasciar sospeso in aria questo panno ravvolto,
far sparire mentalmente il romano con la sua crapa e la sua Roma e
sostituire il temporaneo vuoto con un uomo odierno posto nel contesto
odierno, che porta lo stesso copricapo con un altro nome. Oppure
dobbiamo fare esattamente l’opposto.
La
fiamma artistica
Le porte di Parigi è il pezzo più
toccante del Notre Dame anche per la scenografia in cui compaiono dei
fuochi. La scenografia materiale di Giulietta & Romeo invece è
scarna ed il resto è una proiezione sullo sfondo. Non è certamente
altrettanto efficace. Piazza un fuoco da qualche parte ed otterrai un
effetto magico. Il fuoco è il simbolo più potente dell’umanità
sin dalla preistoria. Il fuoco magnetizza gli sguardi, più di una
bella donna. La donna può suscitare il fuoco della passione, il
fuoco della gelosia, tutte metafore del fuoco vero. Il fuoco è
storicamente colui che ci ha salvato dal buio della notte, dal
freddo, dalla cattiva alimentazione, cuoce la carne, uccide i germi,
cauterizza una ferita, è fuoco purificatore. Certi ricordi sono
ancora presenti nel nostro codice genetico, sicché ogni stilla di
fiamma ha questo potere ipnotico.
Scena teatrale, da questo monologo alla
mia destra, con schiocco delle dita erompe una fiamma. Il pubblico
reagisce, ne è rapito, sicché io proseguo…
Fa paura, vero? Però è bello…voi
ascoltate me, ma guardate lui, perché lui vi parla in maniera più
intima, vi parla delle vostre origini e vi ricorda che non sareste
nulla senza di lui…
La fiamma si alza minacciosa fino a
lambire le quinte
…che potrebbe distruggervi se solo
volesse
Adesso la fiamma si riduce ad una
candela
…Non importa quanto la fiamma sia
piccola, questo è il suo potere
Si spegne del tutto e siamo nel buio
…Potrebbe essere…una lucciola!
La lucciola appare sullo sfondo nero e
comincia a muoversi, la gente la segue
…Lei vagola nel buio, non potete
ignorarla perché solo lei può indicarvi una via
La lucciola sparisce – pausa – si
accende una lanterna nella mia mano
…Sicché noi pigliamo lucciole per
lanterne, quando
La lanterna si spegne
…Non ci sono lanterne
La riaccendo ruotando un pomello, ora
la regge un supporto.
… … … … … … …
… …
Se il fuoco si arrabbia può dunque
uccidervi come…l’Oceano.
L’acqua fu meno mitica poiché era
facile attingerne, mentre il fuoco dovette rubarlo Prometeo agli dei,
poiché nessuno sapeva accenderlo. Poi la terra, la Madre Terra e
l’Aria. La prime divinità furono personalizzazioni degli elementi
naturali. Un’opera d’arte che voglia essere efficace deve
pertanto partire dalle basi e la loro realtà si deve sentire il più
chiaramente possibile, quale primo elemento che scuote l’uomo nei
suoi interessi più profondi. Su questa base si possono innestare
vicissitudini che investono elementi gradualmente meno vitali, ma che
dell’esistenza completano il quadro, massimizzandone l’impatto.
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