NICHILISMO IMMANENTE
Nella
scuola vige un principio: Cultura dell’Apparenza e Apparenza
della Cultura. Esso è una conseguenza dell’universalizzazione
di un diritto elitario e dell’imbarazzo in cui si sono trovati
insegnanti e studenti allorché erano fuori posto, a maneggiare cose
che non li riguardano e delle quali non sono all’altezza, che forse
non li interessano nemmeno. Una volta implicati nel gioco essi devono
pur far qualcosa, devono metterci per lo meno la faccia, sebbene non
sappiano cosa debbano fare e quale obiettivo debbano perseguire. Così
ci si appoggia a programmi standardizzati di cui vorrei volentieri
incontrare il fautore, nozionismo arbitrario e scriteriato, mancanza
di illustrazione del mondo del lavoro o della ricerca e tantomeno
preparazione ad essi. Su questa base si inseriscono influenze
personali di singoli cialtroni rivestiti da professori che possiedono
un poco di personalità e pertanto riescono a dare la loro impronta
psichica, assiologica e metodologica ai ragazzi, avendone il titolo
ma non l’autorevolezza. Si procede, quindi, con parziali richieste
ai ragazzi di mostrare la propria creatività personale e capacità
critica in un modo che non è solo fasullo in quanto mira ad
apparire, a confezionare qualcosa di presentabile, e non già a
produrre qualcosa di risolutivo o di valore estetico, quasi come se
costoro dovessero diventare dei veri intellettuali o degli artisti e
nel qual caso l’insegnante, non essendo un maestro, non sarebbe in
grado di valutarli o di compiere a sua volta quello che chiede loro;
non solo richieste fasulle, orbene, ma richieste che sono anche
assolutamente fuori luogo verso persone che di capacità
critica o creativa non ne avranno mai, e che sono comunque premature
in chi invece le avrebbe, ma avrebbe anche bisogno di un percorso
personalizzato che intrecci adeguatamente studio nozionistico,
esperienze personali, autonoma riflessione ed esercizio creativo,
nelle qual cose le sue qualità innate ed i suoi obiettivi intrinseci
detteranno la propria legge, e solo gradirebbero il paterno consiglio
di un vecchio maestro che ci è già passato ed è di natura affine
all’allievo. Il danno provocato dai principi egualitari è
incalcolabile. Ma essendo tale principio antinaturale, ad esso si
oppone automaticamente e in ogni luogo quello meritocratico, anche
quando non è del tutto consapevole, fissato e dichiarato nelle sue
ragioni. Tuttavia, grazie alle resistenze del suo oppositore, esso
non si afferma mai totalmente, e spesso ne fanno le spese coloro che
davvero meriterebbero, in quanto vengono soffocati da mediocri che
ormai hanno infestato tutti gli strati delle gerarchie sociali e
dall’alto o dal basso dettano legge. Se la scuola fa schifo è
colpa della politica. Ma se la politica entra determinatamente nel
campo dell’Istruzione, l’intero paese sente odore di dittatura,
si mette istintivamente in allerta e, non potendo negare problemi
evidenti, cercherà falsi capri espiatori.
L’organismo
innesca istinti di difesa primaria contro i nemici più vicini, ed i
nemici più vicini stanno all’interno del corpo: ogni sentore
d’insania, ogni oppressione, sostanza che lo avveleni, esso cerca
di espellere violentemente. Spesso a spingerci all’azione non è la
completa e razionalizzata percezione della situazione esterna, con
tutte le sue minacce ed occasioni, percezione che deve affiancarsi
anche a quella interna, bensì l’intensificarsi di quelle
sgradevoli sensazioni interne, che non abbiamo più la forza o la
pazienza di sopportare, o anche solo di sfiatare in modo più
accorto, temporaneo, incompleto, sublimato, deviato, il che
sicuramente è meno piacevole nell’immediato, ma ci salverebbe
dalla disfatta imposta poi dalle conseguenze. Credo che molte guerre
siano state perdute in questo modo.
Il
rapporto più significativo nella battaglia della vita è quello tra
azione e conoscenza. La conoscenza ha indiscutibilmente come fine
ultimo l’azione, poiché nulla siamo interessati a conoscere che
non rappresenti per noi una minaccia o una promessa, entro le quali
dobbiamo muoverci per realizzare il benessere. Molti fattori di
questo universo sono stati mossi da un istinto cieco: esso ha
prodotto dei danni che hanno innescato la nostra reazione difensiva,
anch’essa inizialmente istintiva. Ma dacché potevamo disporre
d’una forza ben misera, la nostra reazione istintiva ci ha portato
a delle sconfitte, da parte dei fattori esterni, che in differenti
legioni ci hanno soverchiato sottraendoci un’ancor maggiore fetta
di benessere. Questa esperienza, questa azione è stata dunque
illuminante, perché ci ha resi consapevoli di nuovi nemici, delle
loro locazioni, movenze, spostamenti, di loro eventuali rapporti, del
loro essere separati od organizzati, delle loro potenzialità
offensive e difensive, nonché delle nostre, misurate nel confronto.
Ora, l’azione risulta dunque illuminante anche per la conoscenza,
ed anzi si rivela l’unica vera fonte di ogni conoscenza. L’azione
diretta che produce la conoscenza non prescinde mai dall’ambito
bellico: mentre noi ci muoviamo in un ambiente, notiamo che i suoi
fattori sono sempre amichevoli oppure ostili, od ancor neutrali in
tal contesto bipolare, poiché anch’essi alla ricerca del proprio
maggior benessere, che sembra a tutti confliggere con quello degli
altri. Per tale motivo il reperimento di conoscenze dirette è sempre
pericoloso poiché appunto inizialmente ignaro ed avventuroso, sulla
base delle energie di cui al momento si dispone, e che vengono mosse
dai nostri istinti verso la soddisfazione dei nostri bisogni ed in
vista dei nostri scopi intrinseci. Ma le molteplici esperienze
dirette compiute nella storia da moltissimi uomini nelle locazioni
più disparate hanno lasciato un segno che si chiamerà poi cultura.
Tali conoscenze sono state dunque ereditate, a rendere possibile quel
progresso, inaccessibile ad un singolo uomo o ad una piccola
comunità. Si ha rispetto di una cultura poiché s’intuisce quanto
lavoro e quanto sangue ci siano dietro il suo sviluppo storico, e si
rispettano i padri fondatori di una scuola, gli antichi maestri di
un’arte, poiché sono gli unici che se la siano guadagnata davvero,
mentre noi apprendiamo in poco tempo ciò che è stato appreso dalla
natura da pochi arditi. Tutti quei busti, le statue, le immagini, gli
epigrammi, posti all’ingresso delle accademie ci vogliono ammonire
d’un fatto: ho sofferto, osato, insistito, ricercato, ora non ci
sono più ma quello che avete oggi lo dovete a me, rendetemi eterno
onore. Per quanto meno vivide, nonché mediate dalla
soggettività, tutti dobbiamo attingere a conoscenze di seconda mano,
fidandoci del lume e dell’onestà di chi le ha vissute. La cultura
è un ricettacolo di esperienze di seconda mano, il quale dona la
possibilità di estendere le nostre conoscenze a ciò che non ci è
direttamente accessibile, nonché quella di formarci in
maniera più distaccata e dunque meno pericolosa, di crescere
intellettualmente con meno sangue improvviso e meno gioia improvvisa,
con meno spreco energetico, ma anche senza recupero od aumento
energetico, senza sconfitta dunque ma anche senza vittoria, senza
sottrazione né espansione, poiché sappiamo che l’esperienza, sia
cieca o avveduta, può essere negativa ma anche positiva qualora
siamo fortunati, ovvero incappiamo nella nostra azione in un maggior
numero di fattori che di per se stessi non ci si rivelano ostili, ma
favorevoli oppure ostili con bassa energia, sicché li abbiamo
sconfitti raggiungendo una roccaforte di maggior benessere con nuove
risorse da utilizzare. Appare ora semplice riconoscere che, se le tue
risorse interiori, la tua potenza militare, sono poderose, ti puoi
permettere un lavoro di ricerca ben ridotto ed essere incurante, di
agire più ciecamente ed avventatamente di quanto possa fare un
debole, poiché eventuali fattori negativi che si presentino
inaspettati verranno soverchiati, sicché essendo più forti ci
getteremo in una azione conquistatrice che indebolirà il nemico, ci
annetterà nuovi territori, ci illuminerà di conoscenze dirette a
buon mercato, ovvero con poco spargimento di sangue, ci affrancherà
inoltre degli istinti sgradevoli sedimentati in noi, bramosi di
uscire riversati nell’azione, nella concretezza, istinti a rischio
di surriscaldamento e d’immarcescenza qualora si trattengano nel
corpo, che funge orbene da fusibile, da ammortizzatore, giacché un
impulso aggressivo non è giammai represso ma deviato in auto
distruttività o sublimato in pensiero fantasioso o in creazione
artistica. Un uomo forte e dai modesti obiettivi non deve dunque
aspettare, né studiare gran ché, poiché di poche conoscenze ha
bisogno e di pochi avversari ragionevole paura. Le conoscenze
necessarie può farsele ben sul campo con qualche graffio ed
avvantaggiarsi presto nei confronti degli avversari. La sua energia
potrebbe del resto diminuire ed in generale il tempo giovare ai
nemici, che possono avvantaggiarsi ancor più di lui nel momento in
cui lo vedono indaffarato sui libri sicché possono agire
indisturbati e inosteggiati, oppure ancor qualora, mentre siete tutti
quanti in fase preparatoria, essi possiedano maggiori fonti
conoscitive ed apprendano più rapidamente. Allorché lo scontro è
prima o poi inevitabile, nell’ambito di obiettivi che si escludono
reciprocamente, tutto sta a stabilire la data favorevole per esso,
prevedendo rettamente l’aumento o la diminuzione delle proprie
forze rispetto a quelle del nemico. Tornando al fattore ereditarietà,
se non ti fidi delle conoscenze che ti vengono tramandate, puoi
sempre investire su te stesso, tornare alla natura, fare i tuoi
esperimenti e rifondare una scienza tua: c’è però una
precisazione da fare. Chi ha creato un’arte, una cultura ha il più
delle volte creato anche delle Istituzioni che la difendono, ormai
riconosciute e piene di accoliti, inserite nel sistema generale,
istituzioni oramai potenti ed egemoniche, che escludono o comunque
rendono difficili le cose a spiriti critici e alternativamente
creativi, sicché la situazione di questi ultimi è ancor più dura
di quella dei padri fondatori. Questi infatti erano almeno liberi, in
quanto erano i primi a battere un terreno e ad edificarci sopra.
Quelli invece devono combattere contro le presenti istituzioni mentre
tentano di edificarne di nuove.
La
felicità è conseguenza di una azione vincente. L’azione vincente
si innesca quando un corpo reagisce con sufficiente energia ad una
percezione esatta. La teoria è la sublimazione intellettuale di una
azione vincente alla quale non abbiamo accesso causa la mancanza di
uno dei due fattori. La teoria è motivata dal fatto che esiste uno
scarto temporale tra la percezione e la reazione, in quanto noi
assumiamo un ruolo che non ci può competere ancora, veniamo
informati, ovvero parti della realtà che dovremo affrontare
si presentano a noi, spesso nella visione distorta di un modello ed
una reazione istintiva si attiva in noi inevitabilmente, ma colpisce
a vuoto oppure obiettivi surrogati, sprecando le nostre energie
oppure ripiegandole in senso autolesionistico. Essere informati
significa essere preparati all’azione, ma il concetto stesso
racchiude una trappola perniciosa. Si è preparati all’azione
quando se ne hanno la forza e la qualità percettiva sufficienti, e
queste si acquisiscono tramite le propedeutiche azioni, non
informazioni. L’informazione incarta l’istinto, non lo libera,
vuole l’azione anzitempo, ossia prima delle propedeutiche azioni
che ci mettono nelle condizioni di agire, ed è ovvio che l’individuo
ne esca sconfitto perché viene colpito senza poter colpire. Esiste
un pericolo terribile nei concetti generali. È possibile
intendere con un concetto generale un insieme di oggetti, ed in tal
caso questo è solamente più difficile da maneggiare in poiché
molto più denso. Tuttavia esso è reale, ovvero ancor particolare.
Ma altrimenti non ha alcuna realtà e di tale inconsistenza fornirò
la consistenza di un esempio. Il concetto di intervallo musicale è
totalmente superfluo a chi voglia imparare a suonare un giro di
arpeggi su un pianoforte in più tonalità. Inizialmente poniamo che
lo impari in do, ed il suo concetto di quegli intervalli, ossia il
ricordo di averli suonati, è costituito dalle sensazioni
corrispondenti al moto delle sue dita entro quelle quarte, seconde,
quinte, settime, in tonalità di do. Ora tali concetti generali non
lo aiutano minimamente qualora lui provi a trasporre il brano in fa#,
perché i tasti sono comunque disposti diversamente nello spazio,
l’intervallo sperimentato nella tonalità di do non è mai
sovrapponibile a quello nella tonalità di fa#, e soltanto
esercitandosi direttamente nella nuova tonalità egli potrà
familiarizzare con essa, ossia fissarla in memoria in modo da rendere
automatico e non più pionieristico e faticoso un nuovo passaggio per
quei sentieri. Di ogni cosa diversa abbiamo un ricordo cioè un
concetto diverso, da costruire e ridefinire singolarmente, non esiste
alcun concetto generale che possa farne le veci e risparmiarci il
lavoro. Un concetto generale assume realtà solo come
rappresentazione di un insieme di oggetti, di cui il soggetto
coglie dunque i rapporti ma non le particolarità, non le finezze, e
tali oggetti visti da lontano conservano ai suoi occhi quelle
fattezze che gli consentono di amministrarli, e stilizzati possono
parere uguali anche se non lo sono, ma ciò è benefico ai fini
gestionali e non spetta a lui cogliere differenze più minute, egli
deve cogliere le macro affinità. Dovrà studiare discipline generali
solo chi dovrà occuparsi di insiemi di oggetti, chi dovrà ricoprire
un ruolo organizzativo. Nella realtà come nel linguaggio
possiamo avere a che fare con oggetti semplici oppure con insiemi di
oggetti, nel primo caso usiamo nomi singolari, nel secondo plurali.
Tuttavia il linguaggio stesso e dunque ogni Teoria serve a far agire
qualcun altro al posto nostro ed è dunque figlio della discrasia
sociale, del mal posizionamento. Il linguaggio informa,
dunque prepara all’azione chi non vi è stato preparato dall’azione
ma si trova nella situazione di dover agire in maniera benefica.
Tuttavia egli non può comprendere quello che non fa, sicché ogni
comunicazione è illusoria, è un grido nel vuoto lanciato da ogni
individuo che si trova a stare dove non dovrebbe, e vede altri stare
dove non dovrebbero, ed altresì la prassi promossa ingannevolmente
da chi vuol vedere perdurata l’irrisolutezza di un corpo sociale,
entro cui presto si levano impeti imperiosi da parte di questi e
quelli che si rendono conto che parlare è inutile.
Due
uomini sono di fronte ad un bivio, l’opzione A e l’opzione B.
L’opzione
A comporta una disfatta seguita da un’aura d’onore. L’opzione B
comporta la salvaguardia dalla disfatta seguita da un’onta di
disonore. Entrambe le opzioni hanno dunque un vantaggio e uno
svantaggio. Dunque, qualcosa cui ambire e qualcosa di cui avere
paura. Chi dei due è coraggioso? Partendo da un’ottica
individuale, che prescinde dal confronto con gli altri, il coraggio è
comunque legato ad una capacità di previsione del futuro che ti
permetta di confrontarlo sul momento con il presente, sicché il
valore delle due cose possa portarti ad una decisione, che poi è la
direzione che prendi. Se il disagio della disfatta presente non si
trova all’interno affrescato dalle correnti argentine d’onore che
invadono i suoi pertugi, non ti è possibile avanzare sopportandolo.
Viceversa,
se il disonore ti lancia i suoi orridi dardi dalla torre del futuro,
ti sarà difficile stare fermo alla roccarella presente. Ma se lo fa,
ecco che anche tu puoi sentire cosa ti fa più male, come il tuo
compare dalla situazione inversa. Presi i due individui
singolarmente, entrambi sono coraggiosi nella misura in cui compiono
una scelta che li porta, nella postazione successiva in cui si misura
la felicità, ad un livello maggiore di quello in cui li avrebbe
messi la scelta opposta. Se quello che parte subisce una disfatta
troppo grossa, che non può essere compensata dal miglioramento
d’immagine, fu stolto e dunque vile, non coraggioso. Se quell’altro
subisce un disonor troppo grave, che non può essere compensato dalla
salvaguardia delle penne, anche lui è stato vile, non coraggioso. Ma
nel sentire comune, che spesso valuta al contrario, sarebbero
coraggiosi entrambi nel momento in cui scegliessero il male più
doloroso. È la concezione del coraggio martire, la quale presuppone
una gerarchia di valori, che pone in prima posizione un interesse
esterno al quale tu, se vuoi essere virtuoso, ti devi offrire in
sacrificio, dunque disprezzar te stesso in favor della causa. Ora è
chiaro che per dare questo tipo di giudizi, questo terzo interesse
deve essere presente, altrimenti coraggio e viltà dipendono,
nell’ottica individualista, dalla scelta più o meno conveniente
che fa il singolo. Mentre quando un valore esterno si impone, esso
loda il personaggio che si schiera nella sua fazione, dunque che
mette al primo posto lo stesso bene, dovesse anche questo comportare
il sacrificio di sé. Perché infatti si doveva conferire onore a
colui che partiva verso una disfatta? Perché disonore a colui che se
ne proteggeva? Poiché l’interesse della schiera dominante non è
il benessere dei due soggetti, ma solo la causa che essi possono
servire. Se il martirio del primo non fosse servito materialmente a
nulla, esso avrebbe comunque dato un esempio agli altri: che è buona
cosa essere disposti al sacrificio per la nostra causa! Dacché, se
voi siete più forti di quell’ardito, ardirete or più di lui
d’avanzare ad ogni costo, purché un giovamento essa ne tragga. E
disonore all’altro, perché ha amato più se stesso della causa e
dunque, sebbene in questo caso non l’avrebbe ben servita a cagion
della sua debolezza ed il suo sacrificio sarebbe stato inutile come
quello del compare, egli avrebbe però dato il cattivo
esempio, non avrebbe onorato i nostri valori. Sono stati
dunque dei personaggi esterni a porre quei due individui
nell’angoscia di un tale dilemma. Ed è secondario che la
controparte del tuo comportamento siano onori e disonori, oppure
materiali vantaggi o svantaggi, poiché i primi due non son che
garanzie per i secondi. La sostanza è…
Tu
fai il mio interesse? Ne verrai premiato. Fai invece il tuo? Ne
verrai punito.
Ma
se anche restassimo dentro il cuore del singolo, vedremmo qualcosa di
analogo perché, se la sua capacità di giudizio lo inganna,
favorendo la passione meno intensa, la più debole quindi, la
passione più forte verrà poi mortificata e lo punirà con una
sofferenza maggiore. In tal caso sono stati dei vili perché hanno
trattato un debole come fosse un forte, ed un forte come fosse un
debole, quando senza indugio avrebbero dovuto sacrificare il primo al
secondo. Ed ancora nell’ottica individualista, e parificata adesso
la capacità di previsione del futuro nei due soggetti, essi
potrebbero altresì scegliere diversamente poiché i valori delle due
opzioni non sono eguali, di modo che al primo la disfatta non fa poi
così male, mentre il disonore lo distruggerebbe, l’altro invece
sopporta meglio il disonore perché sul campo è talmente debole da
uscirne spezzettato. Se i due si unissero in società contro una
serie di mali che li minacciano, sarebbe saggio dunque che ognuno
andasse incontro a quello che sopporta meglio, il che è ciò che
avviene nella società quando la gente si sceglie un lavoro, allo
scopo comune di appagare la totalità dei bisogni. Perché allora
dovrebbe mai avvenire che una disfatta debba raccogliere onore ed una
vittoria disonore, o comunque la prima un premio che non la ripaga
del danno subìto e la seconda una punizione che supera il vantaggio?
Nella vita assennata è appunto il contrario: onore ai vincitori e
disonore ai vinti…
Il
male e il bene sono coerenti, non si mescolano. Invece questo avviene
ed è il succo di tutto quanto. Ci sono debolezze che, non
essendo riconosciute come tali, si coalizzano con delle forze, e tale
coalizione si scontra con altri gruppi analogamente frammisti di
forze e debolezze. Il risultato è che i forti della prima squadra
danneggiano i forti della seconda squadra, mentre i deboli si
salvaguardano tra di loro, raccolti sotto l’ala dei forti. I forti
possono infatti essere contrapposti solo allorché tra di loro
esistano dei deboli. Sono i deboli che causano la guerra!
Il
bene riesce a far del male solo se è mescolato al male. Ogni fazione
deve bruciare gli insetti al proprio interno, poiché sono quelli che
impediscono una vera vittoria. Eliminati i deboli, i forti si
stringeranno la mano e vivranno in pace.
Quando
riceviamo un sincero elogio da un avversario, ciò avviene poiché
egli si rende conto che non siamo veramente suoi avversari, che
nostro malgrado siam dunque contrapposti e quel bel colpo lo avremmo
dovuto assestare a qualcun altro che davvero ci è nemico. Ora lui se
la prende soltanto con quel nostro difetto che rende perdente il
nostro pregio, ovvero non positivo verso i suoi fini e vorrebbe
distruggere in noi solo tale difetto. Se lui però non ha le armi per
distruggere quel difetto, né la possibilità di distaccarsi dalla
nostra figura complessivamente dannosa, ecco che dovrà combattere
l’intera nostra persona ed in caso di necessità ucciderla, poiché
ci sono interessi superiori che giustificano il sacrificio di quella
qualità buona che anche lui aveva riconosciuto in noi. Se quella
commistione di buono e cattivo non fosse poi colpa nostra, ma di
soggetti esterni che avevano approfittato di nostre ignoranze per
mettere ingiustamente noi ed il nostro avversario l’uno contro
l’altro, ecco che vediamo adesso chi sono i nostri veri nemici. Ma
più precisamente, noi risaliamo una catena causale verso un nuovo
stadio di illuminazione, che non è detto sia l’ultimo, poiché
anche quella nuova debolezza, che ora identifichiamo come il nemico
da abbattere, potrebbe essere apparente e dunque derivare da un’altra
debolezza, che analogamente avrebbe forzato la compresenza di
materiali eterogenei, quelli che si respingono per natura, come
qualsiasi virtù aborre qualsiasi vizio e qualsiasi verità aborre
qualsiasi menzogna: con il risultato di contrapporre ciò che
dovrebbe essere invece unito, producendo il pianto dei giusti
costretti ad ammazzare un loro simile. Un nostro simile è un nostro
complementare, un elemento necessario a realizzare la nostra meta. I
soggetti esterni non sono per noi più o meno forti, ma forti o
non-forti.
Infatti
ogni minimo elemento che viene sottratto alla compagine della forza,
tutta la fa soffrire non consentendole una vittoria completa.
Soltanto all’interno del tempo ovvero nel regno della
contaminazione è valido il concetto di quantità. Mentre
nella purezza e dunque nell’unicità le cose son buone o cattive e
basta, da accettare o eliminare senza distinzioni di numero, poiché
numero vuole dire che abbiamo una pluralità di esigenze
erroneamente interpretate come una esigenza sola. Ma nel regno del
divenire esiste invece quella che chiamiamo priorità. La
priorità stabilisce quali falsi buoni dobbiamo sacrificare per poter
uccidere i veri cattivi. Nella coscienza soggettiva, la priorità è
conferita a quell’atto che ci procura la maggiore soddisfazione,
ovvero appaga il maggior numero di bisogni. Tuttavia, lo scegliamo in
base alla percezione di una gerarchia, in quanto oggetti di
secondaria importanza sono dipendenti da possedimenti più basilari,
primi i nostri mezzi di sussistenza. Ma ci renderemo conto che la
sopravvivenza in se stessa non è un bisogno, non avremmo alcun
motivo di sopravvivere se non per gustare la totalità dei piaceri
della vita, liberandoci dunque da tutte le scorie nocive che
intossicano il nostro organismo. Pertanto, se la soddisfazione dei
bisogni presuppone la vita, è altrettanto vero che la vita sarebbe
nulla senza la soddisfazione dei bisogni, e questo ribadisce come
tutti gli elementi di questo mondo siano interdipendenti e
costituiscano dunque un solo grande corpo che ambisce a strutturarsi
in maniera impeccabile, poiché anche un solo elemento fuori
posto, anche un solo bisogno inappagato rimette in discussione
l’intero sistema. La felicità totale non è mai stata raggiunta da
nessuno e nessuno l’ha posta come possibile, in un pessimismo
sociale che ci induce a pensare che il mondo sia troppo complesso per
essere ordinato e perché non resti dominante in esso una ostilità
di fondo tra i suoi elementi in virtù della quale bisogna combattere
costantemente per mantenere anche quello che si è acquisito, senza
manco porsi il problema di ottenere tutto. Ma non appena di fatto il
nostro livello di felicità personale cresce, ecco che chiediamo di
più, ecco che istintivamente e inevitabilmente lo cerchiamo, e
torniamo a guardare in basso solo sotto la pressione di una minaccia,
sia materiale o narcisistica. Senza tali minacce, noi siamo
proiettati in avanti, verso la perfezione. Tutto ciò che ci porta ad
una felicità parziale è infatti ancora nel tempo e dunque è un
false friend, poiché l’unica meta è la felicità totale,
la quale può essere raggiunta solo una volta per tutte in quanto non
è passibile di regressione. Se tutti compissero insieme lo stesso
atto di giustizia, se essi riconoscessero qual è la priorità, la
felicità cosmica sarebbe immediatamente realizzata. Ma questo non
avviene perché tutti noi siamo contaminati, pertanto ognuno di noi è
debole di questa precisa contaminazione, e solo il corso naturale
delle cose, solo la gradualità automatica nello spezzarsi di questi
legami nocivi può portare alla redenzione finale. Tutto ciò che va
in malora e muore, è pertanto giusto che lo faccia, in quanto
complessivamente esiste la priorità assoluta: essa non è altro che
quello che succede, compresi i fatti più atroci, poiché noi non
sappiamo quali ataviche ingiustizie essi vadano a compensare, quali
profonde contaminazioni essi devono disciogliere, noi giudichiamo i
fatti della storia troppo dal basso per comprenderne il senso.
Possiamo dunque educare noi stessi a compiere un sacrificio per
assicurarci un benessere più solido, più grande, e non appena ne
gustiamo il risultato quel sacrificio scompare, non ne sentiamo più
il peso: quel dolore, quella frustrazione era legata ad un bisogno
figlio di una situazione insana, di una contaminazione che ora è
stata dissolta sicché quel piacere era invero un nemico, una
trappola, ed il suo presupposto era un tassello di realtà che andava
scompaginato per giungere all’anello successivo del nostro processo
di liberazione, sicché il dolore che abbiamo sopportato era invero
un amico, e siamo stati coraggiosi nell’affrontarlo. Ma se anche
invece quell’insania fosse aumentata, se fossimo degenerati
ulteriormente, più contaminati ancora e quindi più deboli, ciò non
avrebbe rappresentato una vera ingiustizia, sul piano cosmico. Su
quello personale sì: poiché contaminazione è ingiustizia; ma se
siamo costretti a soffrire e dunque sottoposti ad una necessità, ad
una causa di forza maggiore, ebbene tale forza maggiore non è altro
che un legame più profondo che deve essere rotto per arrivare a
rompere anche tutti gli altri. Le nostre priorità personali sono
tutte inganni, ai quali non possiamo però sottrarci. Noi cerchiamo
il maggior benessere individuato sulla base di un momento
previsto nel nostro futuro, ed ottenuto tramite una precisa sequenza
di azioni in ordine di priorità, scartando dunque altre opzioni.
Forse tale previsione era stata corretta, i nostri strumenti di
valutazione funzionavano, e seguendo quella tabella di marcia noi di
fatto otteniamo una situazione di maggior benessere, senza che esso
sia mai però il benessere totale. Ma ci rendiamo conto che,
spostando ed ampliando l’orizzonte, compaiono molte più
informazioni, molti più soggetti con cui fare i conti, molti più
fattori in gioco, molti più bisogni ovvero insanie da eliminare, e
vedremmo ancora, come prima avevamo notato su scala più piccola, che
l’eliminazione di una presuppone quella di un’altra prima, sicché
la nostra tabella di marcia muta in funzione del nostro spazio
visivo, della quantità di elementi che percepiamo. Non riusciamo mai
a visualizzare l’interno cosmo in modo da comprendere la sua
priorità, quella che si esplica nel seguente modo, nel portare i
singoli individui verso ruoli sempre nuovi, fino a che non hanno
trovato quello giusto. Il mondo è un cubo di Rubik. La vita non è
in fondo altro che un percorso a ritroso verso l’unità perduta dei
suoi componenti. Possiamo essere in un ruolo di potere e non avere le
conoscenze corrette per espletarlo al meglio, come possiamo avere
molte conoscenze ma non il ruolo che ad esse compete, ma se
osserviamo meglio, questa compresenza di determinate conoscenze nella
precisa posizione sociale che occupiamo è già un ruolo,
quello del Politico Ignorante o quello del Dotto Impotente, ruoli che
avranno delle conseguenze in noi e fuori di noi, e quando davvero
avremo tutte le conoscenze necessarie per espletare al meglio un
ruolo, noi ricopriremo di fatto quel ruolo. Non potremmo infatti
arrivare a ricoprirlo senza avere le conoscenze sufficienti, ma non
avremmo le conoscenze sufficienti senza ricoprirlo, poiché noi siamo
quello che sappiamo e sappiamo quello che siamo. I due termini
procedono all’unisono. I ruoli giusti comprendono le conoscenze
giuste. Se c’era una commistione dannosa, già essa dipendeva da
una debolezza strutturale che stava più a monte, e tramite la catena
delle conseguenze tale commistione si dissolverà e cercherà di
risalire a quella precedente.
L’Ignavia
non esiste: perché non compiere scelte è impossibile. Decidere
di non decidere tra due opzioni è una decisione, è di fatto
scegliere una terza opzione, e questa scelta come tutte le scelte ha
delle conseguenze con cui dobbiamo fare i conti. Si dice che l’ignavo
non vorrebbe mai fare i conti con nulla, non vorrebbe assumersi
responsabilità e dunque rischi. Ma se un uomo non si vuole assumere
alcuna responsabilità significa che sa di essere talmente debole da
essere incapace di qualsiasi vittoria, sicuro che qualsiasi rischio
si tramuterà necessariamente in danno, oppure significa che egli è
tanto stupido, così poco autoconsapevole e lungimirante, da non
accorgersi che in realtà qualche punto di forza lo possiede o
comunque potrà acquisirlo nel percorso e non essere così condannato
a priori. Se noi disprezziamo questa debolezza generale, del corpo o
della capacità di giudizio, il nostro disprezzo è dunque
ragionevole. Non invece se disprezziamo la tendenza generale
ad evitare il rischio e l’impegno, poiché tale posizione nei
confronti di queste persone costituisce un processo assiologico più
complesso. Presuppone dei giudizi di valore che vanno sottoposti ad
una analisi più approfondita. È possibile che qualcuno di noi
condanni anche, non già l’atteggiamento concreto che noi abbiamo,
ovvero la scelta che facciamo, ma i sentimenti con cui questa viene
accompagnata, ad esempio se noi accettiamo la cosa a malincuore, se
ci sobbarchiamo un rischio ed un impegno sgraditi. Al ché i
sostenitori ed amanti della causa ci rimproverano di non mostrare
anche noi lo stesso entusiasmo ed ardore, o perché non siamo
veramente d’accordo, o perché siamo troppo deboli per affrontare
la cosa con piacere ed energia, e sentiamo invece stanchezza o
fastidio. Noi tutti, necessariamente, ci opponiamo a tutto quello che
si frappone tra noi ed il nostro massimo vantaggio, sia quello che
sia, fisico o mentale, contingente o caratteriale. Ma nessuno di noi
si lancia incontro al male. Nessuno cerca il rischio, il disagio, il
dolore, il sacrificio e la morte. Fino a che anche una piccolissima
quantità di queste cose è di fatto evitabile senza conseguenze
peggiori, noi la evitiamo con il massimo scrupolo: perché questo
vuole la natura. Infatti possiamo proseguire il discorso iniziale:
abbiamo detto che scegliere una terza opzione, tra le due che ci
avevano proposto, comporta delle conseguenze, forse più gravi
dell’aver rispettato quella dicotomia. Ma non per noi,
evidentemente, visto che scegliamo l’opzione tre. Ma dacché la
nostra scelta ha delle ripercussioni, noi non vorremmo naturalmente
fare i conti nemmeno con queste e allora magari andiamo a cercare una
quarta opzione che ce ne esima, la quale anch’essa avrà però
delle conseguenze. Possiamo andare avanti con una quinta e una sesta
opzione, sin dove il nostro pensiero e le nostre conoscenze arrivano,
oppure sino a che la ricerca di nuove opzioni che minimizzino il
danno ricevuto non comporta in se stessa un danno ancora maggiore di
una qualsiasi delle scelte precedenti. Il concetto è che uno prende
in considerazione tutte le ipotesi che il suo cervello, nelle varie
situazioni, è in grado di visualizzare, e calcola rapidamente quale
sia la più conveniente, ed affronta in realtà sempre il
rischio minore, perché anche quelli che scelgono un grosso rischio
cosiddetto non necessario non è che amino il rischio, amano
le lusinghe che ne riceverebbero sia nel caso in cui ne uscissero
vincitori sia nel caso ne fossero sconfitti, sicché tale sconfitta
non è una prospettiva così macabra, come lo sarebbe invece, in casi
come questo ossia nella mente di persone condizionate da pregiudizi
morali, un’accusa di pavidità o viltà che dunque essi temono
terribilmente e dinanzi alla cui prospettiva fuggono a gambe levate
dovessero anche andare incontro a morte cruenta. In ogni caso deve
essere accertato che quel rischio cui essi dicono di andare incontro
è realmente un rischio grande: bisogna vedere fino a che punto essi
siano deboli e vulnerabili, nello stesso modo in cui bisogna
controllare, prima di valutare lo spirito di sacrificio di una
persona, quanto ella sia effettivamente sacrificata mentre
procede in una condotta, quanto stia faticando, se stia
rinunciando a qualcosa di veramente importante sul nostro altare,
sicché il peso dell’amore di una causa come quello per una persona
vanno misurati mettendo sull’altro piatto qualcosa di sostanzioso,
non scatole vuote che si millantano piene. Le due alternative entro
le quali un uomo viene chiamato a scegliere, non possono mai essere
il Bene e il Male nelle accezioni generali, ma solo un bene ed
un male particolari e quindi soggettivi, perché
nell’accezione generale nessuno può scegliere il male. Egli agisce
sempre verso ciò che crede essere il bene. Il dantesco non ti
curar di lor ma guarda e passa è un’ostentazione di disprezzo
e quindi non è totale disprezzo in quanto questi ignavi hanno
assunto un ruolo, nei confronti della vita e nei confronti di Dante,
egli se ne è sentito danneggiato, o anche soltanto disgustato ma in
ogni caso toccato, sicché ha avuto questa reazione ostile,
anzi ancor più ostile di quella avuta contro i dannati dell’Inferno,
poiché ha valutato che il danno che riceveva da questi ultimi era
inferiore a quello operato dai primi. Se preferisci i tuoi nemici
alle persone neutrali è perché ritieni che quella precisa guerra
sia maggiormente benefica della pace, anche se si dovesse perderla.
La mitizzazione della battaglia, che sia per una causa o per la
battaglia in se stessa, implica una svalutazione dell’essere umano,
del soldato, che dunque ha il dovere di sacrificarsi in caso di
necessità, o addirittura senza una precisa necessità, e viene
maggiormente disprezzato se rifiuta questo sacrificio sopravvalutando
se stesso, non ritenendolo un buon motivo per morire, per anche solo
faticare, soffrire, fare delle rinunce. Nell’ignavo, ovvero colui
che non si prodiga in una guerra precisa da noi considerata
importante, noi odiamo la sua presunzione, la sua autostima
immeritata che lo conducono ad una scelta egoistica, anziché servire
qualcosa che noi riteniamo più importante. È dunque un
conflitto di valori, quindi un conflitto di obiettivi, ossia un
conflitto di egoismi. Quando le differenze assiologiche sono solo
questioni informative, le si può risolvere insegnando alle persone
quello che loro manca, o facendole ragionare laddove non arrivano per
problemi contingenti. Dove esse non arrivano per limiti intrinseci,
non v’è speranza di ottenere una conversione, ed allora deve
intervenire il principio gerarchico: su di loro gli uomini più
intelligenti devono necessariamente imporsi. Ma tutto ciò rientra
nell’ambito della diversità contingente. Vi è però una diversità
che riguarda invece il reale conflitto di interessi.
Non dunque il giudizio sui mezzi idonei a raggiungere tali interessi,
che possono anche essere palesi in entrambe le fazioni. Tale
conflitto va eliminato alla radice da quelle poche persone tanto
intelligenti da aver visto che esso non è necessario, non è eterno.
Ma per dissolverlo anche solo in maniera teorica egli deve
averne già visualizzato i mezzi. Non possiamo infatti vedere e
dunque neppur desiderare ciò che non è realizzabile. Per risolverlo
infine in maniera pratica egli deve impadronirsi di questi
mezzi, in sostanza assumere il potere. Ma allorché ogni individuo si
sarà impadronito dei mezzi con i quali dissolvere i conflitti
d’interesse, in sostanza quando avrà il ruolo che gli
compete, tale conflitto sarà già di fatto dissolto. Questo mostra
come la guerra sia necessaria appunto perché è l’anima stessa
della necessità. Solo la guerra è necessaria, senza di essa non vi
sarebbe alcuna necessità in quanto non ci sarebbe alcun moto. Un
necessario periodo di pace è una mossa tattica, una attesa
strategica per rimettersi in forze, causata quindi dal nostro
bellicismo interiore in cui devono trionfare le nostre fisiologiche
forze risanatrici, o ancor si tratta dell’esigenza di strutturare
meglio la nostra fazione, farla crescere economicamente e addestrarla
in vista del proseguimento delle ostilità, fino alla vittoria
finale. Essere implicato nelle necessità significa vivere nel mondo,
prendere parte a conflitti che intendono appunto dirimersi nel
benessere, e che cessano davvero solo quando ognuno ha trovato
il suo benessere, mentre possono cessare parzialmente e dunque
temporaneamente qualora un singolo o una fazione riescano ad imporsi
con energia sugli avversari, cacciandoli in un buco dal quale essi,
prima o poi, comunque usciranno. Combattere per la pace non è
un ossimoro. Non si può far altro che combattere per la pace,
chiunque combatta è perché non si sente in pace e la vuole
raggiungere, quali che siano i mezzi che personalmente individua.
L’errore del pacifista sta nel credere che lo scopo possa essere
anche il mezzo. Che astrarsi dal combattimento, essere pacifici,
serva a realizzare la pace. Non si può essere pacifici sin che la
guerra non è finita. La guerra finisce soltanto quando non la fa più
nessuno. Ma non la fa più nessuno quando nessuno ha più interesse a
farla. Nessuno ha interesse a farla quando già si trova in pace.
Dunque il massimo paradosso possibile è pretendere che i mezzi
corrispondano agli scopi, giacché non v’è contrasto più
insanabile, non v’è differenza più essenziale di quella tra mezzi
e scopi, tra moto e quiete, tra vita e perfezione. Quello che succede
in questo calderone di tormento non conta, conta solo in quanto ci
porta fuori da esso. Ma tutto contribuisce a portarci fuori da esso,
per cui tutto conta, poiché tutto è mezzo per lo scopo. Il mezzo è
un anello, l’elemento unitario della catena della necessità,
ovvero lo spazio, ossia il tempo, dunque la pluralità. Quello che
definiamo scopo sta fuori da questa catena ed è ciò che
viene voluto. Il mezzo è inizialmente l’elemento che ci è
avverso, che noi pieghiamo al nostro volere conformandolo al nostro
scopo, è un pezzo di stoffa eterogenea che noi annettiamo
forzatamente al nostro costume d’arlecchino, quando però i colori
differenti si rigettano a vicenda, poiché lo spirito della cosmica
veste impone infine la sua legge: quella dell’uniformità. Ma
l’Uniformità coincide con l’Unisostanzialità, ed
entrambe si riassumono nella Unicità. Siamo tanto più felici
quanti più mezzi abbiamo fatto divenire scopi, dunque quanti più
elementi di realtà abbiamo assimilato al nostro ego. L’unico scopo
è la felicità. Quando diciamo di avere scopi diversi,
significa che abbiamo fatto un differente scarto tra ciò che ci
interessa, ovvero rientra nel nostro ego, e quanto invece ne
sta al di fuori, senza che mai nulla ne sia fuori realmente. Quando
diciamo altresì di avere individuato mezzi differenti per i
nostri scopi, abbiamo fatto analogo scarto legato alla posizione in
cui siamo nel cosmo, che presuppone la vicinanza maggiore di
determinati oggetti che dunque hanno per noi la priorità, dunque
devono essere assimilati poiché portano a quel tutto assimilato che
adesso, nella nostra visione parziale, coincide con quel singolo atto
di assimilazione, giacché noi non possiamo muoverci verso il
plurimo: ogni volizione ha un singolo oggetto, fosse anche composto
da molti elementi ma viene percepito infine come unitario. Prima
e Davanti sono sinonimi, così lo sono Dopo e Dietro.
Quel che dobbiamo affrontare prima è perché ci è più vicino, quel
che dobbiamo affrontare dopo è perché è più lontano: la vista del
lontano è impedita da quella del vicino, sicché nella nostra
quotidianità, questo lontano di fatto non esiste. La felicità
consiste appunto nel rendere ogni mezzo lo scopo, nel dissolvere quel
contrasto prima definito insanabile, nel portare la trascendenza
nell’immanenza, ossia il nulla nella realtà grazie al concetto di
totalità, dunque i Tutti nell’Uno e L’Uno nei Tutti. Verrebbe
ora da chiedere: e qual è il mezzo per ottenere questo scopo?
Si può parlare di mezzi soltanto nella coscienza personale la quale
è limitata e dunque opera una selezione tra gli elementi della
realtà. Il mondo non la opera giammai sicché non ha il concetto di
mezzo, egli è uno scopo squassato nei mezzi, nell’irredentismo dei
singoli che, ciechi, pretendono la propria autonomia. Sicché la vera
guerra è tra il cosmo e le sue parti, e solo in apparenza tra queste
ultime: tutte sono dominate invero, dal profondo, da questo demiurgo
che mai non consentirà la vittoria stabile di alcuna di esse
sull’altre. La vista completa viene dalla sinergia delle sue parti,
il campo visivo totale dalla retta sovrapposizione dei campi visivi
parziali: ma il mondo diverrà illuminato ossia veramente saggio solo
quando – parallelamente all’atto in cui – esso sarà
sanificato. Noi non possiamo individuare il mezzo per questo scopo
poiché dovremmo aver già ottenuto lo scopo. L’uomo è quello che
sa, ma sa quello che è, sicché un uomo dalla sua coscienza
particolare non può capire le cogitazioni della natura, sa lei quali
sono i mezzi, sa lei come dissolvere quel contrasto di egoismi che la
costituisce, noi la osserviamo in un certo senso dal di fuori pur
essendo al suo interno. Contempliamo il corso della storia, in quel
che di esso possiamo comprendere dal nostro piccolo punto di vista.
Quando vorremo quello che abbiamo, smetteremo di volere. È vero che
la vita va trascesa, ma non in senso verticale. La volontà non può
essere negata altrimenti che appagandola totalmente. Non è vero che
ogni desiderio porta infinitamente ad un altro, esiste un
fine. È vero infine che la volontà è la stessa in ogni essere.
Ed appare diversa poiché in differenti gradi di oggettivazione,
diceva Schopenhauer, cadendo in un fondamentale equivoco poiché
l’oggettivazione è invero il processo tramite cui il
soggetto cessa di essere tale, e diviene oggetto, sicché le
volontà degli individui sono diverse solo poiché in differenti
gradi di soggettivazione, di complessa soggettività da cui
redimersi, ossia di posizionamento infausto. Il velo di Maja, la
pluralità, il principium individuationis, non sta nell’intelletto,
e non sta nella volontà. Sta nel mondo, esso è la realtà, e
la vita stessa è il solo strumento affinché esso si dissolva.
Razionalità, abbiamo detto, è la sanità dell’istinto, ma
razionalità e altresì sanità significano coerenza,
la prima sul piano intellettuale e la seconda sul piano fisico.
Rientrando però gli intelletti nel mondo fisico, essi partecipano
della stessa contaminazione, in differenti gradi, sicché in parte è
vero dire che il velo di Maja sono le nostre forme di conoscenza a
priori, nel senso che hanno dei limiti invalicabili nel nostro
livello di intelligenza che non ci consentono di avere una visuale
abbastanza ampia da poter comprendere quel conflitto cosmico
che tutti ci affligge e che deve essere risolto. Per Schopenhauer,
esso può essere risolto solo per via negativa, sopprimendo le parti
in causa. Per Nietzsche esso non deve neppure essere risolto e le
parti in causa devono combattersi in eterno quasi che la guerra
stessa fosse lo scopo della vita e non, come abbiamo visto,
inevitabile mezzo che porta al vero scopo. Entrambi i filosofi
sbagliano. Il primo con una soluzione che vuol passare per sublime e
profonda quando è invero assai grossolana. Egli biasima il suicidio
personale, quale ingannevole affermazione della stessa volontà di
vivere, e poi vuole elogiare il suicidio generale, il suicidio
cosmico, che è invero qualcosa di impossibile quanto la distruzione
della materia. Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma:
si uccidono quindi solo i legami, solo le posizioni degli enti, non
gli enti stessi, ma è vero dire che le nostre forme a priori sono lo
spazio e il tempo, ossia la quantità che deve risolversi in
mera qualità, di cui ognuno di noi ha una percezione
relativa, gradualmente più completa, sino al filosofo che può
averne una percezione assoluta, giungendo a quella che Schopenhauer
chiamò la coscienza migliore, che a suo dire concedeva alla
volontà la possibilità di redenzione. È vero: essa vi porta, ma
non per via negativa. Schopenhauer cade nello stesso scoramento
pessimistico dei tanti che, senza filosofia, vedendo la sterminata
complessità del mondo disperano di ogni possibilità di comprensione
e coordinamento, quella che nella ricerca è la cosmologia e nella
politica diviene poi lo stato totalitario. Tale stato di massima
illuminazione, posto invero come possibile da Schopenhauer, consente
invece all’uomo di cogliere la priorità assoluta, grazie alla
percezione dei confini cosmici, dunque di dirigere tutti gli altri
membri della gerarchia intellettuale, ognuno capace di cogliere alla
perfezione visioni parziali, sicché tutti possano operare infine
all’unisono nell’opera di pacificazione, distruggendo ogni legame
infausto. Se Schopenhauer non rinuncia di fatto alla soluzione del
problema, eppure si appiglia ad una soluzione grossolana, Nietzsche è
ancora più disfattista. Nega la realtà del problema, accetta il
divenire come una cosa buona in sé stessa, come se fare una
dichiarazione d’amore al fato, al tragico destino umano, possa
davvero zittire le urla di chi ne viene schiacciato, e d’altro
canto potessimo trarre una radicale consolazione dal pensare che in
fondo la guerra può anche essere vinta, che i deboli si
lagnano, ma i forti non se la passano poi così male in questo mondo.
Tuttavia i suoi superuomini, le sue bestie bionde, anche possedendo
buoni denti e buono stomaco, ed anche dei robusti artigli, sempre
dovranno aggirarsi nella foresta alla ricerca del cibo, ed i loro
piedi non saranno mai leggeri come quelli di un dio, poiché
l’inverno arriva anche per loro, almeno nella forma della vecchiaia
che prelude alla morte. È vero che se un individuo muore non cambia
nulla poiché la vita ovvero il conflitto fra gli altri individui non
scompare. Vero che se un individuo muore un altro ne nasce poiché
rompere un legame significa crearne un altro, sicché alcuna vera
diminuzione investe il mondo. La redenzione consiste nella vittoria
della volontà generale su quelle particolari, che non sono invero
tali, poiché Schopenhauer ha ragione nel dire che la volontà è una
e indivisa, ma tali vengono considerate grazie alle differenze
conoscitive che non sono altro che le differenze del nostro
posizionamento. Pertanto il mondo guarisce intanto che si illumina, e
si illumina intanto che guarisce, tutti contribuiscono, ed inutile è
dire “in eguale misura” dacché nell’unicità non v’è più
tale concetto, all’illuminazione, non esiste il singolo uomo
intelligente poiché il mondo nella sua globalità s’intelligentisce
e sanifica facendo evolvere la sua struttura, anche ponendo un uomo
intellettualmente dotato nelle condizioni di sviluppare i suoi
pensieri, che sono solo un tassello della nuova configurazione
migliorata. Essa configurazione può anche peggiorare?
Esistono i regressi? Per enti singoli, sì. Ma globalmente no.
Il mondo non è più o meno sano, ma sano oppure non sano, poiché
anche un solo elemento non perfettamente integrato fa collassare
tutto ed in quel momento concentra in se stesso tutta l’infelicità
di cui il resto del sistema si è liberato. Per il cosmo non esiste
neppure il tempo, perché non esiste la pluralità, ed il passato ed
il futuro non si confrontano nemmeno, perché tale confronto è una
valutazione, dunque il più o il meno, la misura in cui, il
numero di soggetti o bisogni che sono stati soddisfatti in quello che
sia preso qui come riferimento ossia, ammettiamolo pure come
riferimento sommo, lo stato ideale, quello totalmente felice. Ma
abbiamo appena detto che non può essere più o meno tale, ma solo
tale o non tale, sicché non è opportuno dire che nel presente ci
troviamo maggiormente vicini alla configurazione ideale mentre nel
passato ci trovavamo più lontani, oppure viceversa. Non vi sono
quindi alcun progresso, ed alcun regresso. Il tempo è un’illusione,
e noi diciamo che va avanti quando percepiamo un miglioramento del
nostro benessere, che va indietro quando noi restiamo
insoddisfatti rispetto a qualcosa che invece aumenta di benessere.
Non è in definitiva corretta la frase con la quale ci sembra di
dover concludere, ovvero che il mondo è in un continuo progresso
verso il suo finale ordinamento, anche qualora ci siano dei parziali
ovvero temporanei regressi. Poiché non sapendo il Mondo che cosa
sia il tempo, cosa sia lo spazio, egli non fa confronti e non fa
calcoli, per lui dunque niente conta, tutto è indifferente,
poiché nell’Uno non vi sono Due. Il mondo non ha dunque una vita,
e quello che chiamiamo mondo (ovvero il mondo transeunte) invero non
lo è, poiché non è un sistema, ma un’accozzaglia di fenomeni in
contrasto. È quindi improprio attribuire al mondo una volontà
generale, una teleologia a qualcosa di composito: la teleologia
appartiene ai singoli, ed è raggiunta attraverso il contatto
reciproco, nella sua risoluzione.
Identità
e Finalità sono sinonimi. Non esistono fini parziali come non
esistono parziali identità. Esistono invece fini compositi. Essi
sono nondimeno unitari. Fine plurimo è un ossimoro come
identità plurima. Puoi essere una persona binaria, non due
persone. Una persona binaria è una società di persone. La società
si fonda sull’alleanza. L’uomo ha compreso di non essere
autosufficiente nella guerra. Poi ha riconosciuto la sua affinità
(dunque identità) con altri uomini. Tale affinità non preclude,
anzi combacia con, la diversità dei ruoli. Infatti una affinità si
scopre nella fattuale organizzazione sociale, che sola, nel suo
complesso, costituisce il mezzo per quel fine. L’uomo non sa di
essere più grande di se stesso. Avere un fine significa infatti
cercare di andare oltre se stessi. Il solipsismo è assurdo. Infatti,
se l’uomo fosse già pago di ciò che trova dentro di sé, non
avrebbe alcun moto, alcun movimento nella società cui si appone il
suffisso –ismo anche mettendoci davanti un solipse.
La totalità dei bisogni dell’uomo può essere soddisfatta solo se
ognuno fa la sua parte nella debita posizione all’interno del
cosmo. Nell’individualismo l’uomo crede dunque di aver trovato se
stesso, in realtà si è perduto e la sua felicità non può che
esserne mutilata sino a che, realizzato il concetto al suo apice,
completamente mortificata. Non può esserci alcuna gerarchia tra fini
contrapposti perché ogni gerarchia presuppone una finalità.
Pertanto gli avversari sono sempre stati e sempre saranno uguali sul
piano etico, non esistono buoni e cattivi se non gli uni per gli
altri. L’unico modo di eliminare la battaglia è indirizzare
l’umanità verso un unico fine. È questa l’unica forma di
uguaglianza ontologicamente corretta. All’unicità del fine non si
può apporre alcuna altra uguaglianza, poiché i mezzi sono invece
tutti fattualmente ed inevitabilmente diversi. Anche perché, se
fossero uguali, non vi sarebbero alcun problema ed alcun conflitto,
dacché ogni elemento di questo mondo sarebbe intercambiabile con
qualsiasi altro. Il concetto di intercambiabilità ha significato
solo nell’insieme dei mezzi, poiché abbiamo appena dimostrato come
la diversità dei fini sia totalmente illusoria. Tutti noi abbiamo lo
stesso fine. Ad ogni fine corrisponde un mezzo: fosse anche
quest’ultimo composito, consistente in un insieme ordinato di altri
mezzi, fatto sta che solo questo preciso insieme conduce a quel fine.
E se tale insieme di mezzi fosse completo? Esso annullerebbe se
stesso, in quanto, niente andrebbe più tolto di mezzo sicché non
sarebbe più un mezzo. Ma il mezzo è un oggetto oppure il gesto che
un soggetto compie su di lui? La domanda è mal posta in quanto i
concetti di mezzo e fine hanno realtà solo in un mondo transeunte,
non statico, e precisamente come opposti: tutto ciò che è mezzo
(moto) deve condurre al fine (stasi). Gli oggetti non esistono nel
mondo transeunte, esiste solo l’azione reciproca e dunque la
relazione tra quelli che sono invero soggetti aspiranti
all’oggettività. Se l’insieme dei mezzi fosse completo, dunque,
annullando se stesso, egli annullerebbe anche il fine, nientedimeno
che realizzandolo. Una unità di fini non è cosa da ottenere, perché
non può essere un fine. Essa è una realtà. Quello che deve essere
ottenuto è invece una unità di mezzi, poiché la loro unità
annulla la loro medialità trasfigurandola in finalità. La ragione
per cui la vita non si risolve è che ognuno scambia per un fine
quello che è soltanto un insieme di mezzi. Se ognuno estendesse la
propria percezione dei mezzi, dunque della esistenza posizionata di
tutti gli altri enti, tutti avremmo immediatamente lo stesso fine,
giacché realizzandolo ne coglieremmo l’unicità.
Il fine giustifica il mezzo quando lo
percepisce come affine, ossia come compatibile, finalizzabile,
inglobabile in un tessuto più ampio. Il fine è la volontà unitaria
di tutti gli enti simili scompaginati: essi si attraggono tra di loro
così come respingono i diversi. L’azione non è mai un fine, ma
sempre e soltanto un mezzo. Gli oggetti invece, sono sempre e
soltanto fini, mai mezzi.
Ad
ogni fine corrisponde un mezzo. Per porre una gerarchia tra i mezzi
bisogna porre una gerarchia tra i fini. Essa corrisponde alla
gerarchia dei cervelli: essendo nella società reale questa gerarchia
assente o addirittura invertita, ne consegue anche la pretesa, da
parte di imbecilli che ricoprono un grado elevato, di ottenere un
fine elevato con mezzi di bassa lega. Il fine della persona
intelligente è lo stesso di quella meno intelligente: la felicità.
Ma la sua visione è superiore, fino a comprendere la realtà tutta e
dunque lo rende in grado di sancire una scala di priorità che non è
accessibile alle persone limitate, che dunque non sono in grado di
gestire una leadership governativa e nemmeno una leadership di
ricerca. Chi sta all’apice della gerarchia dei fini può dunque
stabilire una gerarchia dei mezzi, una scala di priorità d’azioni:
essa conduce tutti alla stesso fine, mentre le visioni parziali di
persone limitate in locazione elevata avrebbero prodotto delle
ingiustizie, in quanto la loro scala di priorità avrebbe senza
dubbio ignorato e trascurato elementi importanti.
Un
mezzo non è un oggetto, ma una azione. Se esistessero oggetti non
esisterebbe azione, poiché l’azione è appunto oggettivazione.
L’azione presuppone una forza: ma la forza è la finalizzazione
stessa. Ogni azione conduce infatti ad un fine e dunque
finalizza quello che era un mezzo: ossia ingloba una parte
mancante di sé stesso oppure ne espelle una estranea. Se Finalità
significa Identità, Medialità significa infatti Estraneità.
Possedere qualcosa di affine significa invero essere
quel qualcosa, perché se noi solamente lo avessimo
significherebbe che esso non fa parte della nostra essenza,
sarebbe un accidente e non un proprio, dunque qualcosa da espellere.
Noi abbiamo solo ciò che non è nostro. Ma abbiamo
detto che un mezzo è una azione, quindi medialità è
attività, ossia guerra tra due soggetti che devono purificarsi e
dunque divenire oggetti. Chi vince la guerra? Si dice la vinca il più
forte. Ma la forza è finalizzazione e questa azione è inevitabile e
dunque sempre forte abbastanza poiché unitaria e non binaria,
dacché la dualità è invece implicita nella conflittualità.
Nessuna forza sarà mai assoluta e dunque nessuna vittoria reale sino
a quando esisterà un residuo di impurità e dunque di pluralità
nell’universo, giacché sempre la lotta è tra ogni elemento di
questo mondo e tutto il resto nel suo insieme, e proprio perché,
grazie a questa maglia, le due forze sono sempre equivalenti, eppure
contrapposte perché mescolate, frammentate, nessuna delle due potrà
mai vincere sino a che non si compia l’unificazione generale e
dunque vincano entrambe. Due elementi diversi ma puri non combattono:
si alleano. L’inferiore si assoggetta spontaneamente al superiore.
A combattere sono invece gli elementi impuri, e tutti lo siamo in
certa misura, sempre, fino alla pacificazione finale. Ciò che si
sballotta da un essere all’altro sono le impurità, ed il più
debole non è che colui che possiede il maggior numero di impurità.
La
forza è il grado di purezza, e negli scontri è svantaggiato colui
che già è maggiormente contaminato, perché se dall’esterno gli
si riversano dentro elementi affini alle impurità già inglobate, la
strada è spianata perché queste volontariamente si alleano, si
uniscono, ed opprimono il soggetto sempre più soggetto e meno
oggetto. Il numero di impurità, di elementi estranei, determina la
difficoltà della lotta, ma la lotta è destinata ad essere vinta
perché tutto ciò che perde rimane nel regno transeunte, nel
regno della contaminazione, dunque nel tempo che è la misura della
nostra impurità: può un essere dunque perdere temporaneamente ossia
parzialmente, ossia mai perdere davvero, perché non è possibile
perdere se stessi, l’identità è indistruttibile: fosse
distruttibile sarebbe mistura, ed in vesti promiscue appunto noi,
solamente, perdiamo, morire è perdere la propria identità personale
per crearne di nuove, nel trasformismo cosmico che cerca la sua
perfezione sicché la Sua identità, unica vera perché originaria,
giammai può perire. Tutto ciò che ha un’origine temporale, deve
invece perire: esso ha una Durata. Tali sono tutte le Alleanze per
fini ancor personali e non cosmici. Ciò che finisce è perché
contiene un’ingiustizia, ossia un’impurità. Tuttavia l’impurità
vuol essere eliminata da ogni essere, che non sente l’intero
cosmo essendone solo una parte, sicché la battaglia che
questi attuano tra loro può soltanto trasferire impurità da un
soggetto ad un altro, senza che mai nessuno si trovi completamente
purificato sinché non lo sono anche tutti gli altri, ed il mondo
vince sempre perché non ha avversari e parimenti i suoi componenti
contrapposti lo sono soltanto in apparenza anche se in codesto regno
di apparenza il dolore è reale, e devono la loro contrapposizione
all’apparire gli uni gli altri diversi da quelli che sono, ma allo
stesso modo non potrebbero apparire diversi se non fossero appunto
già contrapposti ossia mal posizionati nella loro fattuale
diversità, che non può esprimersi in altro che nella lotta. La
lotta è complessivamente cieca eppure non abbisogna di vedere perché
il mondo è soltanto uno ed il suo istinto non può dunque sbagliare,
non ha scelte da compiere, ed i suoi elementi invece possono
permettersi di sbagliare perché nulla può andare veramente
perduto, bensì raccolto nel calderone cosmico dove continuerà ad
agire sino a trovare il suo posto. Ogni soggetto ha una capacità
percettiva e nel rispetto dei limiti di questa scaglia fuori di sé
tutto quello che è estraneo e fagocita tutto l’affine. Se non ne
ha la forza è perché la compagine di elementi estranei nella cui
morsa è stretto dall’interno e dall’esterno è composta di un
numero superiore di elementi, sicché è destinato ad inquinarsi
ancor più ad opera del mondo. Infatti la guerra finirà quando tutti
i rapporti si ridurranno all’unità. Sino a che ci saranno
compagini, esse assoggetteranno altra materia di coesione inferiore,
dunque con un numero di elementi inferiore, ed in tal modo si
rafforzeranno senza tuttavia raggiungere la forza assoluta che è
rappresentata dall’Unità totale, e posteriormente verranno
scompaginate da altre compagini che erano aumentate di dimensioni
ancor più. Mentre tu ti allei con gente a scapito di altra gente,
succede che le vostre vittime a loro volta si alleano contro di voi e
la guerra non finisce. I limiti della nostra percezione e la nostra
fattuale posizione nel mondo determinano quello che faremo, ossia
quello che butteremo fuori, incuranti dell’inquinamento creato, il
quale avrà poi un prezzo, una ripercussione su di noi, e quello che
ci annetteremo, eventualmente incuranti del fatto che sia tossico. Se
non riconosciamo il tossico è perché le nostre membrane sono già
affini al nemico e lo lasciano dunque passare. La vista dell’uomo
intelligente è superiore sia nelle locazioni elevate che gli sono
appropriate, e che una volta acquisite non son dunque accidenti ma
proprietà, e sia nelle locazioni più basse, nel cui intrico egli
nota più elementi nella loro strutturazione nonché un pertugio per
andare oltre, per assumere un ruolo superiore cui l’istinto lo
conduce. Quando l’uomo di sensibilità inferiore si trovasse in
locazione bassa, egli non desidera andare più in alto poiché non
sente niente di più alto mentre, si trovasse egli invece in alto,
tratterebbe il macrocosmo che gli sta davanti come un microcosmo,
coglierebbe da lassù solo le immagini sfocate di quello che vedeva
anche da laggiù: le grandi cose non gli sono percepibili e dunque
egli non può operare su di esse, ed in tal caso, da quel trampolo,
nemmeno sulle cose piccole cui sarebbe idoneo ed ideal benefattore.
Esiste
qualcosa al di fuori del tempo?
La
Perfezione.
Essa
è anche al di fuori dello spazio?
No,
sono un nichilista immanente.
Il
tempo è la contaminazione della materia, dunque la sua
differenziazione che, tramite il moto, cerca di ricondursi ad unità.
Possiamo parlare di spazio solo perché e finché questo è
suddiviso, giammai se esso fosse uniforme.
La
competizione come sleale contraffazione
della
guerra cosmica
L’uomo
leale tende a dire sempre la verità e sente l’istinto del
confronto universale: ogni volta che percepisce in se stesso una
debolezza, si immagina di confrontarsi sul momento con tutti i
nemici possibili, che potrebbero in tal modo sconfiggerlo e vincere
nelle maniere più complete e tremende; ogni volta che percepisce in
se stesso una forza, si immagina di confrontarsi sul momento
con tutti i nemici possibili, che potrebbe in tal modo sconfiggere e
vincere nella maniera più completa e gratificante. Dietro questo
atteggiamento sta la consapevolezza che ogni debolezza deve perire,
ogni forza trionfare. Nella competizione i confronti sono
selettivi e inoltre avvengono in momenti ben precisati, in una sfida
intermittente. Negli intermezzi i partecipanti possono diventare più
forti (mistificare debolezze intrinseche) o più deboli (mistificare
forze intrinseche). La cosa si considera comunque giusta qualora la
forza che si vuole misurare (o per lo meno una delle forze che
entrano nella valutazione) è proprio quella di organizzare la
propria crescita in vista della partita: ma si misura sempre una
forza intrinseca e originaria, non una forza cangiante.
Come si può infatti misurare qualcosa che diviene? Un film è
una serie di immagini, è una immagine che diviene: ma lo si
fotografa tutto intero come una sola immagine e lo si valuta come
qualcosa di statico. Così in fisica quando si calcolano la velocità
o l’accelerazione. Così quando si valuta una progressione umana,
per esempio una carriera sportiva. Alla base della prassi competitiva
sembra dunque stare l’idea che la debolezza va in qualche modo
preservata, e la forza soffocata. Forse l’origine della
competizione sta proprio in questo: in una viltà ancestrale, un
voler difendere il debole eludendo la forza che lo avrebbe distrutto.
Ma tale atteggiamento è innaturale, e possibile dunque solo tramite
una trasfigurazione di forze e debolezze: la difesa di qualcosa che
era solo apparentemente debole, e il tentativo di smascherare
e sconfiggere una forza soltanto apparente. Per questo l’uomo
può essere eccessivamente leale, ovvero ingiusto nei confronti di se
stesso, nel momento in cui non preserva una sua forza o è
indebitamente clemente con la debolezza dell’avversario. Giungiamo
di nuovo alla condanna della menzogna come origine del male. Ogni
menzogna infatti consiste nel considerare forte il debole oppure
debole il forte.
When
you can distinguish right from wrong and you must be right, that’s
a virtue and it is called Sense of Honour. But whereas sense of
honour means that you depends on other men’s views, that’s a flaw
and it is called Lack of Personality. You don’t realize that you
see yourself with their eyes, so that they decide your identity, you
erase yourself by trying to turn into them, because you felt weaker
and so not reliable: you wanted to be them because you see them
stronger and happier than you, their victory is more probable. Our
attitude is consequence of a judgement of value: the best thing or
person is that which shows, overall, the highest probability to get
victory and so more happiness. That is the only parameter, nor
hierarchy exists between the components of this perceived power
leading us to that preview: because hierarchy ever is based on that
parameter. Because there isn’t Right unleashed from Strong and so
from Happy. Anything is preferred for it warrants more happiness.
When two opponents are fighting, absolutely you first became a fan of
one of them because he made you feel the most powerful, and whereas
his strength would globally decline under the other one’s, you
would necessarily and immediately break your alliance with the former
and become a fan of the latter, just like you break up with a beloved
girl for another: there is only an object to which our Faithfulness
is fond and unloosable: that is Pleasure. Any other Faithfulness is
just forceable by blades of pain willingly stuck between you and your
quittance. Any Relation is between Two elements, you and another. If
the second is composed, though you feel it as unitarian. Nothing is
really conceivable outside this direct contact. When you see two
fighters, you can’t really value which one is the stronger unless
you identify yourself to one of them and feel his victory or loss as
he gets it on the other. The only
elements that can compare A to B, they are A and B the same, not ever
any third subject. If you play tennis and you oppose three players,
in order Agassi, Federer and Djokovic, as you turn to Federer not a
glimpse of Agassi is dragged in your soul, as if it were, you would
not be facing Federer now, but an ibrid player which would false the
match, and this is shown how a real comparison isn’t possible. As a
matter of fact there’s only one match between any of us and the
rest of the world as a whole, and no single battle ever is really
apart from our history, and could clearly be judged only through the
complete knowledge of it, precisely despoiling ourselves of every
cinder that mystify our original identity which only could conduce to
the right decree of placement, which is the real meaning of
judgement. Competition is the praxis of placing a man according to a
temporary identity as it is shown in a clash with another, which is
likewise temporary, and both of them react to this placement until
they feel it isn’t right, and it always will be wrong until the
clash isn’t equal, that means played by the two bare characters,
and not from all the subjects that joined the crew throughout their
history, so that they pursue that bareness that only justifies a
clash. Any other clash pollutes them both, and a later struggle for
sanitation is required by nature herself. A player blinded by the
spirit of competition, viz of greed, accepting these rules strives to
take the clash in the major condition of advantage upon his rival, he
tries to build it, and as he wins he really thinks he’s better in
the measure of the score, and takes the advantages established in
accordance to his victory, that at their own turn could be unfair,
fool, even if the real best player had won, because he completely
wins only whereas anyone
has won likewise, I mean, if all the clashes have been right and
harmonize with each other. In fact, any coin of abundance not
deserved is stolen from the hands of another who deserved it, no
exception, no twisting this.
L’uomo
non deve eludere la guerra, ma solo focalizzarsi quotidianamente su
ciò che davvero va combattuto. Non esiste altro stile di vita degno,
non esiste altra fonte di soddisfazione, altro sentiero verso la
felicità. L’uomo deve temere solo l’eventualità di perdere la
retta via.
La
natura parla dentro di noi con questo principio: non è giusto
pagare per gli errori di altri.
Che
cosa significa? Che la debolezza non deve contaminare la forza,
rendendola anch’essa debole. L’unico modo che la forza possiede
per contaminare la debolezza è distruggerla, trasformandola in
forza. La debolezza non va punita, bensì eliminata. L’unica
sentenza inesorabile e giusta che grava sulla sua testa è quella
capitale. Il codice penale è superfluo o addirittura dannoso.
Occorre un istituto che individui ogni punto debole del mondo (quindi
anche nell’organizzazione del mondo, nelle strutture)
e studi una soluzione per correggerlo, cioè eliminarlo. Occorre
indubbiamente riconoscere anche ogni forza latente, ogni
debolezza apparente, causata invero dalla debolezza altrui:
ogni forza inibita o fatta degenerare, ma ancora potenzialmente
foriera di felicità.
Un
uomo viene danneggiato da un altro. Sicché gli dice, per rivalersi:
perché non lo fai con qualcuno più forte? Se questo tizio
più forte arriva e lo punisce, egli potrebbe adottare lo stesso
criterio e dirgli: fallo con uno più forte. L’uomo molto
forte punisce l’uomo mediamente forte che aveva infierito sul
debole: ma questa è solo la rivalsa del debole sul mezzo-forte
tramite immedesimazione nel forte, e la medesima rivalsa del forte
che si era immedesimato nel debole danneggiato dal mezzo-forte. Se
uno è più forte di tutti ecco che la sua violenza non trova
condanne perché nessuna violenza superiore può intervenire. Questo
significa “essere giustificata”…
L’unica
guerra veramente giusta sarebbe quella di tutti i forti alleati
contro tutti i deboli. Sarebbe l’unica vittoria completa e dunque
la felicità. La vera forza è benefica e vincente per definizione,
per tutto il creato; e così la debolezza è venefica e perdente per
definizione, per tutto il creato. Il problema è che il mondo è
cieco, e consente che un forte venga considerato debole e dunque non
possa esercitare il suo beneficio e venga disonorato, e che un debole
venga considerato forte e dunque possa procurare danni indisturbato e
onorato: la prima debolezza che dobbiamo eliminare dunque è quella
della nostra conoscenza. Il mondo deve essere illuminato.
La
forza è appunto nella materia. I forti e i deboli lo sono in
origine. Lo sono per costituzione.
Il
degenerare del mondo, il dolore che viene prodotto che è appunto la
misura della debolezza complessiva, il peso ed il prezzo complessivi
degli errori del sistema, è dovuto in una prospettiva arcaica al
fatto che i deboli si sono mescolati ai forti e nell’essere
collettivo hanno assunto ruoli che non potevano competergli.
La più grande e significativa debolezza dell’universo sta appunto
nella struttura dello stesso, nel suo organigramma. Una struttura
fallace consente alle debolezze di accerchiare, corrompere ed in tal
modo sconfiggere le forze. Essa è il peccato originale.
Difendere
un debole e punire un forte: ecco l’essenza dell’eresia cosmica.
Solo
una cosa può farci risentire verso un vincente: che non abbia vinto
per merito suo. Dunque che la sua forza fosse solo apparente. Solo
una cosa può farci compatire un perdente e prendere le sue difese:
che sia stato vittima d’ingiustizia, ovvero non abbia perso per
demerito suo. Dunque che la sua debolezza fosse solo apparente. Vinca
il migliore non è altro che l’augurio di chi vuole le cose
secondo natura, ovvero le cose sane. Onestà non è altro che
il retto riconoscimento di ogni punto forte e di ogni punto debole.
Disonestà è mistificare forza e debolezza o contrastarne le
naturali conseguenze, ovvero il trionfo o la sconfitta eliminatoria.
Coraggio e viltà coincidono con questa
contrapposizione. Non esiste coraggio che non sia coraggio della
verità. Correttezza non è altro che il regolamento che
impedisce al debole di prevalere ed al forte di essere prevalso.
L’unica
menzogna che ha diritto di cittadinanza è colei che ha lo scopo di
proteggere e far trionfare una verità più importante: non si tratta
invero di un cittadino, ma di uno straniero in patria, che circola
con documenti falsi al nostro servizio, è un elemento nemico che è
stato assoldato dai difensori della patria con la forza o con
l’inganno, che dunque avrà involontariamente tradito i traditori.
Egli andrà espulso dallo Stato dopo aver recitato la sua parte, ed
il copione andrà bruciato come tutte le maschere.
I
paesi saranno lieti quando non avranno servizi segreti.
I
segreti saranno svelati quando gli orecchi saranno educati.
Prima
però di educare gli orecchi assicurati ch’essi non siano inetti.
Se
sono inetti, cacciali via: non è più un segreto, l’opinione mia.
Ma
ogni opinione sarebbe certezza nel limpido regno della purezza.
Mentre
ogni certezza rimane opinione nel rancido regno della corruzione.
La
prima cosa seria da fare? Ogni altro da te, tu lo devi sputare.
La
seconda cosa che stantia pur conviene? Comprar tutte le maschere,
fino a quelle più oscene. Meglio che tu le tenga alle superfici: non
sarà la passione d’attori ed attrici. Quello che tu farai sarà un
triste dovere, ma le sceneggiature son molto severe: con la stizza di
chi vuole solo se stesso, alle luci del palco, vuole tutto ed adesso.
Non capisce che solo egli dee sopportare, colossale agonia, per un
lieto finale. Se tu hai soggiogato le anime bieche, se li hai
ingannati con le loro monete. Loro tosti non sanno che questo
teatrino non potea contenere un più grande destino. La sua verde
speranza è cresciuta all’interno, e la luce ha affrescato ogni
fiamma d’inferno. Lei che adesso rivolge la sua furia al futuro,
nel presente schiacciata da ogni fianco di muro. Qual èQ l’unica
cosa che ti uccide davvero? Che non parli arlecchino: tu sia
lui per intero. Ed il vomere alieno ti muova le membra, ti ravani nel
pieno d’ogni taglio che offenda. Non saprai più distinguere la
notte dal giorno, è tempesta ogni clima, non minaccia di contorno.
Una cosa sia chiara: devi esser te stesso, poi il mondo sarà, non
può esser già adesso. Se non vuoi far girare la svastica indietro,
usa bene le scale, o non si chiamino Pietro.
La
virtù richiede purezza, rifugge contaminazioni. Così la verità:
ella non accetta alleanze con menzogne, poiché tali alleanze la
contaminano e ne rendono l’effetto perdente. Tutte le verità del
mondo devono allearsi contro tutte le menzogne. La logica ha lo scopo
di eliminare tutte le proposizioni false. Sono false quelle che
crollano al rigoroso confronto con le vere. Non è un caso che si
chiamino proposizioni. Esse sono infatti la teoria di cui la
pratica sarà la copia. All’eliminazione di una proposizione falsa
corrisponderà un attacco volto a recidere una debolezza.
Il
nostro corpo conosce i nostri scopi prima della nostra mente. Un uomo
segue per istinto un obiettivo, per istinto scarta tutte le attività
e le conoscenze che non lo avvicinano ad esso, e in una condizione di
brainstorming, di full immersion nella realtà e nella cultura, egli
individua istintivamente il percorso migliore, ciò che deve
precedere e ciò che deve seguire. L’uomo non ha un dovere: l’uomo
è un dovere, una necessità, una meta, un destino.
“Porsi” un obiettivo è un’assurdità, un’imposizione esterna
che non ti riconosce e vuole condurti lontano dalla tua natura;
l’uomo libero non si “pone” obiettivi, impara solamente a
comprendere sempre meglio l’obiettivo che è in lui, districandosi
nella giungla dei mezzi.
L’intima
essenza di un uomo è il suo ideale. Il suo ideale coincide con il
suo carattere, ed esso si presenta nella vita adattandosi alle
circostanze e può apparire diverso temporalmente quando diversa è
invece solo la situazione in cui si trova e dunque gli stimoli cui
deve reagire, anche in condizioni traumatizzate o convalescenti che
però non sono riuscite ad attaccare il suo nerbo centrale. Lo
sguardo acuto rileva in ogni istante della vita di un uomo, nel suo
comportamento dinanzi a qualsivoglia insieme di circostanze, le
stesse virtù e gli stessi vizi di fondo, che delineano
i limiti della sua anima, tali per cui alcune anime piccole sono
perfette per ricoprire un basso ruolo sociale, cui difformi
altitudini sarebbero d’intralcio, anime intermedie spettano a ruoli
intermedi ed alle grandi anime soltanto competono i ruoli di massimo
respiro ed ampiezza. In noi opera un demiurgo che mette in moto ogni
suo organo e fa convergere ogni risorsa energetica verso una Forma a
priori: il suo Ideale, il suo Carattere, la sua Anima. Non è dunque
errato giudicare gli uomini in base alla grandezza dei loro ideali.
Poiché tale grandezza è immodificabile e sancisce la statura di un
Uomo. Il resto tutto lo si può acquisire. Mentre l’atto di un
giudizio corrisponde al suo collocamento,
l’assegnazione di un ruolo. Null’altro può chiamarsi Giustizia.
Un
uomo ha un solo fine ed ogni altro è un mezzo. Solo il fine dipende
da lui: perché egli stesso è quel fine, è una tensione ideale
insita nella materia del suo corpo, è aspirazione formale di una
sostanza. Un uomo è tanto più bello quanto più elevato è il suo
fine. Un uomo nobile, capace di organizzare la vita ad un livello più
alto e dunque più ampio, capace quindi di estetizzare ed
eticizzare maggiormente il mondo, dunque di giustiziarlo, egli
detiene uno sguardo nobile, e tutto il suo aspetto ed ogni suo
gesto, anche gravati dalla contingenza e dal disagio che questa
provoca, conservano questo tratto, ben riconoscibile a chi lo sappia
vedere. Come in caso di necessità il nobile sacrifica se stesso per
la comunità, così nel caso egli agisca invece, intellettualmente,
come profeta o filosofo, come scienziato o artista, egli è pronto a
morire per la sua opera, e divenire brutto purché quella sia bella,
come un Dorian Grey al contrario, veder crollare la propria immagine
personale purché quella della sua opera venga trasmessa giustamente
e realizzi il suo scopo elevatore. Si chiama martirio estetico,
solitamente più duro di quello etico. I sacrifici sono sempre
personali nei confronti di qualcosa di più grande che un uomo abbia
racchiuso in sé, di cui è il veicolo e il temporaneo
rappresentante: un ideale quindi, qualcosa di non transeunte
ma di eterno, che giustifica la sottomissione, lo sfruttamento e la
morte di tutto ciò che invece è destinato a passare come sua
siluetta o come strumento. Di fronte ad un impulso etico, l’estetica
deve essere messa da parte: l’uomo è più vitale della sua
immagine, poiché se il nostro comportamento riesce a dare una nuova
impronta al futuro, coi canoni etici saranno messi sottosopra anche
quelli estetici ed ogni valore sarà di nuovo apprezzato per quello
che vale, e non all’inverso, come nell’epoca buia. Allora noi
diventeremo i prototipi, assieme etici ed estetici, di una nuova
filosofia dominante.
Ma
perché avvenga un tale cambiamento, uno dei due elementi va
temporaneamente sacrificato:
ed
è l’estetica, dacché l’etica non può essere invece soppressa,
sino a che un uomo vive, ed agisce coerentemente con la sua statura
spirituale. L’immagine dell’uomo viene dunque lasciata alla
deturpazione, allo sdegno ed al linciaggio, grazie alla scelta etica
di travasarla in un’opera che, bella, stimolasse ad agire
virtuosamente, e questa virtù ora apprezzata perché vissuta
si rivolgesse di nuovo alle opere artistiche che ben la
rispecchiano, fortificandone il sentimento, ed ora tramite questo
circolo anche l’autore venisse rivalutato come uomo, per quello che
ha creato, impossibile da farsi ad uomo vile. Se l’ideale riesce a
realizzarsi, dunque, esso realizza anche colui che si è sacrificato
per esso. Se il messaggio filosofico riesce a passare correttamente,
esso riscatta anche il suo autore: giacché solo un cuore nobile può
parlare o agire nobilmente. Un sol gesto del corpo, od una sola opera
creativa, che possiamo chiamare nobili, rendono visibile il fine
immutabile del loro autore, e riscattano allora anche tutti gli altri
suoi gesti che fossero stati valutati male. Se questi avessero avuto
dei difetti, significa che l’individuo era contaminato e veniva
valutato come fosse puro, ed egli istintivamente inseguiva la sua
purezza in via prioritaria, perché solo la purezza giustifica
l’azione sistemica. Oppure, egli era stato posto fuori ruolo,
laddove la sua virtù non realizzava il suo potenziale, e dunque egli
inseguiva prioritariamente tale ruolo, ribellandosi alle angustie del
fine cui era stato posto al servizio, quando lui era nato per altro,
capace di servire ben altro fine, in altra locazione. I mezzi
utilizzati sono sempre imposti dall’esterno: un uomo è imputabile
solo per i suoi fini, quello che fa per realizzarli è assolutamente
necessario, ovvero circostanziale ed egli non può decidere
altrimenti.
Per
realizzare un sogno occorre solo
una
condizione. Che esso sia davvero il tuo sogno.
Il
vero senso del dovere non è altro che autocoscienza.
Potete imporre ad un uomo qualsivoglia dovere arbitrario, ma se il
senso del suo dovere naturale non è d’accordo, egli non lo
compirà, oppure lo compirà con un senso di mortificazione assurdo.
Quando non sei in pace con la tua coscienza è perché non hai
svolto il tuo dovere naturale. Quando non sei in pace con la
coscienza degli altri è perché non hai svolto il tuo dovere
artificiale, quello appunto impostoti dal prossimo, dalla società.
La confusione tra i due contrapposti doveri, creata in parte
appositamente ed in parte come conseguenza involontaria, porta l’uomo
a soffrire di una colpa verso se stesso quando ha solo una
colpa (una trascuratezza) verso gli altri. L’equivoco è stato in
parte volontariamente architettato perché chi ti imponeva doveri
arbitrari era consapevole che essi non corrispondevano al tuo dovere
naturale, ma erano una frode nei tuoi confronti per il loro
vantaggio. Chi sa difendersi dai modelli fasulli di dovere che la
vita in società gli impone, vive con la coscienza più serena e
allora si dice che egli “risponde soltanto a se stesso, alla sua
coscienza”. Il problema è che bisogna innanzitutto campare, quindi
anche essere accettati nella vita sociale. Ora, al proprio dovere
naturale non ci si può sottrarre, poiché siamo noi stessi. Il
nostro dovere naturale noi lo facciamo sempre volentieri e dunque non
è mai una imposizione. Noi soffriamo invece quando le imposizioni
esterne, i doveri eterodiretti, ci impediscono di seguire la nostra
strada, anche se ci acquietano la coscienza rendendoci più
accettabili dal nostro prossimo e dalla società intera. Il problema
centrale, la fonte della nostra sofferenza è che in una società
disorganizzata, od organizzata in modo da favorire certe posizioni a
scapito delle altre, senza comunque poter donare alle prime un
vantaggio assoluto in quanto riceveranno sempre delle ripercussioni
dall’infelicità degli oppressi, per una società del genere,
quindi, adempiere ad entrambi i doveri risulta praticamente
impossibile. Ma un dato di fatto ci ammonisce: l’uomo non sarà mai
autosufficiente dalla società, né la società da lui, ragion per
cui nessuno dei due doveri è davvero eliminabile. Si conclude che la
salvezza è la realizzazione dell’identità tra dovere naturale e
dovere sociale. Chiunque non riesca in questo ha ragione d’esser
chiamato fallito. Anche se a volte non è colpa sua e comunque
non possiamo mettere tutti sullo stesso piano, perché tale impresa
non è certo altrettanto difficile per tutti, dipende da che
personalità hai e dal tipo di società in cui vivi. Alcuni hanno la
strada spianata. Altri perigliosa e faticosa, ma tuttavia
percorribile. In certi casi, la strada addirittura non esiste e
bisogna pertanto costruirla, cosa che può implicare di dover
rivoltare il mondo come un calzino, sicché si rischia di diventare
doppiamente falliti perché non si arriva a fare né ciò che
si vuole né ciò che è necessario per vivere.
L’antitesi
tra dovere e piacere è probabilmente la regina di tutte le discrasie
dominanti il nostro squallido mondo. Essa ragiona così: il dovere
deve fare schifo e il piacere deve essere un abbandono agli stravizi,
una sorta di scempio degenerante, non fosse per il semplice fatto che
uno, dopo essersi fatto il mazzo in un lavoro che odia, senta il
bisogno, per riprendersi, di perdere il controllo, affrancarsi dal
senso di responsabilità, sballarsi tracannando alcolici e fumando
marijuana o banchettando fino a tarda ora o ballare come un imbecille
sparandosi nelle orecchie dell’inquinamento acustico chiamato
presuntuosamente musica. La suddetta antitesi, che costituisce
l’accoppiata perfetta per la propria autodistruzione, deve
evidentemente invertirsi in una sintesi sanificante. Di una cosa son
certo: tutto ciò che logora è sbagliato, si chiami piacere o
dovere.
Ed
ha origine in una ingiustizia che può trovarsi anche molto lontano
nella storia. In ogni caso in un errore. Quando osserviamo che
una cosa è necessaria, o pensiamo che lo sia, dovremmo
chiederci perché è necessaria, cosa la rende tale. Se
avessimo forza, voglia, intelligenza, tempo di indagare a fondo
potremmo scoprire retroscena stupefacenti e che ci farebbero
indignare di ciò che fino ad oggi abbiamo accettato, rispettato e
venerato come necessario. Chi santifica il necessario lo rende
eternamente tale. Per mantenere lo status quo è del resto
fondamentale che esso venga percepito quotidianamente dalla massa e
mantenuto in vigore come alcunché di necessario, morale, giusto.
Per fortuna qualche persona sveglia o particolarmente insoddisfatta
osa metterlo in dubbio e scavare per capire. Egli nota altresì che
se questo fosse un atteggiamento costante e lo fosse stato nella
storia, non avremmo bisogno, per aprire gli occhi, di attendere
l’alba di crisi epocali, di cataclismi o di problematiche sociali
giunte ad un livello tale da sfociare in rivoluzioni violente. Ma
questa realtà non fa che confermare il principio in base a cui
sempre e solo ad una minoranza esigua spetta il concepimento, lo
studio, la pianificazione ed infine la guida di un’azione
rivoluzionaria: e solo la serietà di questa ambizione giustifica e
nobilita l’attività dell’intellettuale, solo il suo ruolo di
futuro liberatore gli fa meritare il rispetto dei lavoratori che,
temporaneamente, provvedono alla sua sussistenza materiale. Ma a
volte l’unico che ha davvero bisogno d’essere liberato è lui
stesso, perché la massa non è sufficientemente infelice nello
status quo. Credo allora che in questo caso egli abbia ancora più
diritto di prendersi quello che può, in quanto le ingiustizie
sistemiche hanno convogliato in qualche modo su di lui una imponente
dose di quel dolore che ne rappresenta il prezzo. Tuttavia
egli deve farsi interprete di realtà vaste e sovrapersonali, deve
allargare gli orizzonti storici, geografici, disciplinari, ed infine
stupire anche gli altri con i risultati dei suoi sforzi, dimostrando
la quantità di loro problemi che hanno proprio quell’origine
che lui aveva intuito e posto come tematica scabrosa da esaminare,
considerata con sufficienza da tutti gli altri, sancita come retta o
tenacemente ignorata. L’intellettuale deve pertanto liberare anche
chi non vuol essere liberato ed ha sempre sputato sulla cultura e
sulla funzione che le è propria, pascendosi magari alle poppe della
sua perfida sorellastra: la cultura dell’intrattenimento che non fa
che divertire e ammansire le stanche bestie e spegnere eventuali
focoli rabbiosi insorti loro in cuore, quella versione della cultura
che di fatto favorisce lo status quo. Un processo pericoloso è
quello per cui anche le opere d’intento rivoluzionario, o quelle
che hanno assunto concretamente questo ruolo in passato, vengano
riassimilate al sistema trasformandole in prodotti commerciali al
pari di tutti gli altri e pronti a nutrire lo stesso, quindi in
cultura edonistica o egotistica, poi in oggetto di studio erudito e
professionalmente critico per essere infine inserite in quel Panorama
Culturale che sembra sia lo sfoggio d’una civiltà impigrita,
quella che s’addorme e crogiola nello status quo e cerca in esso la
propria nicchia, fingendo d’avere differenti e sì più nobili
ideali.
Se
una lama crudele ti uccide, dovevi morire.
Ma
se non ti uccide, essa è un segnale, un punto di svolta su cui si
innesta una serie di eventi insospettati, la tua natura resiste e
continua la sua marcia, applicandosi a nuovi stimoli, forieri di
vittorie e creazioni più immense…
Non
crucciarti d’aver sofferto, d’aver perduto, d’esser stato
privato, di non esser stato compreso, non crucciarti d’esserti
crucciato, l’uomo gradualmente si scolpisce, il mondo si monda, non
crucciarti d’aver subito ingiustizia, la tua visione è limitata:
devi prima assicurarti che questa insoddisfazione non sia il gradino
cosparso di cocci di vetro che ti conduce ad altipiani più elevati,
da cui si gode di una vista straordinaria. Ciò che non hai raggiunto
non potevi raggiungere, ma gli obiettivi che sono in te, gli
obiettivi che sono te, li raggiungerai senz’altro. Realtà e
natura sono e divengono all’unisono, sono e divengono una cosa
sola. La giustizia come necessità e la giustizia come felicità
coincidono, se si accetta un mondo che diviene: la necessità conduce
alla felicità. La necessità è infatti quella di essere felici. La
giustizia non è altro che la catena della necessità completamente
srotolata e giunta al suo anello finale. Si può accettare il
passato solo trasfigurandolo in un evento necessario, cioè foriero
di felicità: questa trasfigurazione è veritiera e dunque piacevole,
ma anch’essa accessibile solo attraverso la catena della necessità
ovvero della giustizia. Non crucciarti di non riuscire a trasfigurare
il passato: non puoi ancora farlo. Quello che non è stato non poteva
essere: te ne risenti poiché credi che potesse e dunque
dovesse essere e dunque fosse, quindi fosse giusto,
ovvero felice.
Il
passato deve essere cancellato come una colpa, come un debito. Anche
il merito ed il credito sono forme di sofferenza: manchevolezze del
presente. Il tuo merito ed il tuo credito sono colpa e debito
d’altri: solo la giustizia annullerà il tempo. Il tempo non è
altro che il bene che lotta per liberarsi dal male. La storia durerà
quanto i nostri errori.
La
mia filosofia potrebbe essere chiamata nichilismo immanente.
La
giustizia è la vita che si libera di sé stessa, è quella guerra
che porta alla pace. Quello che ho chiamato nichilismo immanente, da
contrapporre al pacifismo pigro, sancisce il fatto che non possiamo
sottrarci alla guerra, che essa è necessaria per ottenere l’unica
vera pace possibile: il compimento dell’organicità. Quando si
entra in un contatto anche solo simulato eppure realistico con la
battaglia, ecco che uno spirito nobile la trova immediatamente
illuminante più di qualsiasi libro, quasi che essa fosse l’unico
atto di vita vera. Egli ne comprende le possibili conseguenze e ne ha
paura. Ma ne viene contemporaneamente affascinato. Quest’uomo si
rende conto di trovarsi dinanzi a qualcosa di sacro. Rammenta
ora le culture orientali che posero in essa tutta la serietà di un
rito, di un’arte, di un sapere filosofico, e questa visione incute
in lui rispetto. Ma porre la sacralità della guerra implica che essa
deve essere maneggiata solo da nobili sacerdoti, forgiati non solo
tecnicamente ma anche spiritualmente, che sanno riconoscere la
necessità tra un gesto bellico e uno scopo giusto: uomini che non
insultano la saggezza e non deturpano l’armonia, la bellezza,
l’innocenza, che non sprecano un potere immeritato. L’acquisizione
di un’arte marziale come di qualsiasi altro strumento bellico non
può prescindere da un’educazione spirituale, senza la quale si
originano eventi devastanti. La contrapposizione non è dunque tra
pace e guerra, ma tra nobiltà e volgarità. Si può essere nobili o
volgari nella pace come nella guerra. Il nobile combatte ove c’è
da combattere e lascia in pace ciò che è buono. Il vile fa
esattamente l’opposto. Nessuno spirito è tanto miserabile da
disconoscere completamente questo, e dunque da essere un totale
pacifista o un guerrafondaio senza scrupoli. Ma nessuno possiede la
perfetta Nobiltà.
È assolutamente corretto dire che non
si debbano colpire gli innocenti. È una aberrazione dire che non si
debbano colpire i deboli, se innocenti non sono. La vigliaccheria non
consiste nel colpire il debole, ma nell'approfittarsi di una
situazione di forza contingente per colpire un innocente che sia
contingentemente più debole. Ma spesso il debole distorce i principi
morali a propria autodifesa, in particolare per restare impunito di
un'ingiustizia commessa, e per avere il diritto di commetterne altre.
Egli sostiene che non dovrebbe essere punito in forza della
sua debolezza: in tal modo diviene meschinamente più forte della
persona a cui ha fatto torto, e gli impedisce di vendicarsi
insinuando in lui un senso di colpa e la paura di essere punito.
Questo soggetto vile commette così una doppia ingiustizia. L'uomo
giusto ha il diritto di usare tutta la propria forza e va difeso
qualora si trovi debole.
Una
cosa è la rivalità, altra è l’odio. Essere sconfitti lealmente
non provoca mai odio, perché quella battaglia aveva come presupposto
il rispetto reciproco e dunque un’affinità di fondo tra i due
guerreggianti che intendeva liberarsi di un fardello di debolezza la
cui locazione doveva, dal loro scontro, essere identificata nell’uno
o nell’altro, per cui si può dire che essi fossero alleati contro
le parti indegne di sé stessi, senza alcun rimpianto dunque, per la
sconfitta subita da queste ultime.
Se
il corso di una intera carriera sportiva deve rivelare a chi spetta
il podio, essa è una guerra di due alleati contro chi li aveva messi
indebitamente sullo stesso piano. Se nei singoli match di questa
carriera l’uno fosse andato eccessivamente in basso, egli desidera
quindi il riscatto poiché è stato subalternato ingiustamente, le
sue erano debolezze contingenti e non intrinseche. Ma non odia per
questo il suo avversario: non è lui infatti il colpevole, questi
doveva comunque sconfiggerlo giocando al massimo delle possibilità,
nel pieno utilizzo delle sue forze, perché queste sono le regole.
Egli però odia chi gli ha imposto quelle debolezze, quelle impurità,
ed allora diciamo che la competizione è un espediente per rivelare
la forza di coloro che dovranno combattere davvero nella vita, essa è
un test ed un istituto formativo, ovvero adibito a foggiare i
guerrieri nella spada, e spedire poi ognuno al suo posto di
combattimento reale. Ma nella battaglia della vita vera non ci sono
rispetti e non ci si vuole riscattare ma vendicare, e non c’è
rivalità ma odio. Chi ti sta al di sopra ti violenta ed opprime, e
non ci sono più regole da osservare perché non vi è alcuna sfida,
alcuna affinità che produca un’alleanza verso un fine condiviso.
Al contrario, i fini non possono che essere contrapposti, come
inconciliabili sono le visioni della realtà dei contendenti, perché
differenti le loro capacità intellettuali. Nella vita non si è
dunque avversari ma Nemici, e pertanto nella guerra tutto è concesso
poiché vi è un unico fine: sconfiggere l’avversario. Se vi
fossero delle regole vi sarebbero più fini gerarchizzati ovvero un
solo grande e composito fine: ma questo fine è detenuto solo
da alcune persone che analogamente non hanno regole - ossia
l’opposizione spontanea di altri fini - nel contrastare il nemico
della sua realizzazione. Ognuno di noi ha sempre un solo fine e
dunque sempre un solo nemico, per quanto complesso possa essere il
primo, e conseguentemente il secondo. Quanto più un uomo è
intelligente, tanto più grande e dunque composito è il suo fine.
Non ha senso porre regole ad un
troglodita, perché non percepisce altri scopi da realizzare che
quelli più bassi e dunque non coglie neppure la loro gerarchia nel
vivo delle arene di battaglia. Egli deve essere punzonato dove non
deve calpestare, e senza lo sprone calpesterebbe. Ma non ha senso
neppure porre delle regole a chi non le rispetterebbe spontaneamente
poiché consustanziale nel fine, e dunque sempre capace di sentire,
nella circostanza specifica, il percorso ottimale, il qual comprende
talvolta il sacrificio necessario di un elemento. L’Inimicizia tra
due fazioni invalida qualsiasi concetto di Lealtà, poiché
quest’ultimo implica una parentela di un qualche grado e che
sia sempre più fondamentale del restante terreno sul quale si è
invece contrapposti e si è dunque nemici nel pieno delle proprie
armi e della libertà di usarle. Non può dunque esserci lealtà tra
nemici, e nessun codice d’onore in guerra, perché per codificare
bisogna accettare un dialogo conciliativo, non solo avversativo.
Bisogna, in sostanza, poiché lo si possa avere in forma ed anche
formalizzarlo, qualche cosa in comune: il che è negato a priori dal
termine nemico.
Quando, durante un conflitto, la parte
che soccombe si appella alla lealtà del nemico, o rimprovera qualche
violazione di codici d’onore che sussistono solo tra avversari
e dunque parziali amici, essa dimostra la sua ipocrisia,
innescata dalla necessità di ingannare il fiero vincitore,
persuadendolo che lo deve trattare come se i due fossero molto più
amici di quanto non siano.
Due nemici che non lo sono totalmente
conservano dentro una base di rispetto. Ma allora essi
sanno quando fermarsi, sanno
quali armi non è lecito usare: in quanto non è volontario né
dunque piacevole. Essi sanno cosa non devono ledere, laddove
non devono infierire, sanno quando devono essere clementi ed
anche generosi. Ma non si può imporre la cosa dall’esterno senza
falsare la partita. Nessuno viola l’onore, se si tratta del suo
onore. Si può al massimo rimanere delusi da un avversario che prende
a usare dei mezzi tali, da farci capire come egli non abbia invero il
minimo rispetto per noi, e che dunque sia molto più nemico di quanto
non sembrasse: ma a questo punto ce la prendiamo con noi stessi che
ci siamo lasciati ingannare da un mezzo nemico apparente, e che lo
abbiamo lasciato avvicinare, senza precauzioni su quei lati che noi
pensavamo non sarebbero mai stati attaccati, ed ora che lo abbiamo
visto in faccia, anche noi non possiamo fare a meno di riconoscerlo
come un nemico mortale e rispondere con la stessa moneta, o con tutta
la radicalità ulteriore che sospettiamo esserci nella nostra
ostilità naturale, la qual detiene il diritto ed il dovere di
manifestarsi sul campo senza restrizioni, cosiccome fosse
invece amore. Nel mondo non si debbono veder meno battaglie e men
dure, di quante e dure siano le reali inimicizie: cosiccome non si
debbono aver meno collaborazioni ed amorose tresche, e men passionali
ed intere, di quanti siano i veritieri amanti ed incomplete le cose.
Non si deve arrestare la Natura dunque, e mortificare la volontà:
dacché questo tentativo, la negazione della guerra e dell’amplesso,
fa degenerare il tutto. Non genera esso pace né progresso, ma solo
atroce sofferenza per ognuno. Ogni affine va congiunto, ogni altro
disgiunto: amore e guerra sono i mezzi, così e solo si esprime la
Vita. L’intelligenza tutta, nella teorica filosofica e nella sua
applicazione pratica ossia la Politica, deve limitarsi ad Una, Sola,
Grande responsabilità…
DIRIMERE
I FALSI CONFLITTI
E LE
FASULLE AMICIZIE
…cosicché nudi l’un di fronte
all’altro non possano che trovarsi Veri Nemici e
Veri Amanti, in forma integra a dare il
massimo in ciò che entrambi vogliono fare, cui la controparte sola
mancava ed ora c’è. Uniti i compagni e riempitisi un dell’altro,
disperse le nubi sul falso amico e sul falso nemico, la Guerra sarà
adesso sana e giusta, ed il migliore vincerà. La politica
deve essere soltanto maestra nell’evitare il sangue supervacuo, che
uccide il buon con il cattivo, ed il dispersivo seme, che uomo non
appaga, progresso non genera, umanità non innalza.
La
discrasia che domina il mondo ha determinato la differenza tra
dovere e piacere. Essa impone questa prassi: una volta soffro io,
mentre tu godi di quello che io creo, poi ci scambiamo i ruoli, tu
produci, e produci soffrendo, mentre io godo di quello che tu fai. Ma
questo ha una condizione. Che quello che io e te facciamo sia
buono soltanto parzialmente, sicché un soggetto debba goderne e
l’altro soffrirne, e si siano spartiti i turni dacché una
situazione eccessivamente asimmetrica non era lungamente sostenibile
anche qualora qualcuno avesse la forza di imporla. Ora, questa
condizione è un punto che bisogna assolutamente mettere in
discussione, bisogna avere il coraggio di supporre che non sia
affatto intrinseca alla vita e da questa ineliminabile, e di
effettuare una ricerca che possa confermare o smentire questa
ipotesi. Ogni ipotesi nasce da un esempio. Noi abbiamo visto,
in noi stessi e negli altri, che a volte il dovere è piacevole ed il
piacere doloroso. Possiamo pensare allora che essi siano due aspetti
della stessa vita e pertanto della stessa lotta per il benessere, e
che il dovere ne rappresenti la parte più difficile mentre il
piacere la parte più facile. Nel dovere infatti devi combattere con
delle resistenze, esteriori ed interiori. Nel piacere devi solo stare
attento a non perdere il controllo, a non abbandonarti
eccessivamente, poiché qualcuno che ha trasgredito alcuni aspetti
del suo dovere ha predisposto mezzi che, inconsapevolmente abusati,
ti possono danneggiare. Questo volendo mantenere la separazione
indicata tra dovere, ovvero attività, e piacere, ovvero passività.
Se dobbiamo effettuare un controllo nella nostra passività, ecco che
esercitiamo anche un secondario ruolo attivo e dunque nel nostro
piacere rientra una parte di dovere. Quando un uomo prova invece
piacere nello svolgere il dovere, svolge anche un ruolo passivo, in
qualche modo automatico, che non gli costa fatica. Ma perché abbiamo
posto le equivalenze dovere = attività e piacere =
passività ? Poiché esse sono verificate solo in un contesto
discrasico come quello che, in certa e buona misura, regna nel mondo,
ed illustrano allora tale discrasia. Ogni volta che spendi le tue
energie per soddisfare un tuo bisogno, anche solo far del moto
allorché il tuo organismo sia attaccato dagli agenti esterni ed
interni e stia in qualche modo degenerando, tu provi piacere della
tua attività, ed anzi all’inattività dovresti in tal caso essere
costretto da un dovere. Quando un istinto ci domina ed è un istinto
sano, noi siamo in qualche modo passivi e proviamo piacere. Quando in
tale istinto sono invece presenti elementi insani e pertanto
irrazionali, essi vengono appunto riconosciuti dalla ragione che ci
mette le briglie e dunque noi, ancora in un’ottica egoistica che
adesso astrae dal contesto sociale, stiamo soffrendo per il mancato
pieno appagamento dell’impulso e dunque siamo soggetti ad un
dovere, il che è l’intervento frenante e vincente di altre
esigenze variamente presenti e mescolate nel nostro corpo che
affermano adesso la loro priorità, grazie alla ragione che ne ha
consentito la compresenza, la contemporanea percezione e dunque il
confronto. Quando i nostri istinti saranno tutti sani ovvero non
contrastanti ecco che potremo abbandonarci al piacere ed esser
totalmente in balia dell’istinto, un istinto che non ha modo di
tradirci e pertanto non deve essere posto sotto il controllo di alcun
dovere. Infatti alla ragione non occorre porre contraltari a un corpo
unico. Quando entriamo nel contesto sociale, le cose si complicano,
poiché ad una disarmonia microscopica se ne sovrappone una
macroscopica, e sanare gli istinti presuppone la strutturazione
perfetta della società, fin nei minimi dettagli. La divisione in
ruoli sempre più precisi non è altro che la gradualità con cui una
società si organizza fino a dissolvere, nel suo grado apicale, il
concetto stesso di ruolo poiché non v’è più nulla da
controllare, nulla da integrare. Una struttura perfetta annulla il
moto e dunque il lavoro poiché appunto essa era lo scopo del
moto. Fuor d’essa nulla è completamente felice e dunque non lo è
mai stabilmente. Ciò che si logorerà ha già iniziato a farlo, ed
anzi improprio è dire cominciata una cosa ch’è sempre stata. Ciò
che prima o poi si muove, non è mai stato fermo. Giunti nel contesto
sociale, per stare bene abbiam bisogno di dare e di ricevere.
Entrambi son piaceri, da trattar come doveri. Essi sono anche diritti
ovvero qualcosa che ci deve essere garantito dall’esterno e dunque
rappresenta un dovere per gli altri che, analogamente, devono trarne
piacere. Stiamo supponendo una situazione apparentemente utopica in
cui il dovere ci fa bene al cento per cento, sicché corrisponde al
piacere. In una società strutturata secondo la massima saggezza tale
utopia sarebbe una realtà. Poiché se ogni elemento di suprema
potenzialità fosse stato messo al posto giusto, avrebbe adempiuto
nella maniera ideale al proprio dovere, e pertanto avrebbe dato ad
ogni altro elemento del tessuto sociale gli strumenti e le fattezze
con cui svolgere il lavoro residuo con un quid minimo di logoramento.
Ma le cose si sono sviluppate in modo che ciò che fa bene agli
altri, quello che noi produciamo durante il dovere, sia logorante e
nocivo per noi, o per lo meno lo diventi oltre un certo limite,
dinanzi al quale noi dobbiamo però perseverare in quanto è nostro
dovere. Varie minacce ci dissuadono in questo momento dal seguire
l’istinto che vorrebbe farci interrompere. Se non arriviamo fino in
fondo, gli altri faranno lo stesso con noi, e pertanto una quota
ancor maggiore o più fondamentale dei nostri bisogni non verrà
appagata. Inoltre, se questa considerazione non fosse sufficiente o
non ci fosse facilmente accessibile, è stata escogitata la minaccia
morale, che consiste nel far scadere la nostra immagine nel momento
in cui ci sottraiamo all’atteggiamento comandato e proviamo dunque
sentimenti tanto sgradevoli che risultano più difficili da
sopportare che non la fatica. Si può infatti forzare un uomo a fare
il proprio danno, solo minacciandolo di un danno maggiore. Ora gli
sciocchi e i vigliacchi si fermano qui, e concludono che dobbiamo
accettare tale situazione, che questa cosa che abbiamo voluto
chiamare discrasia e che aveva fomentato una analisi è solo una
scusa di viziati che vogliono sottrarsi al proprio dovere, che è una
legge indiscutibile della vita, e sottraendosi a tale dovere ne
accollano una fetta ancora maggiore a chi in piena nobiltà già ne
aveva accettata la propria fetta. Altri ancora, pensiamo a un
insegnante insoddisfatto del suo lavoro che lo persegue ugualmente
nonostante sia animato da principi educativi erronei, magari
anch’essi ereditati in maniera bassamente acritica dall’esterno,
costoro riescono ad agire per dovere senza far il piacere altrui, e
qui danneggiano dunque greggia e pastore. Fatto sta che ogni
progresso dell’umanità è figlio della ribellione, della messa in
dubbio, di un maggiore spirito osservativo ed acutezza, di un bando
alla pigrizia, dell’ambizione a soddisfare maggiormente le esigenze
dell’uomo, a conquistare nuove verità e con esse una felicità più
grande. Il progresso è figlio della sfida intellettuale che si
intreccia sempre con una sfida pratica, ovvero la rottura degli
schemi, l’innescarsi di una perturbazione nel tessuto sociale le
cui regole, valori, dinamiche, vengono messe in discussione e
pertanto, in una società che non abbia a monte riconosciuto la sua
parziale fallacia e dunque poste delle istituzioni di ricerca adibite
al miglioramento della stessa, con dei diritti garantiti ai suoi
operatori ed una rispettabilità riconosciuta, comporta stridori con
tutti gli adepti alla vecchia scuola, critiche, condanne, sprezzo. Il
primo dovere, quello che garantisce l’espletamento degli altri, in
una tale società è dunque di non mettere in discussione i valori.
Egli questo dover lo frange, scegliendo di complicarsi la
vita. Nel computo della fatica non si considera infatti mai lo
sbattimento che comporta il mettere in discussione le cose. Perché
un individuo sceglie di farlo? Intanto è una fatica non riconosciuta
poiché ignorata da chi non la vive, mentre i rappresentanti della
massa, tra di loro si fanno sempre dei cenni di intesa e si capiscono
al volo, tutti sanno di cosa l’altro stia parlando, sono tutti
nella stessa barca, si tributano stima, elogio ed appoggio reciproci,
i loro pensieri partono dallo stesso punto ed arrivano allo stesso
punto, attraverso una gamma di passaggi intermedi la cui varietà è
ancor modesta. Fatica che, quand’anche fosse riconosciuta, sarebbe
nondimeno invisa perché considerata come finalizzata a scopi
illeciti. Perché egli compie dunque tale scelta? Perché ha una meta
nel cuore, perché il suo cervello ha delle zone sviluppate nella
precisa misura necessaria ad individuare, nella giungla della realtà,
i mezzi che conducono a tale meta, perché il suo dovere è
raggiungere quella meta, ed è per lui prioritario rispetto agli
altri, e lo è in virtù del fatto che gli fa percepire un piacere
maggiore ogni volta che essa si staglia all’orizzonte grazie ad un
progresso, dall’origine in qualche modo istintiva, poiché figlio
di una reazione soggettiva ad una situazione esterna operata da un
intelletto differente dagli altri, che dunque se la rappresentava in
maniera diversa. Chi non riesce ad avere queste differenti visioni,
non può accedere nemmeno in via ideale ad una alternativa,
dunque essa non esercita una sufficiente attrattiva su di lui e
questo determina il suo abbandono al dovere, allo status quo. Il
nostro dovere è dunque una questione originaria legata alle precise
caratteristiche della nostra intelligenza. Ne è la conseguenza.
Un
uomo potrebbe avere il piacere di perseguire il dovere più grande:
egli ha di fatto accettato il dovere di perseguire il piacere più
grande. Si accetta solo ciò che si riconosce come il piacere più
grande. Prima dobbiamo uniformare gli obiettivi, siano essi
riconosciuti o meno, fare in modo che una sola sia la strada maestra.
Su questa strada, pochi devono guidare e molti essere guidati. Sino a
che l’intelligenza non sarà una variabile completamente
controllata, e si possa far saggio lo stolto, molti dovranno essere
pietre senza saper il disegno della casa.
Ammesso
che l’uomo possieda una serie di bisogni in conseguenza delle sue
debolezze, trascuratezze di vecchia data, danni subiti e imposizioni
esterne, che nell’intrico della società sovrapponentesi
all’intrico della sua anima tali esigenze siano compresenti e
contrastanti, tali per cui se ne appaghi una devi frustrare
quell’altra sicché non ti gusti nemmeno la prima perché viene
inquinata dal logorio della seconda, che non vi sia un rimedio dunque
privo d’effetti collaterali, ecco che il principio prima il
dover poi il piacere significa, egoisticamente, spianarsi la
strada verso un godimento più sereno e stabile, sgrullarsi dalle
scatole il maggior numero di problemi, provengano donde provengano,
affinché il piacere sia autentico poiché sei sano e colle spalle
coperte. È dunque uno stratagemma di battaglia che può ancora
prescindere da un idealismo sociale.
Del
resto, possiamo avere anche dei piaceri insani ma di cui non
possiamo fare a meno proprio per questo motivo, gli esempi più
banali son le sigarette, il gioco, l’acquisto compulsivo, qualsiasi
forma di dipendenza. Un piacere insano, cioè un vizio, che in
tal caso diviene un dovere, poiché ne faresti a meno ma non
puoi. Ora, tutto ciò che è insano va eliminato, si chiami piacere o
dovere. Entrambi, ossia tutte le cose insane, provengono dalla
debolezza. Volete davvero provare a elogiarla? Eliminare
l’insano è dunque un dovere ed ovviamente anche un piacere.
Ma
questo è l’unico dovere e l’unico piacere ai quali non possiamo
sottrarci poiché costituiscono la nostra più intima ed originaria
natura. Tutto il resto è eliminabile e serve solo l’intelligenza
che determini una scala di priorità. Visto che tale intelligenza non
è equamente distribuita, anche perché altrimenti i vizi non si
sarebbero creati ed il mondo degenerato, si rende necessaria la
gerarchia sociale, prioritaria per una azione su vasta scala
che trascenda un attimo il mero potenziamento personale.
L’atteggiamento di indignazione che una persona saggia assume nei
confronti di quello che vede, di un soggetto, un fenomeno, un
atteggiamento, deve variare la sua intensità in mera funzione del
livello globale di insania che tali realtà provocano. Per esempio se
uno si fa invischiare dal modello altruistico e martirico, potrebbe
essere indotto a commuoversi e ad apprezzare un uomo che si sta
autodistruggendo in nome di un dovere insano, e porre questo molto
più in alto di un individuo che sta invece procurando danni in nome
di un piacere insano. Perché il dovere deve esser meglio del
piacere, se è altrettanto dannoso? Perché il piacere andrebbe
svilito, qualora fosse più benefico? E si farebbe ancora differenza
fra altruismo ed egoismo allorché, in un’ottica cosmica, essi
coincidono? Siano doveri o piaceri, ed altruistici od egoistici,
devono essere valutati in funzione degli effetti cosmici che
provocano. Ora anche qui, la quantificazione è invero
superflua, poiché valida solo nell’ambito temporale in cui tutto
muta ed ognuno tenta di arraffarsi determinati vantaggi, incurante
del futuro, incurante dell’intorno, incurante del Fine ultimo che
tutti ci lega, che cambia di sesso e diventa la Fine. Ma in ordine a
questo fine, le cose possono essere soltanto buone o cattive, non più
o meno tali, possono essere giustificabili o ingiustificabili, non
più o meno tali, devono dunque esistere o non esistere affatto. La
domanda quanto vali? Deve essere sostituita dalla domanda vali
o non vali? Ma tale conversione assiologica universale ha come
condizione l’annullamento del pluralismo teleologico e la
convergenza di ogni soggetto all’Unico Fine.
L’entropia
può essere bensì destinata ad aumentare, nel caso sia stato in
qualche modo previsto un massimo livello di cecità degli individui
che anziché coordinarsi restano nel loro individualismo e dunque
regni nel mondo una pluralità massima di fini ed un contrasto
assoluto, non fosse questo un assurdo poiché, come l’organicità
assoluta annulla il concetto di organo, così la massima
frammentazione annulla il concetto di frammento, poiché nessuno è
più parte di qualcosa, e se ognuno ha un proprio fine tutto è
contrastante sicché nessuno può giammai realizzare alcun fine.
Realizzare un fine significa infatti assimilare qualcosa a se stessi,
portarla dalla propria parte, annetterla al proprio ego, renderla
coerente e dunque non stridente con esso. Il mondo è un ibrido di
individualismo e coordinazione, ed il livello di conoscenze
possedute, l’illuminazione complessiva degli elementi di questo
mondo determinano il grado di disordine. Se due forze si
equivalessero davvero, non vi sarebbe il moto. Ma tutto è invece
moto, e l’equilibrio perfetto è un controsenso, sicché le forze
non si equivalgono mai perché non son mai soltanto due, se fossero
soltanto due si equivarrebbero sempre, ma il concetto di due stride
con il concetto di uguale. Quante forze ci sono in natura? Tante
quante gli individui. Le forze si possono equivalere solo quando si
riducono ad una forza sola, e questo è appunto l’apice
dell’organicità, ossia la pace. Questo è non solo possibile, ma
necessario, è il destino del mondo, ed il principio di conservazione
dell’energia ha come conseguenza che, essendoci energia sufficiente
e non passibile di diminuzione, tutti i bisogni dell’uomo e di ogni
altro essere sono soddisfabili e dunque la felicità è
raggiungibile, se soltanto le cose vengono organizzate, ogni elemento
ritrova il suo posto tramite il suo istintivo moto che solo colà,
appunto, vuole arrivare. Da tempo immemore il sapere umano separò
qualità e quantità. Qual bisogno mi soddisfi? La sete.
Quanto me lo soddisfi? La misura è un rapporto, dunque ancor
pluralità, dunque se dico quanto dico quale. Nella fattispecie
chiedo quali parti della mia sete ho soddisfatto. Non più una sola
sete, ma tanti rivoli secchi da annacquare, dunque hai soddisfatto
tre quinti della mia sete, ma sin che l’individuo è diviso in
parti non è individuo, sicché non ha senso parlare di un bisogno
solo, la mia sete. Quando ci sarà un bisogno solo non esisterà più
il bisogno. Può essere la materia frammentata all’infinito?
Invano, invano…poiché non si raggiunge alcun punto d’arrivo, per
via negativa ovvero dissociativa, ma solo per la via diametralmente
opposta. Se un elemento giungesse ad essere davvero tale, sarebbe
felice, poiché incorruttibile.
L’un
sarebbe il tutto, ma questo ha come condizione che anche il tutto sia
uno.
Come
può esser uno, se è un tutto e quindi qualcosa di più grande
composto da oggetti più piccoli, strutturati quanto vuoi, ma ancor
sempre plurali?
There’s
the rub. Grande o piccolo non fa differenza, poiché l’infinito
è doppio. Prendi il minuscolo e scomponilo, prendi il magno e
consideralo parte di un corpo più grande. Ora il nostro esser
soggetti ci trae in inganno. In origine grande vuol dir troppo grande
per me, e piccolo vuol dir, troppo piccolo per me. Anche giusto vuol
dir giusto per me, ma se altri soggetti non concepisco, a cui quel
corpo non sia giusto e della cui infelicità assaggio i contraccolpi,
io non saprei dir cosa è giusto, né grande o piccino, poiché tali
concetti esistono solo nell’ambito della soggettività, non mai
nell’oggettività. Ma se un soggetto, giovando della posizione
naturale risultasse ora giusto per tutti gli altri e questi altri
giusti dunque per lui e intra lor medesmi, nessun confronto sarebbe
omai possibile perché i soggetti imperfetti son diventati un sol
oggetto perfetto. L’una dimensione annulla le dimensioni.
Ogni
devo che non corrisponda al voglio è figlio della
debolezza. Ogni voglio che non corrisponde al devo è figlio del
cattivo gusto. Dobbiamo rendere il nostro corpo all’altezza di
adempiere ai doveri, dargli quindi la forza di compiere ciò che è
per lui benefico, e analogamente dobbiamo rendere il nostro gusto in
grado di distinguere ciò che è benefico per l’organismo, dunque
accoglierlo piacevolmente, rigettando invece l’insano. Una cosa son
le esigenze, altra i gusti. Entrambe sono cose soggettive ma possono
essere ambedue insane. Una persona malata e debole abbisogna di
azioni e arti ben diverse da quella forte e sana, e tali esigenze
devono essere rispettate. Non invece il cattivo gusto, ovvero la
debolezza della nostra interfaccia col mondo esterno, la difettosità
dei nostri sensi o del nostro intelletto, la nostra incultura ed
involuzione mentale, che non ci consentono di fare il nostro dovere
ovvero risanare il corpo tramite l’azione compiuta e ricevuta,
compresa in quest’ultima la somministrazione di materiale
artistico, adescandoci con un piacere spurio e disgustoso a chi ne
nota la perversità, caratteristica di ogni piacere che non si
identifica con il dovere, come di ogni dovere che non si identifica
con il piacere, il che avviene ogniqualvolta esso ci danneggia,
perché non siamo capaci di comprendere il nostro ridicolo o vile
martirio, oppure siamo costretti a gestire questi calvari temporanei,
che nella nostra situazione di inferiorità nei confronti di soggetti
esterni costituiscono comunque il bene maggiore. Il retto
riconoscimento e la forza di sopportare queste situazioni, mentre si
lavora al proprio potenziamento che dovrà condurre alla rottura
delle catene, al proprio riscatto e completo risanamento, è una
cosa, una volta che si è resa necessaria, da rispettare. Ma bisogna
anche riconoscere qui una situazione figlia di debolezze pregresse,
di guerre non combattute per tempo contro chi era determinato a
sottometterci senza averne diritto, anche se la responsabilità di
essa, orbene la debolezza reale, possa non esser la nostra ma quella
di molteplici personaggi esterni o di intere generazioni precedenti
che ci hanno ereditato un paniere di guai, entro i quali soltanto
gradualmente e dolorosamente il nostro sparuto intrepido spirito
riesce a far luce, armandosi verso la salvezza, depurandosi
innanzitutto di una serie di pregiudizi e falsi valori inculcati dal
sistema e dai propri educatori, quando ancora eravamo vergini e privi
di capacità critica.
Impariamo
a porre il più grande piacere nell’onore, così potremo porre il
più grande onore nel piacere. L’affronto morale originario
infranse l’alleanza cosmica. La forza morale dei superstiti la
ricomponga. Da chi si debba partire lo decide il più forte: ovvero
il punto di superiore unità deve annettere a sé altri punti. Un
piacere onorevole può trascinare nel suo flusso torrenziale
frammenti di onore come detriti. Questi possono deporsi come levigate
pietre, spontaneamente a costituire un castello. Quivi un degno
regnante può comandare lo scavo di un nuovo canale per il torrente.
I
due errori supremi, le due rovine per l’umanità, i due tizzoni del
tempo, il diabolico veleno che nutre la storia allungandone la vita,
sono questi…
Sobbarcarsi
una fatica poiché non si è avuto il coraggio di sobbarcarsi una
guerra.
Sobbarcarsi
una guerra poiché non si è avuto il coraggio di sobbarcarsi una
fatica.
Il
nostro dovere è quello di affrontare tutte le guerre e le fatiche
necessarie a conseguire la felicità. La condizione di questo è che
disertiamo fieramente tutte le guerre e le fatiche che ci portano
all’infelicità. Tali sono solitamente le guerre e le fatiche che
ci impongono gli altri. Scegli di adeguarti poiché ti sembra più
facile? Farai lo stesso misero gioco di chi ti ha preceduto, non
sarai mai davvero felice, e quelli che verranno dopo di te dovranno
disporre di coraggi e spirito ancora maggiori, per opporsi ad una
tendenza che accoglie nuove file di adepti di generazione in
generazione, mentre i problemi si sviluppano e nessuno prova davvero
ad invertire il senso di marcia. Per costoro sarà dunque più
difficile dapprima illuminar se stessi, giappoi il mondo. Se la massa
è pedissequa, in conseguenza della sua piccineria intellettuale,
essa segue il buon come il cattivo esempio. Se quest’ultimo ha
trionfato un giorno, esso ha segnato un’epoca.
Il
compito di un genio e di dare l’avvio ad una nuova Epoca.
FILOSOFIA
COME ARTE DEL GUARDABOSCHI
Questa
è l'essenza della giustizia:
che
ognuno segua la sua via.
Ralph
Waldo Emerson
L’uomo
era vissuto nella foresta per migliaia d’anni e poi si era
trasferito nelle città. Ma la sua vita non venne ad essere più
felice.
La
foresta, infatti, non volle abbandonarlo.
Ogni
città era attaccata da spire di piante velenose che invadevano
strade, abbarbicavano case ed edifici e tentavano di soffocarli,
stritolarli, e gli abitanti venivano punti dalle loro terribili
spine…
Nessuno
sapeva donde provenisse quel coacervo di rami maledetti, tale
argomento non era frequente nelle loro discussioni, ma ognuno era
tremendamente impegnato, con mezzi di fortuna, a combattere contro le
spire che attaccavano la sua casa. Le tagliavano, quotidianamente,
poiché sembravano non finire mai.
Un
giovane ragazzo decisamente strano sembrava non accettare questa
realtà, aveva delle intuizioni, delle visioni insolite, forse non
capiva ancora dove sarebbe voluto arrivare o se fosse possibile
arrivarci ma una forza dentro di lui lo spingeva in quella direzione…
Si
aggirava per le strade e come gli altri, forse più degli altri,
veniva turbato da quelle piante malefiche, si feriva di continuo e
questo lo faceva riflettere profondamente.
Tornava
a casa e passava ore a consultare libri di botanica di ogni epoca e
paese, e da chi gli stava intorno veniva ammonito amaramente: perché
non vieni giù ad aiutarci? Prendi quelle dannate cesoie e datti da
fare, non vedi che rischiamo di soffocare?
Lui
lo faceva a malincuore, ma onestamente, eppure non a sufficienza.
Presto si innervosiva poiché il suo scopo era un altro, e sarebbe
divenuto sempre più inesorabile. Egli aveva visto qualcosa di
diverso…aveva intravisto connessioni nascoste tra i rami di quelle
piante, e ne ricercava un’origine unica…Infine lo avrebbe capito:
egli voleva estirpare alla radice l’infame pianta velenosa.
Quando
comunicava questo intento a qualcuno, gli veniva rinfacciato
duramente che egli inseguiva questo balordo obiettivo perché le
spire delle piante locali le tagliava qualcun altro per lui. Lui si
rendeva conto che ciò era fondamentalmente vero. E si tormentò
tutta la vita se questo fosse giusto o meno, ma dentro di lui sentiva
che lo era, e che lo sarebbe stato ancora di più.
Inoltre,
in tutta la sua vita gli sproni più dolorosi e venefici non gli
erano provenuti dalle piante più comuni, ma dagli sterpi che egli
odiava maggiormente: gli esseri umani, i suoi concittadini. Anche lui
aveva armi di fortuna che aveva affilato man mano, e per quanto
avesse molto trascurato l’arroccamento ed il potenziamento
personale, la gratificazione, anche lui aveva da sempre dovuto
riversare enormi quantità di energie alla difesa della Sua casa e
alla ricostruzione di muri demoliti e dilacerati. Ma tutto questo non
faceva altro che distoglierlo con fastidio dalla sua vera causa…dal
fine supremo.
Ad
ognuno era stato insegnato che la vita consiste nel combattere contro
i rami che attaccano la propria casa, per potersi guadagnare periodi
di quiete e relax durante i quali non ci si sentisse minacciati. Era
scontato che fosse così, solo pochi uomini lo mettevano in
discussione.
Erano
nati stili di vita, erano nate filosofie, erano nati mestieri,
specializzazioni, competizioni nelle quali gli uomini avevano trovato
gusto, realizzazione, orgoglio: io sono un tagliatore di Conifere, io
un estirpatore di Felci, io produco diserbanti per Zizzania da
cortile, io produco Narcotici Artistici, io fornisco Interpretazioni
Dissolute, io sto in uno studio e ti convinco che il problema non
sono le piante, sei Tu …
Il
giovane cresce, riflette, sperimenta, crede di poter aver sempre
sbagliato ma di fatto non trova la sua strada, sa di non poter
seguire la sua stella ma sospetta di non poter seguire altro, in un
modo o nell’altro, dovesse anche svolgere per sempre quell’orrida
doppia vita che la società gli ha imposto.
I
libri possono aiutarlo relativamente. Chi prima di lui ha tentato le
stesse imprese ha fallito, poiché la vita è ancora una foresta
velenosa. La soluzione spetta dunque a lui…
Talvolta
succedevano cose eclatanti. Nella piazza di un paese un gruppo di
persone si erano riunite ed avevano abbattuto un grosso tronco da cui
serpeggiavano rami particolarmente molesti. Fecero una festa
trionfale che avrebbe visto molti anniversari. Egli invidiò queste
persone ma si rese conto che non avrebbe mai potuto seguirle fino in
fondo. Altrimenti lo avrebbe già fatto. Inoltre, poco tempo dopo
quel tronco rispuntò fuori di nuovo, ed egli nelle sue visioni
d’insieme sempre tenute in vita contro le spinte specializzatrici
che chiudono gli occhi, poteva confrontare diversi aspetti del mondo
e rendersi conto che, laddove tronchi venivano abbattuti, subito in
un'altra zona la situazione peggiorava. C’erano evidentemente
connessioni trascurate, e quando tali Sterpi Assassini erompevano o
facevano degenerare il territorio, la gente se ne stupiva come di
fenomeni nuovi nati dal nulla, per una sorta di libero arbitrio, e
non da quella comune radice sotterranea che reagisce agli sbattimenti
locali e li compensa.
Era
dunque un problema organizzativo, per evitare che un problema si
ripercuotesse su un altro e dunque le soluzioni fossero solo
apparenti, occorreva stabilire una procedura precisa, una scala di
priorità, un piano per arrivare alla radice e strapparla via dal
nostro mondo…
Il
filosofo proseguì verso l’indomani curioso e afflitto di ciò che
avrebbe visto, non sopportava ancora di potersi arrendere…
L’uomo
giusto ha bisogno di tempo e studio per diventare tale solo allorché
venga immerso e chiamato ad agire in un mondo che possiede già
un’ampia storia alle spalle la quale lo ha visto complicarsi e
degenerare nell’ingiustizia. Se uomini giusti fossero comparsi
prima e avessero assunto ruoli apicali nelle
strutture sociali, avrebbero compiuto decisioni giuste senza
l’ausilio della scienza poiché il mondo era più semplice e il
loro istinto più razionale. La ragione non è altro che la
sanità dell’istinto. Compiere decisioni giuste in un mondo ormai
complesso e degenere è invece difficile perché devi percepire e
raccogliere sinotticamente una messe di dati molto più grande.
Inoltre il corso malefico della storia ha intaccato anche la salute
stessa dell’uomo giusto, che dunque deve curarsi e fatica ad agire
all’altezza della sua nobile natura. La scienza non è altro che
l’istinto dell’uomo giusto che tenta di agguantare la totalità
del reale, la quale è sempre una totalità storica in quanto
dolorante e figlia dell’ingiustizia. La Storia, allorché completa,
sarà l’immagine del corpo egro dell’umanità, in tutta la sua
evidente stratificazione patologica: la Scienza allora non sarà che
il medico in grado di operarlo, suddiviso invero in una équipe di
specialisti la cui direzione generale spetta al filosofo. La Scienza
è la teoria dell’azione vincente, e viene ottenuta tramite
progressive generalizzazioni di singoli risultati ottenuti da medici
sopra singole parti malate.
Che noi dobbiamo scoprire i segreti
della natura, significa che essa ci ha ingannati.
La scienza ha lo scopo di giustiziare
la vita: ed un tempo si vendicherà anche di tutti i sanguinosi
esperimenti cui è stata costretta. Quando un uomo è quello giusto
nel posto giusto, l’esperimento è superfluo: egli ha la scienza
infusa, egli compie un’azione che non era mai stata tentata, ma
la compie efficacemente perché vi era stato ben preparato, mentre
per prove ed errori si muove l’uomo giusto nel posto
sbagliato, chiamato all’azione anzitempo.
Un
uomo ingiusto si riconosce dalla sua scarsa attrazione per la
conoscenza. Egli sarebbe stato ingiusto nella notte dei tempi e lo
sarebbe ancor più oggi che è necessario sapere così tante cose. Un
popolo che non conosce la storia non sarà mai pacificato poiché non
conosce l’origine delle ingiustizie che ancora lo piagano con le
loro conseguenze, e non potrà dunque porvi rimedio, ovvero l’unico
modo che ha per dimenticarle e appunto consegnarle alla storia senza
più curarsene. Infatti il passato da ricordare è quello insano, non
quello bello. Ci si riferisce ad una brutta partita, da parte di una
squadra di calcio, con l’espressione “una prestazione da
dimenticare”, ma quella squadra potrà dimenticarla solo quando
l’avrà controbilanciata con una buona gara. La felicità non ha
memoria e la memoria non ha felicità: sono concetti antitetici. Si
soffre solo in una dimensione temporale. Il presente non è mai
esistito in quanto viene definito come qualcosa di istantaneo
e dunque di statico. Ma il presente è lo scopo della vita. Il
nostro futuro deve pacificare il passato neutralizzandolo e
trasformandolo dunque in presente ovvero in stasi. Un presente privo
di stridori è un presente libero dal passato e dal futuro. Il
passato è il male, altrimenti non sarebbe possibile ricordarselo, e
il futuro è la fantasia della risoluzione del passato. Quando essa
si realizza, il passato e il futuro diventano presenti e noi siamo
felici. Chiunque ha sperimentato questa felicità parzialmente
in modo che questo discorso possa essere comprensibile, ma nessuno ha
sperimentato la felicità totale che annulla il tempo proprio per il
fatto di essere totale. Tutto ciò che è parziale è temporaneo,
tutto ciò che è temporaneo è parziale. Giustizia come
assolutizzazione di Spazio e Tempo.
A
seguito di questa riflessione non posso non oppormi alla concezione
Schopenhaueriana della giustizia come tratto caratteriale e
non intellettuale dell’uomo: il nostro carattere non sarebbe
tale senza una determinata intelligenza. Ma le dicotomie
ottocentesche del tipo Intelletto - Volontà hanno fatto il
loro tempo. È chiaro che con un errore così fondamentale crolla
quasi tutto il sistema.
Concetto
di “performance” legato alla temporalità, all’apparizione
contingente la quale se molto buona la si rende immortale, in modo
tale che la storia risulta fatta solamente di cose perfette, che
pertanto non devono essere cancellate, che dunque si sottraggono alla
temporalità per divenire parte di un oggetto nuovo, chiamato Storia,
che racchiude in sé il tempo ma vuole essere perfetto e perciò
fuori dal tempo. Il paradosso della storia è che è dominata dal
tempo ma vuole trascendere il tempo, ed all’interno del suo
tessuto, del suo arazzo accetta solo cose “senza tempo”, cose
meritevoli di essere conservate. Perfezione temporale è un
ossimoro. Infatti quando qualcosa non ci piace, ci dispiace anche che
essa appartenga alla storia, diciamo “un periodo buio della nostra
storia”, qualcosa “che dovrebbe essere cancellato dalla storia”.
Esiste una Storia Perfetta? Si, quella che finisce. Quella che
pertanto non ha bisogno di essere ricordata e non viene ricordata. Si
ricorda solo qualcosa che non è finito, che non è risolto, che è
in sospeso, qualcosa da cui non è stato tratto il massimo, qualcosa
che attende una pacificazione. Ogni movimento è rivolto a
rimettere qualcosa al suo posto, ed un movimento perfetto e
dunque sommamente appagante non è che quello che adempie
perfettamente a questo compito. In questo caso diciamo che la cosa è
stata rimessa al suo posto e deve rimanerci per sempre. Se due uomini
attendono allo stesso bene, mettiamo un primato sportivo, non possono
essere entrambi felici: tenteranno di sottrarselo di continuo, e
paradossalmente lo scopo di uno sportivo è cessare di fare sport,
dopo aver vinto tutto: ciò che avviene durante la battaglia è
spiacevole, egli è felice solo nel momento in cui mette a segno un
punto, vince una partita, consegna un trofeo alla storia ovvero
all’Intemporalità, ad una teca infrangibile, dalla quale nessuno
lo potrà mai sottrarre. Fino a che c’è il pericolo di sottrazione
l’uomo è teso e tormentato. Questa Vittoria Totale è
possibile? Solo allorché tu non abbia fatto torto a nessuno, e
dunque nessuno avanzi dei diritti su ciò di cui tu ti sei
appropriato. Se invece lo hai fatto, la storia non finirà, non
conserverai quel bene per sempre, gli scheletri ti inseguiranno
nell’iperspazio sino a riavere il maltolto. Solo allorché regnerà
una corrispondenza di fini, e dunque nessuno attenderà più ad un
bene che non gli spetta, scomparirà quella competizione che è
l’anima del mondo e la ragione del suo perdurare quale mondo
infelice. La proprietà privata è sacra. Questo significa che deve
essere protetta sia dall’arrivismo capitalista della libera
concorrenza, dalla competizione quindi, sia dall’altrettanto
aberrante comunismo che la vuole annullare, trasfonderla in una
proprietà comune che è un assurdo qualora si mantenga il
pluralismo. La proprietà comune è possibile solo nell’organicità,
perché ognuno sta al suo posto e possiede solo quello che deve
possedere: in questo caso egli di fatto giova anche di tutto ciò che
hanno gli altri, poiché essi sono in relazione con lui.
Quando
hai la forza militare, ti prendi quello che vuoi e non si discute. Se
gli uomini fossero illuminati essi comprenderebbero quello che SOLO
e PER TUTTI è il massimo interesse: in tal caso la guerra
sarebbe annullata. La guerra totale è invece resa necessaria in
quanto l’élite illuminata deve rimuovere con la forza e l’astuzia
qualsiasi impedimento allo svolgersi dell’azione purificatrice il
cui risultato è la pace. L’unica pace possibile. Le resistenze si
hanno allorché strati di popolazione non accettano il loro ruolo o
comunque con più o meno coscienza fanno irruzione in altri ruoli,
talvolta per ovviare istintivamente al fatto che incompetenti e
disonesti si sono pigliati i ruoli apicali ed hanno creato
ingiustizie che tutti pagano. Si ha altresì resistenza poiché un
uomo nato per stare in alto viene costretto in basso ed esige allora
un riscatto. La guerra prioritaria consiste dunque nel ristabilire
i ranghi. Si realizza così l’organicità professionale, la
continuità del tessuto produttivo. Ma l’organicità non è in
questo modo ancora completa. Gli uomini lotterebbero ancora con gli
elementi naturali, la cui azione logorante necessita il Lavoro stesso
dell’umanità. Sino a che qualsivoglia elemento verrà forzato
fuori dal suo luogo naturale esso lotterà per riprenderselo, con
istinto e ragione.
I
nostri interessi possono essere tanti, ma il nostro massimo
interesse è soltanto uno, uno per ogni elemento di questo pianeta, e
lo stesso per tutti. Gli unici nostri veri avversari sono le menzogne
che albergano nella mente di ognuno, ed ognuno di noi può agire solo
guidato da ciò che ritiene vero: noi riteniamo nostri amici coloro
che la pensano come noi, che identificano come mezzi per i loro fini
gli stessi mezzi che anche noi identifichiamo, e nemici quelli che
identificano mezzi opposti. Noi possiamo essere divergenti solo sul
giudizio circa i mezzi, solo nel livello di conoscenza,
illuminazione, intelligenza, non sui nostri scopi ultimi, poiché
l’unico scopo ultimo è la felicità, ed anche quelli che chiamiamo
scopi non sono in realtà che mezzi contingentemente
giudicati. È possibile pertanto essere tutti felici senza
spargimento di sangue qualora ognuno trovi il suo posto, anche un
uomo insensibile e gretto che si appaga d’una vita semplice, la
quale però gli può essere garantita, con buona pace anche di tutti
gli altri che altrimenti ne risentirebbero, solo allorché i ruoli
apicali della società vengano ricoperti da persone di ben altra
levatura intellettuale e sensibilità.
FILOSOFIA
DELL’EDUCAZIONE
Non
è un’affermazione debole quella che ha bisogno di appoggiarsi su
di un’argomentazione come su un paio di stampelle? Feci questa
ipotesi ed il mio interlocutore matematico sprezzò “retorica da
quarta ginnasio”. Ora io avevo fatto invero lo scientifico e la
retorica non me l’avevano insegnata, ma la sua risposta suonava
invece come la retorica di un frustrato che ha dimostrato finora ben
poche cose nella sua spocchia di mente rettificante le arretratezze
altrui. Ogni dimostrazione è un modo indiretto per affermare ciò
che affermeremmo in maniera diretta se ne avessimo la forza. Queste
due rette sono parallele? Questi due segmenti sono uguali? Questa
azione è giusta? Questa affermazione è vera? Questo oggetto è
bello? Se i miei occhi fossero in grado di vederlo, nessuno
penserebbe a dedurlo, ovvero ad assimilarlo a qualcosa di altrimenti
evidente. Chi ha una visione debole e dunque non soddisfacente, lo
sente, sicché diffida dei propri sensi, necessariamente, per un
principio autodifensivo che non ammetterebbe tale imprudenza, e si
cerca allora un sostegno più solido, una immagine più nitida,
l’apprensione di un organo più sano, come fa il fisico quando
rifiuta le reazioni del suo proprio corpo come strumento di misura e
si rivolge a quelle di uno strumento da lui costruito, che appare
abbastanza sano da poter essere oggettivo, ovvero in realtà preso
come riferimento da raggiungere, in quanto possessore di un maggior
grado di perfezione. Un soggetto sano impone la sua visione poiché
non può assolutamente evitare di aver piena fiducia in essa. Non
appena dubiti, la tua forza è già deperita e tu lo sai, dacché
cerchi altrove un senso di sicurezza. Se tutti i tuoi sensi sono
fragili cerchi di unirne le capacità recettive, per delineare un
oggetto che somigli il più possibile a quello reale, nei confronti
del quale devi avere una reazione vincente. L’uomo pieno della sua
salute sa cosa è il giusto e l’ingiusto, il bello ed il brutto, il
vero ed il falso, e non si cura di dimostrare quello che già sa,
semplicemente lo opera, sin dove ne ha gli strumenti. Ma è proprio
questa mancanza di strumenti a necessitare invece la dimostrazione
che è invero un rigirare la cosa ad altri, agli inferiori che vi
oppongono le loro bieche visioni, mostrare loro la verità che noi
sappiamo, in una forma che risulti loro comprensibile, dacché
purtroppo abbiamo bisogno del loro consenso in virtù del loro potere
esecutivo, del quale abbiamo ancor meno rispetto del loro potere
giudiziario in quanto è il braccio armato di un pensiero sbagliato,
ma dobbiamo di fatto venire a patti con entrambi. È in fondo per
questo motivo che Nietzsche, spirito in piena salute come egli si
sentiva, si vantava d’essere un individuo semplicemente
affermativo, e non amava confutare, poiché un’argomentazione non è
che in fondo una serie di opposizioni alle posizioni prese dagli
altri, ed il suo “senso della distanza” dagli inferiori gli
imponeva di declinare quest’atto di inutile e faticosa
contaminazione. Ingiusto come ogni commercio con gli inferiori, ed
inutile perché dimostrare ciò che vedi non può mai significare
altro che il trovare un altro modo per vederlo meglio, da un altro
punto di vista, con un altro organo maggiormente potente, che dunque
può essere preso come metro. Ma se già il primo è valido e coglie
nel segno, perché eccedere? Un fanatismo dimostrativo, pedante,
prolisso, la spasmodica raccolta di ogni sorta di prove e
controprove, il cercare di arrivarci da destra e da manca, da sopra e
da sotto, da davanti e da dietro, è sintomo di confusione e
insicurezza, l’ossessione di un avversario immortale, della
presenza di troppi nemici da combattere, quelli che sul piano reale
ti si oppongono fisicamente, e sul piano intellettuale si appigliano
ad ogni sorta di osservazione e cavillo pur di porti delle obiezioni
e negare la tua tesi, o addirittura rovesciarla nella sua antitesi.
In ambito moralistico, ma invero in ogni ambito che vi si scopre in
fondo affine, appunto Nietzsche protestava contro la pretesa dei
decadenti di assolutizzare il proprio punto di vista circa i valori,
dell’essere il metro in sé del valore delle cose, e non solo di
quelle di cui loro stessi abbisognavano in virtù della loro
debolezza e per la propria autodifesa cui giammai un individuo più
forte accetterebbe di dover sacrificare la propria. Ed invero non
esistevano valori in sé, semplicemente ogni salute è proiettata
verso la propria crescita, ed ogni individuo compatibilmente con le
sue percezioni del proprio e dell’altrui valore in vista del
piacere massimo ovvero del perfezionamento del proprio essere,
sceglieva la cosa più conveniente. Le distinzioni schopenhaueriane
tra conoscenza intuitiva e conoscenza astratta sembrano invero giuste
e venerabili solo ad un principiante, giacché una analisi migliore
rende presto arduo riconoscere delle effettive differenze tra le due
modalità conoscitive. Tuttavia egli enunciò di fatto in questo modo
improprio la differenza tra i livelli gerarchici della conoscenza, al
cui apice non sta altro che quello più immediato e diretto, nei
confronti del quale gli altri non sono che un ripiego, ed allora
egli, spirito coriaceo nei punti principali, si sentiva di prendere
in giro coloro che, per usare le sue stesse immagini, si ostinano a
camminare con le grucce pur possedendo le loro proprie gambe, oppure
ad osservare un erbario quando hanno davanti agli occhi la natura
incontaminata. Egli non coglieva chiaramente che appunto la debolezza
di questi strumenti primari costringeva costoro a quelle vie traverse
da percorrere col massimo scrupolo al fin di non perdere la bussola
nel rischioso allontanarsi dal percepibile oggetto d’indagine. In
fondo dietro ogni studio giacciono una debolezza ed una invidia.
Quello che ti riesce d’istinto, tu non lo studi, e gli altri lo
possono studiare soltanto analizzando tale tuo gesto istintivo ben
riuscito, che precede ogni studio, che può farne totalmente a meno
ed anzi ne verrebbe guastato e frenato, e tale riuscitezza soltanto,
contrapposta al desiderio di imitarla, motiva il lavoro degli
studiosi. Lo studio è essenzialmente un atto di imitazione, un
tentativo di accedere a qualcosa di fisico che non possediamo, al
quale giammai esso potrà insegnare qualcosa che non sia già
presente in lui, qualcosa di cui lui non sia invero il modello
ideale, l’apice. Il metro della qualità calcistica è Maradona,
lui è il campione, ed ogni nostro ideale non potrà giammai superare
il miglior esempio di ogni cosa che abbiamo effettivamente visto.
Nessuno ha mai immaginato una donna più bella della più bella che
ha visto. Se riusciamo a concepire qualcosa di meglio, ad esempio
leggendo delle teorie filosofiche oppure ascoltando musiche, è
perché in noi sono presenti altre forme di perfezione
alternativamente acquisite, altri strumenti che pensiamo allora di
poter applicare a quello che leggiamo e sentiamo, oppure noi stessi
siamo dei potenziali maestri in grado di superarlo, pur avendo ancora
bisogno del loro appoggio ed essendo dunque ancora nani sulle spalle
di giganti. Noi potremmo essere tali solo contingentemente, nel senso
che, disponendo dei mezzi e del tempo di crescita ottimale, anche noi
raggiungeremmo i loro risultati autonomamente. Oppure possiamo
esserlo intrinsecamente e possedere però quella sensibilità
aggiuntiva che, annessa al loro lavoro, potrebbe portarlo oltre,
appunto la statura di un nano che, per quanto piccola, innalza la
visuale del gigante. Viva dunque i nani che sanno arrampicarsi sulle
spalle dei giganti senza imbarazzo e di lassù far le loro
osservazioni, e viva i giganti che capiscono la rettitudine del loro
intento e non se li scrollano via con irritazione, consapevoli che il
loro valore non ne viene sminuito o intaccato, ed il beneficio alla
comunità ne viene aumentato, poiché loro, per quanto grandi,
tuttavia non hanno detto tutto, né perfettamente tutto quello che
hanno detto, e sarebbe un biasimevole atto di egoismo e superbia il
pretendere che nessuno dica altro o voglia osare correggerli.
Chiunque possa contribuire al beneficio di una comunità ha il
diritto e il dovere di farlo.
Quando
Nietzsche affermava che vi è più saggezza nel tuo bel corpo che
nella tua miglior sapienza, intuiva la subalternità della funzione
conoscitiva, di cui la perfezione fisica è invero la teleologia
intrinseca. La felicità non cerca la conoscenza, mentre la
conoscenza cerca la felicità. Mandare un genio a scuola significa il
più delle volte ucciderlo e soffocarlo, e non è un caso che tutti i
geni abbiano dimostrato una personalità ribelle ed una ostilità
alle istituzioni o alle accademie. Tale “personalità” non è
altro che la necessaria reazione della loro personalità entro un
ambiente che la minaccia. Questa perigliosità dell’insegnamento si
verifica a meno che egli non vada a scuola da analoghi geni che siano
però già maturati. Se non gli fossero superiori quanto a
potenzialità, ma tuttavia più anziani ed avessero raggiunto alcuni
traguardi, potremmo pensare, che la loro istruzione sarebbe benefica
sul giovane talento, che gli risparmierebbe lavoro ed errori. Questo
è tuttavia errato, in quanto ciò che ha reso il percorso di
quell’intellettuale scabroso, logorante e dispersivo, è stato
invero l’essere immerso in un ambiente di persone mediocri e
malvage quando non aveva ancora gli strumenti per difendersene,
sicché soltanto per gradi e con molte sofferenze egli è giunto alla
presente maturazione. E sono appunto questi fattori gli unici dai
quali egli può salvaguardare per tempo la giovane speranza, sicché,
se egli vive a sua volta in cotali ambienti, l’altro può essergli
d’aiuto. Non invece qualora egli abbia la possibilità di vivere
appartato e crescere autonomamente in virtù del suo talento, o
addirittura in ambienti che siano realmente positivi per un
intellettuale, ricchi ma non eccessivi di stimoli, concilianti i suoi
bisogni, abitati di soggetti che compensino le sue carenze. In
condizioni ideali, dunque, giammai uno spirito superiore può trarre
il minimo giovamento da un altro spirito che gli sia anche sol
minimamente inferiore. Al contrario, in tal caso ne verrebbe
necessariamente guastato. Tutto questo continua a parlare a sfavore
del tanto decantato valore del dialogo, che può invece essere
benefico solo qualora l’uno voglia dare esattamente ciò che
l’altro ha bisogno di ricevere, e lo possa ricevere soltanto dalle
sue degne mani. Se viceversa, tu vivessi in contatto fin dall’inizio
con un altro giovane di superiore valore intellettuale, ed il vostro
percorso proseguisse in parallelo, saresti ora tu a danneggiarlo,
poiché hai la vista meno acuta e costituiresti per lui un freno ed
un fastidio, mentre tu non potresti in alcun modo essere migliorato
da lui, qualora la tua inferiorità sia intrinseca e non contingente.
Se tu venissi educato da uno spirito che ti è superiore e già
maturo, la sua capacità di donare sarebbe superiore alla tua
capacità di ricevere, sicché lui ne resterebbe amareggiato e tu non
sapresti che fartene della sua saggezza che non può riguardare la
tua vita, legata necessariamente alla tua sensibilità. Dunque, non
resta che un caso, in cui lo scambio può essere benefico ed
ugualmente desiderato da entrambe le parti. Quella di due spiriti di
pari livello, due anime affini di cui una è anziana e l’altra
giovane. Questi soltanto sono l’allievo ed il maestro ideali, tutte
le altre forme di insegnamento non sono che drammatiche forzature.
Quando tali due spiriti si incontrano, l’intensità del rapporto
che li lega supera fattualmente quello di padre e figlio, che si
esaurisce invero nell’atto della generazione la qual non c’entra
con l’educazione che ne è il complemento ed è qualcosa di molto
più lungo ed impegnativo. Che i tuoi genitori debbano essere i tuoi
primi maestri, o anche solo avere il diritto indiscusso di
partecipare in qualche modo alla tua educazione non è una cosa
saggia, ma una convenzione sociale dalla quale l’umanità deve
evolversi per il suo bene. Il sesso è una istituzione naturale, non
la famiglia. Ma il maestro invece si sente porre dall’allievo
esattamente le domande che anche lui si era posto ed alle quali
adesso ha la facoltà e la volontà di rispondere, mentre l’allievo
si sente dare esattamente le risposte che cerca. Non nel normale
consesso umano, in cui è rarissimo trovare la risposta e sentirsi
fare la domanda giusta. Quello che il maestro dice all’allievo, che
ne viene profondamente irrorato di soddisfazione, non lo stupisce
invero mai del tutto, poiché si rende conto che la risposta era già
dentro di lui, solo che ci voleva tempo per arrivarci, e le
anticipazioni poste lui dal maestro non sono vere e proprie
anticipazioni, in qualche modo lui sa già di cosa il maestro stia
parlando, nella vita ne ha già incontrate per lo meno le basi, in
diverse tipologie di fenomeni.
Nessuno
vede oltre se stesso
Il
personaggio più evoluto si pone come orizzonte morale, come esempio
sommo. Così come il miglior atleta sulla piazza. Insuperabile e
incriticabile fino a che qualcuno non lo supera. Questa è prepotenza
ultra-morale. Prepotenza che usa la morale. La morale ha due origini
e non è sancibile in via definitiva quale fu la prima: una forma di
patto (legge) ed una trappola psicologica (giudizio morale), esse si
integrano ed appoggiano l’una con l’altra perché spesso una da
sola può risultare insufficiente. Entrambe sono dipendenti da
rapporti di forza. Il patto in quanto le sue condizioni possono
essere inique se soltanto una delle due parti è più forte
dell’altra: si sottopone ad una rinuncia, a corrispondere un
servigio, un rispetto dell’altra solo nella misura in cui è di
fatto da questa dipendente, nella misura in cui, quindi, ha una
debolezza, una mancanza, un bisogno che può essere colmato
dall’altra, su cui questa può a sua volta far leva per estorcere
favori e rinunce alla prima. Quando uno è più forte pretende sempre
di più di quel che dà. Impone la sua legge: se essa viene infranta
egli ha il diritto (ovvero la forza) di punire, di trasformare il
ricatto in danno. Alla legge si può aggiungere la morale, nel senso
che la cosa vietata era divenuta anche spregevole e ci
si era abituati a considerarla tale: l’oppresso, nell’infrazione
della regola, si sente spregevole, e l’oppressore spregia il
trasgressore. Ma vi è anche il giudizio morale opposto e più
facilmente penetrante perché sentito come più veritiero da entrambe
le parti: ovvero che spregevole da parte dell’oppresso è proprio
il rispettare quei patti, perché denuncia la sua debolezza, la
necessità di farlo: il suo è un maledetto dovere. E
costui si sente dunque potente ed orgoglioso ogni volta che infrange
la regola e nell’eventualità in cui, rinforzatosi, si può ora
permettere di imporre lui nuove condizioni al forte, attuando la sua
rivalsa ed un suo maggior benessere insieme. Il forte, consapevole
essere il suo un originario atto di prepotenza, spregiava appunto fin
da subito il suo schiavo, ed è spaventato della sua possibile
crescita eversiva, e si premunisce contro di essa. Ora che le sorti
si sono invertite, egli si vergogna di se stesso, si disprezza. In un
ambiente in cui i principi morali di valore vengono creduti ipocriti,
un moralista criticante e condannante l’operato altrui verrà
sempre sbeffeggiato e si sentirà avvilentemente misero: la sua
critica verrà ricondotta all’invidia e gli si dirà tu faresti
ben di “peggio” se ne avessi le capacità, alché lui è
oppresso materialmente e moralmente, proprio come il debole di cui
parlavamo prima, nei confronti del forte. Se si vive invece in un
ambiente in cui i giudizi morali vengono presi come veritieri, sia da
forti che da deboli, essi divengono a loro volta uno strumento di
forza, vengono presi come qualcosa che è legittimo usare per
dichiararsi superiori ad un altro uomo e compiacersi di ciò, a
prescindere dalla situazione materiale. Pensate ad una situazione in
cui ognuno conduce lo stile di vita che vuole e tiene la condotta
etica che preferisce: questo determina una qualità della vita. Ma
tutti ammettono, soddisfatti o meno, che esistono una moralità
superiore e una inferiore: l’uomo che tiene una certa condotta,
insegue determinati scopi, rispetta principi, è più onorevole,
più virtuoso. A questo punto gli si conferisce il diritto di
rinfacciare la propria superiorità all’immorale. Questi magari è
più soddisfatto, ma si sente un tantino svilito, e lo accetta: da
questo punto di vista ammette di essere peggio dell’altro. Ma
quest’altro, a sua volta, magari non è proprio un santo: qualche
peccato lo ha commesso, e c’è pure chi è meglio di lui. E qui
ricompare la forma di minaccia, nel momento in cui una persona molto
immorale non si sente la capacità di rinfacciare, come vorrebbe, una
lieve mancanza all’individuo solo modestamente e sporadicamente
immorale: insomma ad uno che è comunque meglio di lui, perché
altrimenti costui gli rinfaccerebbe brutalmente le sue pecche,
più gravi. Sono partite: l’affermazione materiale e la dignità
morale, nella misura in cui le si considera valide si vorrebbe
emergere in entrambe. Si valuta dunque dove si è più dotati, si
pensa a dove si ha più probabilità di emergere, o ancora quali sono
i compromessi soggettivamente migliori, la strada meno dolorosa e più
gloriosa. La sorte peggiore in quest’ambito ce l’ha colui che non
vale niente in tutti i campi: un immorale debole, un debole
malvagio, che tutti deridono e sprezzano perché non solo farebbe
il male, ma non ne ha neppure la forza. Il più fortunato invece è
il santo forte, doppiamente onorato, se non fosse che la
moralità più diffusa comporta la rinuncia ad una buona fetta della
propria felicità, come dissi all’inizio, sicché il suo è solo un
mezzo affare. Nietzsche si sente al di là del bene e del male ed ha
una fiducia estrema nell’istinto che agisce liberamente da
qualsivoglia forma di freno inibitorio, veicolato nel cuore tramite
l’intelletto, e considera appunto la morale stessa come l’unico
vero male, l’unico impedimento alla crescita dell’individuo:
accrescimento che egli tende a vedere come vero scopo della vita e
fonte di felicità, anche se altrove lo vediamo criticare apertamente
il finalismo stesso e l’eudemonismo; sicché egli santifica la
guerra come unica prassi possibile verso la venerata “potenza”.
Avendo dunque tolto di mezzo il secondo corno del problema, per i
nietzschiani il valore morale coincide con il valore bellico. Volendo
restare nell’ottica individualistica tanto sostenuta da Nietzsche,
devo ripetere che, potendo la morale essere usata come arma, egli non
può condannarla in quanto rientra nella virtuosa innocenza della
guerra. Ma la guerra innocente è solo quella che si vince
totalmente: non si può elogiare ciò che produce tormento. La morale
si occupa infatti di porre lo scopo della vita e di indicarne i
mezzi: dunque di mettere delle regole in quella guerra
universale che in natura appare cieca, dispersivamente sanguinosa e
sconclusionata, anche qualora essa non fosse malvagia in sé stessa,
ma addirittura l’unico strumento di salvezza e di vera felicità. E
come può l’uomo trascendere davvero l’ottica eudemonistica,
quando gli stessi istinti e la guerra che questi attuano, portano
appunto, indiscutibilmente, verso questa direzione? Virtuoso è
dunque ciò che porta alla felicità. Assunto questo concetto,
possiamo affermare che sia il guerriero sconsiderato che il santo
combattono la propria guerra con strumenti inadeguati e si fanno del
male da soli. L’uno danneggiando barbaramente ciò di cui ha
bisogno e che, con le sue conseguenze, lo renderà sofferente e
perdente. L’altro, mortificando se stesso in maniera pietosa e
irragionevole. Per cui è vero che il valore morale deve
coincidere con il valore bellico, poiché appunto solo la cattiva
guerra porta al dolore, solo la cattiva guerra è cattiva, e ciò che
è buono non è altro che buona guerra. La morale può addirittura
essere fatta coincidere con l’intelligenza, ossia lo strumento che
conduce l’istinto verso il suo obiettivo. La morale deve indicare
ciò che va distrutto e ciò che va protetto. La morale deve
riconoscere tutto ciò che è forte e tutto ciò che è debole.
Dunque, la natura non può fare a meno della morale, come vorrebbe
Nietzsche. In definitiva, la morale non deve sparire, ma solo
liberarsi della sua incapacità, deve essere un’arma all’altezza
del suo compito, e non un’arma che si ritorce contro colui che la
maneggia. Che lo strumento di salvezza dell’uomo non costituisca la
sua condanna. Il compito dei filosofi lungo i secoli è quello di
perfezionare la morale.
Non
esiste differenza tra intelletto e volontà. Qualsiasi filosofo abbia
proclamato scissioni tra caratteri morali e caratteri intellettuali
ha commesso un crimine di leggerezza imbarazzante. Come proclamare
separato ciò che si trova nello stesso organismo? I cui anfratti ci
sono altresì ignoti.
Gli
stupidi non sono mai buoni.
Gli
intelligenti non sono mai cattivi.
Una
cosa è cattiva nella misura in cui è stupida.
Solo
se è stupida essa fa del male.
Stupidità
e criminalità sono sinonimi.
Crudele e stupido sono identici, la
crudeltà è quella che non si rende conto, distrugge per gioco o per
gretto istinto, non v’entra il sadismo che altera l’altro di cui
s’era corrotto insino al giudizio. La malvagità è peggiore e ti
addesidera la morte, poiché essa spegne e non deturpa. Lasciate
stare i belli: non devono esser guardati male. L’occhio vile
deturpa: tu che lo avverti, ma hai ancora il tuo corpo, questi
ammazzi come dolce boia tristo d’apparir crudele.
Il
buono non è quello che non uccide nessuno, che non picchia nessuno,
che non insulta nessuno, che non manca di rispetto a nessuno, che non
sbeffeggia nessuno, che non odia nessuno, che non disprezza nessuno,
che non osteggia nessuno. Questo è un degenerato. Il buono è quello
che sa dove e come indirizzare le sue frecce. Non bisogna essere
buoni in senso cristiano. Bisogna essere giusti. Parola che in
origine doveva equivalere al successivo buono, nato per convogliare
la giustizia e dunque la saggezza nel valore soggettivo che aveva
assunto appunto la valenza principale nel credo cristiano, ovvero
rappresentava la condizione della loro esistenza e vittoria. Quanto
tale esistenza e vittoria fossero giuste, è altra questione.
L’intelletto
non è l’unico organo in cui opera l’intelligenza. Intelligente è
tutto quello che funziona. La saggezza della mano è un modo
corretto di esprimersi. La saggezza gestuale esiste ed anzi
non se ne trova d’altro tipo dacché vivere significa compiere dei
gesti. La filosofia è l’abilità nello svolgere operazioni
con i concetti. Un corpo che non funziona è stupido. Un corpo brutto
è stupido. La cattiva salute è un crimine in quanto forma di
stupidità. La bruttezza è immorale. Nessuno ha il diritto di
essere brutto e insano.
Appellarsi
all’oggettività è un modo per mascherare la soggettività di chi
ancora non è divenuto oggetto. È un modo per togliersi la
responsabilità dei propri gusti. Succede cosa analoga quando si
danno giudizi morali sancendo la giustizia di quanto è avvenuto
solamente perché ci si trova in vantaggio e lo stato delle cose ci
appaga personalmente. Se due persone ascoltano un disco e alla prima
piace ed alla seconda non piace, quella a cui non piace non doveva
ascoltarlo. La gerarchia dei gusti è la gerarchia delle persone. Si
disputa intorno alla bellezza come si disputa attorno alla moralità,
e si lo si fa soltanto invano, giacché si vive in una società
discrasica in cui nessuno sta al suo posto, siamo in un calderone ad
imporre i nostri valori come assoluti in quanto non sapendo bene dove
andare dobbiamo spianarci le strade conquistando più ambienti
possibili, affinché si confacciano alle nostre preferenze. Non è
vero che quello che va bene per te debba andare bene anche per gli
altri: ma è vero che quello che va bene per gli altri deve stare
dove sono gli altri. Ed è vero che tutti devono essere soddisfatti,
ma è drammatico e ridicolo parlare di pacifica convivenza tra cose
diverse: si può parlare solo di pacifica gerarchia, perché nel
livellamento tra cose diverse vigono inesorabilmente il fastidio
reciproco e la guerra, tutto al più lo squallore dei compromessi. Ai
piani inferiori proprio si deve ignorare quello che succede nei piani
superiori, sebbene questi abbiano il dovere ed il piacere di vegliare
anche sugli interessi dei primi senza doverne assumere ruoli ed
usanze. Quando uno discute con un inferiore su chi sia l’inferiore
dimostra di mentire a se stesso in quanto non lo considera in fondo
inferiore. Per discutere bisogna trovarsi infatti sullo stesso piano.
Ma noi assumiamo la discussione come prassi quotidiana e naturale
perché la nostra situazione quotidiana anche se innaturale è di
essere vincolati a fiumi di persone che giudichiamo inferiori. Essi
hanno fattualmente un potere su di noi, allora ci sforziamo di
convincere quello che dovremmo e vorremmo soltanto vincere.
Vincere significa ottenere la postazione che ci spetta, e dacché
ogni postazione è unica non si può convincere, ossia vincere in più
di uno. Ma se ognuno trova il suo posto ecco che tutti vincono perché
l’insieme funziona. Si vince in orizzontale, si convince in
verticale. Invece nel nostro bel mondo si cerca di convincere in
orizzontale e si perde, si riesce solo a sfiancarsi gli uni gli altri
sino alla disperazione, e dal trambusto si leva spesso l’impeto
della maggioranza che vince in verticale facendo perdere tutti, in
quanto è stupida e non merita un ruolo di vertice. Infatti un
superiore che già mal sopporta di dover parlamentare con gli
imbecilli, esce fuori di senno quando la gerarchia non è solamente
annullata, ma addirittura invertita e la sua virtù mortificata
all’inverosimile. Quando la struttura funziona non c’è bisogno
di convincere perché tutti hanno già vinto e quando si vince non si
discute. Quando invece si perde, non serve discutere, bisogna
cominciare a vincere. L’inferiore non si convince di esserlo, se
davvero è tale.
Non
gli si dimostra niente, se non quando la benefica struttura avrà
dato anche a lui i suoi risultati, ma allora la felicità eliderà
ogni discussione assieme ai problemi. Su di lui non ci si può
assolutamente imporre con la ragione. In una discussione ci si impone
con la ragione solo se entrambi hanno ragione: altrimenti, ci si
impone con la forza. Sperando che il più forte abbia anche ragione.
L’unica inferiorità di cui possiamo renderci conto è quella
contingente, quella di chi non è un coglione ma solo rincoglionito,
altrimenti non potremmo assolutamente stimare la distanza che ci
separa dal superiore, mentre ciò è consentito dal fatto che egli
sia solamente più benestante, maturo o colto, ma non più
intelligente di noi. Al contrario, riconoscere la propria superiorità
è banale, ed anzi inevitabile per ognuno, anche per l’inferiore.
Infatti la statura di ogni uomo è il non plus ultra che egli
possa concepire e dunque ognuno di noi è per se stesso un Dio pronto
ad imporsi sul mondo: ognuno di noi è il migliore. Un uomo può sì
ammirare un altro, ma senza mollare se stesso, il mirante, il giudice
ultimo, ed inappellabile. Questo perché conoscere significa
assimilare. Tutto ciò che ci sta sotto, senza tuttavia essere
materiale di scarto ossia totalmente eterogeneo, è assimilabile
poiché assegniamo ad esso un posto nell’organismo. Ma tutto quello
che si trova invece al di fuori dell’ambito della nostra
sensibilità, e ci è dunque superiore, non lo possiamo assimilare
attivamente ma solo passivamente ed esso diventa parimenti un
materiale di scarto, anche se ci sono sostanze nella società che
abbisognano di essere inserite nel nostro corpo affinché esso e lei
tutta siano più felici, e la cosa può essere realizzata solo sotto
l’amministrazione di una persona saggia in locazione elevata, le
cui visioni del mondo sono però inaccessibili allo stolto ruspante
la sua suprema intelligenza. Insomma le persone grette non si rendono
conto di avere bisogno di quelle intelligenti, mentre queste ultime
si rendono conto di aver bisogno delle prime come le foglie
dell’albero di aver bisogno dei rami, del tronco e delle radici. Ma
è proprio per questa asimmetria che l’intelligente ha diritto di
imporsi sullo stolto, perché lo comprende e dunque pensa
anche nel suo interesse, mentre non è possibile invece il contrario.
La propaganda è qualcosa di inutile, perché l’uomo assimila solo
ciò con cui è d’accordo. Ed è d’accordo solo con ciò che
assimila. Quando si cerca di persuadere gli altri, si sfondano delle
porte aperte oppure non si sfonda un bel nulla. Si può forzare la
forma mentale di una persona sino a traumatizzarla, ma questa si
ricompone quanto prima ed espelle ciò che non le calza. Se mi si
obbietta che tu potresti persuadere (plagiare) una persona che non
abbia ancora acquisito altre conoscenze ed esperienze su un
determinato tema, rispondo banalmente che in tal caso le opinioni che
ci vengono proposte sono totalmente insignificanti perché
senza esperienza noi non sappiamo nemmeno di cosa stiano parlando.
Quando invece abbiamo la nostra esperienza, non vi è parola in grado
di contraddirla, ed anzi essa sbaraglia qualsiasi concetto ci sia
stato precedentemente insegnato. Quelle che ci vengono propinate
possono essere al massimo informazioni false che non abbiamo
il modo di verificare, ma in tal caso esse raccolgono un consenso
fasullo e non sincero: se ci avessero dato quelle giuste, avremmo
preso la posizione opposta, ci saremmo dunque messi contro coloro che
di già le possedevano ma le giudicano diversamente da noi per
differenze intrinseche e dunque per una diversa identità. Non
è dunque possibile cambiare gli amici in nemici e viceversa, puoi
solo confonderli o mascherarne i volti.
Ma
tutto quello che doveva stare sotto e ci sta sopra è un nemico.
Niente
un uomo nobile compie più volentieri del proprio dovere, niente più
mal volentieri di un atto indegno. Per l’uomo intrinsecamente
spregevole le cose stanno all’opposto, perché egli giova del suo
atto egoistico cui la miopia dell’agente non riesce a porre
contraltari nella visione delle conseguenze future, ossia la quantità
di danni sociali o anche solo personali dell’improvvido gesto.
Non
solo per la comunità ma anche per noi stessi dobbiamo essere
coraggiosi. Quando nessun atto avrà un prezzo, la morale non
esisterà più perché nessuna intelligenza dovrà distinguere le
priorità. Ma allora la vita sarà già risolta. Sino a che non è
risolta, gli atti hanno un prezzo che deve essere gradualmente
scontato dalla nostra saggezza anziché aumentato dalla nostra
dissennatezza che continua a compiere crimini. Sino ad allora,
dunque, la morale è necessaria, perché solo gli uomini naturalmente
virtuosi si comportano bene spontaneamente e, qualora sbaglino, si
tratta di un errore contingente che pertanto essi sono in grado di
correggere poiché detestano l’errore appena commesso. Tutti gli
altri invece, non sono in grado di distinguere il bene dal male, non
sono in grado di sacrificare una brama di bassa importanza per
un’altra di maggiore importanza perché quest’ultima non è loro
accessibile, si trova oltre le loro capacità percettive, quelle che
invece consentono all’uomo nobile di andare con la mente oltre
l’ostacolo che hanno davanti, a cogliere la meta per cui val la
pena di battersi o di sacrificare altri beni. Quando lo scettro dei
valori morali è detenuto dai migliori, essi costringono anche gli
infetti a comportarsi in maniera virtuosa, o con l’ausilio della
forza fisica, oppure inculcando in loro la paura con la vicina
minaccia di una pena cui sono suscettibili. In questo modo tutti
serviranno, volenti o nolenti, la giusta causa. Ma se invece lo
scettro dei valori morali, grazie ai principi democratici che tutto
assegnano alla massa volgare, passa a quest’ultima, ecco che
avviene qualcosa di terribile. Non solo la massa esegue in tutta
serenità e senza significative opposizioni quello che la sua
bassezza le permette di percepire come buono anche se è deplorevole,
ma essa sancisce come doveri delle azioni che non sarebbero affatto
doverose in un mondo saggio, e come diritti delle azioni che non
sarebbero assolutamente dirittuali in tale nobile mondo. La massa
costringe a questa prassi ed a questa mentalità anche la classe dei
nobili, contrariati dal dover fare cose infruttuose per i propri
ideali e rispettando diritti che parimenti li danneggiano. Ogni
negligenza o deliberata violazione di tale statuto di diritti e
doveri comporta per loro una punizione materiale, morale, sociale.
Egli prova così vergogna di cose che meriterebbero fierezza ed
onori, egli si sente obbligato ad azioni discutibili, se non
palesemente prive di valore agli occhi di un uomo saggio, e mentre le
discute non può esimersi dal processare contemporaneamente se stesso
poiché quella norma rappresenta un principio vigente sostenuto
dall’autorità della maggioranza che immediatamente lo giudica,
osteggia, contesta, condiziona, sprezza. Le cose buone a questo mondo
sono sempre esistite, ma tutta la degenerazione, in ogni epoca, è
dovuta al predominio sociale della feccia, cui nessuna rivoluzione
aristocratica nella storia ha finora posto una briglia durevole e
sufficientemente efficace.
L’orgasmo
non aiuta l’intelligenza: l’intelligenza stessa non è tale se
non è orgasmica.
La
parola intelligenza designa la capacità complessiva di un
corpo di autorisanarsi. Nietzsche affermava che una filosofia
fosse la confessione del corpo del suo autore. Essa è più
precisamente la generalizzazione degli esiti dei suoi tentativi di
fuga dal dolore.
Sia
la sofferenza o meno proficua per la filosofia e per l’arte? La
sofferenza rivela le capacità di reazione del corpo intelligente,
altrimenti latenti e invalutabili, ma nello stesso tempo ne delimita
preventivamente l’ambito: nessun artista o filosofo può infatti
parlare d’altro che della biografia del proprio corpo, e la sua
arte avrà il valore del suo sistema immunitario, relativamente ai
settori danneggiati e non un passo oltre.
L’individualità
investe quindi anche i beni ereditari, come un patrimonio artistico,
scientifico o filosofico, che possono essere tramandati efficacemente
solo ad un pubblico consanguineo e di analoga esperienza di vita,
poiché questi due fattori generano gli stessi dolori vissuti
dall’autore che ce ne ha fornita una soluzione, affinché noi,
fratelli suoi, che proseguono la sua esistenza in una generazione
successiva, andiamo oltre, verso la conquista della vittoria e della
felicità.
La
cultura è un’ipoteca versata al te stesso che sarai.
La
guerra della memoria è rivolta a guastare l’eredità
storica positiva che i nostri avversari ricevono dai loro simili
vissuti in epoche precedenti, oppure a riconquistare tale nostra
eredità, analogamente infangata da loro, onde poterne usufruire.
Solo un uomo che ha amato l’umanità intera può donare ad essa un
beneficio universale con il suo retaggio culturale. Tutte le opere di
uomini faziosi avranno solamente un valore fazioso.
Non
è possibile votarsi ad un sacrificio senza prima aver perso una
guerra o aver paura degli avversari.
Ci
si giustifica solo dal momento in cui un altro ha del potere su di
noi, sicché dobbiamo persuaderlo che non abbiamo fatto niente di
male.
Tutti
i mali provengono dal fatto che uomini dalla visuale limitata hanno
un’autorità sopra uomini la cui visuale è più ampia.
È
il decametro che misura il metro, non il metro che misura il
decametro. Il metro può spostarsi ripetutamente sino a coprire la
distanza di un decametro, ma scordando la strada che ha fatto: esso è
infatti sempre un metro che non può espandere la sua visuale, sicché
non comprenderà mai un decametro, nemmeno con dieci metri.
Le
analogie ingannano. Infatti un metro può sperare di comprendere il
decametro pensando che il rapporto che il decametro ha con lui sia
uguale a quello che lui ha col decimetro: ma l’unico rapporto
percepibile è quello fra se stessi e qualcosa di più piccolo ed
omogeneo, sicché egli si scambia per un decametro
indebitamente, e scambia un suo sottomultiplo con se stesso.
Il
motivo per cui il mediocre non è in grado di apprezzare l’eccellente
è esemplificato dall’immagine del quadro. Egli trova perfetto il
disegno fatto su misura per quella tela dal massimo rappresentante di
una sensibilità, il miglior artista sulla piazza di quella specie,
avente maggior perizia tecnica degli altri ma solo entro i limiti
geometrici di quella tela. Se si presenta un artista nato per visioni
maggiori, questi dipinge sulla tela più grande, ma il mediocre ne
vede solo la parte inferiore, dove quello ha poste alcune linee
destinate a spandersi o svilupparsi nella metà superiore del quadro
e solo dall’insieme avrebbero tratto il loro senso: ora il
mediocre, limitato in altezza, non può che trovarle senza senso,
oppure criticarne le dimensioni che stridono con i limiti della sua
tela, a dir bene adatta solo a soggetti di data dimensione.
Non
esistono rapporti equivalenti. Nemmeno quelli che si riducono
all’unità, perché 3/3 è diverso da 8/8 nel mondo fisico, infatti
sei persone non hanno gli effetti di sedici persone. Ma la parola
rapporto è talmente generica che nel mondo reale può essere
tradotta con infiniti significati. Se un rapporto è davvero
riducibile all’unità esso è un falso rapporto, è invece una
identità disconosciuta, e tali sono le petitiones principii. A patto
che il ridurre non sia una reale operazione necessaria, nel qual caso
ha degli effetti e dunque non è mai trascurabile, non si possono
cancellare gli elementi opposti come niente fosse. +2 -2 non è
uguale a 0. Sarebbe come dire che andare a Milano in macchina e poi
tornare è come non esserci andati. O che nel tiro alla fune la
forza risultante pari a 1 in direzione della squadra blu è l’unica
forza in campo. È chiaro infine che due unità sono equivalenti
finché non le metti in rapporto con un terzo soggetto. Lo so che 8/4
è uguale a 4/2, ma in aritmetica forse, non in fisica! In aritmetica
per cancellare un otto basta scriverci sopra una stanghetta dopo
un’agevole operazione mentale. Ma tagliare un tronco di otto metri
in quattro parti e prenderne una non è come tagliare un tronco di
quattro metri in due parti e prenderne una. Il primo, già è più
ingombrante, poi lo devi tagliare 3 volte, e negli scarti ti restano
da gestire 3 segmenti di 2 metri ciascuno; mentre il secondo, di già
più maneggevole, lo tagli 1 volta e negli scarti da gestire ti resta
1 segmento di 2 metri. È chiaro che se la tua mansione consiste nel
portarti a casa il tuo pezzo di legno, non ti importa quanto i
carpentieri abbiano dovuto sbattersi per produrlo. Fatto sta che te
lo fanno pagare in base a questo. Ed il numero di euro che hai in
tasca corrisponde al numero di operazioni che sono state compiute per
produrli. Quindi il match verte sempre sull’1-1
La
forza non ammette forze inferiori. Quando un uomo raggiunge un
livello di virtù dispregia e condanna tutto quello che si comporta
peggio. Quando si valuta un comportamento e lo si giudica immorale è
perché c’è stata gente che in quella situazione ha fatto di
meglio. È una legge biologica ed evolutiva. Un uomo è felice se il
mondo intorno a lui gli si uniforma. Dunque si uniforma anche alla
sua virtù. Non si vuole tornare indietro: pertanto si accoglie solo
ciò che si conforma al nostro stadio di virtù. Accettiamo ciò che
è più grande solo se è in grado di elevarci poiché
tale virtù è potenziale anche in noi, e siamo pronti ad un
progresso, ma ciò non avviene qualora non siamo pronti a tale
progresso perché la cosa ci logorerebbe ed allora il vizio si
protegge dalla virtù frettolosa, di fatto traumatica. Quando la
debolezza contingente sembra eterna, noi non ci sentiamo in grado di
acquisire tale virtù ed allora ci sentiamo umiliati, condannati ad
un livello di virtù inferiore: disprezziamo quindi noi stessi
paragonandoci ai più virtuosi che, con la naturalezza sopra
espressa, ci schiaccerebbero, sicché risulta più conveniente per il
nostro ego il suicidio. Il suicidio nasce dalla sensazione di non
poter adempiere alla propria natura, che si esprime sempre nella
società e dunque rigettare se stessi è equivalente a sentirsi
rigettati dagli altri, poiché solo visualizzando un contesto sociale
possiamo farlo: ci flagelliamo tramite i loro occhi perché solo
paragonati ad un ambiente noi siamo inferiori. Ma chi non ambisce ad
una virtù perché essa esula dalla sua sfera sensibile non proverà
mai vergogna ossia una premonizione mortifera, una morte parziale
che, qualora vada ad intaccare tutto il nostro ego, diventa suicidio.
Un inferiore intrinseco è uno che non ha il senso dell’onore
relativo a quella virtù: perché solo possedendone le dimensioni
spirituali e come dire l’involucro, noi desideriamo acquisirla e
dunque riempire tale involucro, gementi di ogni suo vuoto incolmato.
La vergogna non è altro che la percezione del vuoto, un vuoto che
non può essere accettato perché ogni potenzialità vuole diventare
fattualità. Accettarsi per quello che si è non significa solo
rendersi conto di ciò che non possiamo raggiungere, ma anche
rendersi conto di quello che non possiamo fare a meno di inseguire
poiché la sua acquisizione rientra nella nostra natura ed è lo
scopo della nostra vita. Le cose a cui siamo sensibili hanno una
valenza ineludibile nella nostra vita: anzi, la nostra sensibilità è
nata per rendere possibile il nostro intervento in determinati
settori del mondo. Un uomo sensibile non può pensare di
semplificarsi la vita diventando gretto e menefreghista, oppure
ponendosi obiettivi più modesti perché quelli ambiziosi sono troppo
difficili e tormentosi. Non è fattualmente possibile tradire se
stessi ed i propri simili. Lo si fa per errore e ne si paga il
prezzo. Se tradisci un uomo che non era veramente un tuo simile, se
tradisci una bandiera che non ti apparteneva veramente, se tradisci
una causa alla quale non tenevi sul serio, non sei colpevole. La
colpa non è il tradimento, ma il giuramento. L’errore è stato
fatto a monte: questo è un giusto rimedio. Nessun uomo può
ragionevolmente essere costretto contro la sua natura. Al contrario
ogni giustizia politica nei suoi confronti consiste nel convogliarlo
dove la sua natura crea benefici ed egli marcia da solo svolgendo
inesorabilmente e fieramente il suo compito con passione, e
distoglierlo da tutto quello che non lo riguarda e che egli dunque
potrebbe solo danneggiare spiacevolmente. Fare la paternale ad un
uomo che non possiede il senso dell’onore relativamente ad un
obiettivo, è vano. Non lo si fa sentire in colpa, perché nella sua
anima non vi è alcuna lacuna in quei siti, non c’è nemmeno
l’involucro di quella virtù, un organo cavo che debba essere
riempito. Lui non si sente in debito, è a posto con la coscienza
perché ha marciato verso i suoi obiettivi, e non gli interessano i
nostri. Non lo puoi far sentire vuoto né marcio, perché manca un
contenitore in cui possa stare qualcosa, sano o marcio che sia. Il
rancore verso queste persone in realtà è solo dovuto al fatto che
siamo stati in relazione con loro e siamo stati danneggiati, perché
essi avevano una posizione che non meritavano, né sopra di noi né
sul nostro stesso piano, sicché il danno che ne abbiamo
effettivamente ricevuto richiede una vendetta, e noi non potendo
spesso averne una fisica e non potendo togliere il personaggio infido
dal suo ruolo, ecco che ne cerchiamo una morale. Vogliamo fargliela
pagare con la lama del disprezzo, alla quale lui non è però
sensibile e questo ci priva della nostra vendetta. La cosa ci fa
imbestialire ancora di più perché vediamo che lui non soffre
nonostante sia un miserabile e abbia compiuto danni. Ma se non
soffre, egli non gode nemmeno. Se una cosa non ti interessa non ti
interessa nel bene come nel male, egli non sente di aver vinto su di
noi perché non ha di fatto mai affrontato le stesse battaglie, non
sa nemmeno dell’esistenza di certi obiettivi e di conseguenza delle
relative difficoltà, sentimenti e pensieri. Noi ci sentiamo
sconfitti da lui senza che lui si senta vincente su di noi.
Semplicemente egli non doveva trovarsi in quel ruolo, ma in un altro
in cui noi avremmo potuto ignorarlo senza rancore. Il nostro errore è
stato entrare in contatto con lui, metterci a competere con uno che
non persegue le stesse cause. Ma se lui davvero fosse in grado di
rendersi conto del male che ha fatto, nella stessa misura non sarebbe
malvagio, ed in tal caso il vero responsabile del male è l’insieme
di fattori che lo hanno messo in condizioni di fare il male, dunque
elementi materiali e intellettuali. Non ci si vendica di chi non ha
onore, egli non si sente vincente su di noi, perché non abbiamo mai
avuto gli stessi obiettivi. E come la virtù è premio a se stessa,
così il vizio è punizione a se medesimo. Quando un uomo nobile
sbaglia, non merita invero alcuna punizione dall’esterno, perché
appena si rende conto di aver sbagliato ne soffre, ed automaticamente
si mette all’opera per rimediare. Quando un uomo ignobile sbaglia,
non riesci ad offenderlo moralmente, perché egli non distingue il
bene dal male, e la punizione fisica può essere per te uno sfogo ma
non per lui una fonte di correzione. Egli non può migliorare, se per
natura è malvagio o stupido che dir si voglia, si può solo
toglierlo dalle locazioni in cui danneggia gli altri. Le promesse e
le minacce, i premi e le punizioni, sono incentivi innestati in un
corpo sociale già iniquo e discrasico, non meritocratico, in quanto
gli uomini posti nei loro ruoli spontaneamente adempiono ai loro
doveri senza bisogno né di regalie né di punizioni di alcun genere.
Si è pensato di stimolare l’azione con alternative fonti di gioia
e dolore, rispetto a quelli che l’uomo avrebbe tratto dal semplice
esercizio corretto o scorretto della sua attività. Ma laddove gli
uomini non fanno le cose spontaneamente, non dovrebbero essere tenuti
a farle: essi non meritano quel ruolo. Fatto sta che l’impostazione
non meritocratica cui si è abbandonata la società ha necessitato la
seguente produzione di normative penali e campagne di promozione
della Responsabilità. La responsabilità è data dall’unione di
Competenza ed Onestà.
L’onestà
conosce il fine, la competenza i mezzi. In sostanza questo sistema ha
dato la possibilità agli immeritevoli di arrivare a ricoprire
praticamente qualsiasi ruolo, e dacché sollevarli non è comunque
facile a causa del sistema stesso, noi siamo costantemente a rischio
di venire fottuti da farabutti ed incapaci di ogni risma, e ci
difendiamo con una Legge che, anche qualora giusta, è diventata più
difficile da difendere che non la criminalità. Ma è la stessa legge
fondamentale dei nostri stati moderni a permettere questo, in quanto
che è democratica e pertanto non meritocratica. In definitiva la
Giustizia in uno stato richiede di essere difesa perché non esiste.
Tutte
le strade dovrebbero avere tre corsie
1)
per gli impiastri
2)
per i pirati
3)
per i piloti
Ma
il pilota si definisce dalla capacità di districarsi in mezzo agli
impiastri ed ai pirati
La
democrazia dichiara di essere la culla della cultura mentre il
totalitarismo essere privo di cultura.
In
questo modo la fautrice del confronto ha estromesso il suo avversario
dallo stesso ambito concettuale del confronto: si può essere più
scorretti? La cultura non è altro che la disciplina della battaglia,
è l’intelligenza che la indirizza in maniera vincente. Un uomo
colto non è altro che un uomo che sa combattere. Una cultura che non
costituisca un aumento delle nostre prestazioni belliche e dunque del
nostro benessere è fatta solo di pigrizia e viltà, ovvero
l’antitesi netta della disciplina esistenziale, ossia bellica.
Quando un uomo si rende conto di saper affrontare meglio una
situazione che prima lo angosciava, ecco che egli si sente più
colto. Non invece l’uomo che abbia letto, visto, ascoltato,
imparato, elucubrato, discusso, ma si ritrovi, nelle perigliose arene
della vita, allo stesso punto di prima, nelle stesse difficoltà. Il
primo uomo è invidiato dal secondo. Non il secondo dal primo.
Ogni
forma di istruzione deve condurre alla guerra.
Cosa
deve imparare l’uomo? A riconoscere i suoi nemici e ad
annientarli.
Niente
altro può donare la felicità. Ogni istruzione che sia negletta di
questi risultati è mediocrità o impostura. Di cosa abbisogna
l’uomo? Di una Bandiera e una Spada. Quando è seduto a riflettere,
egli pensa come procurarsele, e di niente altro soffre che della loro
mancanza, dacché i suoi nemici le possiedono invece e le hanno usate
efficacemente contro di lui. Una bandiera indistinta e una spada poco
affilata sono le angustie del guerriero, ossia dell’uomo nel suo
concetto più genuino. Non si può combattere se non si conquista
prima sé stessi. Ossia non si conquistano la propria bandiera e la
propria spada. La bandiera è dentro di noi, si tratta di portarla
alla luce. La spada è la nostra capacità combattiva potenziale, il
nostro stato di forma ideale. La piena consapevolezza di sé stessi e
la padronanza dei propri strumenti bellici costituiscono la Fierezza.
Chi non è fiero è facilmente destinato alla sconfitta. Vi è uno
stadio in cui i pensieri divengono pallottole: ed è allora che
saremo liberi. L’eccitazione nello stendere cadaveri ci dirà
chiaramente che è finito il tempo dei giudizi ed è arrivato il
Giorno del Giudizio, che il nostro percorso conoscitivo è compiuto,
e non vorremo più fare altro, sentiremo che non avremmo mai dovuto
fare altro, solo che non abbiamo potuto. La Razionalità
ambisce alla pura Istintività. La razionalità è l’istinto che
insegue la propria pienezza. La razionalità non è altro che una
istintività più cauta, che non riesce a identificare prontamente il
nemico oppure non ha e forze sufficienti per abbatterlo: L’esperienza
l’ha vista colpire nel vuoto, essere traumatizzata o punita. Tale
istinto acerbo si diffrange allora in molteplici rivoli, entro i
quali sa invece cogliere amici e nemici, si allea coi primi, schianta
i secondi, sin dove ne ha le forze, ed aggira un nemico centrale che
è troppo forte o che possiede una identità incerta. Ma la sua
ostilità può essere dedotta dalla sua discendenza da
nemici già acquisiti, già evidenti: questo il senso di ogni
ragionamento. L’istinto è trasformista in funzione dell’ambiente,
quando è insicuro o debole, imperioso e tempestivo trasformatore di
esso quando è sicuro e forte.
Il
coraggio è il comportamento che consegue ad una qualsiasi pienezza
d’essere.
Ma
coraggiosi si nasce o si diventa? La risposta è che si nasce e si
diventa. Ogni uomo ha una innata statura i cui limiti non possono
essere oltrepassati: egli ha una capacità mentale ed una capacità
fisica determinate a priori e che dunque pregiudicano anche il
coraggio massimo che egli potrà mettere in campo nella vita, ed in
tal modo su quali campi è opportuno che egli venga posto ad operare,
in quanto ne è all’altezza, oppure no. L’esperienza però ci
mostra come un uomo non riesca ad essere coraggioso, ovvero a
sfidare il mondo esterno senza compromessi per l’affermazione della
propria volontà, se non conosce pienamente e chiaramente le sue
ragioni o se si trova in un cattivo stato di forma fisica: quando
egli sia dunque ignorante o debole, non sia dunque pieno nella
bandiera o nella spada. Ma poiché l’uomo può essere ignorante o
sapiente solo di sé stesso, di chi tosto egli sia, e può essere
forte o debole solo relativamente ai propri fini, a dove diavolo
voglia arrivare, ne consegue che un uomo che sia pieno di se stesso
non possa fare a meno di comportarsi coraggiosamente. La
misura di coraggio che dimostriamo sul campo varia unicamente
in funzione del prodotto tra Bandiera e Spada. La forza della mente
per la forza del corpo. Possiamo constatare nella storia della
nostra vita come, in tutte le occasioni in cui il nostro coraggio ha
difettato, è perché eravamo infrolliti nel corpo o manchevoli nella
mente. Quando invece siamo stati coraggiosi è stato sempre perché
sapevamo il fatto nostro e dotati del vigore
corrispondente nei punti del corpo necessari a mettere in moto quelle
nostre certezze trasformandole in azioni. Come in ogni prodotto, se
uno dei due fattori è nullo, il risultato, anche, è nullo: e noi
diciamo allora che la nostra sapienza è sprecata perché non abbiamo
i mezzi per affermarla positivamente oppure che sprecata è la nostra
forza perché siamo impossibilitati a metterla a frutto con
l’intelligenza. La mente e il corpo hanno dunque bisogno
l’uno dell’altra, ed ogni acquisizione, successo, vittoria, atto
di forza, non possono che risultare dalla loro sinergica prestanza,
da quella virtù di essi che non può venire a mancare in quei
precisi punti che devono contrastare una realtà esterna. Quando un
uomo sente se stesso, non ha bisogno di sentire altri, e
sentire altri sarebbe vano, perché le loro ragioni non sono le sue,
perché il loro scopo non è il suo, perché gli altri non son lui:
poiché essi sono nemici. Quando conosci te stesso, hai conosciuto
infatti, necessariamente, anche gli altri, poiché il processo di
definizione è un processo di separazione, ed avviene a partire da
uno stato di promiscuità. Tutti gli errori contingenti non sono
nostri e sono pertanto scusabili. Noi eravamo contaminati: non
abbiamo potuto agire nella nostra pienezza e non siamo pertanto
responsabili del nostro fallimento che, equiparata la forza al
coraggio, imputiamo alla vigliaccheria, termine in cui si traduce
ogni incapacità. Dal momento infatti, che la forza sola
determina, prescrive, assolutamente consegue nel coraggio, ed
il coraggio non è altro che la manifestazione della nostra forza, la
visibilità, l’operatività di essa nelle arene della vita e dunque
nel contatto con il mondo esterno, possiamo usare i termini forza e
coraggio come sinonimi.
Perché
se sei forte sei anche coraggioso e se sei coraggioso sei forte.
Non
è dunque corretto dire che un uomo è stato debole e codardo,
perché la seconda cosa è corollario della prima, ma questa
separazione concettuale che spesso trova spazio nelle discussioni
illustra la consapevolezza della distinzione tra contingente ed
intrinseco. Infatti esiste un coraggio figlio delle condizioni in cui
la vita ci ha posti, e ne esiste uno che prescinde e precede da
queste condizioni, e raggiungerlo, operando con quello stesso
coraggio che mai si separa da noi e che solo viene posto a
confrontarsi con una situazione più difficile e dunque non in
condizioni ideali, è lo scopo prioritario della vita, cui consegue
il secondo, ossia la battaglia per la propria posizione. Prima
dobbiamo diventare noi stessi, riempire il nostro ego personale, poi
diventeremo il Mondo, riempiendo il nostro ego cosmico, annettendo in
noi anche tutte quelle parti che, nella nostra identità personale,
sono ancora manchevoli. Infatti un uomo, non potendo mutare la
propria anima, la propria statura naturale, è sempre coraggioso
nello stesso modo, quale che sia il suo livello di forza contingente,
poiché in realtà egli risulta debole nelle locazioni particolari
solo perché sta invero affrontando una battaglia molto più
difficile: egli deve contrastare tutti quei fattori che lo discostano
dalla sua identità (sua vera meta), e che spesso superano di
molto quell’esiguo insieme di fattori in rapporto ai quali i
personaggi esterni pretendono di giudicare la sua forza intrinseca,
dal momento che lo vogliono diverso da quello che è, fraintendono la
sua natura e gli attribuiscono un ruolo, nella loro stoltezza, verso
i loro scopi. Dal momento che ogni uomo ha un solo scopo, il
suo coraggio va valutato solo in relazione a quello scopo. Ma dal
momento che nessuno ambisce a quello che non può realizzare, lo
scopo è contenuto nel bagaglio iniziale delle sue qualità, e lo
raggiungerà senza dubbio, quale che sia il Tempo (ovvero il numero
di fattori avversi) necessario a diventare quello che è.
Siamo dunque tutti coraggiosi abbastanza verso quello che vogliamo
fare e si compirà dunque il nostro destino. Ma nel calderone sociale
dove ognuno è costretto da una struttura insana ad affrontare quello
che non gli compete, nei nostri obiettivi contingenti dunque e
quindi eteronomi, siamo invece tutti quanti, sostanzialmente,
sempre vigliacchi, cioè inefficienti, imperfetti: otteniamo dei
risultati non completi, ed insoddisfacenti sia per noi che per il
prossimo, a meno che non ci imbattiamo in una improvvisa affinità
dei due percorsi, e dunque il bisogno nostro e quello del soggetto
esterno si concilino alla perfezione. Il mondo è vile, e dunque non
funzionante ed infelice, solo perché è disorganico, e diventa
sempre piè vile quanto più si insiste a mettere le persone fuori
luogo: un luogo nel quale non è possibile che essi abbiano
prestazioni eccellenti,
e
analogamente vengono loro precluse le prestazioni eccellenti che
avrebbero altrove.
Il
fatto che ogni uomo abbia dei limiti intrinseci alla propria virtù e
che detenga un solo scopo a cui queste virtù sono correlate e
consustanziali, ha dunque due conseguenze: 1) Che ogni uomo
nella sua pienezza si comporta in maniera coraggiosa ovvero si pone
all’affermazione esterna senza indugio, esitazione, cautela,
premura, risparmio, scrupolo, paura, rinuncia, compromesso.
2)
Che in queste condizioni di purezza il più forte è destinato a
vincere, dunque a conquistare il suo ruolo naturale, dal quale poi
compirà i suoi atti di organizzazione di ogni subalternità. Il
motivo per cui la guerra tra puri è incruenta è che i puri non si
sfaldano né scalfiscono: essi confrontano orbene non la loro
quantità, ma solo la loro qualità. La loro forza qualitativa
(densità intrinseca di materia, agente in maniera unitaria) e non la
loro forza quantitativa (aggregazione massiva di soggetti, agenti di
fatto separatamente).
Di
fronte ad un trivio l’uomo d’onore vuol prendere la strada più
difficile ma che egli sa condurre la più alta meta. Persegli non sia
pien di bandiera e spada, inesorabilmente esita. Tuttavia la forza
dell’ideale, fattivo il suo legame all’idea, la meta, lo
trattengono ben sullo snodo del campo a ponderare sul da farsi,
perché il suo stato di forza contingente or non gli consente una
rapida scelta tra una ritirata ed un proseguimento ardito, oppure un
ripiego sulle strade d’ammezzo,
poiché
per saper qual sia la scelta migliore, coerente col suo livello
intrinseco di altezza spirituale, vi è bisogno adesso di una nuova
esperienza: non consentitagli questa, precedentemente, dalla vita,
in preparazione di tale prova, egli la ottiene ora sul campo, da
quella offertogli in gestione. Il guerriero, impedito nelle naturali
sue movenze, trasforma in filosofo e come tale prosegue la battaglia
interiormente, sin che una sua vittoria in tal terreno non lo
rianimi, con nuova luce di giorno e affilata luce di spada, sicché
di nuovo agguanti egli la seconda ed affronti il primo, fosse anche
il buio della notte. Ogni uomo ha imparato come tali due soggetti
collaborino in duetto che vede sempre voce principale una e
controcanto, poi invertiti i ruoli: dacché la vita ha scompigliato i
ranghi e non possa l’uomo trovar se stesso che binomial mente
agendo, in compromesso che tuttalavia si fa sempre men stridente, man
mano sia che la sua forza cresca, tra azione non completamente
illuminata e conoscenza non completamente agibile. Inesperto l’uomo
e circondato da nemici, sarà egli sempre, lungo la sua vita,
determinata via di mezzo tra Spada Cieca e Genio Paralitico… ma
Spada Geniale egli fu in origine, pria della catastrofe, il peccato
originale. Tale egli ritornerà alla fin dei tempi, rincucciando con
fiera maestà le bestie cieche alla paralisi che sola essi meritano.
Egli si trova orbene in condizioni non ottimali per adempiere alla
sua natura, poiché solo può empire l’esterno chi già sia pieno
all’interno: ma sa che dee compiere scelta comunque onorevole, la
qual sarà, sempre, di valore analogo a qualsiasi altra sua scelta
precedentemente fatta o compita in futuro. La prossima volta egli
saprà decidere più rapidamente, nella stessa situazione, e la sua
scelta sarà di fatto quella giusta perché già lo è stata la volta
precedente, spinta dal profondo della sua virtù anche priva degli
esteriori avalli, e destinata adunque, col tempo, a prendersi anche
quelli avalli e compire il suo percorso. Egli non prevede adesso se
il suo istinto lo porterà a scegliere ugualmente la china più
perigliosa o la ritirata più agevole, né opzione una intermedia:
sentirsi può mentre lo pondera, e quando infin decide. Egli sente il
suo rifiuto all’idea di tornare, di ripiegare in giù la strada
battuta, seppur lui stesso, lui, l’avea battuta. Non sente però
ahimè, dentro sé adesso, abbastanza coraggio per prendere la più
difficile: il rapporto infatti di corpo e mente è oggettivamente
insufficiente a determinare l’azione. A tal punto soltanto, siddue
fattori interni, posson di già aumentare il suo coraggio, dacché la
diminuzione delle avversità esterne è caso che non prendiam
in considerazione: parlan staremmo infatti, di un’altra sfida.
Questi fattori sono, semprancora, aumento di forza material o
conoscenza propria. Se forza non cresce, e non vi son accessi, di
razional memoria o esterno senso, a nuove cognizioni, qui unica
visione, che possa consentire, annoi di proseguire, sull’impervio
cammino, è quella lei che svaluta, stoica le conseguenze, in
rapporto all’obiettivo finale. Diciam noi non importa, codel
qu’accada: quanto sia negativo, è desso giusto. Ossia che desso
serve, la nostra meta meglio, di qualsicaltra opzione,
or sia nella coscienza – ad esempio il tornare indietro nella
prospettiva di rilanci migliori o percorsi alternativi, od anco
scegliere strada d’ammezzo il cui né carne né pesce non
migliorerebbe significativamente né la fattura della bandiera né la
nostra qualità di armigeri. In tale caso noi accettiamo, com di
natura il nostro destino, d’esperienza la sua attual spiacevolezza,
qual gradino necessario, e procediam con ferma audacia, sia quello
che sia, ma senza più esitare: noi quivi abbiamo infatti, preciso
in quel momento, ben superato un riflessivo snodo, siam approdati a
conoscenza nuova, che ci consente anuovo di procedere, posar bene il
pensiero ad imbracciar l’azione. Tutte le azion sono formative pel
pensiero, sia le vittoriose e piacevoli e dolorose le sconfitte. La
nostra potenza mental intrinseca sempre è la stessa. Imperossia
nella vittoria essa vien trasferita su un piano superiore, e quella
perdita di sensibilità che investe il già acquisito e ci rende
inadatti a parlare o dar consigli a coloro che ancor si trovano
braccati da infelicità più basilari è fondamentale, acciocché
essa si concentri a ben percepire la tension tra il nuovo stato e
quel che manca da raggiungere: essa espande, od innalza dunque, la
visuale a coglier nuovi elementi non conformi, negativi, dolorosi
pertanto, necessariamente, saranno i nuovi essi avversari da
affrontare, saranno ossia la prossima sfida. L’esperienza di una
nuova sconfitta invece, ben lungi anch’essa dallo spegnere il lume
della nostra ragione spegnendo la sensibilità senza cui quella è
nulla, porta ad analoga anche se inversa quivi traslazione del
pensiero, che stavolta è regressione sopra stadio inferiore di
applicazione, e non di certo – sia ben chiaro – degenerazione
dello stesso: non si tratta mai di una capacità inferiore di
ragionare, ma di ragionamento d’argomento inferiore, che pure è
necessario a risalir la china verso gli alticieli. Quando sei in
basso la reazione monocorde del tuo spirito, che è uguale a dire del
tuo corpo, investe una serie di sostanze che pria non ciangottavi né
all’interno né all’intorno: per liberar di queste, metti in moto
spada e bandiera nello stesso modo di chi gioca la sua partita più
altolocata, e dunque con lo stesso andamento sodale, e che giammai
può esser paritario senza perder cognizion differenzial tra le due
voci, che son a dir bene unisono ognevoltaqual la nostra azione sia
vincente. Finanche nella rosa dei progressi che portano a cotesto
unisono di fiume principale, mente e braccio son già in sintonia
negli affluenti e nei flussi componenti in cui s’era trovato
suddiviso il grande, laddove in ogni rivolo corpo e mente han
lavorato, unisoni, pensando il primo agendo la seconda.
La
principale e disastrosa conseguenza della dottrina del libero
arbitrio, una dottrina per questo motivo criminale, è che interrompe
l’indagine della realtà nel suo sviluppo causale. Ad un certo
punto, grazie a questa dottrina, nel risalire la catena degli eventi
ci si ferma ad un suo anello, il più delle volte colui che si ha
esigenza di incolpare, e gli si conferisce la completa
responsabilità dell’atto; quando naturalmente lui è solo un
anello, uno dei tanti fattori in gioco. In questo modo molti elementi
di fatto colpevoli non vedono denunciata la propria debolezza e non
possono essere corretti, mentre si esagera la debolezza dell’elemento
incriminato. Nasce così l’ingiustizia.
Non
bisogna mai prendersela con la colpa contingente, ma solo con la
colpa intrinseca, caratteriale, originaria, costituzionale: insomma
non con l’operari, ma con l’esse. L’operare è
conseguenza dell’essere e ciò significa che è colpa dell’essere
strutturale, dunque della struttura che sancisce la compresenza e
la correlazione infausta tra due esseri, il cui risultato è il
danno. Questo danno è una contaminazione perniciosa di altri esseri,
ovvero la loro degenerazione o indebolimento. L’essere dei singoli
enti diventa operari in conseguenza dell’ingiustizia, ovvero del
loro infausto posizionamento, della fallacia e dunque spregevolezza
della struttura. Infatti l’operare è moto, e scopo del moto è la
quiete. La libertà d’azione è gradita non perché l’azione sia
un bene in sé stessa, ma perché può giungere, se illuminata, alla
quiete. Distruggere la causa del male è la nostra reazione istintiva
quando subiamo un danno. Se non fosse che questa reazione è 1)
cieca, oppure 2) la vera causa prima del danno non è
direttamente accessibile, sicché sfoghiamo la nostra opprimente
emozione sull’ultimo anello, quello che è entrato in diretto
contatto con noi, mettiamo l’auto che ci ha urtato o la persona che
ci ha innervosito. In questo modo scarichiamo una parte del nostro
male, che comunque andrà curato completamente, all’esterno e
questo costituisce sicuramente un parziale rimedio, perché legami
perniciosi sotto forma di sostanze soffocanti che si erano create in
noi vengono di fatto dissolti, noi sputiamo del materiale tossico che
non doveva trovarsi nel nostro corpo: se non fosse che in questo modo
creiamo un danno al personaggio esterno. Un danno di solito maldestro
e incontrollato, impreciso, arrischiato, senza aver la certezza che
poi quell’anello della catena del male abbia la possibilità di
scagliarsi a sua volta sull’anello precedente, e quest’ultimo
fare altrettanto col suo carnefice, sino a che il male non ritornerà
all’originario colpevole: e sottolineo, per distruggerlo,
non per punirlo, poiché la punizione, la pena, il procurare una
sofferenza, sono un rimedio sospettoso e infido. Ogni sofferenza è
sintomo di un aumento dell’entropia, un allontanamento dall’ordine,
quindi dalla quiete e dalla felicità cosmica, che è quella di
ognuno. I legami infausti vanno rotti. I legami benefici vanno
ricomposti. Ma nessun elemento può cambiare posizione ovvero
infrangere un legame, una relazione, senza al contempo creare un
nuovo legame: per cui distruzione e costruzione sono due facce della
medesima medaglia. Avvicinamento e allontanamento, ovvero gradualità
nell’accoppiarsi o dividersi tra due elementi sono di fatto
creazione e distruzione completa, poiché priva di parti, di legami
più piccoli facenti parte di esseri più grandi. Quando un processo
richiede un tempo per compiersi, il tempo è direttamente
proporzionale alla complessità dell’oggetto ovvero al numero di
elementi di cui è composto. Il mondo è quantizzato. Quando un
processo di riassestamento di un legame fausto che era stato spezzato
costa fatica, significa che il processo comporta la rottura di
altri legami fausti. In termini pragmatici, il rimedio ha un costo,
che talvolta può superare il vantaggio stesso, allorché si dice che
non ne vale la pena, che il gioco non vale la candela o che la pezza
è peggiore del male. Ma quel costo, ha anch’esso il più delle
volte un’origine plurima e dunque non va addossato tutto alla causa
esterna del nostro male, poiché non soltanto sua è la debolezza, o
magari per niente sua, che era malcapitato in quel posto per errori
strutturali, bensì anche di tutti quegli elementi che ci hanno reso
fragili, poco resistenti ai colpi e alla difficoltà dei recuperi,
determinando appunto quel danno ulteriore. Se noi siamo infine deboli
intrinsecamente, dobbiamo essere allora dissolti oppure
riposizionati. Dissolti, se il nostro essere non può felicitare né
essere felicitato in alcun contesto. Riposizionati, qualora tale
felicitazione sia invero possibile, e quindi la nostra debolezza
divenga forza, non appena venga stroncata la vera debolezza che in
tal caso è nella struttura sociale. Tutte le debolezze, ossia tutte
le colpe, vanno annientate. Un atteggiamento poco accorto ne
distrugge solo alcune oppure addirittura aggrava la situazione
creandone di nuove, spesso tramite brutali punizioni.
Inneggiamo
alla Coerenza come alla regina delle virtù. Eppure l’uomo coerente
con idee sbagliate fa solo del male, non del bene. Anzi, vista
la quantità di idee sbagliate che scorrazzano in giro, si diffondono
e prolificano, se qualcuno riesce a fare del bene dobbiamo spesso
ringraziare la sua incoerenza, come anche, altrove, il suo
assoggettarsi alla guida d’altri, l’assenteismo, l’evasione,
l’estraneità, oppure la mentalità servile. Tuttavia se sei
coerente con idee sbagliate dimostri almeno che sai ragionare e
cogliere premesse minori. In effetti quando scemano le valutazioni
morali legate al cuore si continua, e stavolta ragionevolmente, ad
apprezzare o disprezzare quelle qualità dipendenti
dall’intelligenza. Solo con una idea giusta si può essere coerenti
fino in fondo. Le idee sbagliate stridono sempre con qualcosa. In
quest’ottica, identificando la coerenza con la pace, e con l’unica
pace possibile, diviene corretto dire che la coerenza è la regina
delle virtù, anzi la virtù in sé stessa, poiché tutte le virtù
umane: salute, forza, intelligenza, sensibilità, coraggio, che
portano verso di essa sono già in sé stesse forme parziali di
coerenza, interiori, che appunto vogliono estendersi al Tutto. Il
motivo per cui si tende ad apprezzare comunque un uomo che professa
idee da noi non condivise, purché sia coerente con esse, deriva da
un oscuro sentore della verità che ho appena enunciato. Sentiamo che
l’uomo coerente con idee sbagliate potrebbe essere vicino al
Bene quanto colui che è incoerente con idee giuste, ed anzi
più vicino di quest’ultimo. Infatti, al primo potrebbe bastare una
fulminea illuminazione per spianare tutte le sue virtù, tutto il suo
bagaglio di coerenza, verso uno scopo più giusto, verso una
coordinazione più vasta. Mentre l’incoerente ha ancora molta
strada da fare. In questo modo egli tende a produrre un danno
maggiore e per questo motivo viene spregiato. Il dominio dell’ideale
individualista contemporaneo avalla ancor di più questo modo di
valutare. Non si ha la percezione del legame presente tra tutti i
fenomeni del mondo, li si considera in buona misura distaccati ed
anzi se ne esalta la competizione, che sul piano sociale
produce molta incoerenza, sebbene potenzi il singolo che da essa esce
vincitore. Mentre la forza personale, la coerenza, viene appunto
ritenuta indispensabile per raggiungere degli scopi ed essere un uomo
vincente, e allora si rispetta l’uomo che presenta queste
caratteristiche, visto che la coerenza cosmica, anche laddove
costituisca un ideale riconosciuto, viene comunque considerata
utopica. Inoltre, sempre all’interno della mentalità competitiva,
dai più fondamentalmente accettata, l’uomo coerente viene
apprezzato come il nemico dichiarato, che ha il diritto di
essere nemico purché abbia questa correttezza e non cambi
continuamente faccia, e ci consenta in tal modo di giocare la nostra
partita. L’ideale individualista rimane molto pericoloso, ed
illustra una contrapposizione umana assai significativa. Da una parte
c’è l’uomo che vuole rinforzarsi, ottenere una maggior coerenza
personale, ovvero una pace interiore, nonché una posizione di potere
allo scopo di fare la guerra al resto del mondo. Dall’altra un uomo
che sente di dover fare la guerra a molti elementi di questo mondo
per ottenere una pace interiore, una forza, ed anche una posizione
sociale che gli consentano di lottare per la pace nel mondo. I
grandi imperialisti della storia fanno parte della prima categoria.
La più grande benedizione che si possa avere è quella di un uomo
che ha raggiunto la forza personale, la coerenza, il potere, e lo
utilizza non per la cieca conquista ma per il bene del mondo. Il
tiranno buono, il tiranno illuminato.
So
che l’artista deve prediligere il fuoco interiore e l’analisi
dell’esperienza che sta vivendo, sulla quale si innestano gli
esperimenti creativi ed il serrato lavoro, che giammai deve
distogliersi da questo per prendere in mano opere altrui, illudendosi
di trovare in esse maggiori illuminazioni.
Se
fa questo egli tenta di risparmiarsi una fatica produttiva preferendo
un’altra fatica che poi risulta poco produttiva, ovvero lo studio
di testi altrui, che deve invece innestare nell’intorno di un
processo creativo personale, per trovare suggerimenti allorché si
trova bloccato nel proprio autonomo lavoro, per avere informazioni ed
espandere l’argomento, ma avendo la necessaria percezione personale
della problematica che affronta, cosa che lo rende un critico più
rapido e avveduto, qualora anche la belligeranza critica rientrasse
nei suoi obiettivi o necessità, poiché il suo valore si confronta
adesso in maniera più regolare con quello altrui, si illuminano più
chiaramente fattezze caratteriali, inclinazioni, punti di divergenza,
egli capisce dove può decisamente abbandonare un autore e dove
invece chiedergli aiuto, imparare da lui ed anche sfruttare il suo
lavoro, appoggiandosi ad esso come è giusto, in modo da non
vanificarlo qualora fosse davvero stato onesto e valido. Naturalmente
tutto questo non può essere generalizzato ad ogni forma di studio,
poiché se devi studiare la storia non puoi aspettare di trovarti
nella stessa situazione dei grandi personaggi, poiché di fatto di
lassù devi agire tempestivamente, altro che studiare, dunque lo
studio di tali personaggi deve basarsi molto su di uno sforzo
immaginativo che espande mentalmente quell’esperienza di vita che
di fatto abbiamo e senza la quale non potremmo giammai comprendere
nulla di ciò che leggiamo, e valutare non tanto la forza e
l’intelligenza di tali personaggi, un giudizio invero inaccessibile
a chi non s’è mai trovato nei loro panni, quanto invece gli esiti
finali e i risultati del loro operato. Per farci un’idea della
fattibilità delle cose, delle conseguenze, e non ripetere gli stessi
errori. Dissi infatti che le lunghe parentesi di studio, che sono
necessarie oggi e che fruttano dell’esperienza altrui, sono
determinate dal fatto che il mondo si è complicato, danneggiato ed
inquinato poderosamente, sicché l’intervento di un uomo dissennato
ed ignorante non potrebbe che essere fallimentare, per quanto fosse
energico, determinato, generoso ed eroico nella sua ingenuità.
Mentre se gli uomini d’oggi, almeno quelli più intelligenti che
adesso studiano per riformare le cose, fossero vissuti prima che il
mondo degenerasse, in quella maggiore semplicità avrebbero di fatto
impedito tale degenerazione, sarebbero felici d’aver ben gestito la
situazione ed imparato dall’esperienza diretta qualcosa che
avrebbero potuto utilizzare in seguito per risolvere altri problemi.
Concludiamo logicamente che la vastità degli studi debba essere
direttamente proporzionale all’ambiziosità della propria causa
ovvero della grandezza del problema che vuoi risolvere. L’ignorante
che millanta d’aver ambizioni radicali è solo un impudente,
mentre se davvero ha di cotali ambizioni deve avere anche
l’intelligenza di capirne i mezzi, la pazienza coraggiosa di
acquisirli, nel clima fetido di dura sopportazione e vasto
disconoscimento che un atteggiamento di ricerca comporta. Giacché i
mali imperversano senza aspettar le nostre soluzioni, spesso nessuno
ci aiuta a contenere i danni personali che riceviamo dagli elementi
molesti che seguono una filosofia sbagliata, quella che noi abbiamo
il desiderio di stroncare alla radice, come farebbe un buon servizio
di polizia o un buttafuori che allontana fogne, imbecilli e teste
calde dal nostro locale preferito, e le nostre passioni premono per
essere esternate anche allorché non possediamo ancora le armi per
rendere tale sfogo vincente e risolutivo, non già controproducente.
Inoltre, mi rifiuto di definire coraggioso un uomo che agisce senza
rendersi conto dell’effettiva complicatezza e vastità di una
causa, della quantità di fattori che potrebbero danneggiarlo
gravemente con probabilità assai vicina alla certezza nonché far
fallire miseramente la causa assieme a lui, e che grazie alla sua
pochezza e pigrizia mentale giova quasi sempre di un umore sereno,
una mente lucida e di una notevole energia fisica. Se costui vuole
risolvere la causa grande coi mezzi sufficienti appena per le cause
piccole, è un cretino. Ma può essere un prode combattente invece,
se si dedica a qualcosa di meno ambizioso eppure utile, le cui
conoscenze sono rapidamente reperibili per via empirica personale o
giovando della tradizione ricevuta dai libri, o della guida di un
leader più anziano che già ha avuto i suoi modi di crescere
mentalmente. Fatto sta che il morbo è soltanto uno, ed ognuno deve
collaborare coi suoi mezzi e la sua personalità, mentre sia
nell’ambito combattivo della ricerca che nell’ambito combattivo
dell’azione, nonché tra i due ambiti analogamente combattivi, si
attua una bieca e deplorevole guerra tra vittime, anziché
mostrare una compatta compagine agguerrita verso i veri nemici,
ovvero i mali che tutti ci affliggono. La cultura, che parte dallo
stato naturale di guerra e costituisce in se stessa una guerra, è la
preparazione teorica della guerra pratica, e nella prima come nella
seconda occorre rispettare i principi collaborativi e gerarchici. È
deprimente che ogni Uomo, che essendo tale ha dentro di sé uno scopo
intrinseco e una potenzialità combattiva, debba innanzitutto lottare
per il riconoscimento della propria identità positiva e del proprio
ruolo, ovvero della propria dignità, e finalmente essere lasciato a
combattere in pace. Filosofie scorrette e pensatori disonesti vanno
combattuti dai filosofi, non da altri che non ne hanno il titolo.
Poi, se al filosofo resta il tempo per agire in ambito più
particolare, contro qualche manifestazione singola o intermedia di
quel male, potrà sempre farlo, oppure occuparsi ancora di una
questione teorica ma più specifica, per ovviare ad una mancanza
degli specialisti. In generale, un uomo pratico può sporadicamente
fare le veci di un teorico, qualora si senta da questi tradito, dal
momento che analizza le conseguenze del suo pensiero e le vede
negative. Un teorico può darsi alla pratica quando veda che alcuni
non sanno applicare correttamente le sue idee, allorché le abbia già
raggiunte e che esse siano diventate dominanti oppure qualora egli
debba partire dal basso, istruendo i singoli e non già i suoi
diretti sottoposti in un ordine gerarchico ancora da costruire.
Analogamente, se restiamo all’interno dell’ambito dell’azione,
un soldato semplice può discutere gli ordini di un suo superiore
qualora si renda conto che sono stupidi e folli e abbiamo esiti
sanguinosi, così come un gran signore può abbassarsi talvolta a
svolgere il lavoro di un servo maldestro. Allo stesso modo,
all’interno dell’ambito della ricerca, ecco che un geometra può
correggere un architetto, un divulgatore uno scienziato, un
precettore un filosofo, un infermiere un medico, un insegnante di
musica un compositore. Ognuno di noi possiede invero un’ampia rosa
di capacità che gli consentono di cavarsela qualora si ritrovi nella
vita quotidiana, cosa che non dovrebbe mai succedere, a dover
svolgere ciò che compete ad altri, improvvisando oppure giovando di
preparazioni plurime e parallele alla sua attività centrale. Questa
versatilità e plasticità dell’uomo sembra una benedizione,
innestata in lui da una natura provvidente verso la complessità
della vita o meglio la sua caoticità e struttura cangiante, senza
che un errore all’apice del sistema procurasse il collasso generale
della struttura che verso il basso si adegua ed esegue le direttive
senza riflettere né poter porre un freno. Fatto sta che la struttura
è partita dall’assenza di struttura, e l’evoluzione delle
strutture non è altro che una serie di esperimenti falliti e
ritentati con delle modifiche, poiché ogni elemento cerca
istintivamente il suo ruolo e la conseguente realizzazione delle sue
potenzialità ed anzi, il ruolo in sé è accidentale, vi si perviene
cercando di realizzare le proprie potenzialità, arrampicandosi in
una struttura invero già esistente, o ancor rendendosi conto che
puoi agire anche dal basso, profittando d’una struttura che non
riesce a dominare tutto e lascia spazio a fenomeni che agiscono
contro dessa. Quando gli insegnanti stimolano gli allievi a pensare
con la propria testa, vi sembra di poter avallare con leggerezza e
senza riserve questa prassi come benefica? Non è questo indice del
fallimento istituzionale? Una istituzione funzionante ti istruisce in
tutto ciò che ha riconosciuto tu non sia e non sarai mai in grado di
fare da solo, e ti vieta e ti impedisce di fare altro. Qui
l’insegnante ammette invece di non aver nulla da insegnare e dunque
annulla il valore del suo stesso ruolo, conservandolo altresì nel
seguente insegnamento, ovvero che il sistema è fallace, dovete
arrangiarvi, oppure ingegnarvi voi per costruire qualcosa di
alternativo. L’insegnante dimostra altresì di non saper
operare una selezione tra gli allievi, assumendo un principio
egualitario per evitare di sbagliare precludendo la strada ad un
individuo meritevole, sottovalutando il fatto che lasciare invece
aperta la strada a molti individui immeritevoli potrebbe essere assai
più nocivo, come dare armi pericolose ad un pazzo, oppure perché
effettivamente si pensa che chiunque sia in grado di ottenere dei
risultati validi pensando con la propria testa. Sarebbe un buon
consiglio, quello di dire ad una gallina di volare con le proprie
ali, ad una talpa di vedere con i propri occhi, ad un nano zoppo di
giocare a pallacanestro? E magari ammettere la possibilità che la
gallina, la talpa ed il nano assumano ruoli dirigenziali negli
spostamenti aviari, nelle scienze osservative, nello sport. Del resto
quando un uomo che è ufficialmente inferiore ad un altro e si
permette di correggerlo, con questo si dichiara fattualmente
superiore e meritevole lui di ricoprire quel ruolo, a meno che non
rientrino nello statuto del suo ruolo inferiore il compito e
l’abilità di correggere sporadicamente gli inevitabili errori del
maestro quando questi è stanco oppure oberato di lavoro, che
l’inferiore non sarebbe comunque in grado di svolgere
complessivamente. In quest’ultimo caso non son messi in discussione
i ruoli, ma solo la loro fisionomia. Nel caso precedente invece sono
messi in discussione i ruoli, son tutti colpi di stato, volontarie
insubordinazioni, che non discutono cosa si debba fare ma chi lo deve
fare. Fatto sta che finché ognuno ficca il naso, il cervello e le
mani in cose che non gli competono crea dei danni a cui gli operatori
onesti devono porre rimedio. Una struttura mal funzionante è l’aids
della società, che impedisce alle potenzialità difensive
dell’organismo di combattere i mali, e diciamo che i gradi
evolutivi della struttura sono il processo tramite cui si assimila il
tutto, ogni elemento viene inglobato nel tessuto, nell’organismo.
Male è tutto ciò che è ancora alieno alla struttura e cerca di
danneggiarla: ma essa può essere danneggiata solo qualora sia
imperfetta, dunque anch’essa è male e quell’elemento ha le sue
ragioni per prendersela con lei, in quanto non lo ha reso felice, non
gli ha riconosciuto il suo ruolo. Tutto questo ci mostra ancora come
vi sia una sola via per la pacificazione cosmica, una scala di
priorità che sia assoluta e dunque rappresenti il solo vero
Socialismo, in quanto qualsiasi altro sistema lascerà fuori alcuni
elementi, e questi rimetteranno in discussione, con pieno diritto,
l’intero sistema per trovare il loro posto, facendolo in modo
indiretto collassare affinché sia riconfigurato. L’unica vera mano
invisibile è quella dell’istinto che ci guida verso il suo
scopo, ma dal momento che vi è un solo modo di raggiungerlo, il
mercato ovvero in termini ontologici il moto tende verso
l’organizzazione perfetta, l’incontro equo tra domanda e offerta,
la massima soddisfazione ovvero la stasi, sicché è vero affermare
con Adam Smith che il massimo interesse della civiltà si ha quando
ogni singolo ricerca il maggior interesse per se stesso: per la
semplice ragione che i due interessi coincidono.
Nel
disordine si è soltanto liberi di essere
schiavi
dell’imponderabile.
Molti
fattori mi hanno fatto dubitare pericolosamente delle mie teorie o
ambizioni totalitarie: il vedere la bellezza di alcuni Manga
giapponesi di cui non sarei capace, la bravura di un artigiano,
quella di un medico, quella di un atleta, la complessità di ogni
cosa, l’impressionante varietà apparentemente incontrollabile di
ogni fenomeno artistico, fenomeno sociale, fenomeno commerciale, la
mobilità dell’intero mondo in ogni sua parte, che dà luogo a
configurazioni innumerevoli, morti, rinascite, ingiustizie, danni,
energetici sprechi, deviazioni, ed ogni cosa ha precise conseguenze
sulla psiche dei singoli, i loro percorsi di vita cambiano per sempre
e tu, come puoi prevedere in cosa incapperanno? Mi stupisco della
precisa commistione di elementi in un carattere umano che nemmeno
avrei pensato potessero essere compatibili, consapevolezza che
stimola la ricerca di una dottrina generale e di una schedatura
possibilmente completa di questi soggetti, anche solo suddivisi in
gruppi. Poi sento storie di deviati, storie di pazzi, storie di
scemi, storie di storpi, storie di fannulloni, storie di puttane,
storie di puttanieri, storie di locali falliti, storie di zingari,
storie di famiglie, di drammi, storie di crimini, di promiscuità
sessuale, di insapienza relazionale, di malattie, d’incidenti, di
guerra, vedo il peso millicangiante e personale che ogni elemento di
questo mondo ha per ogni elemento di questo mondo. Entro in una
discoteca e dico come puoi totalizzare un ambiente come questo?
Una piazza gremita e come puoi totalizzare questo? Un concerto
uno stadio un nugolo pullulante di strade e automezzi, negozi, merci,
intemperie, correnti, animali, piante e scosse telluriche. Questo mi
impone una roncolata in fronte e mi rivede improvvisamente disperare
di ogni possibilità di controllo. Ma so anche che devo mantenere in
vita quell’idea, poiché potrebbe esser vera, e questa mia forza
d’animo viene immediatamente ripagata da un’intuizione. Subito fa
capolino l’obiezione: il mondo si è complicato insanamente ed è
destinato ad una ulteriore complicazione poiché lo si è lasciato
andare per la sua strada per millenni, con pigrizia dissennata. Ma
tutto ciò che sta in piedi lo dobbiamo alle forze organizzatrici,
che vi hanno posto le benedette briglie, contrastando la naturale
entropia conseguente all’azione delle forze oscure ovvero
dell’individualismo. E se ancora tanto benessere riesce a
sopravvivere in questo mondo, come nel cuore di una banda di falliti
sempliciotti con cui parli in una nottata al bar della stazione coi
loro cento spassosi aneddoti, lo dobbiamo in parte al torpore ed alla
narcosi in cui essi vivono, anime mutile per natura o volontariamente
mutilate per non soffrire, ed in parte a quel mondo parzialmente
ordinato che qualcuno ha avuto la virtù di architettare e che lavora
ogni dì per tenere in piedi, senza il quale saremmo tutti perduti.
La Libertà sono le
condizioni materiali della propria realizzazione. Queste sono
costituite da un sistema a gerarchia sociale perfetta. Altri concetti
di libertà sono ingenui o fasulli, perchè la loro concretizzazione
abbandona il singolo ad una giungla di conflitti, impedimenti ed
incertezze, che di fatto negano le condizioni della sua
realizzazione, precludendo lo scopo in vista del quale egli desidera
essere libero.
Lo
scopo dell’economia sta nella pariteticità di domanda e offerta.
All’interno di ogni paese dovrebbero essere costantemente
monitorati ed aggiornati due parametri: 1) Il fabbisogno
energetico del paese 2) la forza lavoro del paese. Essi devono
equivalersi, e la politica non deve poi occuparsi di altro che del
collocamento. Da ogni cittadino deve essere estratto il massimo
potenziale che corrisponde, sommato a quello di tutti gli altri,
all’esatto fabbisogno energetico della comunità. Lo scopo
dell’educazione e dell’istruzione è esclusivamente quello di
forgiare Cittadini. Ossia lavoratori efficienti, patriottici e
rispettosi delle regole. L’educazione dovrà quindi comporsi
unicamente di interventi volti ad aumentare il senso di appartenenza,
di amore e di fierezza del proprio paese, la comunanza con i suoi
concittadini che deve indurre ognuno al rispetto di tutti per il
tramite delle norme di convivenza, ed infine le abilità specifiche
di quello che sarà il suo lavoro. Nel sistema esistono invece una
serie di problemi causati dall’Individualismo, che interpretato in
senso economico è quella dottrina e quella prassi che considera
l’Ottimo corrispondente alla concentrazione del massimo potere
energetico nelle mani della singola persona, con il rispetto di
regole imperfette volte solamente ad evitare la degenerazione
bellicosa di quella che rimane comunque una battaglia economica per
il predominio sul mercato, e sceglie di potenziare, anche qui in
maniera non scientifica, la forza lavoro del singolo solo a questo
scopo, quando egli la utilizzerebbe senz’altro meglio e nella sua
interezza per la comunità, costruttivamente, finalizzandola
all’aumento dell’organicità di questa e dunque alla diminuzione
dei conflitti. Ogni conflitto crea infatti attrito e dunque spreco
energetico, quando non ottiene invece traumi e rotture assai costosi
a ripararsi e sconquassi difficili da riorganizzare. Tutti i settori
dell’economia nazionale dovrebbero essere nazionalizzati e vi
dovrebbe essere una sola industria per ogni settore, organizzata e
dislocata opportunamente sul territorio nazionale sia per la
produzione che per la distribuzione. Ottimizzando il sistema
educativo-istruttivo, la meritocrazia conseguente escluderebbe il
pluralismo mercatale, dacché ogni talento insufficiente verrebbe
dissuaso dall’operare all’interno di un determinato settore, se
meglio possa essere impiegato altrove, vale a dire ottimamente e non
essere abbandonato alla guerra del mercato, nel seno del quale,
essendoci differenze qualitative, si creano delle classi
economiche ed esso mercato si segmenta dunque, non già in una
benefica varietà di domanda cui deve rispondere varietà d’offerta,
basate su effettive differenze e specificità esigenziali dei
cittadini, bensì in fasce di reddito cui corrispondono
fattualmente scambi di beni di qualità rispettivamente alta, media,
bassa, laddove tutti invece avrebbero bisogno del medesimo prodotto
di qualità. Se un sistema ha ottimizzato l’istruzione, non si dà
il caso che un cittadino resti un nullafacente o un lavoratore
mediocre, né tantomeno posto fuori luogo quando i suoi talenti siano
altri: essendo ordunque tutti efficienti, e contribuendo in eguale
misura al bene comune, nessuno di loro merita di non poter giovare
come gli altri dello stesso prodotto soddisfacente. Non è dunque la
differenza oggettiva di qualità a determinare e giustificare
l’individualismo e la conseguente disuguaglianza. Ma viceversa è
l’individualismo, inteso come dottrina sociale e non
personalistica, laddove invece le differenze sono psicofisiche, sono
oggettive e devono essere rispettate, è quella dottrina erronea
a determinare tale sociologica differenza e quindi a
delegittimare le sue conseguenze.
Commentario
al Breviario di Estetica
di
Benedetto Croce
p.
18
Un
sistema è una casa che, subito dopo costruita e adornata, ha bisogno
(soggetta com’è all’azione corroditrice degli elementi) di un
lavorio, più o meno energico ma assiduo, di manutenzione, e che a un
certo momento non giova più restaurare e puntellare, e bisogna
gettare a terra e ricostruire dalle fondamenta. Ma con siffatta
differenza capitale: che, nell’opera del pensiero, la casa
perpetuamente nuova è sostenuta perpetuamente dall’antica, la
quale, quasi per opera magica, perdura in essa. Come si sa, gl’ignari
di codesta magia, gli intelletti superficiali o ingenui, se ne
spaventano; tanto che uno dei loro noiosi ritornelli contro la
filosofia è che essa disfaccia di continuo l’opera sua, e che un
filosofo contradica l’altro: come se l’uomo non facesse e
disfacesse e rifacesse sempre le sue case, e l’architetto seguente
non fosse il contradittore dell’architetto precedente; e come se da
questo fare e disfare e rifare delle case, e da questo contradirsi
degli architetti, si potesse trarre la conclusione, che è inutile
costruire case!
p.
19
la
ricerca del filosofo intorno all’arte è costretta a percorrere le
vie dell’errore per ritrovare la via della verità, che non è
diversa da quelle, ma è quelle stesse, attraversate da un filo che
permette di dominare il labirinto
lo
stretto nesso dell’errore con la verità nasce da ciò, che un mero
e compiuto errore è inconcepibile, e, perché inconcepibile, non
esiste. L’errore parla con doppia voce, una delle quali afferma il
falso, ma l’altra lo smentisce; ed è un cozzare di sì e di no,
che si chiama contradizione.
Il
“filo” che permette di dominare il labirinto non è altro che lo
spirito superiore il quale si muove istintivamente verso l’uscita,
sentendo immediatamente l’odore dei vicoli ciechi senza bisogno di
percorrerli, mentre gli altri ci si perdono, lo richiamano
animosamente in quelle direzioni, ne obbligano il passaggio e non si
convincono di aver sbagliato neppure quando si trovano dinanzi un
muro. Oppure pensano che quel muro sia ciò che si stava cercando. Il
labirinto stesso è il male, costruito dagli
spiriti mediocri, esso è il mondo con i suoi problemi, di cui si ha
una copia mentale, entro la quale si cerca una soluzione che scenderà
poi nel vivo del mondo come un manto balsamico e risanatore. Ma la
verità non è intrinsecamente connessa con l’errore, essi non
costituiscono un sinolo, e non nascono in alcun modo l’una
dall’altro. La verità si fa strada attraverso il nugolo degli
errori. Ma essa è tale originariamente. È una virtù in sé,
gettata nel fango del mondo, nel quale cerca di muoversi e
districarsi. Essa cerca di fatto di estendersi al mondo ed ha
pertanto uno scopo correttivo. Ma affermare che essa sia figlia degli
errori è un vituperio ed una eresia nei suoi confronti, un
oltraggio. Dall’errore nascono solo altri errori. Non appioppiamo
agli errori dei meriti, non elogiamo il male, non invertiamo la
gerarchia cosmica la cui perdita costituisce il peccato e la cui
ricerca costituisce lo scopo della vita.
p.
20
ci
sono stati periodi storici, nei quali dominarono le più storte e
rozze dottrine dell’arte; e ciò non impediva pur in quei tempi, di
discernere solitamente, nel modo più sicuro, il bello dal brutto, e
di ragionarvi intorno assai finemente, quando, dimenticata l’astratta
teoria, si veniva ai casi particolari.
È
un pio ma impossibile desiderio, quello che richiede che essa venga
esposta direttamente, senza discutere o polemizzare, lasciandola
procedere maestosamente, sola: come se tali parate da palcoscenico
fossero il simbolo adatto per la verità, che è il pensiero stesso,
e, come pensiero, sempre attivo e in travaglio. In effetto nessuno
riesce ad esporre una verità se non mercé la critica delle diverse
soluzioni del problema a cui quella si riferisce; e non c’è
meschina trattazione di una scienza filosofica, non c’è manualetto
scolastico né dissertazione accademica che non collochi a suo capo o
non contenga nel suo corpo la rassegna delle opinioni storicamente
date o idealmente possibili, delle quali vuol essere l’opposizione
e la correzione. La qual cosa, per quanto sia sovente eseguita con
arbitrio e disordine, esprime per l’appunto la legittima esigenza,
nel trattare un problema, di percorrere tutte le soluzioni che ne
furono tentate nella storia o sono tentabili nell’idea (cioè nel
momento presente, epperò sempre nella storia), in modo che la nuova
soluzione includa in sé il lavorio precedente dello spirito umano.
Invece
la parata da palcoscenico è proprio il simbolo adatto per la verità,
ed il modo giusto che essa ha di essere, operare, mostrarsi. Un
architetto del pensiero dovrebbe costruire la sua cattedrale senza
curarsi delle altre edificazioni, e se i suoi principi architettonici
spontaneamente concepiti dinanzi al problema reale si ipotizzano come
superiori, giacché la verità è superiore all’errore, ebbene la
guerra contro codesti errori è un’imposizione eteronoma e odiosa,
altro non è che una battaglia aggiuntiva per il proprio diritto di
costruire, e nella fattispecie di essere riconosciuto come mastro
architetto, o di impedire ai mediocri di propinare aborti come grandi
opere. Non si dovrebbe mai discutere, solo essere. La discussione
presuppone il fatto che siano state messe sullo stesso piano due cose
di valore diverso. Ma ciò è l’errore per antonomasia.
Lo
scopo della discussione è trovare un accordo. Ora, se due persone di
uguale intelligenza possiedono nozioni diverse sullo stesso soggetto,
il dialogo è proficuo poiché essi se le scambiano. Ma una volta
accertato che entrambi possiedono lo stesso insieme di informazioni,
se ancora ne traggono conclusioni diverse sicché il disaccordo
permane, è evidente che uno è più intelligente dell’altro. Qui
bisogna troncare la discussione, poiché non porta nulla di buono.
L’
ultima frase di Croce afferma che la nuova soluzione includa in sé
il lavorio precedente dello spirito umano. Ma è più corretto dire
che i veri filosofi di oggi proseguono la battaglia che iniziarono i
veri filosofi di ieri contro la menzogna in cui la loro epoca come
ancora la nostra era immersa, e nella quale il filosofo in generale è
un’anomalia. Quella degli uomini della conoscenza, diversi nelle
concezioni ma uniti nello spirito fondamentale, è un’alleanza
diacronica contro la volgarità. Diciamo che senza gli errori non si
sarebbe presentato il problema, ma non che gli diciamo grazie per
essersi presentato.
Un
dialogo ha senso fino a che entrambi sono ancora disposti a cambiare
idea.
Un
tale dialogo è di tipo platonico ed ha una funzione euristica, non
dialettica.
Ciò
che è fisso e obbligatorio in un dialogo platonico è l’onestà
della ricerca, mentre la sua conclusione resta totalmente aperta, in
quanto costituisce l’obiettivo della discussione. In un dialogo
sofistico la conclusione costituisce invece il dato presupposto,
assolutamente fuori discussione, mentre in ballo ci sono soltanto gli
espedienti per affermarla. La retorica è uno strumento mirabilmente
utile per ovviare al fatto che chi non ha il diritto di giudicare se
ne sia invece appropriato, in quanto non è stato educato alla cieca
obbedienza come sarebbe giusto, e allora il depositario della verità
duramente conquistata deve non solo comandare, bensì persuadere,
poiché senza persuasione il popolo non obbedisce ed anzi vuole
essere lusingato di questo onore: che l’ultimo giudice sia in
verità lui stesso, e che il governante comandi solo grazie al suo
mandato, sia un funzionario del popolo e sia sostanzialmente tenuto
ad eseguire la sua volontà e le sue opinioni.
Cosa
v’è di peggio che avere torto? Aver ragione e non poterlo
dimostrare.
Imporre
la vittoria con ogni mezzo, in quanto…
Vittoria
non richiede giustificazioni - Sconfitta non le accoglie.
Perché
propriamente l’unica cosa giusta è la vittoria, l’unica
sbagliata è la sconfitta. Quando si processa anche un vincente, è
poiché si ritiene che egli non abbia veramente vinto, oppure non sia
stato lui a vincere. Quando si processa un perdente, una
giustificazione è solo il riconoscimento che la sconfitta fosse solo
apparente o che non ne fosse stato lui la causa.
Il
Re ed il Filosofo sono figure analoghe da un lato,
antitetiche dall’altro.
Analoghe
perché il ruolo apicale nell’organizzazione politica ricoperto dal
re corrisponde, nell’ambito conoscitivo della ricerca, a quello del
filosofo. Sfido qualsiasi esercito a vincere una guerra seria senza
il capo di stato maggiore. Sfido qualunque comunità scientifica a
condurre a risultati stabili e coerenti senza il direttore generale
ovvero il filosofo. Se si discute la necessità di questi ruoli, non
ci si lamenti poi del fatto che non si risolva davvero mai nulla, o
che le soluzioni siano locali, parziali e temporanee, sicché il
tessuto sociale si mantiene disarmonico e stridente, e che i
rappresentanti di discipline diverse non si mettano mai d’accordo e
si contestino gli ambiti di giurisdizione. Ma il Re ed il Filosofo
sono figure antitetiche per quanto riguarda un fondamentale
principio deontologico: il filosofo non può avere certezze, il re
non può avere dubbi. Nella ricerca sono bandite le certezze,
nell’azione sono banditi i dubbi. Questo giustifica anche la
propedeuticità dell’attività del filosofo rispetto a quella del
sovrano. Se il filosofo parte con delle certezze indimostrate è
destinato al fallimento. Se il re parte con dei dubbi è destinato al
fallimento. Non ti puoi nemmeno presentare in politica con una
sporta di dubbi e una valigia di ipotesi. Se devi persuadere e
guidare gli altri, tu per primo devi essere il più convinto di
tutti, da rasentare il fanatismo. Se devi districarti in un nugolo di
circostanze, avversari, cospirazioni, i tuoi obiettivi devono essere
chiari, le tue conoscenze sicure e la tua azione tempestiva e
autoritaria, altrimenti sarai sconfitto e con te il tuo paese. Chi è
posto in un ruolo di comando ed è costretto a meditare questioni
teoriche per via di carenze conoscitive si sente a disagio, come
colui che è posto in un ruolo di ricerca ed è costretto a prendere
decisioni pratiche prima che tale ricerca sia conclusa. La divisione
dei ruoli in una prospettiva storica e quindi evolutiva si è resa
necessaria, perché funzionava meglio rispetto alle epoche in cui
entrambe le mansioni erano svolte dallo stesso individuo.
Inizialmente gli uomini si divisero semplicemente le varie mansioni
pratiche, ma ogni specialista ne era sia un pratico che un teorico
(un ricercatore), visto che doveva continuamente migliorare. Poi la
quantità di lavoro necessario all’interno di ognuna delle due
sezioni si è gradualmente ingrossato al punto che ogni disciplina ha
preteso la divisione in teoria (ricerca) e pratica (applicazione). La
devastazione complicata del pianeta è dovuta agli effetti prolungati
e sovrapposti delle decisioni dei cattivi sovrani, magari educati da
cattivi filosofi. Fortunatamente ciò non è successo in eguale
misura per tutti i gradi ed i settori dell’azione e della teoria,
altrimenti avremmo di che piangere. È evidente che dappertutto ci
siano stati errori gravi, ma non gravi come quelli operati da
filosofi e politici. Per lo meno nelle altre discipline gli errori ci
hanno aperto gli occhi e portato precauzioni, rimedi, innovazioni. Ma
la politica e la filosofia mi sembrano sempre imperniate intorno alle
stesse scemenze. Il Conflitto che vediamo oggi è lo stesso Conflitto
dei popoli antichi. Se vediamo due persone, anche anziane, che
litigano, per stabilire chi ha ragione non si pongono
reciprocamente argomenti diversi da quelli che si ponevano i
litiganti 2500 anni or sono. Se poi i due si rivolgono alla Legge non
è che il discorso salga di molto in termini di raffinatezza o
profondità. Direi che in tutte le discipline vediamo progressi
superiori a quelli mai avvenuti nella filosofia e nella politica che
ne è il corrispettivo pratico. I sovrani ed i filosofi di oggi
devono pertanto essere molto più bravi di quelli del passato ed
eseguire un lungo apprendistato, tale per cui un Re che si rispetti
dovrà salire sul trono piuttosto anziano ed il Filosofo, anch’egli,
assumere l’epiteto di saggio ad una età avanzata, dopo aver
studiato una vita. Il settore più apicale della conoscenza non può
purtroppo contare, a mio avviso, su di una solida e sana tradizione,
anche perché la collaborazione con le altre discipline non è mai
stata adeguata, bensì dominata da fenomeni di reciproca ignoranza,
sospetto, sfiducia, disputa, snobismo, competizione, irredentismo,
insubordinazione, confusione, avventata intromissione, spartano
confronto, diatribe sui confini, sovversione, mancanze di rispetto,
isolamento in sé stessi, ed una generale assenza di spirito di
gruppo. Ma questa è appunto l’ennesima denuncia della mancata
organicità del mondo ch’è infine il tema centrale di questo
libro. Ma ritornando invece al concetto centrale di questo aforisma,
concludo con ciò che deve esser chiaro: qualora il filosofo scenda
in politica, prima deve appendere la tunica al chiodo. E se gli
capita di passeggiare sotto il peripato, sarà per tessere intrighi
con i suoi colleghi, oppure per non tesserli, ma non per discutere se
sia o meno giusto tessere intrighi.
Una
buona norma per chi voglia coltivare la filosofia è quella di
sottrarsi il prima possibile alle angustie del campanilismo, le cui
forme gradualmente più estese sono il provincialismo ed il
nazionalismo, ampliare gli orizzonti per comprendere quanto ci sia di
diverso, e anche di migliore, in realtà circostanti la nostra zona e
dunque nemmeno troppo lontane, che potrebbero anche zittire la nostra
arroganza, la nostra criticità ed una serie di concezioni che vanno
bene solo per la ristretta realtà che abbiamo visitato e con cui
siamo stati magari in lungo e fastidioso contatto. Vero è anche che
chi viaggia molto per paesi stranieri, come diceva Cartesio, diventi
a poco a poco straniero in casa sua. Vero che la nicchia ti isola ma
contemporaneamente ti protegge. Il filosofo ha comunque bisogno, per
rendere valido il suo lavoro, di ampliare gli orizzonti non
specializzandosi in niente, e di ricevere di ogni realtà la
quintessenza che serva al suo prodotto ed al suo ruolo dirigenziale.
Il problema sta allora nel trovare una dimora, un quartier generale,
la migliore ai suoi fini, come fu Francoforte per Schopenhauer. Non
saprei come trovare questa dimora e non avrei i soldi per andarci a
vivere, ma questo è un altro discorso. Per fortuna grazie a Internet
posso viaggiare da casa mia. L’istinto organizzativo del filosofo
porterebbe quest’ultimo ad assicurarsi in primis la Percezione
dei Confini dell’Universo Culturale, i suoi centri di
produzione e di gestione, la dislocazione di alcuni elementi, la
quantità di elementi organizzati e quelli a sé stanti. Dovrebbe
conoscere per lo meno a grandi linee o suddivise per categorie tutte
le istituzioni, le associazioni, i processi economici globali e
locali senza eccedere in un particolarismo che non si conforma al suo
compito: ma egli dovrebbe cogliere nella loro essenzialità tutti i
rapporti tra le istanze di questo mondo. Avere dunque questa
panoramica entro la quale deve muoversi e programmare il suo lavoro,
documentarsi, sapere dove e dove soltanto ci sono le precise cose che
servono a lui, ed una mappatura della realtà attuale che egli dovrà
criticare alla luce della sua autogena filosofia della cultura, e di
tutto il resto. Poiché egli era incappato assai presto in difetti
conseguenti ad una filosofia culturale sbagliata, oppure alla mancata
applicazione di quella giusta. La mancanza di formazione al riguardo
fu uno dei temi centrali della mia insoddisfazione universitaria e
della mia critica alla stessa, questa irresponsabilità dei
professori nei confronti di chi dovrà assumere ruoli culturali
importanti. Ma giacché l’Università non è mai stata una
istituzione per filosofi, e quelli che la frequentano non hanno di
queste esigenze, problemi, obiettivi, è perfettamente normale che
tali tematiche siano trascurate. Non vorrei scoprire che in realtà
sono io l’unico pirla che ha difficoltà ad orientarsi o che non sa
quello che ognuno ha presto acquisito come ovvio, ma credo che la
voce della verità vorrà porre a questa superficiale insinuazione
uno stentoreo diniego.
Non
ci dovrebbe essere alcuna ragione, in un mondo sano, ad impedire che
un uomo possa fare tutte e sole le esperienze di cui ha bisogno per
essere felice, ed allo stesso modo non vi dovrebbe essere alcuna
ragione per cui un uomo non possa collezionare tutte e sole le
conoscenze di cui ha bisogno per realizzarsi al meglio nel suo
lavoro, e poniamo l’accento adesso su quello più apicalmente
intellettuale ovvero la filosofia. Che cosa impedisce quest’ultima
cosa? La sovrabbondanza di cultura e la sua non ottimale
organizzazione nemmeno dal punto di vista della semplice fruizione,
tale per cui non sai di preciso dove si trovino le cose di cui hai
bisogno e molte di cui avresti bisogno non sai neppure che esistono e
ti ci imbatti forse per caso se sei fortunato. La cultura non è
stata gradualmente scremata durante il corso della storia, sicché
noi ce la portiamo ancora dietro tutta quanta, senza che qualcuno sia
in grado di tirarne le somme, anche perché si tratta ormai di una
addizione con tanti di quei termini, nemmeno messi in fila ordinati e
bensì sparsi per il mondo o raggruppati in collezioni arbitrarie e
sempre lacunose, da perderci il conto e l’orientamento ancor prima
della vista. Il concetto di tradizione non può essere discrasico con
quello di innovazione. Il rapporto è lo stesso che vige nel calcio:
squadra che vince non si cambia (tradizione). Ma se perdi, qualcosa
devi cambiare (innovazione). Se tu senti l’esigenza di scrivere un
nuovo testo su una disciplina, mettiamo la sociologia della
comunicazione, è innanzitutto perché vedi nel mondo attuale che
persistono dei problemi irrisolti, li riconduci alla mancanza di
dottrine corrette, poi ti vai a leggere quelle disponibili, la storia
di tale disciplina appunto, e noti gli errori grazie alla tua
percezione delle conseguenze, e già ipotizzi nuove e più evolute
soluzioni grazie a strumenti scientifici che il progresso ti ha
fornito nel frattempo, grazie alla tua esperienza personale e ad un
acume osservativo ed analitico che senti come superiore a chi ti ha
preceduto. In sostanza, se scrivi roba nuova è perché bocci
tutte le vecchie, le consideri ormai carta straccia e questo è un
principio imprescindibile di ogni progresso, che non deve avere
l’ipocrisia di ostentare un rispetto per il passato che vada oltre
il riconoscimento di un debito reale, presente qualora tu
effettivamente abbia conservato alcune basi delle vecchie ideologie e
vi abbia sopra costruito: ma quando metti in discussione anche le
basi scompare ogni minima stilla di questo rispetto e si tramuta anzi
in irritazione per le conseguenze nefaste che tali castronerie hanno
provocato, per non parlare della tua fatica di dover smontare tutto
quando, se tu fossi stato il primo a scriverci sopra, avresti subito
colto nel segno, e adesso oltre che con la disciplina oggettiva ti
devi battere anche contro tutto quello che è stato istituito in
conformità allo spirito antico e con tutti i suoi accaniti e
pedissequi sostenitori. Quello di bruciare i libri non è
necessariamente un delirio, purché lo si faccia con un criterio
scientifico. Essa è anzi un’operazione salutare, necessaria al
progresso dell’uomo come a quello della società. Un nuovo libro
che viene scritto su una qualsiasi disciplina dovrebbe invalidarne
una cinquantina dei vecchi o anche tutti quelli che sono citati nella
bibliografia qualora alle loro affermazioni abbiamo contrapposto le
nostre. Il problema è che il nuovo libro non annulla la serie
dei precedenti, semplicemente vi si affianca irresolutamente,
sicché il fardello della cultura non viene minimamente alleggerito,
bensì appesantito e destinato alle povere spalle della prossima
generazione che di questo passo, andrà ancora a scuola quando ormai
le saranno spuntati i capelli bianchi. Il bagaglio culturale
che una persona deve portarsi dietro varia in funzione di dove deve
andare e di quante cose non è in grado di affrontare con i suoi
propri strumenti innati o alternativamente acquisiti. Ma metterci
dentro coltelli spuntati, cibi ammuffiti, indumenti che non indosserà
mai, attrezzi superflui, carte geografiche tracciate da chi non aveva
il satellite, campioni di roccia e vegetali di seconda mano,
personalmente selezionati, classificati, tagliuzzati, innestati,
lavorati, confezionati, quando può benissimo vedere gli originali e
farsi le sue idee, tutto questo mi sembra un reato contro lo spirito
santo. Non vi dovrebbe essere mai alcuna querelle des anciens et
des modernes, ed il fatto che solo nel primo novecento sia
comparso un movimento come il Futurismo, che ha preso posizione in
maniera netta e vigorosa su questo tema, è un indice preoccupante di
una lacuna fondamentale che ha presidiato l’intero percorso della
nostra civiltà, quella di una corretta Filosofia della Cultura,
più in generale una visione corretta del rapporto dell’uomo col
proprio passato, e di che cosa significhi evoluzione. Se siano
meglio gli antichi o i moderni? La risposta è semplice: entrambi
sono stati messi alla prova, dunque, chi ha dato i risultati
migliori? Innanzitutto se si è cercato qualcosa di nuovo è
perché il vecchio non era mai stato completamente soddisfacente
oppure la nuova epoca presentava esigenze nuove cui tutti gli aspetti
della cultura dovevano adeguarsi per esserne all’altezza. Vi
dovrebbe essere in ogni civiltà un rigoroso controllo, una
precisa identificazione di chi ha causato un problema e di chi ne ha
invece trovato la soluzione, bisogna sapere esattamente qual è
l’intento di ogni nuova teoria, quale problema pratico
intende risolvere e poi se effettivamente lo ha risolto: perché
innanzitutto qualsiasi nuova teoria deve muovere, ed anzi essere
promossa dal governo, dalla retta percezione di una zona insana della
società, e si deve sapere da quale mancanza teorica essa derivi. Ci
dovrà quindi essere un vincolo imprescindibile: la nuova soluzione
dovrà essere applicata proprio come era stata applicata la
vecchia, e mantenuta in vigore fin quando sia risolutiva, abolita
immediatamente qualora abbia fallito. Se qualcosa sia meglio o sia
peggio non deve essere una querelle, deve essere assolutamente
evidente. Ma può essere evidente soltanto quando ogni
elemento sia vincolato ad una funzione in maniera ineludibile, dentro
una società. Se invece questo vincolo si rivela aleatorio o
preferenziale, non v’è il controllo sui rapporti tra colpevoli e
vittime, tra meriti e benefici, sicché il problema non può essere
risolto e da una tale epoca di barbarie deve svilupparsi un movimento
illuminista che ha come primaria ambizione quella di ristabilire tale
possibilità di monitoraggio, cui segue la correzione. Se tutto
funzionasse in questo modo, vi sarebbero risparmi astronomici. Ogni
studioso, prestamente selezionato grazie alla previsione delle sue
capacità risolutive in un determinato settore, verrebbe formato con
le sole nozioni necessarie a mettere a frutto infine il suo
specifico talento, la sua superiore capacità visiva e connettiva,
che gli consente di attuare quel progresso agognato dal sistema e che
era accessibile solo a lui. Riguardo alla filosofia egli dovrebbe
studiare solo l’ultimo filosofo comparso, perché tutti i
precedenti sono stati rigorosamente smontati, ognuno dal successivo,
e di quest’ultimo filosofo sono chiare le affermazioni
veritiere perché, essendo state applicate rigorosamente, sono
semplicemente quelle che hanno prodotto benefici e prassi che ancora
funzionano, mentre gli errori sono altrettanto evidenti, per lo
stesso motivo, ed è esclusivamente su questi punti carenti che deve
intervenire il nuovo intellettuale. Invece un filosofo di oggi
deve rimettere in discussione tutta la storia della cultura
universale a partire dalle mille piaghe e mal funzionamenti della
società presente. Perché per millenni gli uomini di cultura hanno
lavorato in modo dissoluto, frammentario, fazioso ed incoerente. A
questo personaggio voi dite che se proprio ha bisogno di coltivare
questa risibile, inutile ed anzi immorale ambizione, può ben
farlo nel tempo libero, una mezz’oretta tutte le sere, ma deve fare
per forza un altro lavoro, intendiamo dire un lavoro vero,
perché la filosofia è un lusso, altro che lavoro, e se anche fosse
un lavoro nessuno ti pagherebbe per farlo, a meno che tu non faccia
carriera all’università dove però non si coltiva affatto
quell’obiettivo e si vive parassitariamente della cloaca orgiastica
indifferenziata ed inconcludente che è appunto la nostra Cultura.
Non è neppure così indifferenziata in realtà. Poiché anche
in regime democratico ci sono sempre idee dominanti, e chiunque abbia
una minima autorità in un ambito della vita che sia materiale o
culturale, ebbene egli prende decisioni, effettua delle precise
scelte e dei precisi scarti, e li impone in maniera
dittatoriale laddove ne abbia interesse, senza tuttavia ambire ad
essere un vero dittatore perché in fondo non ne ha bisogno: la sua
vita se la è ritagliata lo stesso e non ci si trova poi così male.
Perché dunque dovremmo cambiare il mondo? Cerchiamo di agire tutt’al
più contro chi minaccia il mantenimento della nostra relativa
quiete. L’uomo agisce se è motivato a farlo ed il mito
dell’oggettività è qualcosa di osceno e pernicioso, che qui
voglio ben chiarire. Qualora oggettività significhi
avversione ad ogni forma di opportunismo, essa va santificata
ed imposta come principio cardine nella deontologia di qualsiasi
professionista. Tuttavia questa accezione del termine è solo metà
della faccenda. Poiché oggettività significa anche fedeltà alla
causa, significa passione irrinunciabile, significa
esserne sommamente, completamente e personalmente coinvolti,
significa non poter vivere senza coltivare quella disciplina e
raggiungerne i risultati. Soltanto questa persona avrà la forza
propulsiva per raggiungerli, non un freddo e abulico mestierante.
Entrambe le parti che compongono questa sacra mela, questo frutto del
peccato, vengono trascurate nel mondo, ed è questo il primo tema
culturale su cui una nuova aria politica deve mettere ordine. Chi
vive di una cosa deve vivere anche per essa. E chi vive per
essa deve vivere di essa. In ogni caso la Cultura
dell’Indifferenziato è una cultura, così come lo Scetticismo
Filosofico è una filosofia, consapevole di auto contraddirsi ma
che non ha interesse a smettere di farlo, la Cultura
dell’Uguaglianza condanna come diversi tutti gli avversari
dell’egualitarismo, il Multiculturalismo è una cultura che
condanna la cultura del pensiero unico, con cui si può essere o meno
d’accordo a seconda dei benefici che se ne traggono. La Scienza? La
scienza è futurista e non passatista, pertanto ha viaggiato come un
treno a vapore e poi come un treno ad alta velocità, essa produce
gli strumenti della sua stessa crescita. Ma la forza attorniata dalle
debolezze può portare ad esiti infelici. La scienza, che già non è
perfetta, deve fare i conti con filosofia, economia, politica. Nella
scienza nessuno discute che le cose moderne siano superiori a quelle
antiche, a parità di obiettivi. Nella filosofia potrebbe, in linea
di principio, avere ancora ragione Aristotele, oppure Bacone,
altrimenti John Locke, o anche Kierkegaard, perché non c’è stata
la scrematura rigorosa, possibile anche grazie al supporto della
scienza, che la si applica solo quando ci tira, e del resto solo
singoli filosofi seri ritennero necessaria questa scrematura e
argomentarono rigorosamente fino ad invalidare, con tutti gli
strumenti di cui disponevano, le filosofie precedenti. Ad ogni modo
l’esigenza non doveva essere così angustiante poiché le idee
filosofiche non sono sottoposte al vincolo dell’applicazione. La
politica può ignorarle totalmente come invero può ignorare tutto,
anche scienza ed economia, e questo favorisce il senso
d’irresponsabilità e non consente la pronta verifica della
soluzione. Se la politica non è vincolata ad applicare gli ultimi
progressi di ogni disciplina, noi che ricerchiamo a fare? Ora c’è
però il fatto che i progressi filosofici non sono paragonabili a
quelli scientifici, se consideriamo poi che l’istituzione che
dovrebbe promuoverli è invece animata da un passatismo parassita e
sterile, anziché da un fervore quasi mistico e missionario verso la
ricerca del Vero, come dovrebbe avere essa stessa e trasmettere ai
giovani in un rito iniziatico. Parlo al plurale indebitamente poiché
un compito del genere spetta invero a pochi eletti, forse uno
soltanto, almeno sugli aspetti più fondamentali della disciplina, ed
una intera istituzione di quelle dimensioni rivolta a promuovere
cambiamenti di natura così elitaria sarebbe, anche qualora onesta,
un’assurdità. Basterebbe un fondo monetario per il filosofo
attorniato da collaboratori scelti analogamente finanziati in tutto,
con il fondamentale accesso a qualsiasi informazione sia disponibile
sul pianeta, ogni sito Internet, anche quelli protetti da segreto
governativo, quindi ogni sorta di libro, a disposizione la biblioteca
vaticana, ogni giornale, rivista, film, disco, passe-partout nei
teatri, musei, siti archeologici, mostre, convegni, concerti,
manifestazioni sportive, viaggi organizzati in ogni parte del mondo
per attingere alle esperienze dirette e alle informazioni necessarie
ad integrare quello che manca nelle fonti che ho elencato e che
necessitano comunque di esservi affiancate per essere davvero
comprensibili e criticabili, e gli devono essere concessi colloqui
diretti con qualsiasi personaggio. Dico questo perché la posta in
gioco è altissima, è capitale, ed il lavoro da fare, in un mondo
che si è complicato all’inverosimile, è semplicemente immenso
e la generazione attuale non ne vedrà probabilmente la fine. Accesso
anche alle informazioni più segrete e pericolose, ho aggiunto, per
il semplice fatto che il filosofo, come del resto la sua equipe
selezionata, non le userebbe mai a fini illegittimi, in maniera
faziosa, opportunista, turpemente distruttiva, e non si venderebbe
mai a nessuno, perché egli vive per la sua causa, la sua onestà in
proposito sta nel suo codice genetico e non può dunque tradirla. Ma
forse gli stati stessi che gli dessero queste opportunità, non
sarebbero altrettanto puri d’intenti e infatti, in realtà non
gliele darebbero mai, poiché si troverebbero ben presto ad essere
messi in discussione e a farsi mordere la mano da colui che nutrono.
L’Economia? L’economia è una disciplina ibrida. Essa è
costretta in parte ad essere attualista e futurista e passatista
nella misura in cui serve per fare soldi, è frammentata in molti
soggetti che agiscono a seconda del bisogno di attuare un profitto a
breve termine oppure a lungo termine o entrambi, deve far tesoro
delle ultime teorie matematiche perché ha a che fare col calcolo,
in particolare deve spendere poco e guadagnare molto, deve soddisfare
gli attuali bisogni ma anche preconizzarne e fomentarne di futuri, e
magari quando fette di mercato sono sature potrebbe rilanciare
qualche moda del passato in un ritorno di fiamma, ponendo le vecchie
cose in forma nuova oppure in un contesto moderno nel quale fanno un
effetto diverso. Poi il grosso dell’economia la gestisce
l’industria, che per potenziarsi ha bisogno della tecnologia
avanzata, sicché, qui, l’economia deve essere futurista ed
investire sulla tecnica. Il marketing utilizza le neuroscienze, le
scienze della comunicazione, applica principi dell’arte militare,
per far man bassa di quattrini anche perché, se noi guardiamo al
secondo lato della scienza economica, quello che ha un’intersezione
con la filosofia, notiamo che essa non trova un grandissimo appoggio
poiché l’etica non le fornisce risposte certe, e quando essa cerca
di darsele da sola, fa mostra della propria povera superficialità,
tipica di un soggetto venale e materialista. Se l’economia si
chiede infatti Cosa è il Valore? Qual è lo scopo della vita? Che
cosa è l’utilità? Cosa porta alla felicità? I soldi lo fanno?
Che cosa è un bisogno? E un desiderio? Dobbiamo cercare il piacere o
la quiete? La competizione è una cosa buona? Dobbiamo essere egoisti
o solidali? Quali diritti e quali doveri abbiamo in ambito economico?
Che cosa è la giustizia? Ecco che essa non trova molto di
soddisfacente, ancor meno di quanto facessero i filosofi. Ma essa
decide di agire lo stesso con quella fermezza che è necessaria
nell’azione, ed il valore cui si tende istintivamente a convergere
è quello del massimo profitto. Se andiamo poi sulla vasta scala,
dopo secoli l’economia non sa ancora se deve essere lasciata in
mano ai privati o statalizzata o qualcosa di intermedio, poi se debba
tendere all’uguaglianza o invece alla disparità e alla
differenziazione. Stiamo parlando dunque di scienze che sono ancora
di là da venire quanto a risultati sicuri, persino sui punti
fondamentali, e la crisi economica ne è una prova, a scapito delle
frequenti assegnazioni di premi Nobel. La filosofia deve fare la sua
parte dando finalmente una sgrossata vigorosa al ceppo di questi
problemi e cogliere dannatamente nel segno per una volta. Ma tutte le
scienze possono essere asservite al mercato e dunque agli interessi
privati, ci sono istituti di ricerca che operano presso le aziende
stesse, e allora tutte le virtù delle scienze sono vanificate
dall’uso che se ne fa, come ogni male contamina ogni bene, e la
ricerca al servizio del capitalismo è l’aspetto economico della
ricerca al servizio della guerra. La guerra, che a sua volta viene
fatta per scopi economici privati.
In
un circolo vizioso senza fine.
Sentiamo
cosa dice il Dizionario Treccani
del
termine Antropogeografia.
Settore
della geografia (detto anche geografia umana) che ha per oggetto la
distribuzione qualitativa e quantitativa degli uomini sulla
superficie terrestre in relazione alle condizioni naturali e alle
risorse del suolo, l’influenza che tali condizioni esercitano sulle
manifestazioni delle loro attività, e le modificazioni che gli
uomini apportano, con la presenza e l’opera loro, sulla stessa
superficie terrestre; comprende una parte fondamentale, che ha per
oggetto l’ambiente e la sua interazione con l’uomo (detta anche
geografia ecologica), e numerose specialità, quali, per es., la
geografia degli insediamenti, la geografia urbana, la geografia
sociale (o dei fatti culturali), la geografia politica, la geografia
economica.
Parlano
di distribuzione qualitativa e quantitativa degli uomini sulla
superficie terrestre: questo implica un soggetto osservativo che
dall’alto osserva i movimenti dei singoli soggetti o gruppi rivolti
alla propria soddisfazione, che possono essersi affermati
positivamente o negativamente ed essere stati parzialmente illuminati
dalle loro esperienze ma che tutti quanti sono inevitabilmente
affetti da una limitazione visiva in larghezza e dunque anche in
profondità, da cui tutti traggono nocumento, il che giustifica il
ruolo di quell’elevato osservatore che può cogliere la fonte dei
loro errori, e può farlo a sua volta in un’ottica
individualistica, ovvero per trarne personale profitto, oppure in
un’ottica organicistica. Poi parlano di interazioni uomo-ambiente,
nei differenti ambienti, relazioni che possono anche essere
reciprocamente infauste e compromettere in partenza sia un ambiente
che un’etnia umana, pregiudicando anche tutta la loro cultura in
quanto figlia di una condizione insana. Poi ci dicono che
l’antropogeografia ha una parte fondamentale detta geografia
ecologica che ha per oggetto l’ambiente e la sua interazione con
l’uomo, e poi numerose specialità come la geografia degli
insediamenti, la geografia urbana, la geografia sociale, la geografia
politica e la geografia economica. Chi ha stabilito questa
partizione? Il primo fondatore della disciplina ha posto ad essa il
nome di Geografia Ecologica, in un’opera che, probabilmente, aveva
mosso da alcune considerazioni particolari da cui egli aveva evinti
rudimentali principi generali: ma che sono stati accolti dai suoi
seguaci i quali ne hanno seguito le particolari branche, indicate dal
padre fondatore oppure da essi stessi ramificate. Ora sino a che tu
sei uno studioso singolo non hai una istituzione che ti rappresenti,
questa può nascere quando il corpo di studi cresce necessitando di
una separazione organizzata, per cui il direttore generale pone una
provvisoria visione d’insieme che per essere perfezionata necessita
di nozioni maggiori e più corrette nelle singole branche: queste
vengono assegnate a studiosi che possono sviluppare le loro indagini
indipendentemente l’uno dall’altro, poiché sarà il direttore
generale che, quando questi gli presenteranno i loro studi, potrà
confrontarli e reimpostare una visione generale più matura e
indirizzare nuove file di studiosi a ulteriori ricerche volte a
perfezionarla. Ora questa loro accademia di ricerca può
essere privata, oppure la loro disciplina può essere divenuta
universitaria, essersi spostata quindi sotto l’egida della
fondamentale istituzione culturale di un paese, con la quale quindi
deve venire a patti beneficiando però dei suoi poteri, delle sue
risorse e delle sue interrelazioni con le altre istituzioni, in
particolare quelle del mondo concreto, quelle che hanno un ruolo
decisionale e operativo, dunque le forze politiche, economiche,
militari. Poiché infatti qui vuole arrivare ogni ricerca, che
era appunto partita dall’individuazione di un problema, di un male,
di una carenza, da una istintiva ribellione ad esso, da uno scopo
correttivo di cui il singolo innovatore si era sentito capace grazie
alle sue intuizioni che richiedevano però di essere sviluppate in
Scienza. Ora nel passaggio di una disciplina pionieristica sotto
l’egida universitaria si creano dei nuovi ruoli. Innanzitutto delle
cattedre corrispondenti a nuovi corsi di studi che però
dovranno avere uno sbocco il quale dovrà essere concreto e
ben previsto. Occorrerà in sostanza avere preparato il posto per
nuovi professionisti, dei quali invero un sistema saggio dovrebbe
essere in trepidante attesa in quanto potenziali ed
unici benefattori. Invece l’inserimento nel sistema di nuovi
professionisti animati da nuove conoscenze e capacità non è un
processo agevole, bensì ostacolato, viscoso, aleatorio,
frammentario, graduale, battagliero. Essendo il mondo della ricerca
legalmente svincolato da quello della prassi, e quest’ultima
dominata da innumerevoli soggetti fieri di un individualismo
determinato, per lo più materialistico e senza scrupoli, dunque da
un bellicismo costituzionale attivo sia tra i soggetti
economici analogamente faziosi, ma anche tra i movimenti
politici o parapolitici che tentano di influire su questi processi
già concretamente in corso, alcuni sostenendo questo o quel
soggetto, e ostacolando i suoi avversari ideologicamente o con la
propaganda denigratoria, altri animati invece dalla volontà di
eticizzare il tutto, indirizzare, regolare, frenare, vietare,
reimpostare, organizzare questi processi e tutte le parti già in
essi operative. Questi ultimi sono invero gli unici meritevoli di
ricoprire ruoli organizzativi, in quanto medici di un corpo egro.
Filosofi e politici faziosi, non sono tali: essi sono le
peggiori serpi, essi si appropriano di uno strumento terapeutico
creato dagli antichi saggi, giunto in parte effettivamente ad avere
un ruolo nella società e attorniato di un’aura nobile. Di questo
farmaco essi conservano solo la bianca etichetta sostituendone il
contenuto con intrugli velenosi, per poter fare impunemente, loro e
la fazione che sostengono, i propri interessi a detrimento
dell’ambiente. Si pongono dunque sotto sacre vesti che tradiscono
con le loro losche ambizioni, meschini pensieri e condotte inique.
Nella
società omogenea non vi è più differenza tra essere e avere.
La
cosa maggiormente anelata e rivendicata dagli abitanti di questo
mondo è il proprio ruolo. Già il fatto che ci si riferisca
ad un ruolo, generico, quasi che davvero noi non potessimo, in
un mondo disorganizzato, ambire a qualcosa di meglio che ad un
espediente per guadagnarci il pane, il che è già un lusso,
relegare invece le nostre vere passioni, cause, ragioni di vita, i
nostri scopi intrinseci, dunque il nostro ruolo naturale in un ghetto
dell’animo e della nostra vita, in quel residuo, subalterno e quasi
colpevole spazio di un hobby… Tutto ciò è sintomatico del
degrado, dell’insanità e della follia di fondo delle nostre
cosiddette civiltà. Il primo pilastro dell’educazione di oggi non
è quello di combattere per i propri sogni, ma quello di stroncarli
il prima possibile per lasciare il posto ad un sano realismo,
ovvero uno squallido adeguamento alla pregressa degenerazione causata
da mentalità analogamente ignobili, alle quali noi ci accodiamo
peggiorando le cose. Vero è che non si campa di soli ideali, ma è
vero anche che non si idealizza di solo campare. Dacché il primo
emistichio del chiasmo è sostenuto da persone che hanno come solo
ideale quello di campare, e non dovrebbero ipocritamente sostenere di
averne altri e di averli dovuti sottomettere per necessità, ecco che
coloro invece che di ideali ne hanno sul serio, in un mondo che non
conferisce loro nemmeno un ruolo adeguatamente remunerato per
costruire quella rivoluzione che sarà benefica per tutti, ed
andranno a risolvere anche quei problemi di cui la gente non è
consapevole o di cui ignora le vere origini, essi non devono
assolutamente vergognarsi di coltivarli, dovessero anche essere
mantenuti da qualcuno, campare di rendita o comunque di non essere
autosufficienti, dunque di giovare in parte, come del resto fanno (ed
in misura ben maggiore) anche quegli artisti che condannano lo stesso
sistema grazie al quale si arricchiscono, dei prodotti di quel mondo
a loro dire corrotto e marcio. Nessuno può rifarsi da nuovo, ogni
strutturazione della società è invero una ristrutturazione,
su qualche antico o recente pilastro è necessario appoggiarsi anche
se noi avessimo il fine recondito di abbatterlo. Noi in realtà
ereditiamo tutto, anche la possibilità di cambiare, e non potremmo
cambiare nulla se davvero nulla di buono non fosse già presente: un
organismo completamente infetto muore. Ma tutto ciò che in esso è
sano va sfruttato al fine di disinfettarsi, non vi è altra strada.
Vero è che se noi avessimo una sola gamba saremmo costretti a fare
altre scelte: però non implica che sia illecito avere due gambe. Se
uno nasce bello ha dei vantaggi innegabili: e allora cosa deve fare,
sfregiarsi la faccia perché un altro è più brutto? Se anziché una
questione cosmica ed escatologica volessimo farne una questione
banalmente etica legata al senso comune, potremmo dire: “Questo
mondo non l’ho fatto io, le condizioni in cui vivo sono determinate
dal corso della storia: avrebbero potuto essere molto peggiori ma
anche molto migliori, c’è tanta gente più sfortunata ma anche
tanta gente globalmente più fortunata, che si gode quello che ha
tenendoselo ben stretto ed anzi cercando di aumentarlo, senza tanto
stare a pensare alle sfighe altrui, e quelli invece più sfortunati
si lagnano solo di non essere stati fortunati come coloro che
invidiano e la maggior parte di loro non vuole la giustizia nel mondo
ma solo un riscatto personale. In ogni caso le mie condizioni di
esistenza non le ho decise io e nemmeno persone particolarmente buone
o sagge e in definitiva, visto che i lati negativi me li sono beccati
tutti quanti, non vedo perché dovrei sputare sui lati
positivi e non approfittarne”. Un uomo non deve privarsi di
quello che ha né sentirsene in colpa, qualora sia positivo, deve
eliminare solo i difetti che è possibile eliminare, dentro e fuori
di lui, poiché nessuno può astrarsi dall’ambiente in cui vive ed
esser felice fino in fondo se esso è difettoso in una sua parte
qualsiasi, ed a tal fine deve sfruttare tutti i suoi pregi, anche
quelli eterogeni come può esserlo la ricchezza. Alla fine questo è
il succo dell’etica. Hai un pregio: usalo. È tuo diritto e dovere.
L’importante è che non lo sprechi o non lo utilizzi in modo
dannoso. È forse questa la Parabola dei Talenti? Nel caso di
un intellettuale dovremmo togliere alla parola approfittare
quel senso individualistico che le è associato. Senza dubbio lui ne
approfitta anche egoisticamente poiché lui stesso fa parte di quella
selva di esigenze che tutte andrebbero soddisfatte e che già
sarebbero maggiormente soddisfatte se ci fossero stati più
intellettuali intelligenti nel passato e in generale popoli più
virtuosi. Lui non deve per forza essere un martire perché anche
lui vale, anche lui deve essere salvato dall’ingiustizia
o da essa riscattato, la sua rabbia è legittima, non deve essere un
individuo impersonale, un disinteressato, nell’interesse generale
rientra a buon diritto anche il suo, anche lui vuol essere felice,
sebbene sia disposto di fatto a sopportare una grande infelicità,
superiore a quella del conformista, per arrivare a compiere qualcosa
di più grande. Un benessere decente rientra dunque nelle sue
ambizioni e sia nelle condizioni necessarie ad estendere tale
benessere all’umanità grazie ai frutti del suo lavoro. Non c’è
incoerenza nel venire a patti col sistema. L’incoerenza sta nel
fare una cosa che non corrisponde a quello che vuoi senza che neppure
tu ci sia costretto per arrivare a fare quello che vuoi. La coerenza,
peraltro, ovvero la felicità personale e universale, non può essere
un presupposto, non può essere un datum, una condizione
iniziale, ma un obiettivo, il fine di tutti noi, ciò che
anima ogni nostro moto, scelta, battaglia e lo si raggiunge per
gradi. La vita non è altro che il processo tramite cui un mondo
incoerente giunge ad essere coerente. Vi è una bella differenza tra
l’Ipocrisia, ossia l’incoerenza tra quello che è un fantasma
e l’atteggiamento di una persona reale completamente diversa, e
quella che è invece la normale condizione della vita ovvero
l’incoerenza, nel senso che non puoi fare tutto quello che vuoi e
non puoi essere felice come vorresti ma ci devi arrivare,
coerentemente con la tua natura, coerentemente con le opposizioni
esterne, insomma coerentemente con un mondo incoerente ovvero
conflittuale in quanto disarmonico. Altra cosa sono ben quei
controsensi di chi fa cose che non conciliano i suoi veri
interessi benché questi siano certi e reali, per mera ignoranza o
incapacità di giudizio e deduzione. Fare un compromesso tra due
esigenze contrastanti che si presentano contemporaneamente – e
dunque sono incoerenti – è però coerente con il solo obiettivo
con cui l’uomo sarà sempre coerente ossia la realizzazione della
propria felicità: infatti quel compromesso è ciò che la massimizza
nella percezione contingente, il che è quello che ce la fa percepire
come possibile, poiché nell’unicità di un fine non esiste appunto
la quantità ma solo la qualità ovvero l’oggetto oppure la sua
mancanza, e noi possiamo vivere solo nella prospettiva di realizzare
la nostra felicità. Se ad essa venisse sottratto anche un solo
elemento e ciò ci fosse garantito irrevocabilmente, noi ci
suicideremmo. Il fatto che noi sopravviviamo invece è dovuto alla
limitatezza dei nostri orizzonti, per la quale la nostra felicità
viene identificata nel quotidiano con un progresso specifico, un
obiettivo specifico, quello per cui stiamo combattendo, quello che ci
eccita e galvanizza nella prospettiva positiva, che ci angustia e
avvilisce dinanzi ad un calo di energia, a volte tradottosi
insindacabilmente in un fallimento, cui corrisponderebbe
necessariamente la fine della vita, se il nostro istinto del piacere
ora stordito, disorientato e fluttuante non avesse la facoltà di
distaccarsi dall’oggetto della frustrazione per aggredire un nuovo
obiettivo posto nuovamente come realizzabile e dunque giustificante
la vita. Un idealista è nato, e ripeto nato, per
positivizzare tutto quello che può, coerentemente con il suo
carattere e non un passo oltre. Tutto ciò a cui non è sensibile non
lo può e non lo vuole positivizzare. Tutti siamo idealisti nel senso
che dobbiamo realizzare qualcosa. La differenza la fanno la grandezza
e altresì la consapevolezza di questo qualcosa. Tale consapevolezza
– anch’essa da acquisire – è ciò che ci porta ad agire in
modo da essere chiamati appunto idealisti, poiché risulta
chiara la coerenza tra il nostro atteggiamento e quello che anche gli
ignari vorrebbero realizzare ma non ne vedono ancora i mezzi, poiché
non conoscono le connessioni tra i vari elementi della realtà
presente, o quelle persone che ancora non son giunti nelle più
decisive e classiche arene di battaglia perché non se ne sono ancora
costruiti la forza. Ma Forza e Illuminazione fanno per prodotto il
Coraggio. In realtà tutti vogliamo realizzare la stessa cosa: la
felicità, solo che dobbiamo spartirci i ruoli conformemente alle
nostre capacità visive e operative. Un filosofo è un egoista con un
campo visivo molto ampio il che lo fa diventare un panegoista, un
organicista. Anche la filosofia dunque, con gli obiettivi che
comporta, è un fatto egoistico: lui non ha scelto di essere
filosofo, ci è semplicemente nato dunque lui è invero molto più
felice a fare il filosofo che ad adeguarsi ad una vita
qualsiasi. Del resto, ci ha provato. Se ci si fosse trovato bene come
gli altri, e come controparte non avesse dovuto rinunciare ad una
cosa tanto importante e produttiva come lo è la sua autonoma
attività intellettuale, una rinuncia di cui solo lui si rende conto
non essendo gli altri dei veri intellettuali ma solo gente che
coltiva la cultura in maniera consumistica, egotistica, oppure
opportunistica quanto ai mestieranti, ma giammai con serie e profonde
ambizioni creative ed innovative, addirittura rivoluzionarie, ebbene
senza queste condizioni anche lui avrebbe perseverato su quella
strada, necessariamente, risparmiandosi ogni strale o gravame socio
psicologici legati alla singolarità. Ma nessuno è tanto infelice
come l’uomo costretto a vivere non secondo la sua natura ma secondo
la natura degli altri. Chiunque sopporta più volentieri le
sofferenze legate ad una causa che gli appartiene, che non il vivere
per qualcosa che non gli appartiene. Questa si chiama alienazione.
L’uomo odia ciò che gli è estraneo, e quando diventa estraneo a
se stesso, uccide se stesso. È quello che fanno tutti coloro che
vedono come impossibile distaccarsi da un ruolo che è realmente
avulso alla propria natura e dunque alle proprie ambizioni. L’uomo
fa necessariamente tutto ciò che è necessario per realizzare se
stesso, e quando realizzarsi non è più possibile, sopprime se
stesso, senza scampo, senza eccezione, perché così vuole la natura.
Proprio come sei disposto a morire per una donna che ami, e ti pesa
di più far dieci chilometri per una che non ami. Se tu non potessi
avere giammai la donna che ami, ti uccideresti, senonché il più
delle volte ella è un obiettivo soltanto apparente per quanto
ferocemente efficace, e quando l’incantesimo svanisce, torna
nell’uomo il senno a spegnere il fuoco mortale e posare la pistola.
Ma se tu dovessi andare per sempre a macinar chilometri per andare a
trovare una donna che non amerai mai, ecco che la pistola la ripigli
in mano e la usi: garantito come il giorno segue la notte. Sei dunque
tu stato costretto dalle circostanze a fare centinaia di chilometri
per qualcosa che non ami? Allora, se questo è vero, me ne dispiace.
Ma non è neppure colpa mia! Potrei dirti sono affari tuoi,
come tu dici a me quando ti parlo dei miei problemi e come chiunque
tende a dire a chiunque altro, soprattutto allorché costui sembra lo
voglia far sentir in colpa o pretendere che anche lui presenti lo
stesso problema o percorso di vita o che si debba comportare secondo
gli stessi valori e principi, far le stesse scelte e dare gli stessi
giudizi. Sicuramente la colpa delle tue condizioni qualcuno ce l’ha.
Io che sono un filosofo, se riuscirò a realizzare il mio potenziale
vorrò senz’altro intervenire anche su questi problemi. Ma non puoi
pretendere che io abbia risolto i tuoi, dal momento che
trent’anni fa non ero ancora vivo a porne le condizioni. Dunque
prenditela con chi ha filosofato o governato il mondo prima di me,
che invece renderò migliore la vita dei tuoi figli o dei tuoi
compatrioti, se mi lasci fare quello che so fare. La verità però è
che molte persone millantano di essere volontariamente andate
contro la propria natura, il che sarebbe stata oltretutto la più
grossa delle fesserie, o di essere stati costretti a ciò, quando
invece, se cogliamo correttamente gli elementi della loro
personalità, notiamo che c’è invero un buon ed ampio
accordo tra quest’ultima e la loro vita reale e l’ambito
professionale in cui operano, e la loro infelicità, che pure è
presente, non è così grande ed è dovuta più ad altri fattori che
non ad un radicale contrasto tra Ruolo e Natura. Dall’esterno molte
nostre scelte non sono poi così obbligate, almeno nei nostri paesi,
e ci sono anche molte possibilità di cambiare se uno ne ha la
volontà, le convinzioni, la forza e il coraggio: ma spesso manca
qualcuno di questi fattori. La gente deve essere più onesta con se
stessa e con gli altri. Ma nessuno è accurato nell’analizzare
davvero la storia altrui, misurare il vero livello complessivo di
felicità e infelicità, ogni vantaggio e svantaggio, ogni fatto e
misfatto, ogni virtù e vizio, le esatte condizioni esterne che lo
hanno costretto a determinate scelte o tutto ciò che invece è da
ricondurre alla persona nel bene e nel male. Basta dunque, col
mettersi sul piedistallo e svilire il prossimo, con una perizia
analitica ed una onestà da bar sport, con l’intelligenza e
l’irruenza sgraziata di un tacchino. Se dunque gli uomini comuni
hanno avuto il modo di vivere conformemente al proprio carattere e
sono cresciuti in un sistema nel quale ciò era possibile, in quanto
ché la cosa era lecita, accettata, onorata, condivisa, e comportava
una sufficiente remunerazione e determinati vantaggi sociali e
psichici, allora a titolo personale e per tutta la mia categoria
dichiaro che anche l’uomo eccezionale dovrebbe giovare di questo
diritto, rivendicarlo, e prenderselo con gli interessi qualora gli
sia stato negato.
Ho
dato una squadrata al tema dell’Identità. Per essere qualcuno
devi inserirti in un contesto sociale di cui accetti obiettivi,
valori e regole, e brillare secondo questi, distinguerti in positivo:
questo comporta che riceverai dagli altri onore, beni e servizi, a
seconda del piacere che rappresenti per loro. Se invece tu contesti
obiettivi, valori e regole nel modo in cui la gente sostiene che sia
lecito farlo, sei ancora qualcuno per loro, probabilmente sei
costretto ad infrangere alcuni doveri e ad accumulare alcune mancanze
che la gente più allineata invece non presenta e che ti procurano
qualche svantaggio, critica e risentimento quando sei in mezzo a
loro, ma hai ancora una identità positiva anche per loro, oppure per
altre persone che condividano alcune tue idee e che ti sono meno
direttamente legate sicché le tue negligenze contornali non li
interessano: tu sei dunque per tutte queste persone un ribelle,
anzi uno specifico ribelle, magari il simbolo dell’anti perbenismo,
sebbene, in quanto ribelle, tu abbia certamente dei nemici, per i
quali sei qualcuno in negativo. Ma se tu davvero ti opponi
anche ai principi radicali, è ovvio che non puoi piacere a nessuno,
non puoi essere nessuno in positivo e questo implica che lo sei in
negativo, dovunque ti inserisci, poiché non puoi essere veramente
neutro finché esisti, non puoi essere veramente nessuno,
ma rappresenti in questo caso un fastidio, e necessariamente verrai
scartato, disprezzato, preso a pesci in faccia. Se davvero non ti sta
bene nulla non troverai neanche un paio di mutande da metterti, non
ti daranno nemmeno un bicchier d’acqua, se vuoi bere devi andare al
fiume e attento che un contadino non ti spari contro col sale grosso.
Ma uno a cui non va davvero bene più nulla, si suicida. Chi non lo
fa è ancora indubbiamente legato a molte cose della vita che lo
allettano, e solo deve trovare il modo di ottenerle in un contesto
che egli contesta e che, sino a che è qui, non può far altro che
combattere. Per un uomo che vuole arrivare ad essere se stesso,
ovvero ad essere anche socialmente e dunque per tutti gli altri
quello che potenzialmente già è, entrano qui in gioco la strategia,
il compromesso, il doppio gioco, l’inganno, il trasformismo.
L’essere cioè temporaneamente, o per lo meno l’apparire,
qualcuno che non vorremmo essere in quanto non lo siamo, e trarre
dalla rosa delle proprie carte d’identità i vantaggi necessari a
proiettarsi oltre, verso l’unica Vera. Se tu ti pigli le carte che
ti servono e le usi solo come strumenti, non sei tacciabile di
incoerenza ed ipocrisia, perché la tua è soltanto una furbizia che
il tuo unico vero scopo consente in pieno, purché quest’ultimo
venga infine realizzato. Se non ti senti la coscienza serena facendo
questi compromessi, è segno che non hai un solo scopo, ma vuoi
adempiere a modelli di fatto contrastanti, sicché la tua è una
incoerenza di tipo interno, una battaglia interiore che si fa più
pesante e cruenta allorché nuovi elementi di realtà, nuove
esperienze che si schierano dall’una o l’altra parte, vengono
convogliati nel corpo e nella mente. Questo bellicismo interno è il
primo a dover essere risolto, perché altrimenti ti impedisce di
combattere appunto con coerenza, il che significa semplicemente avere
una sola meta e considerare tutto il resto come un mezzo. Devi in
sostanza chiarificare te stesso, sapere quello che vuoi. Sei invece
tacciabile di incoerenza e ipocrisia nel momento in cui ti pigli a
cuore quelle carte d’identità che cerchi di collezionare nel
portafogli, e ti misuri secondo esse, ti senti sminuito se te ne
manca una, ti incazzi se quest’altra non ti viene convalidata, e ci
tieni ad essere chiamato Dottore. Sembriamo qui aver contrapposto
fattori narcisistici a fattori materiali, e sostenere che i primi
sono appunto legati alla percezione della propria identità, i
secondi a quello che puoi ottenere in sua conseguenza, oppure sono il
mezzo di soddisfazione di esigenze secondarie. La questione sarà
presto chiarita. Il Narcisismo è Vanità. Vanità significa vuoto.
Significa vuoto perché la vanità è ciò noi rappresentiamo per gli
altri, il che il più delle volte non corrisponde a ciò che siamo
veramente, sicché non può portare quei vantaggi materiali che
soddisfano infine i nostri veri bisogni. Se la nostra immagine, in
noi stessi e nella coscienza degli altri, corrispondesse a ciò che
di fatto siamo, noi avremmo in mano la soddisfazione di tutti i
nostri bisogni materiali. Ovvero gli unici bisogni reali, poiché
quelli narcisistici non ne sono che un preventivo calcolato in base
alla percezione della propria immagine, una sorta di garanzia di ciò
che ci aspetterà nel bene e nel male. Il narcisismo è un fantasma o
meglio un demone fatto delle nostre paure, legittime, di
essere defraudati di tutti gli oggetti del bisogno qualora la nostra
immagine crollasse nel disonore, e dalle nostre zuccherine speranze,
quelle succulente previsioni di bella vita e vantaggi materiali che
conseguirebbero invece ad una impennata d’immagine, ad una
trasfigurazione fortemente irrealistica e montata della persona che
siamo veramente, la nostra mitizzazione e sopravvalutazione.
Quest’ultimo è un utilizzo dell’immagine fraudolento e
biasimevole come ogni falsificazione, ed ha conseguenze disastrose
nella misura in cui il falso si espanda e domini. Abbiamo l’Industria
del Falso, lo Yield Management dell’Immagine, che cerca di
sfruttare e favorire ogni lacuna nelle teste delle persone, ogni
opinione sbagliata, ogni ingenuità, ogni pigrizia e conformismo,
ogni stupidità, ogni invidia, ogni paura, ogni situazione, ogni
bisogno, sia questo reale o a sua volta indotto, ogni sentimento, sia
questo preesistente o analogamente costruito o ancor
involontariamente creato da un mondo che non può controllare tutto,
ma cerca di controllare tutto quello che può portargli un vantaggio.
Ma ancora: la procedura di associare la propria immagine a
qualcun'altra che già si è affermata come positiva, ad esempio una
marca di occhiali ancora non famosa alla faccia di Valentino Rossi,
oppure chi si appiglia alle glorie del passato per abbellire la
propria miseria presente, o al contrario si cerca di associare
l’immagine di qualcosa che non amiamo a qualcos’altro che è già
stato riconosciuto socialmente come negativo, portando quindi molta
gente dalla nostra parte, oppure screditare un nostro avversario di
oggi associando la sua immagine a quella negativa di un avversario
passato che di già è stato sconfitto, anche qualora i due non
avessero niente a che fare e non fossero neppure simili. Ma al di là
di tutte queste porcate, esiste un narcisismo sano e giusto: quello
che ambisce ad apparire come realmente siamo. Poiché ciò soltanto
può portare alla soddisfazione dei nostri bisogni. Noi abbiamo di
fatto bisogno di tante cose, e questi vantaggi, che sarebbe invero
illecito chiamare vantaggi in un modello sociale che non è
più competitivo, non stridono con la nostra identità e sono
cose dunque che noi non contestiamo affatto, e non siamo incoerenti
allorché cerchiamo, come possiamo, di impossessarcene. Il fatto
centrale è che questi beni possono essere ottenuti, in un mondo
strutturato in maniera ingiusta, solo da chi ricopre determinati
ruoli, sicché compare la temporanea necessità di apparire, di
rappresentare quello che non siamo per avere quello che ci
spetterebbe di diritto allorché fossimo quello che siamo in un mondo
giusto, in un mondo strutturato bene. Nella storia sono stati creati
infatti dei ruoli con allegati determinati poteri, diritti,
vantaggi che non corrispondono a giustizia. Alla fin dei conti la
nostra ambizione è quella di essere persone soddisfatte, ma nella
globalità di una vita sociale ognuno di noi può essere soddisfatto
solo allorché la struttura sia perfetta. Quando non lo è noi siamo
in balia di molteplici insoddisfazioni. Allora ci accaparriamo quello
che ci manca o infrangendo la legge, oppure diventando ipocriti
agenti del sistema, nelle locazioni che consentono un maggior
benessere.
Un’opinione
maldestra…
Se
tutti ci mettessimo a fare gli intellettuali criticoni, non
mangerebbe nessuno.
È
falso. Perché se tutti ci rifiutassimo all’unisono di sottostare a
regole ingiuste, il potere sarebbe costretto a cambiarle, o
addirittura a cedere lo scettro a chi maggiormente rappresenta il
popolo. Il potere di chi comanda sta nella mente di chi obbedisce.
Una minoranza non può imporsi sulla maggioranza senza il suo
consenso. Quindi, o si ammette che la maggioranza sia di fatto
collusa col potere ed invero soddisfatta della propria vita e
convinta della giustezza delle regole, oppure non resta che
denunciare la negligenza originaria con la quale essa le ha lasciate
svilupparsi negativamente, quando avrebbero potuto essere stroncate
subito, con atti di intelligenza e coraggio. Se il sistema sbaglia e
si è consolidato nei suoi aspetti deteriori: potere a chi non lo
merita, viscosità, conflittualità, disordine, cultura asservita al
mantenimento della situazione anziché al suo superamento critico
(principalmente scuola e università, ma anche tutto ciò che resta)
ed ipertrofica a rendere impossibile lo smaltimento, lo dobbiamo, se
non alla volontaria collusione, ebbene ad una generalizzata pigrizia,
viltà, miopia e stupidità delle masse: e sono infine questi errori
che necessitano il filosofo al suo lungo apprendistato studioso,
analitico, scrittorio e solo alla fine concreto, dacché egli è
stato messo da solo di fronte ad una situazione materiale, sociale e
culturale (ed invero quest’ultima solo gli spetta come
filosofo) talmente intricata e densa, e crescente a vista d’occhio
durante la sua vita, resa tale dalle negligenze di intere
generazioni. Altrimenti, egli sarebbe stato un politico o un
condottiero, o si dedicherebbe ad una nicchia del sistema serenamente
visto che i massimi sistemi sono già sistemati. I soldi con cui lo
studioso chiedesse di essere mantenuto ma invero a miglior diritto
stipendiato: per costruire un futuro serio, sono del resto
un’inezia rispetto ai miliardi con cui la massa lavoratrice
finanzia lo stato e tutti i suoi sprechi e le sue scorrettezze. I
servi interessati del sistema commettono a questo proposito, contro
gli intellettuali ovvero i soli veri nemici del presente e creatori
di futuro, e lo compiono insistentemente e frequentissimamente, un
atto di estrema vigliaccheria rinfacciandogli la loro indipendenza
economica contrapposta a quel classico stato di dipendenza, di fatto
parassitaria quanto a questioni di sussistenza, nel quale gli
intellettuali spesso si trovano. Il nucleo di questa riprovevole
vigliaccata è semplice ed evidente. Loro hanno ereditato (e
non conquistato o costruito) un sistema la cui struttura fondamentale
coincide coi loro limiti, materialmente ed intellettualmente: di
conseguenza possono realizzarsi lavorando ad un suo aspetto
particolare, avendo un riconoscimento sociale e dunque un onore
garantito, una protezione politica, e una remunerazione economica.
Questo perché le basi sono già state impostate e dunque non
stridono con quanto vi viene sopra innestato, allorché tali
uomini possono sentire di vivere in un clima sereno, nel clima della
propria epoca, in mezzo ai propri simili, e quello che fanno viene ad
essere quindi per lo più appagante ed anche liberatorio: esso non
lascia particolari riserve o risentimenti, ed il
residuo di contrarietà ed affaticamento che comunque lo caratterizza
con determinata costanza è dovuto precisamente alla misura in cui
tale sistema, in cui tutti si inseriscono, resta di fatto abbastanza
denso di elementi differenti, in modo da determinare la necessità di
produrre anche cose che non vorremmo produrre od in forme non
piacevoli, solo perché esse appagano gli altri, o di produrne
quantità eccessive rispetto alla nostra volontà, ed il nostro non
sia dunque un mercato perfetto fatto di equilibrio tra domanda ed
offerta, ma necessitato a conciliare un aspetto appagante, per
ogni lavoratore integrato, unito ad un aspetto degenerativo o
usurante, il quale non è uguale per tutti e che dovrebbe appunto
essere ricompensato proporzionalmente da un plusvalore in denaro,
rispetto allo standard di equo benessere, dal momento che metà dello
stipendio dovrà essere usato a scopo terapeutico e solo l’altra
metà a scopo espansivo. In una società di questo tipo,
individualistica ma che si ritrova sociale nella misura in cui
moltissime persone sono di fatto simili e dunque vanno d’accordo
nel lavoro e nello svago, tutti i lavoratori, chi più chi meno,
vedono nella sfera della propria vita una fase realizzativa diretta
che li mantiene felici con la sua costanza, a cui è sovrapposta una
fase altrettanto costante di equilibrio chimico fatta del binomio
degenerazione - rigenerazione. Il risultato è che la maggior
parte della gente è fondamentalmente felice, dovendo però
sopportare un quantitativo di disagio quotidiano che, nelle persone
che raggiungono un maggior reddito, viene ampiamente e prontamente
riparato ben oltre l’essenziale, nei più poveri invece viene
ricomposto a malapena oppure non lo è mai completamente ed anzi vede
una progressiva degenerazione della persona, che si usura giorno per
giorno, anno dopo anno, senza riuscire a rimettersi in sesto se non
compare un riscatto socio-economico che consenta la ripresa del
circolo virtuoso e quindi la crescita del benessere, o per lo meno
blocchi la parabola discendente e la sostituisca con un regime di
mantenimento. Nel sistema individualista dunque, dal momento che
ognuno ha degli obiettivi modesti, tutti possono essere felici con
una certa facilità e senza dover affrontare una vera e propria
guerra ma solo una competizione che tuttavia risulta
abbordabile e non sempre così feroce, che spesso può risolversi in
un accordo, in una spartizione del mercato che è sufficiente per
molti a stare bene e frustra solo i più ambiziosi ed arrivisti
incalliti. Il sistema borghese consente a tutti i membri della classe
borghese l’accesso alla felicità pur non salvaguardando
completamente nessuno dal rischio di affondamento economico inerente
al libero mercato. Se un uomo però non appartiene alla classe
borghese, bensì a quella nobile, egli non si adatta a
questo sistema. Egli ha intrinsecamente degli scopi organizzativi
e dunque non accetta né la competizione né la democrazia: il
rinchiudere la propria vita nelle angustie dell’individualismo
materialistico e di quella finta guerra che si chiama competizione,
il dover accettare un mondo caotico, disarmonico ed incoerente, entro
il quale spicca il dominio di opinioni superficiali, con i
comportamenti dannosi ed impuniti che ne conseguono, rinunciando alla
loro correzione laddove questa sia possibile, ed alla sottrazione di
ogni loro influsso materiale qualora sia invece impossibile, per
ottenere il dominio del vero e la sanificazione del mondo… il
soffocare, dunque, i propri ideali, gli dà una sensazione talmente
mortificante da fargli rigettare il lavoro, che in se stesso è un
bene ed è amato e necessario per chiunque in quanto unico mezzo del
benessere, ma che venendo asservito agli scopi di una classe
inferiore soffoca la propria al punto che la remunerazione economica
e dunque i beni materiali, che assolutamente nessuno disdegna, non
sembra valgano la candela, e i diritti democratici, di cui
anche lui giova, assumono molto di più l’aspetto di doveri
antiaristocratici, di impedimenti e contrarietà di ordine materiale,
sociale e concettuale alla realizzazione ideale di un individuo
intelligente, e dunque favoriscono molto di più i suoi avversari che
non lui. Ogni sua eventuale conquista intellettuale ottenuta con la
ricerca, dovrà comunque rispettare il relativismo, il diritto di
ognuno di continuare ad essere un idiota, un buzzurro, un ignorante,
un egoista e comportarsi di conseguenza: essere quindi utilizzata
solo per una affermazione personalistica ed economica, vale a dire
mercatistica. Fatto sta che in un sistema dominato dal
borghese, gli scopi dei nobili non sono contemplati e dunque non
giovano di riconoscimento sociale, protezione politica e
remunerazione economica. Precisamente questa è la fatale
ingiustizia sociale per la quale egli non può campare del suo
lavoro, che viene ad essere quindi una guerra, la si combatta
direttamente con la lotta armata o ci si trovi ancora in
quell’opprimente fase preliminare in cui si deve conquistare la
propria bandiera e dunque ritrovare se stessi tramite un lavoro di
ricerca intellettuale. Nessuno può apprezzare, riconoscere,
proteggere, e finanziare un’attività sovversiva: che però è
assolutamente vitale e prioritaria per una razza come per un gruppo
sociale che, precedentemente sconfitti, fossero stati decimati e
posti ai margini e magari non fossero stati completamente sterminati
solo per errore o peggio, per sadismo. Un nobile adottato dalla
società borghese è un animale in cattività: può mangiare
comodamente, se lavora, ed egli non è certo incapace di lavorare, né
troppo pigro per farlo, dal momento che ha capacità superiori
e non inferiori al borghese, provenienti dall’intelletto che
implica anche il carattere. Il fatto è che capacità
superiori non possono essere asservite a scopi inferiori.
Precisamente questo gli richiede invece il sistema: di vendere
la sua anima per mantenere il suo corpo in mezzo ad una
organizzazione difforme. Fatto sta che noi siamo anima e
corpo: non possiamo vivere senza entrambe le cose, e non possiamo
essere felici senza la loro sinergia realizzativa. Il nobile viene
quindi posto in un dilemma irrisolvibile, al quale il borghese
dominatore non è invece sottoposto: potendo egli realizzare ad un
tempo il corpo e l’anima. Il borghese non si vende al mercato:
vive nel mercato, egli è una merce, uno specifico
prodotto commerciale, un individualista materialista, ed è felice
nella misura in cui si vende. Non vi è nessuna alienazione nel
lavoro capitalista, per un borghese, e non c’è neppure nel
proletario che ha un’anima ancora inferiore al borghese: la
mortificazione del proletario riguarda il corpo, non l’anima. Dagli
più soldi, dagli condizioni migliori di lavoro, e il proletario
stringe la mano al capitano d’industria. L’elemento narcisistico
che potrebbe far sopravvivere una ostilità, è stato creato
da chi ha distrutto l’ideologia sociale, organicistica, da chi ha
inventato l’Uguaglianza degli uomini a danno di tutti gli uomini
felicemente diversi: per cui nessuno si sentiva più sicuro se, oltre
a se stesso, non aveva anche le capacità degli altri. Il Narcisismo
è un male sociale, una schizofrenia indotta nell’anima di tutti
per distruggere la civiltà. Dal momento che nessun uomo, avente
capacità specifiche, poteva più avere garantita la sua dignità e
la sua sopravvivenza: perché gli era stato detto che tutti devono
essere uguali. Trovandosi egli incapace di essere come gli altri,
di avere le qualità di altri, si è sentito mortalmente minacciato
da chiunque ne avesse di superiori, ed ha reagito come la natura
reagisce in questi casi: scagliandosi ferocemente contro la fonte
della minaccia. Il concetto di Uguaglianza, che provoca schizofrenia
in una mente sana, ossia una guerra tra anime incompatibili,
si traduce concretamente nei conflitti di classe, nell’odio
reciproco tra le classi, impossibilitate ad identificarsi e dunque
determinate a distruggersi per salvare la propria individualità. Ma
queste anime sono incompatibili appunto psicologicamente, non
sociologicamente. Il mondo deve essere uno, come somma ordinata di
molti, ma i singoli non possono invece essere plurimi senza
impazzire, senza disgregarsi con una guerra interiore. Il
mondo è stato distrutto ficcandolo dentro l’uomo, che non può
esserne invece che una singola parte. Concentrato nella sua lotta
interiore, dove tutti gli altri si presentano come nemici, ognuno si
è disinteressato della struttura sociale, ha perduto la percezione
del suo posto ed il fattuale vantaggio di esso, non ha più potuto
lavorare in maniera altrettanto proficua per la società e vedersi
ricambiato da essa: la società si è così scomposta e frammentata,
cadendo in balia di chi volesse governarne gli elementi a suo
piacimento. La furia distruttiva proletaria è stata inoculata e
scatenata dall’egualitarismo che ha implicitamente richiesto
all’operaio di essere quello che non poteva essere: alienato,
questi ha reagito al suo senso di insufficienza abbattendo i simboli
materiali di un’ambizione irrealizzabile, e dunque destinata, se
mantenuta in vigore, a farlo soffrire eternamente. Il borghese, e poi
il nobile, reagiscono allo stesso modo per salvare la possibilità
della propria realizzazione: il dogma egualitario li vuole più
piccoli di quelli che sono, li vuole oppressi in forme di vita più
elementari, retrograde, e la loro anima è mutilata in funzione della
distanza tra la statura morale e le condizioni di vita materiale. Le
donne odiano gli uomini dal giorno in cui gli è stato richiesto
di essere come loro. Gli uomini hanno reagito, ed è nato il
conflitto tra femminismo e maschilismo: dagli effetti devastanti e
lungamente insostenibili. La natura riesce a fare in modo che in un
corpo sociale il livello intellettuale di una classe sia inversamente
proporzionale al numero dei suoi membri naturali. Grazie alla
struttura piramidale essi non combattono tra loro e i meno numerosi
non vengono soverchiati dai gruppi più massicci che non hanno
neppure motivo, se la gerarchia corrisponde effettivamente alla scala
intellettuale, di ribellarsi ai superiori, che sempre agiscono
nell’interesse comune. Ma il dogma egualitario abbatte la difesa
strutturale, la piramide appunto, della società: ecco che il fattore
Merito viene annullato e resta solo il fattore Numero a determinare
la forza. Di conseguenza gli strati inferiori, per il fatto di essere
più numerosi, sono destinati a trionfare, a decimare le classi
superiori ed assumerne le funzioni senza averne potuto assumere le
capacità: questo precisamente demolisce una civiltà e rende i suoi
membri superstiti in balìa della classe intellettuale di un popolo
straniero che volesse servirsene. Dopo una rivoluzione antigerarchica
la civiltà si trova inizialmente ad un punto di stallo, di
inconsistenza che, fossero ancora presenti un numero sufficiente di
nobili e le classi subalterne non fossero state precedentemente
infestate dal virus intellettuale delle idee egualitarie e dunque
plagiati dalla convinzione innaturale e non empirica, non sensibile,
dalla prepotenza di un concetto quindi, che essi possono e devono
assumere qualsiasi ruolo e che non devono accettare nessun capo, ecco
che i nobili potrebbero ancora riprendere facilmente il loro ruolo e
parimenti chiunque, come a ricominciare da capo da una tabula rasa,
si vedrebbe dalla comunità riconosciuti i propri specifici talenti e
la piramide si ricostituirebbe. Per evitare, appunto, questo, gli
istigatori di una rivoluzione hanno calcato la mano con la massima
forza sulla propaganda egualitaria, e fomentato una politica del
terrore che comprendesse il reale sterminio della maggior parte dei
nobili. Nel connubio di questa inferiorità numerica schiacciante e
del popolo alienato nel delirio di onnipotenza, i nobili non potevano
più fare nulla, se non guardare atterriti il naturale sviluppo delle
istituzioni democratiche, leggi, costumi, prassi: fattori che
avrebbero consolidato nel tempo la forza di questo nuovo sistema, che
li avrebbe di fatto lasciati ai margini, privi di spazi riconosciuti,
ed essi in una situazione di semiclandestinità potevano a questo
punto solo cercare di agire intellettualmente per demolire quella
filosofia devastante e restaurare una visione aristocratica e
organicistica del mondo, come unico viatico che avrebbe consentito,
schiarendo e rinnovando la psiche delle prossime generazioni, già
culturalmente e materialmente integrate nel mondo democratico fin
dalla nascita, una nuova rivolta che abbattesse i bastioni materiali
di questo sistema, nel frattempo diventati sempre più imponenti, di
fatto impossibili da stroncare direttamente, senza una preventiva
rivoluzione intellettuale che compensasse quell’altra, analogamente
necessaria al precedente passaggio epocale. Dunque: 1) Per
prima cosa passa un virus intellettuale 2) Questo porta ad una
rivoluzione violenta che abbatte la struttura sociale e ci si ritrova
nel caos, però con una sproporzione estremizzata tra le classi
dovuta alle epurazioni delle classi attaccate e con la classe
rivoluzionaria invasata dal delirio di onnipotenza 3) La
classe materialmente vincitrice della rivoluzione non può evitare di
assumere il potere, ed il suo livello intellettuale determina anche
la forma della civiltà e dunque i suoi limiti, inquantoché si pone
al suo vertice ed allora mutila tutto quello che gli è superiore,
incomprensibile e dunque inutile, a meno che non accetti di
asservirsi ai loro massimi sistemi che non sanno di essere soltanto
medi (società borghese) o addirittura infimi (società comunista o
tribale). Chi troneggia la vita politica troneggia anche quella
economica e decide dove vanno i soldi.
I
finanziamenti vengono dati, banalmente, a chi meglio serve il
sistema: dunque nello stato borghese vengono investiti laddove
promettono di creare il maggiore giro di affari, che però non sono
volti al risanamento, alla pacificazione, all’ordinamento, alla
giustizia, ma alla supremazia individualista. Se tu ti accontenti di
sviluppare un giro di affari minore, ti basteranno meno soldi, ma
sappi che vanno utilizzati nella stessa ottica di fondo (ed in
quest’ultimo caso non è nemmeno possibile fare altrimenti visto
che i soldi sono pochi e li devi usare per te stesso e per i
tuoi cari altrimenti non avresti mai il benessere sufficiente per
sostenere delle cause sociali). Il nobile non ci sta: egli ha rabbia,
vuole cambiare il sistema, però si rende conto di non averne i mezzi
e che questi vanno dunque pazientemente costruiti. Solo che il corpo
può sopravvivere anche tenendo l’anima in un cantuccio: mentre
l’anima si disgrega parallelamente al corpo. È dunque prioritario
vivere: ma economicamente si vive solo grazie al sistema e dunque
servendo il sistema, non osteggiandolo. Se il nobile vuole campare,
deve uccidere l’anima, sebbene questo non sia davvero possibile,
perché anch’essa è necessaria alla prosecuzione della vita
analogamente all’energia del corpo, e si possa quindi solo
opprimerla indefinitamente ed accettare una sua crescita graduale. Il
nobile deve comunque accettare di essere un borghese, ossia
l’impossibilità di essere normale. Se vuole salvare l’anima,
oppure è ansioso di svilupparla rapidamente perché si rende conto
che è grandissima e che se perde vent’anni non gli resterà più
tempo utile, egli è destinato a diventare un barbone… a meno che
qualcuno non lo mantenga. Il problema è che quelli che soli
potrebbero mantenerlo… sono borghesi! Sono la civiltà
inferiore che essi vogliono distruggere. Siete voi disposti a
finanziare la crescita di coloro che vi distruggeranno? Non esiste.
Il Nobile è pertanto costretto a combattere una guerra contro chi in
qualche modo lo sta nutrendo, ed il compromesso è possibile solo in
virtù del fatto che l’incompatibilità non è totale, dal momento
che lui riesce anche a vivere in parte sistemicamente, ed in parte a
ricevere una qualche fiducia e rispetto che comportano anche il
sostegno economico da parte di soggetti che sono sì borghesi e
tarati dai limiti del borghesismo, ma che questi non sono (o non sono
sempre) dei precisi limiti razziali. Il borghese fa parte di una
razza come qualsiasi altro individuo, ma non è in se stesso una
Razza, bensì un Rango. Equipariamo il concetto di razza al concetto
di anima e quindi diciamo che ogni uomo appartenente ad una razza ha
la stessa anima e rappresentiamo l’anima con una linea. Qui
inseriamo il concetto di Rango e diciamo che i ranghi sono i
consecutivi segmenti che coprono quella linea: i proletari ne
capiscono il primo segmento, i borghesi anche il secondo, ma non il
terzo ed ultimo che viene coperto solo dal raggio intellettivo del
nobile, che comprendendo gli altri e facendo parte della stessa linea
animistica ha interesse a governarli per il loro bene e non sarà mai
loro ostile a meno che qualcuno non inserisca una perturbazione
sociale che minacci questa gerarchia. Ci sono borghesi di razza buona
come proletari di razza buona e ci sono anche nobili di razza cattiva
che invero dovrebbero fare parte di un altro popolo e che sono altra
cosa rispetto alle due figure suddette, perché quei due sono
tollerabili ed in fondo amici in una società strutturata bene,
mentre i vertici di razze aliene sono nemici mortali. Se parliamo di
omogeneità razziale, ma di struttura sociale corrotta, possiamo
vedere che il motivo dell’incomprensione, dell’ostilità,
dell’inaccettazione che il nobile riceve nella società borghese è
spesso da ascrivere ad una struttura sociale di fatto impostata e
vigente ed ogni giorno nutrita dalla forza d’inerzia e dalla
propaganda culturale, dalla quale la borghesia non ha le armi per
distaccarsi e per superarne i limiti: però potenzialmente può
accogliere anche l’ipotesi di una direzione politica più elevata,
e non è vero che il borghese non comprende per niente il nobile o lo
considera un nemico. La rivoluzione borghese non l’ha fatta
propriamente la borghesia perché non era una lotta razziale, e
dunque i borghesi non odiavano i nobili: fu una rivoluzione fomentata
dall’esterno per scopi esterni, adescata da ideologie perverse ed
ingannevoli. Ma la società borghese ha dei limiti che vengono pagati
anche dai borghesi stessi, fattualmente incapaci di risolvere
determinati problemi, con la loro mentalità ristretta, e che
vorrebbero vedere ben risolti da qualcuno che dimostrasse
all’improvviso di esserne capace, innanzitutto perché li comprende
e poi perché ha il coraggio di combatterli. Anche il rifiuto, da
parte delle classi borghesi e proletarie, di un ritorno ai vertici
dell’aristocrazia nobiliare è da ricondurre molto più a fattori
propagandistici, al plagio delle coscienze operato dai veri signori
del sistema: gli stessi che guarda caso pilotarono le rispettive
rivoluzioni, che non invece da un’ostilità naturale verso i
nobili. È stato loro fatto un lavaggio del cervello costante: col
concetto che i nobili sono malvagi, quando è vero il contrario, ed
anzi tutti loro ne avrebbero estremo bisogno perché senza questi
personaggi la società non può risanare delle piaghe fondamentali e
che coinvolgono tutti. Il fenomeno di corruzione spirituale a cui ho
accennato, se non lo si comprende chiaramente come tale, e nella sua
genesi e possibile soluzione, può portare all’eccesso di
considerare il borghese e il proletario delle Razze, e dunque dei
nemici per l’uomo nobile, entrambi da distruggere in quanto
incompatibili. Certo non è così. Essi sono incompatibili solo sino
a che la gerarchia sociale è fattualmente invertita ed i rapporti di
forza materiali e culturali non consentono una sovversione. Certo
ogni guerra ha le sue vittime: e se è necessario uccidere un grande
numero di borghesi e proletari per riportare al vertice la nobiltà,
sarà fatto e senza tanti scrupoli, anche per sana vendetta e non
solo per la necessità della causa. Ma quando la guerra sarà vinta,
non ci sarà bisogno di sterminare i superstiti avversari, poiché
essi non sono nemici intrinseci, ossia nemici di razza, e sono invece
elementi assimilabili nel nuovo sistema, seppure adesso nella debita
posizione subalterna, sotto il nostro comando politico, culturale ed
economico, e che possono dunque giovare a quest’ultimo come
elementi invero necessari e che altrimenti andrebbero sostituiti, ed
essere dal sistema serviti e felicitati più di quanto non lo
potessero essere prima, non rendendosi conto dei limiti che avevano e
che c’erano allora problemi di fatto irrisolvibili volendo
mantenere al vertice politico quella classe sociale. Una
considerazione importante trova adesso il suo spazio. Ossia che Il
Borghese Integrato, si tratti di un imprenditore, di un politico, di
un avvocato, di un giurista, di un magistrato, di un poliziotto, di
un medico, di un insegnante, di un giornalista, di un ricercatore,
qualsiasi borghese integrato conosce le magagne del suo sistema
molto meglio dell’intellettuale controcorrente. Per la semplice
ragione che egli le ha viste dall’interno, e con maggior dovizia di
particolari, anzi vi ha partecipato attivamente con le sue scelte,
mentre l’intellettuale è per lo più costretto a ipotizzarle e poi
dedurle sulla base degli esiti finali di cui è stato
effettivamente testimone coinvolto, ma non avendo voluto integrarsi
per principio gli sono mancate le fonti dirette: accessibili solo a
chi accetti di essere coinvolto e alla fin fine di sporcarsi le mani
a sua volta, cosa che affranca lui da eventuali contraccuse di
collusione, e garantisce invece nell’opportunista, anche
colui che non fosse pienamente d’accordo e magari non avrebbe preso
lui per primo una decisione di vertice tanto bieca, una disposizione
piuttosto ferrea all’omertà e una fidelizzazione al mal partito,
dal momento che non potrebbe uscirne completamente pulito. Dunque, il
filosofo si è fatto uno schema concettuale assolutamente coerente
nella sua logica schiacciante: ma non è mai stato in prima persona
nelle segrete stanze, non ha ascoltato certe
conversazioni, non ha visionato i documenti firmati,
non ha partecipato a certe operazioni, ed ha pochissime
informazioni personali sui soggetti coinvolti. In sostanza
egli detiene una caterva di prove razionali ma quasi nessuna prova
concreta. D’altro canto egli non è un detective, un inquirente,
una spia, un avvocato e quant’altre figure possano ottenere dati
più precisi. Quando un borghese integrato legge le critiche
generaliste di un filosofo antiborghese, è naturale che abbia una
reazione duplice. Il primo lato della reazione comprende
considerazioni di questo tipo: 1) questo tizio sembra
sapere molte più cose di quelle che è plausibilmente in grado di
sapere 2) egli non si rende conto di fino a che punto e
con quale vastità di sottofenomeni queste cose siano diabolicamente
vere 3) egli fa il passo più lungo della gamba perché
probabilmente si sente pressato ma se lo lasciassero tranquillo
attraverserebbe tutta la prateria con comodo 4) egli si
dirà che ci è andato giù pesante ma in realtà ci è andato
leggero 5) si dirà che fa delle affermazioni e delle
accuse inaccettabili ed è bene definirle tali perché se andassimo a
verificarne empiricamente la fondatezza ce la faremmo tutti quanti in
mano. La seconda metà della reazione comprende invece consimili
considerazioni: 6) Essendo un filosofo, costui
afferma ed argomenta in maniera astratta e dunque generica: il
pericolo di codesti attacchi è che colpiscono tutti, la loro
debolezza tuttavia, è che non colpiscono nessuno. Egli ci ha
smascherati tutti con la forza della sua logica ma non può di fatto
incastrare nessuno perché non ha le conoscenze specifiche: tantomeno
delle prove in mano, e qualora gli venissero richieste lui si
troverebbe in imbarazzo come ci siamo sentiti noi leggendo questa
roba. 7) Si tratta di un libro di livello piuttosto
elevato e quindi scarsamente fruibile 8) Non glielo
pubblicherà nessuno perché oltre che poco commerciale è anche di
un estremismo improponibile 9) è un individuo singolo
e probabilmente pieno di problemi: è molto vulnerabile e se vogliono
stroncarlo, lo spazzano via in tre minuti.
In
ogni caso se anche non fosse lui a portare delle prove empiriche, le
sue tesi si trovano in una botte di ferro perché, ammesso che siano
dedotte correttamente da una serie di dati empirici esatti, sono
necessariamente vere, ed è allora sempre possibile, da chi se ne
interessasse, andare a reperire codeste prove e poter formulare
finalmente anche delle accuse personali, senza contare che già
diverse persone ne sono sicuramente a conoscenza in quanto implicate
e leggendo quel testo generalista si sono prontamente sentiti
chiamati in causa e preoccupati, magari non direttamente dal suo
autore, persona dai mezzi sicuramente limitati, ma da quante persone
siano invece vicine a loro nella storia precisamente come vittime
e possano quindi unire le loro informazioni specifiche a quel
tremendo quadro generale contenuto nell’opera, che rende assai
meglio interpretabili alcuni fenomeni di nicchia, sottovalutati
nell’ignoranza delle loro interconnessioni e dell’unità della
radice, ordunque nell’effettiva pericolosità. Si sarebbe allora
costretti, moltissime persone sarebbero costrette, ad
eliminare queste prove: senza tuttavia poter eliminare
definitivamente le prove dell’eliminazione, la quale poi costituirà
una prova di colpevolezza munita di un’aggravante. Ogni evento ha
ulteriori conseguenze, e se si tratta di un evento ingiusto avrà
delle conseguenze negative che ricadranno sulle spalle di altre
persone: chi indagasse su ciò che venisse testimoniato e magari
denunciato da codeste persone, troverebbe l’imbroglio, osserverebbe
poi come vi debba essere dell’altro dietro, e consentendo ciò di
proseguire l’indagine fino a che ogni nodo divenga al pettine ed
infine l’originario malfattore non si trovi con le spalle al muro
con una espressione sul volto che dice soltanto COLPEVOLE, e che non
si cancellerà ormai nemmeno se questo tizio si spara in bocca. È
dunque assolutamente fondamentale che questo dannato testo non
venga alla luce. Se viene alla luce, nulla varrà neppure
perseguitare, diffamare, condannare, linciare o anche giustiziare il
suo autore. Anzi, ciò sarà controproducente per l’evidenza del
movente e lo trasformerà in un martire. Quello che è difficile da
dimostrare in quanto, pur avendo una connessione logica con un evento
accertato, non si hanno i mezzi personali per verificare
empiricamente, è anche più difficile da smentire dalla parte
avversa tramite delle prove empiriche che dovrebbero essere
necessariamente falsate, e la cui falsità, non solo stride
logicamente con verità evidenti e dunque rende assurda la sua
testimonianza, ma può essere contestata direttamente da altri
testimoni oculari. Questi testimoni andrebbero dunque circuiti,
plagiati, comprati, ricattati o eliminati: sicché la cosa si
complicherebbe in maniera eccessiva e troppo rischiosa. Ragion per
cui, verso chi sostenesse delle tesi generaliste di così alto
livello, la difficoltà di trovare obbiezioni logiche non verrebbe
aggirata da un risoluto utilizzo di obbiezioni empiriche: si sarebbe
infatti costretti a mentire, con i rischi suddetti, e la
temporanea impossibilità dell’avversario di contestare
empiricamente la tua affermazione, anche chiaramente ammessa, non
sarebbe sufficiente ad attestarne la verità, mettendola al sicuro da
ogni contro indagine fattuale. In definitiva ai destinatari di
codesti attacchi ideologici si conviene il Silenzio: ed il silenzio è
un fatto difficilmente contestabile.
L’unica
istanza indipendente dalla filosofia di un regime deve essere la
Ricerca.
Poiché
tale ricerca è richiesta dal sistema stesso per essere migliorato, e
di conseguenza non può che contestarne alcune parti. Se un sistema
fattualmente fallimentare si crede perfetto e non concede nemmeno il
diritto alla ricerca, che è per definizione stessa finalizzata al
cambiamento ed alla riforma, tale diritto va preso con la forza, ed è
la prima legittima rivoluzione. Chi la dichiara legittima, se
il sistema stesso la esclude? A farlo è la natura stessa che volge
all’organizzazione. Le forze organizzative, che pulsano negli
individui maggiormente dotati di intelletto, sono quel bene
originario che ora ha preso corpo in loro e grazie a loro può adesso
affermarsi, allargarsi a sempre più ampie fasce del sistema, o
meglio a quell’insana amalgama che deve diventare sistema
per essere felice e giusta. Tutto ciò che è sotto lo Stato deve
essere coerente con le direttive statali. Ma lo Stato stesso è sotto
la Ricerca, ed è vincolato ad assecondarne il progresso. Lo stato è
il garante di un equilibrio temporaneo, ossia è garante della sua
propria forma. La ricerca è il garante di un equilibrio stabile,
quello che si realizzerà attraverso la serie di equilibri imperfetti
e dunque temporanei, le Forme di Stato, ottenute tramite i Passaggi
di Stato, ossia le rivoluzioni. I due massimi alleati sono dunque Lo
Stato e la Ricerca: la seconda consente di andare avanti, il primo di
non tornare indietro. Il primo feconda, la seconda genera. Se
definita in quest’ottica, la democrazia è stata dichiarata un
sistema imperfetto in maniera inesatta, poiché essa non è un
sistema coerente, bensì uno stato semi gassoso, espressione di una
crisi ideologica generale, spesso conseguente ad un conflitto
bellico, che vede l’incapacità immediata, in coloro che restano in
piedi dopo il crollo di un regime, di passare da una forma di governo
all’altra, ossia da una dittatura che crolla ad una dittatura nuova
di colore diverso, e allora si sopravvive con forme parziali di
organizzazione, caratterizzate da una regolamentazione meno rigida e
dunque ampie libertà per i singoli, tuttavia sotto il controllo di
certi principi fondamentali e vincolanti per tutti. Questa analogia
con la fisica non è casuale: lo stato maggiormente disorganizzato e
caotico è quello gassoso, che nel mondo sociale è l’Anarchia,
quando invece le forze organizzatrici attraverso condensazioni e
solidificazioni giungono alla struttura cristallina che vuol infine
raggiungere lo Zero Assoluto, la fine del moto, la morte termica
dell’Universo. Una vera Democrazia, essendo instabile, è lo stato
governativo che deve maggiormente difendere e promuovere la Ricerca,
perché risente ancora di una grande incoerenza strutturale cui porre
rimedio. La Democrazia converge naturalmente alla Dittatura poiché
la seconda rappresenta uno stadio di organizzazione maggiore: eppure
la teme poiché rischia di essere uguale a quelle passate che hanno,
o si dice che abbiano, generato disastri. La democrazia teme dunque
che dal suo calderone sublimino e si pongano a principi regolatori e
dominanti gli stessi elementi che già abbiano sbagliato una volta.
La democrazia è dunque uno stato infelice ma prudente, che in
mancanza di valide idee nuove che abbiano un aspetto rassicurante
preferisce mantenere la propria incoerenza, crogiolandosi in essa, la
propria litigiosità tollerante e irresoluta, compromissoria,
contenuta, falsa, e difende se stessa con mille inviti e lusinghe nei
confronti del pluralismo e delle forze in equilibrio instabile il
quale deve impedire che una sola forza prevalga, poiché potrebbe
essere quella sbagliata. Il passato ha fallito per il semplice fatto
di essere passato e pertanto è giusto un principio che neghi il
ripresentarsi di un regime identico a uno di quelli passati.
Ma un ordinamento costituzionale che vieta il passaggio dalla
Democrazia ad una nuova Dittatura, o la possibilità di produrre un
principio che invalidi quelli già espressi, è invece contro
evoluzionistico e va pertanto espunto del relativo articolo. Lo Stato
attuale, fattualmente sottostante all’autorità della Ricerca, non
può porre valori esclusi a quest’ultima. La Ricerca è infatti al
disopra dello Stato ed è nata per farlo evolvere: altrimenti è
completamente inutile. Ed ogni diritto o sostegno statale alla
Ricerca diviene puramente formale ed ipocrita.
La
Gabbia
Arginiamo
il corso della storia! Noi dobbiamo sacrificare il futuro al
presente! Vituperare, infettare, fiaccare e stroncare il prima
possibile qualsiasi cosa odori di cambiamento e ne proietti le
potenzialità! Tutti gli obiettivi elevati vanno sacrificati
sull’altare di obiettivi indegni servi del presente! La bassezza
del presente va conservata ad ogni costo, in ogni sua locazione: solo
in questo modo il sistema non rischierà di evolvere, e noi potremo
sopravvivere in questo terriccio dove coviamo nuovi progetti di
distruzione! Oh sì il mondo deve regredire! Degenerare sino al non
ritorno! A questo scopo, le poche stille di virtù che ancor si
difendono devono trovarsi in condizioni sempre più proibitive. La
sofferenza e la fatica li soffocheranno: e saranno innocui! Poniamo
ogni elemento innovativo che riesce a farsi strada in mano alla
massa, sottoposto al suo giudizio ed alla sua amministrazione, che
essa lo sottragga di fatto dalle mani del suo pericoloso inventore ed
impari ad usarlo per suoi scopi auto conservativi! Massifichiamo ogni
cosa, apriamo i bacini di risonanza, coinvolgiamo la gente,
stronchiamo l’eletto, condanniamo come abietta presunzione la sua
richiesta di stare su un piedistallo con i diritti conseguenti.
Dacché la Cultura poggia sul privilegio, che ogni privilegio sia
delitto! Copriamo di vergogna il sol pensiero di essere qualcosa
di superiore, osteggiamolo, confondiamolo, indottriniamolo,
facciamolo dubitare di se stesso, rendiamolo nemico a se stesso, un
criminale, incolpiamolo della sua virtù e facciamola andare a male,
che lui per primo la percepisca come qualcosa di marcio da espellere,
poniamo l’obbligo all’eletto dalla natura di farsi valutare ed
eleggere dalla commissione dei mediocri per ottenere l’abilitazione
a seguir la sua stella: ed è ovvio che non gli daremo mai il nulla
osta, né tantomeno il nostro appoggio, per quella che diverrebbe
inevitabilmente un’attività eversiva! Instauriamo il reato di
apologia della diversità per fermare gli unici che sono
davvero diversi dall’essere se stessi e dal pretendere la
postazione apicale che gli spetta come direttori generali d’una
rifondazione sistemica! Diciamo che essere diversi è un peccato
dettato dal libero arbitrio o dalla miseria interiore. Il
Principio Primo è che tutti hanno il diritto di essere
diversi purché siano uguali. Questa è l’unica politica
morale ed accettabile, dall’intento fossilizzatore eppure
presentata come la più moderna ed evoluta in assoluto, la migliore
possibile, una forma eterna da non mettere in discussione! Tale è la
cosiddetta Diversità Egualitaria, quella che ingloba la fattuale ed
inevitabile diversità naturale sottraendole la sua conseguenza
ossia la gerarchizzazione della società, e la asserva al suo
progetto di conservazione del presente quale habitat naturale dove la
nostra specie mediocre sopravvive al meglio e prolifica! Manteniamo
dunque in vita questa maschera della tolleranza, di cui abbiamo
bisogno per conservare il nostro dominio, facciamo finta di non
essere ostili a nessuno anche se opprimiamo persone fino al desiderio
di morte, facciamo passare il concetto che tutti possono essere
felici nel nostro calderone indifferenziato, sottolineo Pacifico e
Libero, dove regna una tenera armonia gioiosa, purché non ne
mettano in discussione le basi. Poniamo in vigore la diversità
non belligerante e non gerarchica e dunque solo formale e non
fattuale, perché in essa il vulgus conserva il suo predominio
sociale! Se la diversità naturale fa sentire la sua voce ascendente,
abbiamo le nostre contromisure. Se il conflitto è inevitabile
dobbiamo fare in modo che esso rimanga il più possibile in
equilibrio. Poniamo dunque subito un contraltare ad una forza che
erompe minacciando di crescere troppo, se una non basta creiamo una
compagine. In generale favoriamo la moltiplicazione delle
culture. Di modo che tutto sarà confuso ed indistinto, e l’uomo
si perda nell’oceano dei mille colori, che ci voglia una vita a
studiare tutto, che sia molto impegnativo anche solo pianificare
quello che si vorrebbe studiare, o capire quello che è davvero
necessario ai propri scopi, oscurati appunto dall’ignoranza dei
mezzi, dalla loro caotica molteplicità, che sia un’impresa
impossibile ascoltare tutti e sia difficile prendere una
decisione, ma soprattutto prenderla con una netta cognizione di
causa e con la sicurezza di non aver trascurato nulla di importante:
sicché anche le decisioni prese non possiedano quella
fermezza e determinazione che tanto giovano alla battaglia, che
dunque un proposito non divenga una Fede per cui si è pronti a
uccidere e morire. Che la consapevolezza dei propri limiti favorisca
invece, nelle persone, una maggiore umiltà e l’abbassamento
degli obiettivi, un generale spirito relativista, scettico,
modesto, prudente, particolarista, piccolo egoista, tollerante,
democratico e dunque non-ideologico, rassegnato circa la possibilità
di grandi cambiamenti. Che l’uomo moderno sia ignaro del fatto che
tale situazione abbia una genesi storica e non rappresenti
affatto una legge della vita: che L’attuale stato della società
limita l’essere umano nei suoi orizzonti intellettuali e materiali.
Che molti prendano dunque una decisione per stanchezza, per
necessità, per ignoranza, per umoralità, per opportunità, per
gioco, per caso, per bisogno di appartenenza, ma senza vera
convinzione e determinazione. Che molti rinuncino alla sola idea di
trovare un ideale rivoluzionario e giusto e si appaghino di un
estetico, occasionale contatto con qualcosa di adesso gradevole, che
suoni confortante od appaia addirittura sanificante: senza però una
garanzia di sicurezza ed immersi nel dubbio su quant’altro di
meglio si sarebbe potuto trovare in questo guazzabuglio di tutto e di
niente. Che tante persone si richiudano in un individualismo di
sopravvivenza adattiva, serpeggiante, astuta, nichilista, dominata
dal precario, dalla confusione etica e concettuale, dall’etica
fai-da-te, dal siamo-tutti-filosofi, dall’idealismo occasionale, da
quello settorializzato, troncato nelle sue possibilità di espansione
o radicalizzazione, vanificato invero dalla mancanza di un
coordinamento centrale dei singoli apparati con le rispettive linee
di azione benefica e destinato quindi, al massimo, ad ottenere
progressi temporanei come tutto ciò che è parziale, assente una
weltanschauung che dia forza di significato e coesione al
tutto, quella visione del mondo che possa generare una Fede. Che
sopravvivano un idealismo filtrato e selezionato alle reti
dell’egoismo, quello nato dai condizionamenti esterni e dagli
inganni, quello riconducibile a qualche esigenza psicologica, quello
impedito dalla stupidità, quello necessario a potersi guardare
meglio allo specchio, a sviare il maggior numero di disprezzi i cui
vetri sono onnisparsi e non ben prevedibili nell’inquieto e
promiscuo calderone sociale. Che sopravviva il pensiero
non-sistematico in un mondo che sistematico non è, divenuto
talmente complesso e contraddittorio da rendere quasi impossibile
trovare punti di riferimento stabili e credibili, un mondo così
fitto di necessità contingenti da non consentire la contemplatività
e quelle lunghe riflessioni capaci di cucire gli stralci delle nostre
conoscenze in un sistema coerente, una veste su misura pronta per
essere indossata come divisa di una missione. Un mondo che non ti
lascia il tempo di inquadrare il piccolo nel grande, di confrontare i
fenomeni, anzi di approfondire del tutto anche un solo
argomento, tanto sono diventati ipertrofici anche i minori. Un mondo
che produce molta più cultura di quanto non sia il tempo per
studiarla, utilizzandola quindi per promuovere un cambiamento reale
quale sarebbe lo scopo di ogni vera cultura. La vita dell’uomo
scampa così tra un dovere poco sentito, legato quasi solo alla
necessità di campare e di non perdere la faccia, tutto al più
all’amore per alcuni congiunti: con un senso di responsabilità
miope e devitalizzato dalla perdita dell’idealità societaria, dal
senso di appartenenza ad un corpo unico movente verso un'unica meta,
e piccole anse di piacere agguantato nel mare dell’offerta mosso
dai venti del marketing, nei suoi milioni di soffi e contro-soffi,
nei suoi assalti ad ogni spazio disponibile in un mondo
in cui niente sa più quale sia il suo spazio e ne detenga il
diritto esclusivo e la precisa responsabilità sociale legata
al ruolo e dunque al dovere: anse di piacere che sono anch’esse
miopi e scarsamente responsabilizzate verso se stessi, perché prive
di un disegno generale ed affidabile, di un programma complessivo di
risanamento che deve conciliarsi con quello operato nella vita
lavorativa. Tale stile di vita in cui siamo immersi ci priva di fatto
della possibilità psichica, conseguente a quella fisica, di operare
progetti a lungo termine, e ci costringe invece nel piccolo, nella
selettività che stride con le ansie di coordinamento, precludendo ad
ognuno la possibilità di pensare in grande, condizione
necessaria per arrivare ad agire in grande, promuovere
dunque quel grande cambiamento che urge ad un mondo così
drammaticamente e generalmente contaminato. Questa frammentazione
generalizzata determinerà la fattuale debolezza di ogni movimento,
genererà tante discussioni e confronti che dissiperanno
consapevolezze ed energie e le piccole faziosità e tafferugli
distoglieranno tutti dal problema centrale, dalla lotta contro il
potere costituito. Se anche le speranze di alcuni gruppi si
mantengono vive in questo senso, comunque tutti si terranno a freno a
vicenda e nessuno conquisterà i mezzi per giungere al dominio:
probabilmente nessuno tenterà neppure un’azione eversiva, molto
vicina all’Utopia, indicata e sentita come anacronistica. Ma
il concetto di rivoluzione sarà anacronistico solo quando il tempo
sarà finito, poiché esso è, nella sua essenza, un processo di
rivoluzione, interrotto soltanto dalla realizzazione definitiva e
ultima della Giustizia. Lo stato attuale delle cose è stato posto
dai signori del sistema come la Giustizia. Ecco perché il concetto
di rivoluzione è anacronistico. Vogliono rendere impossibile
quello che è solamente, oramai, difficilissimo. Che facciamo noi
astuti signori del sistema? Conferiamo a tutte le culture uguale
dignità e pari diritti cosicché assumeranno pressappoco tutte lo
stesso quantitativo di energie, concediamo ad ognuno un libero spazio
di espressione e sfogo che giova al concetto di Cultura che più ci
aggrada, quella Estetica che traferisca le energie creative e le
pulsioni nel regno dell’Apparenza, dopodiché tutti ritornino nei
ranghi, sicché nella loro pace insincera o nella loro guerra
equilibrata sopravvivremo. Noi mettiamo tutti contro tutti affinché
nessuno riesca ad emergere, e tutti affondino sotto il giogo del
nostro silente inganno. Affinché una vera Cultura non sia
accessibile, la fortezza della Controcultura deve essere sempre più
impenetrabile: ponderosa, spessa, granulosa, viscosa, viscida,
sgradevole, stantia, senescente, ammuffita, giallognola,
scoraggiante, sfiancante, dispersiva, fuorviante, oscurante,
frustrante, umiliante, deprimente, mortificante, in ogni possibile
modo dissuasoria, una membrana citoplasmatica che converga
all’ermeticità, con un salvacondotto per gli elementi già affini
o agevolmente assimilati in sede superficiale. Annettiamo a questo
fardello il contraltare di una vastissima cultura di intrattenimento
fatta di copertine variopinte e molto accattivanti per storie
fantasy, storie dell’orrore, storie erotiche, storie thriller,
gialli, romanzi storici e complottistici, lasciamo spazio a
testimonianze di sopravvissuti ad eventi scottanti, rivelazioni di
infiltrati e notizie trapelate da qualche falla, nuovi documenti
saltati a galla da chissà dove e chissà perché e chissà perché
proprio adesso, ponderose opere di saggistica che possono dire molto
ma non diranno mai tutto e soprattutto non diranno quello che non può
essere detto, e del resto nessuno avrà il tempo di leggere questa
mastodontica produzione in modo da correlare gli argomenti, e allora
si appassionerà solo ad uno di essi come se davvero potesse essere
risolto nella sua singolarità, sempre che si tratti di un lettore
idealista che un giorno si trasformerà in attivista, oppure lo
troverà semplicemente interessante, ne leggerà venti pagine
tutte le sere e ne parlerà con gli amici nel tempo libero, in
alternativa a quelli che scelgono sempre i piaceri maggiormente
fruibili dello schermo cinematografico o televisivo, della lettura
faceta o frivola di una rivista, della semplificazione faziosa di un
quotidiano, dei giochi da bar, oppure si scaricano e ricaricano nel
dilettantismo sportivo, nello yoga, in pratiche meditative
intellettualoidi, nei viaggi, nel modellismo, nel collezionismo,
nella piccola creatività, in mille varietà di passatempi più o
meno sani, più o meno sedentari, più o meno competitivi, più o
meno fisici od intellettuali. Non possiamo certo dire che manchi la
scelta! Che il sistema non ti consenta sempre un modo per tenerti
impegnato. Forse però possiamo dire che nessuna strada ti dà
qualche certezza di condurre ad una soluzione. Ma noi non vogliamo
che qualcuno trovi, che nemmeno la intuisca, una soluzione!
Aggiungiamo dunque alla nostra fortezza, anno dopo anno, nuovi
strati di libri, monopolizziamo il mercato della cultura, che
nella sua libertà economica unita alla nostra supervisione mette un
secondo caos a manforte del primo: appropriamoci dunque di tutti i
suoi centri e di tutti i suoi spazi. Rendiamo sempre più lungo e
macchinoso il processo scolastico: disseminiamolo di tempi morti, di
attività inutili e stancanti, mortificanti una sana e produttiva
giovinezza, sovraccarichiamoli di lavoro innaturale, svalutiamo il
concetto di personalità. Che essa non venga coltivata! Siamo
dunque scettici e trascurati verso le sue richieste, brutali nel
calpestarle, subdoli nell’ingannarle, miserabili nel giustificare
questo crimine, sottoponiamola a livellamento, scoraggiamola,
critichiamola, provochiamola in maniera controproducente, poniamole
condizioni fasulle, falsi doveri, la necessità fraudolenta o stupida
di determinati passaggi e forme di espressione ed azione,
riassimiliamola al sistema, provochiamole mille complessi e pensieri
perniciosi, facciamo in modo che debba fare i salti mortali per
capire se stessa e farsi strada nell’intrico di menzogne di cui la
investiamo e circondiamo, di tutti gli stridenti fattori contrari che
si ritroverà sul cammino, facciamo in modo che non sappia con
certezza dove stiano le colpe e spesso le attribuisca a se stessa,
che la conquista di ogni piccola verità sia il più faticosa
possibile, che debba conquistarsi duramente ogni diritto e serenità
di coscienza, ogni visione realistica del mondo esterno, difendersi
strenuamente da ogni sorta di accusa e riabilitare autostima ed
onore, facciamo leva sulle sue debolezze contingenti di cui siamo
responsabili per umiliarla, pretendiamo che agisca anzitempo in
maniera distruttiva e fallimentare, pretendiamo che abbia già
dimostrato e realizzato quello che è solamente potenziale ed a cui
noi dovremmo dare gli strumenti ed il tempo di realizzazione,
colpevolizziamola, punzecchiamola, diamole interpretazioni distorte,
neghiamola, confondiamola, portiamola fuoristrada, accusiamo le
nostre vittime di vittimismo, poniamo i loro aneliti di giustizia
come ingiustizie, i loro attacchi al crimine come crimini, ogni animo
nobile come mostruoso e vergognoso al pari dei suoi intenti, ogni sua
idea come falsa, deprechiamo ogni sua reazione anche se è
sacrosanta, e la sua intelligenza sia stupidità, la sua forza
debolezza, il suo coraggio viltà, la sua frustrazione follia.
Diciamo ai ragazzi che sono il futuro e togliamo loro i mezzi
per conquistarlo. Perché il mezzo imprescindibile della
costruzione di un futuro è un preciso e precoce riconoscimento di
ogni singola Personalità unito ad un investimento su di essa da
parte del sistema attraverso un percorso educativo coerente con le
sue necessità intrinseche di sviluppo e con misure davvero rivolte a
rimuovere gli ostacoli contingenti di natura familiare,
socioeconomica, fisica o psichica legati per ogni soggetto al
contesto in cui è nato ed in quelli in cui malauguratamente dovesse
trovarsi durante il percorso. Illudiamo i nostri giovani di fare
Cultura. Che non capiscano che la cultura che noi promuoviamo non è
niente altro che la passiva masticazione del passato allo scopo di
magnificare la perfezione del presente, rimpinzare le sue file ed
insinuare l’odio per il cambiamento o la rinuncia ad esso.
Sterilizziamo gli anni ufficialmente dedicati allo studio affinché
non si esaltino nello studente entusiasmi inopportuni tramite
luminosi squarci nel velo della realtà e precoci conquiste, fervori
troppo intensi e fiducia nella realizzabilità di insoliti progetti.
Diamo il colpo di grazia ai loro romantici aneliti con la cruda
necessità, seguente quei giovani anni sprecati, di inserirsi nel
sistema rispettandone valori e regole al fine di poter campare.
Rendiamo necessario lo studio dei nuovi figli spirituali della
cultura ostruzionista a chi voglia diventare un uomo Colto, ed
assumere un ruolo culturale, che nel sistema Proteggente il Presente
da ogni assalto si riduce a quello di cane da guardia e agente
incaricato dello sbarramento degli spiriti promettenti. Quelli che,
lasciati liberi, potrebbero raggiungere la verità.
Chi sono dunque
le vittime di tutto questo? I ragazzi, i giovani che poi vanno a far
casino per le strade lamentando che non hanno più un futuro e
sperano che conti qualcosa.
Quello che non
capiscono, è che se il futuro non glielo hanno costruito le
generazioni precedenti, invero miopi ed egoiste, non resta altra via
che costruirselo da soli. Questo significa farsi un mazzo tanto, ma
non nei percorsi del sistema, dichiarato corrotto e fallimentare, ma
in un progetto personale, come lo è quello filosofico che avete tra
le mani. Investire dunque su se stessi per agguantare quelle
conoscenze necessarie a trovare dei nuovi modelli che sia possibile
opporre a quelli presenti e passati. Sta
proprio qui il punto. Non si vince
se non si hanno valide alternative. Le alternative però bisogna
farsele perché nessuno ce le ha pronte. Noi dobbiamo acquisire con
mezzi propri quello che ci sarebbe spettato di diritto fin
dall’inizio e non ci fu dato, dobbiamo trovare le conoscenze e poi
sancire le regole di un sistema nuovo, in qualche modo puntellandoci
a quello vecchio ed in generale sopravvivendo e vivendo al suo
interno come possiamo perché, se non è possibile rinchiuderci in
una torre d’avorio, disponendo di tutto ciò che ci serve fino a
quando non avremo concluso il lavoro e forgiato le nostre armi,
questo non significa nemmeno che dobbiamo privarci d’ogni furbizia
e restare dove moriremmo soffocati senza poter di fatto cambiare
nulla. Le risposte tu non le hai a sedici anni, non le hai a diciotto
e se vuoi essere sincero, non le hai nemmeno a venticinque. Quando
parti senti quello che non va, ma non sai ancora dire cosa andrebbe
bene, come dovrebbe essere fatto un sistema per essere giusto, e
quand’anche avessi delineato il modello, non sei ancora in grado di
stabilire un piano preciso per la sua attuazione, non sapresti da
dove cominciare perché non conosci abbastanza a fondo il sistema
attuale. All’inizio la tua idea è un istinto, una reazione, una
insoddisfazione variopinta, un disagio riflessivo, una serie di
intuizioni ed ipotesi non ancora trasformate in teorie né tantomeno
provate e documentate adeguatamente, e tutto è ancora nella tua
mente e non nella realtà, perché non hai ancora alcuna piattaforma
concreta su cui appoggiarti, che rappresenti la tua idea nel mondo, e
credimi che sarebbe una piattaforma molto fragile al momento,
praticamente indifendibile, come molto difficile è stato difendere
il tuo atteggiamento quotidiano che è invero la prima ed ineludibile
manifestazione della tua idea e la prova che ci credi veramente, così
come costituisce una prova di essa l’ostilità critica e sprezzante
che ne hai ricevuto. Ma siano esse piattaforme comportamentali oppure
basi concrete che non coincidano con il mero stile di vita di alcuni
individui singoli, i quali non costituiscono ancora un vero e proprio
movimento,
ma uomini in autonomo movimento, esse devono essere sempre
maggiormente oculate e sagge se vogliono arrivare da qualche parte.
Esse sono deboli fino a che sono materialmente deboli oppure animate
da persone ancor piene di dubbi e dunque munite di una forza
idealistica debole, che assieme all’eventuale scoramento subito dai
protagonisti nel corso della vita vanno a costituire la debolezza
morale del movimento. Se queste sono
le condizioni, una tua piattaforma risulta difendibile solo qualora
si trovi dove non viene notata da nessuno o dove non spaventa né
preoccupa nessuno, oppure che essa non sia di fatto quella base
minima di concretezza senza la quale non esiste pensiero, ovvero i
luoghi che tu adibisci alla riflessione, allo studio, al dialogo su
questi temi ed alla scrittura. Certamente biblioteche e Internet sono
strumenti del sistema che possono tornare utili anche a chi sta
pianificando sabotazioni eversive, come ogni altro bene materiale di
cui usufruisci, sicché tu non sei mai contro tutto il sistema ed il
sistema non è mai tutto contro di te. Puoi appoggiarti anche alle
sue
piattaforme, ed anzi saper approfittare di queste costituisce la
maggiore abilità di chi ha mire rivoluzionarie. Ora, finché tu stai
a questo punto, sei comunque in svantaggio. Il sistema infatti una
idea ce l’ha,
per quanto possa essere sbagliata, incoerente, faziosa e sordida. Ma
soprattutto l’ha già realizzata.
Poiché tutto quello che c’è là fuori è l’oggettivazione di
questa idea. Istituzioni, leggi, polizia, aziende, negozi, centri
commerciali, prodotti, mezzi, metodi di produzione, di distribuzione,
strategie di vendita, obiettivi e metodi di ricerca, regolamenti,
professioni, scuole, programmi scolastici, programmi televisivi,
programmi governativi, giornali, pubblicazioni, associazioni, gruppi
sociali, gerarchie, prassi quotidiane, ricorrenze, feste, mode,
costumi, arti. Una idea la quale dunque dirige tutto e si impone su
di noi. In sostanza sono più forti nella teoria e nella pratica,
quindi è ovvio che tu non potresti reggere il confronto, che
però ti verrebbe richiesto immediatamente
se tu partissi in quarta contestando e pretendendo di smontare tutto,
e ci faresti solo la figura del coglione, seguita da una ineffabile
sconfitta. Ora, se alcuni ti dicono di cambiare il sistema
dall’interno, innanzitutto non fanno che proporre slogan beceri che
non hanno creati loro, giacché li hanno creati persone superficiali
quanto a strategia e moralismi, oppure molto furbe tra quelle
presenti all’interno del sistema, che appunto ti invitano a farti
invischiare in qualcosa da cui poi non ti staccherai più e
rinuncerai al suo cambiamento, oppure che vogliono attirarti nella
trappola che ho appena descritto, quella di lanciare la tua offensiva
generale quando non hai le condizioni perché essa sia efficace,
mentre loro, già potenti, ti stroncano sul nascere, spiritualmente e
materialmente. Mi sembra semplice affermare che non puoi vincere un
gioco di cui non accetti le regole, le autorità o addirittura gli
obiettivi. Ora, se vuoi fare strada nel sistema devi accettarne le
logiche almeno fondamentali e la generica corruzione, dovrai fare
innanzitutto cose che ti disgustano e saranno talmente impegnative e
competitive che di fatto non ti daranno lo spazio per far crescere le
tue idee rinnovatrici, ovvero di fare quello che, data l’ambiziosità
della causa, non sono riusciti a fare pienamente nemmeno i grandi
filosofi della storia che effettivamente hanno avuto la possibilità
di vivere in condizioni privilegiate, disponendo di libertà, tempo,
e magari anche soldi. E ce la dovrebbe fare uno impelagato tutto il
giorno in mezzo a quegli invisi ambienti e alle loro beghe?
Credetemi, queste cose non sono mai successe, sono millanterie
impudenti di uomini che sono al massimo arrivati a cambiare qualche
aspetto secondario del sistema e non hanno mai veramente desiderato
andare alle fondamenta. Vedete di parlare di ciò che avete vissuto,
pseudo ribelli che nel sistema non ci stavate poi così male e non
avete sentito l’esigenza di far crescere proprio alcuna idea
rinnovatrice, poiché quest’ultima non vi è neanche mai passata
per la testa sotto forma di una intuizione fetale, e non teorizzate
la compatibilità tra imprese di segno opposto, quando una esperienza
anche minima sul campo vi avrebbe svegliati dal torpore ingenuo e
fatto capire che è una cosa ingestibile, e mille volte più
tormentata di quanto l’uomo medio abbia mai accettato di dover
essere. E smettetela di chiedermi perché ho lasciato l’università,
perché se dopo aver letto questo libro ancora me lo chiedete potete
buttarvi nel fiume, e credo che vi seguirò, còlto dalla
disperazione. Del resto, non puoi pensare nemmeno di fare la pecora
bianca in mezzo alle pecore nere, perché ti sgamano subito e ti
cacciano via o ti vessano, e lo hai già sperimentato mille volte
mostrando la tua onestà, le tue critiche, le tue accuse, i tuoi
problemi, i tuoi pensieri originali o comunque non ortodossi, i tuoi
sentimenti, i tuoi propositi, i tuoi dubbi. Ora, una idea forte può
vincere contro una idea debole, ma se quest’ultima è sostenuta da
un sistema più forte, vince lei. Pertanto, anche quando l’Idea
sarà disponibile, si presenterà la necessità di preparare qualche
base concreta da cui gli aerei con la tua bandiera potranno
bombardare qualche altro obiettivo importante. Se persino
la tua idea è ancora debole, e non
hai nemmeno delle basi più forti di quelle del nemico, come speri di
vincere? Inoltre, una certezza anche sbagliata batte sempre un
dubbio, quindi tu non ti puoi presentare con dei dubbi dove loro
hanno certezze. I sentimentalismi commuovono solo quelli che sono in
una situazione come la tua oppure condividono le tue idee. Mostrare
poi problemi e debolezze, soprattutto quando nessuno è ancora in
grado di comprendere che essi sono conseguenze degli errori sistemici
contrapposti alle tue verità, è il più grosso degli errori. Invero
il doppio gioco
si può fare, non esiste solo nei film di spionaggio. Ma si può fare
ad una condizione: che si conoscano molto bene le regole di entrambi
i giochi, si conoscano molto bene dunque se stessi ed i propri
nemici. Nemmeno di questa condizione dispone il giovane. Perché il
sistema lo conosci sul serio soltanto col tempo e dopo essertici
invischiato bene, e se ti ci lasci invischiare fino ad arrampicarti
su qualche vetta e dominarlo, tranquillo che non hai avuto il tempo
di pensare alle alternative e non appena ti prendessi una pausa, in
tal caso necessariamente lunga, per ovviare alla mancanza, ecco che
ti farebbero le scarpe e perderesti la tua duramente sudata carica.
In politica devi agire, è finito il tempo della filosofia. Dovresti
in tal caso ricominciare da capo, in un modo affatto disorientante
poiché, per sviluppare una critica vincente, sarebbe opportuno ed
anzi necessario un confronto
progressivo e parallelo tra le due
realtà contrapposte, quella presente e quella ideale che tu vuoi
concepire, e l’unica causa concreta nella quale devi essere
implicato e coinvolto totalmente perché è il tuo mestiere, è
appunto la realizzazione di questa critica, tramite questo confronto,
perché la tua idea non si sviluppa se non in reazione a ciò che
esiste ed è sbagliato, ma non si sviluppa nemmeno se in esso tu sei
invischiato fino al midollo. Devi pertanto avere la possibilità di
trascegliere le esperienze dirette di cui hai bisogno, relativamente
al sistema, ma in generale più come spettatore che come attore
poiché la causa di cui tu sei protagonista militante è un’altra e
di essa senti il peso, la responsabilità e gli strali, e nessun uomo
può coltivare due grandi ambizioni contemporaneamente. Per tutto ciò
che non puoi vedere con i tuoi occhi, occorre che tu disponga di
affidabili fonti di seconda mano che te ne esimano, mentre dall’altro
lato produci pensiero personale e metti tutti i tasselli al loro
posto. Infatti, non sai ancora tu che cosa vuoi ottenere, fino a
quando non l’hai scoperto. Perché la tua idea è in divenire, e
come il Dubbio perde dalla Certezza, così il Divenire viene
sconfitto dall’Essere. Giunti infine alla certezza dell’essere, e
dell’essere qualcosa di meglio dei nostri avversari, seguirà la
rivoluzione. Quando un uomo conosce fino in fondo se stesso conosce
fino in fondo anche il resto del mondo, poiché percepisce tutte le
relazioni che ha con esso e dunque quali siano i ruoli.
Quei ruoli che, come tutto questo libro ribadisce, sono ciò che si
deve cambiare per pacificarlo. Se il nostro dubbio ed il nostro
divenire sono rivolti verso una certezza più veritiera e verso un
essere maggiormente virtuoso, e resistono, essi prima o poi
vinceranno, se solo avranno avuto l’accortezza di non suicidarsi.
Ogni dubbio ed ogni divenire, che vogliono costruire il futuro,
avanzano grazie ad un confronto continuo con la certezza e l’essere
del presente, che invece non vogliono cambiare poiché sentono di
essere giusti. Ragion per cui la battaglia non è mai abbandonata ed
è sempre sia mentale che concreta, perché non può attuarsi senza
percepire e relazionarsi con il mondo esterno, avulso ai nostri
intrinseci ideali. Non è dunque possibile cambiare il sistema
dall’esterno. Lo cambi, in realtà, sempre dall’interno, ma
cambiando posizione e mantenendo una mentalità trasformista,
dinamica, insomma movendoti necessariamente in esso con gli strumenti
che hai, con le condizioni e le conoscenze che si sviluppano, ma in
ogni caso nella maniera più astuta, e più passa il tempo più ti
accorgi che non è mai stata sufficientemente astuta. Il fatto che
non ti puoi tirare fuori veramente da qualcosa che hai intenzione di
cambiare, non significa che vi sia un solo modo di gestire il
rapporto con essa e dunque di combattere questa battaglia, né
stabilisce quale sia il modo migliore.
Il modo
migliore non è niente altro che il più furbo.
Se vuoi consigli, ascolta soltanto chi ha compreso chi sei, cosa hai
dentro e intorno, cosa hai intenzione di fare e a cosa vai incontro.
Tutti gli altri
mandali al diavolo.
Il filosofo
dovrebbe aggirarsi per il mondo come uno spettro, che tutto
attraversa ma a nulla si lega. Condizione della sua felicità e del
suo radicale e lungo beneficio sul mondo.
L’insanità
è contaminazione micrologica, ossia personale, la disorganizzazione
è contaminazione macrologica, ovvero sociale. L’insanità può
essere causata solo dalla disorganizzazione, in quanto per
contaminare un forte devi metterlo in una posizione subalterna, da
cui i deboli intrinseci possono inconsapevolmente per quanto
inesorabilmente danneggiarlo, grazie al potere sistemico che hanno,
in grado di volgere contro di loro molte forze che, prese ognuna per
se stessa, giammai avrebbero potuto sconfiggerlo ossia penetrare in
lui come elementi estranei che si impossessano in questo modo di
alcuni suoi gangli di funzionalità, e si auto depredano,
paralizzandolo, di un elemento necessario al benessere della civiltà,
sostituendosi peraltro ad esso in un ruolo che non sono in grado di
espletare, senza potersi altresì rendere conto di questa incapacità.
La disorganizzazione non può essere invece causata originariamente
dall’insanità, poiché nulla di sano si sarebbe mai corrotto entro
un ordine giusto. In un tale ordine, nessun inferiore si ribella al
superiore meritevole, sicché questi opera o permane indisturbato. Ma
una volta che la disorganizzazione si è inserita nel sistema, essa
si sviluppa progressivamente facendo degenerare i singoli, rendendoli
dunque insani, contaminati, poiché il volgo dall’alto penetra gli
elementi nobili, volgarizzandone alcune funzioni e dunque rendendole
inefficienti: il nobile non può espletare la funzione che gli è
propria perché costretto dalla maglia gerarchica in una posizione
inferiore, ed in questo modo però, egli non espleta nemmeno quella
inferiore, che pure è necessaria, dacché ogni suo sforzo è
concentrato invece nel riprendere la sua postazione elevata. Dunque,
dal momento in cui un individuo è posto fuori ruolo, egli comincia a
degenerare, assieme all’interno cosmo, ad assumere quindi le uniche
che a buon diritto si chiamano debolezze, quelle contingenti,
ossia non proprie, in una parola: le contaminazioni. Le quali, non
sottraendogli un ruolo effettivo, hanno come effetto in lui una
capacità organizzativa minore e dunque un aumento della
disorganizzazione: egli metterà necessariamente qualche nuovo
elemento fuori posto, questi cominceranno a degenerare aumentando
l’entropia del sistema, e così via di seguito. Viceversa,
l’elemento volgare non può fare a meno di espletare il ruolo di
comando con gli strumenti di un manovale, dunque volgarizza tale
compito, sottraendosi allo stesso tempo al suo dovere naturale, che
egli espleterebbe al meglio, in posizione subalterna. Il risultato è
che si hanno braccia rubate all’esecuzione e cervelli rubati alla
creatività e al comando: il mondo così è destinato a perire nel
concetto più buio e terrificante di uguaglianza che possa esistere:
la nullità. Il tutto disorganizzato è un niente: un niente senza
fine, quando dovrebbe essere un fine senza niente, quello ottenibile
grazie all’organizzazione totale o totalitarismo. Allo stesso modo
in cui nella gerarchia invertita il volgare volgarizza il nobile,
nella gerarchia naturale il nobile nobilita il volgare perché lo
perfeziona di tutto ciò che di intrinseco gli manca e che può
ricevere solo dall’esterno.
Ecco
che l’intuizione fatale si materializza…
Dal
momento che gli elementi di questo mondo non sono intrinsecamente
disaffini, ma soltanto lo sono in virtù del loro posizionamento, ne
risulta che gli elementi perturbatori non possono essere all’interno
del mondo.
Il
male è soltanto la disorganizzazione ed esso deve avere una origine
aliena.
L’intervento
di una razza aliena deve aver operato in maniera distruttiva
per condurre il mondo all’autodistruzione tramite il conflitto
interno. Dei fattori intrinsecamente estranei - poiché noi lo siamo
solo in maniera estrinseca - devono averci messo gli uni contro gli
altri, modificando a loro arbitrio le nostre posizioni reciproche, ed
innescando così il corso del divenire, la ruota della storia, volto
a ritrovare l’equilibrio e la pace. Questo intervento è stato
fatto una volta per tutte?
In
questo caso noi siamo dalla notte dei tempi in corso di assestamento.
Ma potrebbe essere invece un intervento reiterato, insistito, o
comunque ripetibile, e si tratterebbe allora di una vera e propria
guerra tra il nostro mondo, originariamente unitario, e una razza
aliena che vuole dissolverlo. Una razza aliena non può essere
assimilata, non può trovare il proprio posto, è rigettata ovunque,
non attecchisce su alcun terreno, non ha capacità proprie e dunque
funzioni ideali, deve essere parassitaria e quindi solo distruttiva
per il sistema… Sono forse questa razza aliena…gli Ebrei?
Quando
le impurità microscopiche saranno del tutto eliminate lo saranno
anche quelle macroscopiche. Il cosmo nel suo insieme si sanifica o
degenera ad un tempo per il semplice fatto di essere unitario.
I singoli elementi, la cui pluralità costituisce il tempo, invece
crescono e decadono in forma di Circolo Virtuoso e Circolo Vizioso:
il complessivo miglioramento delle condizioni ambientali e dunque
della organizzazione produce un parziale risanamento del singolo, che
può usufruirne per migliorare ancora l’organizzazione generale,
cosa che gli dà ancora più libertà e risorse per potenziarsi ed
agire su quella…
Sia
il risanamento che il decadimento hanno pertanto un andamento
accelerato perché, nel primo caso, l’individuo in ascesa sale di
ruolo approdando di volta in volta ad una posizione dalla quale ha
a
disposizione molte più risorse, ed è in grado di organizzarle; nel
secondo, l’individuo in discesa è sempre più debole e volta a
volta detiene sulla testa una stratificazione di autorità negative
sempre più grande: la sua posizione aumenta di subalternità, con
essa diminuisce la sua capacità di agire sul mondo nel suo
interesse. Quando diciamo che la vita accelera, dovremmo dire che il
tempo regredisce ad unità (regressus ad unitam), perché la
materia si risana. Dal momento che il grado di egoismo nell’uomo è
inversamente proporzionale alla sua intelligenza, e che globalmente
il mondo non è investito da alcuna diminuzione né aumento, ne
risulta che quella crescita impari che invece vediamo negli
individui debba favorire gli elementi più intelligenti: se favorisse
la cecità degli stupidi, essi non saprebbero utilizzare in maniera
benefica (ossia organizzativa) le risorse acquisite, sicché il mondo
conserverebbe la sua incoerenza, la sua pluralità, la sua caducità,
in una parola la sua Mondanità che si contrappone a Idealità. Gli
individui intelligenti devono disporre di più ricchezze di quelli
limitati, perché le sanno utilizzare per tutti i loro sottoposti e
non solo per se stessi. Ogni volta che la forza materiale di una
persona supera anche solo di una tacca le sue capacità
intellettuali, egli crea del danno. Ogni volta che le capacità
intellettuali di una persona superano anche solo di una tacca le sue
forze materiali, egli subisce danno. E tutti ricevono ripercussioni
da qualsivoglia danno in qualsivoglia sito del cosmo. Ogni fazione
politica vuole assolutizzare il suo modello perché crede
nell’apicalità della propria visione. È convinta di avere sotto
di sé l’intero panorama del globo, sicché per essa non resta
nulla di incompreso, sul quale dunque non si possa intervenire
infallibilmente. Ma solo una visione realmente apicale, che spanda
giù ad albero i suoi ministri competenti nelle singole visioni, può
vantare tale sicurezza d’azione. Invece, qualsiasi visione parziale
che si pone come assoluta trascura di fatto degli elementi presenti
in natura e ne ignora il necessario ruolo, li lascia fuori ed essi si
vendicheranno facendo vacillare appunto un sistema che non sa di aver
bisogno anche di loro.
Gli
atteggiamenti dittatoriali sono intrinsecamente connessi ad una
grande autostima.
Ogni
fierezza nel porsi come leader ha radice nella consapevolezza di
essere più intelligente degli altri, la convinzione di un uomo
d’essere capace di fare più legna da solo di quanta ne fanno
cinquanta incompetenti messi assieme, ed anche in un tempo inferiore,
a patto di essere lasciato a lavorare in pace. È possibile lasciare
spazio al prossimo solo di fronte alla sensazione di non essere
all’altezza di un compito, il quale nella sua singolarità spetta
sempre ad un solo soggetto, sicché la dittatorialità è implicita
nel concetto di ruolo: ed una postazione duplice o addirittura
collegiale è una aberrazione, se all’interno di quel dualismo o
pluralismo non ci sia una precisa sottodivisione interna, nella quale
ognuno ricopre un ruolo che completa il ruolo rappresentato
dall’insieme verso soggetti esterni. Il collettivismo,
la centralità del concetto di “sociale” nel pensiero di sinistra
non è propriamente inerente né corrispondente al concetto di
Socialismo: che invece non è né di destra né di sinistra, ma
coincidente con il concetto originario di Politica. Il collettivismo
contrapposto al personalismo nasce invece dalla debolezza di
chi fosse indebitamente chiamato o indebitamente desideroso di
ricoprire un ruolo di cui non è singolarmente all’altezza, e cerca
allora ingenuamente di chiamare in causa gli altri come se davvero lo
facesse per un bizzarro spirito di fratellanza o generosità il
quale, anche qualora sincero, andrebbe giustificato. Mentre la verità
è che costui deve fare massa perché da solo si sente
insicuro, sia nel prendere una decisione che nell’eseguirla.
L’unione
non fa la forza: l’unione organizzata fa la forza, quella
disorganizzata - ossia a gerarchia invertita - distrugge il sistema.
La
Sinistra si rivela essere, in un modo o nell’altro, l’Invidia
della Destra. Predicano l’amore per mascherare l’odio,
l’uguaglianza per mascherare l’istinto di autodifesa, la pace per
mascherare la pusillanimità, la libertà per mascherare l’incapacità
di darsi delle regole, il multiculturalismo per mascherare il bieco
desiderio che le culture inferiori si coalizzino contro quella che
davvero odiano: la cultura superiore, e la soffochino. Sono
antirazzisti non perché amino tutti i popoli della terra,
ma
perché hanno bisogno della compagine di quelli inferiori per
arrestare l’ascesa di quelli superiori. Sono anarchici per
mascherare l’atteggiamento di rassegnazione che hanno dinanzi alla
difficoltà del costruire qualcosa e la preoccupazione che qualcun
altro invece ci provi. Vogliono che tutti abbiano dei diritti meno
quelli che se li meritano davvero poiché con essi fanno il loro
dovere. La loro filosofia dei diritti consiste nell’ambizione di
tutti gli storti a stroncare le persone diritte: sicché la loro
stortura possa essere canone di bellezza e norma di legge.
La
Scienza, nella sua interezza, sarebbe l’immagine di un mondo
perfetto, cioè ideale, unito nella diversità e dunque privo di
contaminazioni e conflitti. I fisici studiano le leggi della
meccanica senza poterle vedere nel mondo reale, poiché non vi era in
natura un moto rettilineo uniforme, essendo sempre presenti vari
attriti. Come possiamo noi concepire dunque un modello teorico di cui
non abbiamo esempi pratici? La conoscenza ha origine empirica, anche
i principi generali. La risposta è che noi possiamo ottenere questo
modello soltanto realizzandolo, perché facciamo parte del processo
conoscitivo come soggetti, dacché l’oggettività si realizza nello
scambio materico tra due soggetti contaminati. L’ideale (sempre
teorico) non è altro che la forma mentis a-priori del nostro essere,
la quale ambisce ad essere riempita: è ciò che noi cerchiamo,
quello a cui intendiamo ridurre il mondo. Il soggetto esterno si
lascerà conoscere solo se anch’esso ha lo stesso scopo. La teoria
siamo noi nella nostra perfezione ideale, cui ogni pratica invece
tende. La teoria non esiste senza il linguaggio che in se stesso è
già un’arma che utilizziamo contro una realtà e che interviene su
di essa entro certi limiti. Tutto è azione: la Teoria ne rappresenta
l’aspetto verbale, ossia mentale, così come il linguaggio è un
aspetto della materia, e la linguistica un sottoinsieme della fisica.
La teoria e la pratica non sono dei contrapposti, perché quando si
fa teoria si agisce comunque, in un ambito specifico del problema da
affrontare. Nella teoria noi possiamo rappresentare anche i soggetti
particolari ed i processi di cui sono protagonisti, ma non appena
emettiamo un giudizio, ossia sussumiamo un oggetto particolare in una
classe di oggetti, noi abbiamo già fatto un ordinamento, cosa che
corrisponde all’idealizzazione, e siamo dunque già idealisti,
perché solo come idealisti possiamo intervenire su qualcosa, e
quando avremo finito di conoscerla potremo combatterla, ma solo
quando avremo finito di combatterla l’avremo conosciuta: conoscenza
è assimilazione. Ora però verso questo obiettivo la teoria e la
pratica sembrano ancora collaborare in una maniera intrecciata,
vediamo che all’una spetta temporaneamente il ruolo centrale, per
poi passarlo all’altra che farà la sua parte di progressi da
consegnare a sua volta alla prima. Infatti un modello teorico non può
svilupparsi senza la base di un esempio concreto: è quest’ultimo
che si applica al primo, non viceversa. Modello teorico non significa
modello generale, ma
significa sempre modello ideale: di
un oggetto particolare che abbiamo sotto gli occhi, o di un insieme
di oggetti che abbiamo sotto gli occhi. Entrambi gli oggetti vanno
uniformati all’ideale, dunque perfezionati. Noi non conosciamo mai
l’oggetto del nostro desiderio prima di averlo realizzato, benché
esso sia presente in noi. Quando un uomo ci
pensa prima di fare qualcosa, che
cosa sta facendo?
La sua è comunque una azione suggerita dalla prudenza, è l’istinto
che raggiunge la propria pienezza attraverso percorsi indiretti e su
piccola scala, un’immagine mentale che andrà poi proiettata, piena
di energia, nel mondo, per poter infine darsi alla pratica ossia
attaccare l’oggetto in questione in tutta sicurezza poiché pieno
nella bandiera e nella spada. Raggiunta questa pienezza, nessuno si
sottrae alla battaglia, perché oltre non si può andare nella forza,
e niente altro ci interessa realizzare: si vincerà o si perderà, ma
la guerra a questo punto non può
essere evitata e noi ci giochiamo il
tutto per tutto.
La
natura non può essere corretta dall’esperienza. L’esperienza può
essere corretta dalla natura. Grazie alla memoria, ossia alla
persistenza del male, noi possiamo agire su di esso, grazie alla
persistenza del bene, ossia alla condizione di maggior vigore
pervenutaci da altre esperienze di segno positivo: giacché solo
queste forze collettive possono supplire a quella che originariamente
era una debolezza che, scontrandosi con l’ambiente esterno, è
stata insufficiente a plasmarlo secondo la nostra esigenza e dunque
ha prodotto una esperienza negativa. Noi non possiamo ricordare
quello che ci è riuscito perfettamente, poiché esso non è più
presente in noi come elemento da eliminare, ma solo come fisicità da
utilizzare: possiamo però ripetere quell’azione perché il nostro
corpo mantiene lo stesso livello di virtù e dunque è saggio, se non
si è indebolito nel frattempo ed è dunque divenuto stolto. Esso ha
dimenticato la lezione, ossia ha perso vigore nei confronti di
asperità esterne che invece si sono ricomposte nella loro forma ed
energia dopo che noi le avevamo precedentemente sconfitte. In questo
caso noi non ci ricordiamo di quando eravamo forti: perché non lo
siamo più, e non si può sentire quello che non si è, ovvero quello
che non si fa. Ma anche il ricordare una esperienza positiva è
altrettanto impossibile che ricordarne una negativa. Semplicemente,
noi le ripetiamo fin dove l’elemento esterno è ancora il medesimo
ed il corrispondente energetico interno che vi contrapponiamo è
anch’esso il medesimo. Se vi sono differenze nell’oggetto o nel
soggetto, non è la stessa esperienza e noi non la “confrontiamo”
con la vecchia, perché un confronto è una terza esperienza,
un’immagine che ne contiene due, osservata da un punto di vista che
non potrà mai comprendere tutte le peculiarità delle singole
immagini ma solo alcuni tratti fondamentali che ne consentano la
relazione, e sicuramente non possiamo vivere come due soggetti e
quindi assumere contemporaneamente due punti di vista confrontando
due immagini l’ultima delle quali stiamo ancora sedimentando, così
come è impossibile svolgere operazioni di sistema su un programma
ancora in funzione. Ma ci renderemo conto adesso che questa
separazione delle esperienze, eventualmente da confrontare in una
nuova esperienza che avrà anch’essa una locazione specifica, una
sorta di celletta di magazzino dove è possibile in un secondo tempo
ritrovare gli archivi, è irreale. Infatti l’esperienza nuova
richiama subito
la vecchia ancor prima di essere conclusa, ma non si tratta di un
confronto, bensì di un ampliamento, una sorta di prosecuzione di
qualcosa che era già iniziato: i nuovi dati empirici interni ed
esterni agiscono sul materiale che era già presente sicché possiamo
dire che la nostra vita costituisce un’unica grande esperienza che
non si conclude se non con la purificazione totale. Non si può
insegnare quello che si è imparato, si possono togliere ostacoli che
altrimenti toccherebbe alla nuova recluta togliere. Noi avremmo
potuto compiere una azione vincente sin dalla prima volta che abbiamo
avuta di fronte una realtà, perché disponevamo di tutte le forze
necessarie. In questo caso, cosa è possibile insegnare al prossimo?
Se noi non possediamo la stessa anima, ossia la stessa finalità di
un altro individuo, non possiamo comprendere nemmeno la perfezione
dei suoi movimenti, poiché non ne possediamo la forma a priori, cui
noi in via contingente non abbiamo ancora accesso per mancanza di
allenamento: noi non possiamo capire un movimento che non possiamo
fare per costituzione, ma possiamo capire un movimento di cui non
siamo ancora padroni, perché noi siamo la stessa persona che lo
esegue adesso dinanzi ai nostri occhi perché ne ha già le
condizioni, o meglio siamo parte di quell’insieme di persone che
dovrebbero giungere a fare determinate cose perché queste sono
necessarie alla felicità del cosmo, sono cose per cui tali persone
sono nate e dunque devono conquistarsene le condizioni: infatti la
nostra immedesimazione nel personaggio produce una soddisfazione
soltanto parziale, poiché noi siamo lui soltanto in parte: il
nostro potenziale collettivo può essere realizzato solo con la
collaborazione di tutti. Se noi non disponiamo già delle condizioni
ottimali per eseguire una operazione, possiamo però avere la forza
intrinseca per acquisirle. In questo caso, che cosa insegniamo al
prossimo? Noi facciamo vedere a lui come fruitore la nostra azione di
conquista della forma ottimale: egli – affine a noi - ne gode
esteticamente perché non agisce, e la sua esperienza estetica verrà
completata da quella etica che metterà in atto quando, acquisite
autonomamente le nostre stesse energie, sarà in grado di fare le
stesse cose. Anche in questo caso il cosiddetto insegnamento
è qualcosa di assolutamente inconsistente. Noi non “impariamo”
dunque dagli altri, e non “impariamo” da noi stessi: noi agiamo e
contempliamo,
noi
compiamo esperienze etiche ed estetiche, e non esiste alcuna
“conoscenza” svincolata da una azione, un magazzino in cui
conservare qualche sorta di silhouette
di quello che abbiamo vissuto. Fare cultura vuol dire agire,
conoscere vuol dire fare. Ritorniamo per un momento ad un modo di
ragionare più grezzo delle precedenti analisi. Qual è il momento
migliore per insegnare qualcosa a qualcuno? Non appena si è imparato
a farla. Perché, fresco è ancora il ricordo della nostra precedente
incapacità e degli ostacoli che abbiamo imparato a superare, mentre
una volta consolidate le nostre abilità, non siamo più in grado di
comprendere le difficoltà del principiante. Per aver superato quegli
ostacoli, noi abbiamo dovuto mettere in moto un’altra abilità
innata: quella di cercare una nuova via, la capacità dunque di
automigliorarci ma, se noi avessimo dovuto vivere soltanto per noi
stessi, questa abilità si sarebbe rivelata superflua dopo il primo
utilizzo, se davvero abbiamo perseverato su quella strada, in quanto
noi oramai teniamo allenate le nostre capacità primarie, e sarebbe
paradossale se, per tenere allenate anche le capacità secondarie,
ovvero l’abilità di raggiungere quelle primarie, regredissimo
volontariamente e di frequente allo stato di principianti, solo per
non ritrovarci ad essere dei principianti qualora tale regresso si
presentasse improvviso per cause esterne. Infatti, l’insegnamento
blocca la crescita personale. In esso, noi riversiamo parte delle
nostre energie nel mantenerci in questo andirivieni tra una virtù
acquisita e la sua mancanza, in quanto dobbiamo fare noi lo sforzo
che altrimenti toccherebbe al nostro allievo, per trascinarlo al
nostro livello con maggiore rapidità: perché nient’altro che
questo è la virtù dell’insegnare, anch’essa da tenere allenata
e pertanto da affrontare come attività centrale della nostra vita.
Chi voglia essere un grande insegnante sappia, che sarà vincolato a
non realizzare il suo potenziale autonomo come artista, ma solo una
parte di esso. Infatti, secondo me uno dovrebbe dedicarsi
all’insegnamento soltanto dopo aver realizzato tutto il suo
potenziale. Ma quando non puoi andare oltre, il meglio che ti resta
da fare è facilitare chi deve ancora crescere: qui
l’insegnamento diventa motivato, e senza riserve per il docente.
Propriamente qui
l’insegnante si realizza come tale, ma altrimenti resterebbe
mortificato. Il modo in cui l’insegnante partecipa delle debolezze
dell’allievo è analogo al modo in cui un attore partecipa del
carattere e dei moti dell’animo dei personaggi. Egli non può
interpretarli correttamente se non è loro affine, o se la vastità
eclettica della sua anima non comprende appunto anche quel carattere,
e non può evitare del tutto di sentire le emozioni contingenti che
competono a quel personaggio secondo la sceneggiatura. Certo per
interpretarne l’angoscia non deve sentirsi angosciato come lui: ma
parzialmente deve farlo, ed anzi la sua opera di attore dovrebbe
essere una sorta di sovrastruttura che gli consente di padroneggiare
il personaggio alla cui realtà altrimenti si abbandonerebbe
pienamente, in tutta spontaneità. Insomma non può essere del tutto
lui, ma nemmeno del tutto se stesso. Ecco, l’insegnante, come
l’attore, è un mediatore
e come tale, come tutto ciò che è composito, vive in modo
stridente.
Tutto
quello che subisci per ragioni contingenti, tu non lo meriti. Meriti
invece tutto quello che subisci per ragioni intrinseche: nella
purezza infatti ognuno può aver solo ciò che merita, in quanto
nessuna compagine di soggetti deboli si schiera per sottometterne uno
forte, il che rappresenta l’Ingiustizia dominante le società
promiscue, e chiunque venga sottomesso raggiunge quindi il suo luogo
naturale, nel qual egli stesso non trova nulla di ingiusto.
Talvolta trappole diaboliche in cui si
è invischiati rendono difficile deporre in essere le basi dalle
quali dipende per ogni uomo, ed anche per ogni artista, un
provvidenziale sgravio della coscienza, prima ipertrofica per
mancanza di appoggi esterni concreti. Le vittorie non sono altro che
questo: un trasformare la realtà da qualcosa che deve essere
sostenuta a qualcosa che ci sostiene: metterla dunque dalla nostra
parte, assimilarla. Quando si parla della natura di una diabolica
trappola, se ne estendono le reti. Conviene lanciare uno dei propri
flussi di pensiero a erodere superfici rocciose fastidiose ai propri
sensi: che di questo torrente determinano il letto come un sorta di
aprioristico destino (pleonasmo) ma che esso si sforza con ogni sua
stilla di smussare e rassettare volendo
essere lui il padrone. Tutti possono
notare come si ricomponga la nostra forma mentis
dopo che gli interventi esterni sono
riusciti a forzarne i contorni in pur vasta dilatazione, dacché un
uomo-palla vuole un mondo-palla e cozza con un uomo-piramide che
vuole un mondo-piramide, ed entrambi cozzano con un uomo-icosaedro
che vuole un mondo-icosaedro. Tutti i solidi possiedono, all’apice
della loro forza potenziale, il carattere dell’indeformabilità:
non fosse anche questo uno sciocco chiasmo, da restituire alla forma
(anch’essa pleonastica) originale. Dunque, se tu mi pallizzi io
cercherò di piramidarti perché sono piramide, e solo quando avremo
tutti trovato il nostro posto, la nostra poliedricità diverrà
monoedrica. La saggezza consiste nell’imparare ad eludere il
maggior numero di scontri con persone difformi: perché sono
inevitabilmente traumatici e dispendiosi, e scivolarsene via entrambi
sulle rispettive superfici in caso di avvicinamento. Altresì, nel
mantenersi energici in modo da subire meno deformazioni possibile o
da essere rapidi nel riassestamento. È possibile correggere solo un
difetto contingente, un difetto per tanto non nostro, qualcosa che
noi stessi percepiamo come una debolezza. Ma qualora invece le nostre
forze fossero state sufficienti a plasmare la realtà secondo la
forma desiderata, quella che interviene dall’esterno non è più
una energia beneficamente correttiva, bensì una difforme personalità
che, analogamente insoddisfatta delle fattezze presentategli, cerca
di imporsi sulla nostra e, parlando adesso di letteratura, vorrebbe
dire o sentir dire altro da quel che abbiamo detto, e pertanto vuole
altre forme verbali. Quando ci si rivolge ad una persona non ci si
può lamentare di come la sua natura reagisce, poiché non la puoi
togliere di mezzo e dunque, se le si è dato il diritto di
sbizzarrirsi, ella lo utilizzi fino in fondo.
Certamente la nostra forma mentis
reagirà come le è proprio e pertanto accetterà, tra i giudizi
ricevuti, solo quelli che le calzano, e respingerà gli incalzanti.
La parola “confutazione” vorrebbe esprimere la massima efficacia
della cosa. È pertanto corretta una critica che sia solamente
critica e sia parsimoniosa o addirittura priva di sterili e
stucchevoli complimenti. Non è maturo il desiderare che ci si
allisci il pelo, e non è istruttivo: un testo deve essere perfetto
per una funzione e tanto basti. Dove non ci hanno fatto osservazioni
correttive, significava che andava tutto bene e non vedo il motivo di
starnazzi plateali, reazioni sensuali da ragazzina allupata,
epidittici elogi ed in fondo, quando un fenomeno artistico non
richiede una collaborazione tra protagonista e pubblico, trovo
che le suddette manifestazioni siano indice di maleducazione in chi
le opera, addirittura di fallimento in chi le suscita.
Sulle badilate di astio concettoso da
tirare in faccia al lettore ho poche osservazioni.
- Talvolta esse sono una lettura forzata da parte sua. Il mio tono poteva essere tutt’altro che provocatorio, sprezzante o autocelebrativo.
- Se mi offendo io per quello che scrivono gli altri, loro sono liberi di offendersi per quello che scrivo io
- Le accuse di presunzione non mi interessano, sono mosse dalla medesima presunzione e nessuna delle due può essere soppressa. Vivere significa essere presuntuosi, ossia voler assolutizzare il proprio metro: conseguenza del fatto che non ne abbiamo altri.
- Se io oggi salgo su una montagna dopo un percorso originale e arrivato in cima, dopo aver guardato il panorama, dico che è rosso venato di giallo e sono lieto di essere arrivato quassù, poi volto la testa verso il basso e trovo una targhetta con scritto “ Nietzsche was here 14 - 07 – 1884 ”, poi vado a leggermi la gaia scienza e trovo un aforisma giallorosso venato di fierezza tracotante, devo denunciare i tifosi della Roma che hanno scritto la stessa cosa dopo aver vinto lo scudetto? Oppure devo prendere un gessetto e scrivere sulla targhetta: I was here too, shame on me, I’m going home”?
- Una scrittura che non contenga emozioni è precisamente quella che detesto, non puoi eludere la soggettività, devi solo padroneggiarla con gli strumenti artistici, darle una forma efficace e quindi razionale. Ma non per questo la dobbiamo condannare ogni volta che compare nell’arte…possiamo trovarla utile o meno, affine o meno, reagire insomma con la nostra soggettività.
La cultura non è un corpo unitario che
serpeggia lungo i secoli, tale per cui noi non possiamo permetterci
di dire una sola parola se non è inserita sull’apposita scaglia
nella precisa posizione. Sarebbe così se ci fosse il vincolo
dell’applicazione, tale per cui le cose buone vengono utilizzate da
tutti, quelle scadenti eliminate dal giro e dimenticate perché non
servono più a nulla e non ci sono più le basi concrete perché
qualche problema reale richiami alla lettura di quegli studi, mentre
la nuova classe intellettuale non potrebbe produrre altro che
soluzioni originali, in quanto non potrebbe fare a meno di occuparsi
di un problema originale, che nelle epoche precedenti non potevano
nemmeno porsi. Ma così non è…gli uomini vivono e usano il
linguaggio senza leggere quasi nulla, lo modificano e gli danno i
loro significati sbattendosene della serie filologica millenaria di
quelli vecchi. Tutta questa indiscriminata tradizione implica che ci
portiamo dietro un fardello che nel mentre che ci sostiene con le
conoscenze ancora valide e parzialmente materializzate, ci grava con
i suoi errori teorici, parzialmente materializzati. Se la gente non
creasse continuamente su base empirica i propri concetti ed il
proprio linguaggio noi non potremmo vivere con un minimo di
autonomia, e l’eteronomia non sarebbe neppure effettiva poiché
tutta questa cultura non è accessibile all’uomo d’oggi, non
viene affatto trasmessa, nemmeno nelle sfere colte. Nei luoghi bassi
sia la tradizione che la personale riconquista delle conoscenze
valide sono cosa rapida e semplice. Man mano che si sale diventa
arduo perché la prima è in larga misura inaffidabile, gravida di
testi lebbrosi d’errore, velenosi e forieri di sconfitta e
degenerazione, mentre la conquista personale delle conoscenze, alla
luce delle quali tratterai il passato culturale con l’atteggiamento
di un medico o di un investigatore volto a trovare un colpevole, è
difficilissimo a causa della quantità di elementi da smaltire, da
cui difendersi personalmente e molti da tenere lontani giacché non
ti è consentito farlo come una professione, tu sei sistemico, devi
trovare la tua nicchia e niente più, sicché ogni stinca di questo
mondo ha delle pretese dittatoriali e dissennate nei tuoi confronti,
la prepotenza esterna è poderosa. Purificare il linguaggio
(definire correttamente ogni termine) è il corrispettivo teorico
dell’ordinamento del mondo: tuttavia la verità non viene cercata
nella storia, ma attraverso la storia.
Pongo ora frammento critico della
posizione di Umberto Galimberti in proposito.
Gli domandarono
cosa fosse la filosofia della storia.
Egli disse…
E' l'unica
filosofia "seria", nel senso che la filosofia ha sempre
navigato per i cieli, a partire dall' iperuranio platonico, ponendosi
la domanda che cos'è una cosa: che cos'è l'anima, che cos'è la
bontà, che cos'è la giustizia, che cos'è la politica. Il problema
invece è di vedere come sono venute al mondo queste cose; per
esempio se io dico "corpo" non mi interessa sapere che
cos'è il corpo, mi interessa sapere che storia ha avuto, e allora è
un conto il corpo nella grecità, il corpo nel cristianesimo, il
corpo nel rinascimento, il corpo oggi, per cui c'è più verità
nella storia delle parole di quanto non ci sia nella designazione
della loro essenza.
Trovo che si
sbagli…
Già il fatto
che metta la parola “seria” tra virgolette mina la sua serietà.
Che la filosofia abbia navigato per i cieli significa soltanto che
ambiva all’idealità delle cose. La definizione stessa, che vuol
cogliere l’idealità, presuppone una scrematura dalle impurità,
ossia dalle contaminazioni che un concetto (nel caso dell’analisi
linguistica) o la rispettiva realtà (nel caso dell’analisi
concreta) hanno subito nel corso della storia, sicché la storicità
è implicita nel concetto di definizione e non contrapposta ad esso.
Se tu dici “corpo” ti interessa risanarlo, e per farlo devi
appunto decostruirne la storia, risalendola invero, dal concetto
odierno a tutti i precedenti. Nessuna verità va cercata nella
storia, bensì attraverso la storia, la storicità non è altro che
un determinato livello di corruzione, dunque di falsità, non di
verità, e l’unica verità sta appunto nella designazione
dell’essenza. Il termine “verità storica” è in realtà un
ossimoro, poiché niente che divenga è vero e dunque reale, per
dirla con Platone, mentre ciò che mai diviene e sempre è sono le
idee che sottendono ai fenomeni storici e vi resistono
incorruttibili. I fenomeni storici non sono altro che le loro
apparenze imperfette: sicché l’unico modo di trovare la verità
nella storia è appunto individuare questi caratteri originari nella
loro purezza e dunque nella loro virtù, scremandoli dalle impurità,
perché un essere contaminato od incompleto che dir si voglia sarà
sempre un colpevole, portatore della colpa, un malvagio. La storia
non è mai un oggetto sino a che non è finita, allora sarà il solo
oggetto, il Mondo, la cui volontà sarà appagata e dunque sarà
anche rappresentazione.
Non si studia un oggetto, perché non
si ha da modificare la perfezione. Si studia invece un soggetto,
sul quale si vuole intervenire, per trasformarlo nel proprio ideale.
Non è possibile pertanto studiare la storia come oggetto, poiché
essa non è, appunto, tale, e la si può invece studiare soltanto
come partecipanti che vi individuano elementi materiali già conformi
alla propria filosofia ed elementi non conformi da condannare e
combattere, poiché rappresentativi, in essa, di un'altra filosofia.
Questo mio discorso sulla storia sembrerebbe essere un frammento di
Filosofia della Storia, ma queste due istanze non hanno nulla da
spartire: sono l’Inimicizia nella sua definizione più generale,
poiché ogni filosofia, quale modello ideale della realtà, vuole
vincere quella Guerra che è sinonimo di Storia e porre ad
essa il suo finale sigillo. La storia è già implicita (dunque è
una realtà a priori) nella differenza fattuale tra le filosofie,
ossia tra i personaggi. L’incontro tra questi genererà una
diffrazione e una contaminazione dalle quali ogni protagonista
cercherà di ricomporre la propria identità (sicché la storia
diverrà una scienza a posteriori – e scopo della scienza è
ricondurre ad unità & pace ciò che era plurimo &
discordante). Non si potrebbe, analogamente, fare della Storia della
Filosofia se la filosofia stessa, ovvero gli stessi protagonisti, gli
intellettuali, non fossero soggetti implicati nella storia, operanti
all’interno di essa per combattere gli elementi dottrinari delle
avverse fazioni. Ora una filosofia non può essere altro che critica
nei confronti del presente, stimolata dallo stridore tra esso ed un
modello appunto ideale: solo le idee possono mettere in discussione
la realtà. Chi si diparte dal dover essere per guardare
l’essere, può essere soltanto due cose: 1) uomo che si è
arreso alla realtà oppure 2) uomo pago di essa. Non si può
affrontare la storia se non da un punto di vista: ed il punto di
vista di chi trova in essa la verità è quello del rappresentante di
una filosofia che ha temporaneamente vinto, e pertanto non vuol
mettere in discussione l’essere del presente confrontandolo con un
alternativo dover essere, ossia con una nuova filosofia che voglia
ridefinire la realtà tramite una preventiva ridefinizione dei
concetti. Se cerchi la verità nella storia sei vincolato a
fermarti, nello studio delle epoche, a quella presente…
non potresti infatti andare oltre,
se non animato da un anelito riformistico, fomentato dal confronto
tra questa realtà ed un ideale superiore, che tu hai astutamente
reciso dal gioco dichiarando che non in esso, bensì nella
storia - e conseguentemente nel suo odierno esito, si trova la
verità. Gli intellettuali servi del sistema sanno di aver già
realizzato il connubio tra Filosofia e Storia:
che il trespolo su cui si è
appollaiata la seconda dopo travagliati voli è il Nido ideale della
nottola di Minerva. I giudizi della storia sono dunque per
essa anche i giudizi della filosofia che, provenendo orbene
dalle forme eterne dell’Ideale, divengono perentori ed
immodificabili. Essi però sanno bene che i loro avversari, dal
braccio del prestatore d’opera alla mente dell’intellettuale,
sono ancora vivi. Sanno poi ben che ogni cultura può avere
alternativamente solo due funzioni: 1) quella conservativa del
sistema 2) quella avversativa ad esso. Ebbene, essi rappresentano la
prima, e la cosa più furba da fare è far credere al mondo che non
vi è alcuna battaglia in corso, se non contro i mostri del passato
che sembrano fare capolino in qualche nuova sembianza del presente
come oscure visitazioni oniriche dai tratti diabolici. Quello sterile
analizzare il passato con ipocrita interesse, e con l’atteggiamento
ozioso e pacato di chi effettivamente non ha nuove mete da
raggiungere, serve solo a solleticare il narcisismo e consolidare
l’autostima di chi si trastulla davanti al video tagliato e cucito
di una partita vinta e ricelebrata e ricommentata con diffusione
capillare e periodicità quasi assillante, distogliere l’attenzione
dalle disgrazie presenti legati alla filosofia dominante, e da quel
futuro, che qualcuno in barba a loro ancora desidera
costruire, il che ha come condizione il rifiuto dell’Idealità del
presente, di sussumere quest’ultimo invece, pienamente, sotto il
concetto di Storicità, che fa rima con discutibilità,
ponendolo sì come mero anello della catena, anziché come suo
capolinea. Se del resto la storia ha compiuto, per suddette
persone, il suo percorso, una domanda sorge spontanea: a che serve
mai ancora la cultura? Perché nuovi studiosi? Perché
filosofi? Scontata è la risposta. Per presidiare il concetto stesso
di cultura, affinché non cada nelle mani del nemico, nonché
l’attività culturale e le rispettive istituzioni che devono
difendere le concezioni dominanti su cui si è edificata la realtà,
dalle quali tali intellettuali traggono pane e nomi autorevoli,
mentre gli antisistemici devono cercare altrove il primo, se davvero
lo trovano, ed il nome possano farselo solo in negativo allorché
vengano denunciati e denigrati perché sono usciti allo scoperto.
Problemi esistono ancora, il sistema ha dei difetti, e la gente non
sa valutare da sé questioni troppo complesse e cerca allora punti
di riferimento, è confortata dal constatare o dal credere che
esistano persone che riflettono su queste cose per trovare soluzioni,
e questi intellettuali di regime divengono delle guide che possono
calmare almeno idealmente il loro scontento, disagio e le
preoccupazioni per il futuro. Essi operano talvolta in uno spazio
particolare, una sorta di bottega del filosofo, una finestra del
pensiero che funge da scacciapensieri, nella quale il maestro, uomo
senz’altro colto ed il cui livello di profondità supera di fatto
quello del cittadino medio, dispensa le sue teorie ed ottiene da
quest’ultimo un atteggiamento umile e tendente
all’accondiscendenza, trascurando però attentamente di arrivare in
fondo alla questione ed impegnato, invece, nel girare intorno
all’albero, denunciare come causa dei problemi elementi che fanno
invero ancora parte dei sintomi, oppure pesci piccoli e tuttavia
sistemici che davvero non possono ormai evitare di essere additati,
oppure capri espiatori belli e buoni racchiusi sotto termini talmente
generici e impersonali (“la Tecnica”) che probabilmente
snobberanno l’accusa dal momento che è innocua, come innocua è
tale entità senza una precisa volontà che la utilizzi per un fine.
Questo modo di fare cultura ha la duplice funzione, dunque, di tenere
a freno i dissidenti intelligenti ed autoconsapevoli che corrodono le
verità istituite, costantemente a contatto con una realtà
tutt’altro che felice o giusta, e di plagiare le menti di quanti
altri, sebbene senza grandi capacità di creazione alternativa, come
nuove reclute nel mondo e non ancora indottrinate, si metterebbero a
criticare il presente anziché magnificarlo compiaciuti e
studierebbero il passato solo con l’intento di trovare i colpevoli
delle ingiustizie odierne.
L’azione umana può essere animata da
due istinti che, nella persona sana, sono e restano rigorosamente
contraddistinti senza essere mai contrapposti, se non nel fatto che
quando l’uno parla l’altro deve tacere. Questi due istinti si
chiamano Eros ed Ekatos, amore e violenza, creazione e distruzione.
L’ekatos emotivamente si chiama rabbia, si esprime con la violenza
ed ha come scopo il distruggere qualcosa che minaccia la nostra
sicurezza presente. L’eros emotivamente si chiama eros, si esprime
nella congiunzione ed ha lo scopo di creare qualcosa di nuovo.
Nell’ambito uomo-donna si tratta di un nuovo individuo, nell’ambito
sociale si tratta di progresso, di creazione artistica, filosofica,
scientifica. L’ekatos è ideale per distruggere, è la linfa della
buona guerra, ma è assolutamente controindicato e fallimentare per
qualsiasi forma di creazione. L’eros è ideale per costruire, è la
linfa della creazione, ma deve stare assolutamente lontano dalle
arene di battaglia, nelle quali rappresenta invece il massimo tratto
di debolezza. Purtroppo nella vita l’amore e la guerra si muovono
negli stessi luoghi, intralciandosi a vicenda: sembra così che il
conflitto sia tra quei due personaggi, illusorio invero come quello
tra il cielo e la terra. Il concetto di Competizione ha portato la
creazione sotto l’egida della guerra, l’ha portata sul campo di
battaglia con i concorsi i premi e le corone d’alloro, ed ha
portato la distruzione sotto l’egida della creazione con le arti
marziali ed ogni estetizzazione della battaglia, anche nella forma
apparentemente pacifica dello sport, dove la violenza, l’affermazione
sull’avversario cui non si riesce a rinunciare, è solo limitata ad
un livello superficiale e vincolata ad un regolamento. Dunque un
artista è necessitato ad assumere anche delle virtù guerriere, per
far valere ciò che ha creato o potrebbe creare, ed un soldato a
curarsi della bella forma con la quale stende un nemico, sebbene la
sua esigenza fondamentale sia quella di liberarsi di lui. In entrambi
gli ambiti analogamente competitivi, ecco che le persone scorrette
utilizzano le armi belliche provocando od attaccando deliberatamente
un uomo impegnato nella creazione di qualcosa che presuppone la pace,
e lo vede dunque svantaggiato e brutalmente portato su un altro
terreno che non gli compete, oppure al contrario richiedono una
prestazione artistica ed intellettuale ad un uomo impegnato nella
battaglia che presuppone la concentrazione distruttiva e
l’affrancamento da attività creative. Quando siamo animati da una
grande rabbia, le nostre facoltà creative regrediscono nella stessa
misura in cui vengono eccitate quelle distruttive: i nostri muscoli
si fanno più reattivi e turgidi, la soglia di attenzione si alza, il
nostro sguardo è rivolto all’essenziale, i nostri pensieri
focalizzati all’annientamento del nemico, tutto quello che non vi
concorre, ciò che è troppo raffinato, sottile e complesso, viene
spazzato via dalla coscienza. Non saremmo mai capaci, in quel
momento, di scrivere un aforisma, risolvere un problema di
matematica, concepire una teoria scientifica, comporre una canzone,
dipingere un quadro, eseguire una delicata riparazione o montaggio,
conversare elegantemente, dare spiegazioni a qualcuno, fare l’amore
con un partner. Anzi, quest’ultima cosa verrebbe proprio impedita
dalla diminuzione degli appetiti sessuali corrispondente
all’eccitazione di quelli distruttivi: gli stessi organi adibiti
sembrano come ritirarsi nel corpo a scopo di autodifesa, perché non
è affatto il loro momento per dirigere la partita: l’altro polo è
adesso prioritario alla nostra realizzazione e non sono lecite
intromissioni o sprechi di energie. Negli animali l’atto sessuale
deve essere il più possibile rapido perché quando copulano essi
sono vulnerabili, più facilmente attaccabili. Non è un caso che
l’atto sessuale, il quale ha uno scopo creativo, si sia
naturalmente cercato un luogo protetto onde potersi svolgere in tutta
naturalezza e senza pressioni, ed il pudore che lo
contraddistingue è tutt’altra cosa rispetto alla vergogna
posta in esso dal Cristianesimo: è invece un istinto di autodifesa
che conosce l’importanza dell’evento che si sta svolgendo,
laddove ogni interruzione, disturbo o condizione sfavorevole avrebbe
conseguenze molto gravi, e deve pertanto essere protetto. Questa è
anche la ragion per cui lo scienziato deve poter lavorare al sicuro
nel suo laboratorio, il poeta passeggiare senza pressanti
preoccupazioni e solo concentrato nel tradurre in rime quello che
prova, ed il filosofo riflettere sulle cose del mondo nella famosa
Torre D’Avorio. La guerra non può creare, l’amore non può
distruggere, ma entrambe sono funzioni vitali cui va garantita la
dignità, lo spazio, il momento opportuno, e la necessaria maestria.
Vi sono due concetti che debbono andare assolutamente distinti: una
cosa è la sublimazione di un istinto violento dall’oggetto
originario ad un oggetto surrogato, dovuta al fatto che il primo non
è accessibile ma dobbiamo comunque dare sfogo alla nostra passione
affinché non si ritorca all’interno in auto distruttività e
degenerazione;
ed altresì il suo corrispettivo
erotico, ossia la sublimazione di tale istinto verso un oggetto
surrogato perché quello originario non è accessibile ed il
ripiegamento all’interno avrebbe esiti analoghi. Questa accezione
del termine sublimazione rappresenta un procedimento sano del
nostro organismo. Ma vi anche il suo perfido fratellastro, di natura
perversa e patologica. Il concetto perverso di sublimazione consiste
nel trasformare un istinto erotico in un istinto violento: e si
chiama stupro; oppure nel trasformare un istinto violento in
un istinto erotico: e si chiama necrofilia. L’amore della
morte, dunque, e la morte dell’amore. Il cristianesimo è
essenzialmente necrofilia divenuta dogma: “ama i tuoi nemici”,
per la semplice ragione che non sei forte abbastanza per odiarli, e
disprezza la terra, per la semplice ragione che non sei forte
abbastanza per vivere felicemente in essa. Due processi analoghi ma
patologici e fallimentari che consistono, il primo, nel negare se
stessi illudendosi di poter essere altro, ad esempio i nostri nemici,
il secondo nel negare il proprio mondo illudendosi di poter essere
altrove, ad esempio in paradiso. In questi casi la nostra sorte è
segnata, o perlomeno pensiamo che lo sia: la funzione di queste
distorsioni mentali è allora solo quella di farci scivolare verso la
morte in maniera più piacevole. L’unico atteggiamento più
razionale, dunque più sano, che si possa innescare in tali
situazioni, è quello di chi si appiglia al pensiero dei suoi simili
che sopravvivranno alla sua morte e continueranno a perseguire la sua
causa. In tal caso, egli non fa mai il gioco del nemico,
facilitandogli la sua umiliazione, e fingendo di amarlo come se
stesso quando esso rimane qualcosa di diverso e dunque di ostile.
Egli combatte, invece, contro di lui,
fino all’ultimo residuo di energia,
per indebolirlo quanto è ancora possibile. Il cristianesimo ha di
fatto ucciso i due istinti fondamentali in cui si esprime la vita:
esso ha condannato sia la Guerra che l’Amore nelle loro forme sane
e naturali, riproponendoli nelle loro forme perverse e mortifere: la
guerra (contro se stessi!) e l’amore (verso i nemici!). In questo
modo esso impedisce la conservazione del presente (che richiede la
battaglia) e la sua conseguenza ovvero la salute e la nascita di
spazi creativi protetti, necessari al progresso della civiltà.
Quando si entra in una pagoda, bisogna
togliersi le scarpe. Quando si scende in campo, bisogna menare come
dei fabbri. Le autorità politiche devono per la precisione far
rispettare la sacralità di tutte le attività utili del regno nei
loro luoghi, forme e regole. Nella promiscuità sociale, in cui non
si sa più qual sia il luogo per cosa, e si crede di rispettare tutto
quando non si rispetta più niente, ecco possiamo vedere sorgere
mille discussioni e scontri tra persone che hanno tutti torto e tutti
ragione, nel senso che la ragione o meglio il torto del conflitto è
che dovevano restare ognuno a casa sua, ma i partecipanti
hanno anche ragione perché a nessuno di loro è stata garantita una
casa… a questo punto, ognuno esprime la sua natura laddove la vita
lo abbia condotto, trova delle opposizioni e pensa: forse non è
giusto imporsi sugli altri, ma nemmeno è giusto farsi sottomettere
da loro, dal ché nasce la disputa. In essa, vediamo l’uomo più
gretto che deve la sua prepotenza alla totale mancanza di riflessione
circa il prossimo e la società, ed afferma così, animalescamente,
la priorità del suo bisogno. A questo tipo di uomo non è
accessibile alcuna questione d’onore, poiché essa viene esclusa
dall’individualismo e presuppone invece la percezione del rapporto
che ci lega ad altri. Ciò implica che, qualora quest’uomo si
trovasse all’occasione debole, non sceglierebbe di difendere
ugualmente il proprio diritto, non ne farebbe una questione di
principio, ma sceglierebbe la rinuncia e la fuga senza dubbi di
coscienza, cercando altrove la soddisfazione e sperando una seconda
volta di essere di nuovo il più forte e affermarsi con altrettanta
naturalezza. Questo tipo umano può ripresentarsi anche nello stadio
di un individuo di linguaggio e di cultura: quello che però utilizza
qualsivoglia argomento o nozione gli consentano una affermazione
momentanea sull’avversario, senza alcun riguardo né alla verità
in sé né alla coerenza personale, ed infatti lo vediamo negare oggi
quello che aveva affermato ieri senza alcun imbarazzo. Non avendo a
cuore costui altri che sé stesso, non ha infatti timore di urtare
nessuno, e dunque di ledere alcun principio, che di quest’ultimo è
difensore e garante. Vi sono poi quelli che son capitati lì ma sanno
di poter andare anche altrove e di non necessitare proprio di quel
posto, sicché per evitare spiacevoli complicazioni, e vedendo
persone assai più motivate e accalorate, scelgono appunto questa
soluzione. Vi sono anche quelli che lottano per la propria
affermazione perché si rendono conto, da persone mature, che la
priorità spetta a loro per ragioni soggettive (quelle che, basandosi
sul principio individualista, pongono sempre la nostra
priorità sul prossimo) oppure per ragioni oggettive (quelle che, pur
basandosi sul principio organicista ed anzi traendo da esso una
seconda ragione, sanciscono ugualmente tale priorità): quelle
soggettive sono costituite dal fatto che essi conoscono lo stato
generale di disordine in cui verge la società, e valutano che nel
complesso della lotta degli egoismi, spesso mascherata da una finta
ed ipocrita riflessione etica volta ricevere qualche favoritismo e
vantaggio personale, essi hanno avuto quasi sempre la peggio, sono
stati mortificati in misura molto maggiore da persone che
costituivano la prepotente maggioranza ma non avevano poi ragioni
oggettive (ossia socialiste) per rivendicare un ruolo prioritario. Ma
oltre al rancore per chi lo abbia molestato e mortificato per suo
porco interesse, irragionevolmente e magari appigliandosi a falsi
principi giustificativi sul piano sovrapersonale, oltre al desiderio
di vendicarsi, e di rifarsi altresì dei bottini perduti, e da allora
in poi proteggersi dai finti idealisti fattuali egoisti
e fare anche lui il proprio interesse,
può tuttavia comparire in lui anche una rinnovata ottica socialista
e dunque organizzatrice. Essa si esprime, nella gestione societaria,
sotto forma di una ricerca di criteri di priorità. Sottraendosi
di nuovo all’individualismo, quel modo di vivere che, mettendo
tutti sullo stesso piano e tutti contro tutti, annulla qualsiasi
regola ed invalida ogni pretesa moralistica, quell’uomo che sia
mosso da un onesto proposito organicistico può riabilitare invece
queste e quelle: muovendo esse dal corretto riconoscimento di ogni
differenza ne fanno discendere una scala di priorità che
serva a vincere appunto la guerra contro le forze individuali che
impediscono l’organizzazione e dunque la realizzazione di un
interesse più grande e stabile che coinvolga tutti. Se un tale uomo
ha dunque rinnovato e conserva in se stesso questo proposito, può
nella fattispecie ritenere anche per ragioni oggettive, e non solo
soggettive, che il suo bisogno personale detenga adesso
il diritto di essere rispettato e che dunque gli altri debbano
declinare le loro pretese ed andarsene, o per lo meno metterle in
secondo piano ed attendere il loro turno. Nell’organicista,
infatti, non vi è più una differenza reale tra bisogno personale e
bisogno generale: egli è, in quel passaggio, divenuto il mondo, e si
trova affetto dalla stessa complessità che per essere risolta
richiede una precisa sequenza di azioni, una delle quali, che guarda
caso deve arrivare proprio adesso e non altrimenti, è scrollarsi di
dosso un disagio personale che, oltre a far soffrire lui, gli
impediva di proseguire la sua strada verso la pacificazione generale
di cui egli, poiché sensibile e dunque fedele, detiene il diritto e
la responsabilità di gestione. Vi è poi la persona che, con una
decisione altrettanto maturata, sceglie di lasciare campo al
prossimo, per ragioni oggettive che sovrastano l’urgenza del suo
bisogno personale. Resta da stabilire ora in che cosa consista
l’Onore. Esso consiste nel fare la cosa giusta. Ma la cosa
giusta è quella che serve alla causa di cui siamo portavoce.
Pertanto, nella medesima circostanza, esistono tante azioni giuste
quante lo sono i tipi umani che vi possano incorrere, ognuno con i
suoi obiettivi da raggiungere. Ed è secondo tale varietà che
le nostre azioni verranno giudicate da osservatori esterni,
appartenenti alle differenti parrocchie. La scelta che facciamo
dipende infatti da quello che vogliamo, che è unitario, e solo
apparentemente dalla nostra gerarchia di valori, poiché
questa è contenuta implicitamente nel nostro fine, il quale è
tanto più ricco quanto più è elevato, potendo ergersi soltanto
sopra la china dei mezzi. Ma esso deve sacrificare parte del suo
bottino, qualora questo si riveli solo all’apparenza affine, ed in
realtà servitore del nemico, qualora indulgessimo nella sua
conservazione, e sia allora destinato a ripresentarsi sotto altra
veste, a soddisfar quel bisogno che poi alla vetta suprema conduce.
Chi ti biasima e ti appiccica bollini infamanti di qualsivoglia tipo
ed in una scala ascendente di gravità, lo fa in funzione di quanto
tu ti sei dimostrato distante dalla sua bandiera, ossia dal suo
interesse, ossia dalla sua volontà. Ma da chiunque, nella medesima
circostanza, si sarebbe comportato nello stesso modo, nessuno
riceverà mai alcun biasimo. Se noi compiamo degli errori non
riconducibili alla volontà, ma solo alla condizione di impurità
nella quale ci trovavamo, di debolezza contingente quindi e non
intrinseca, abbiamo di fatto servito, senza colpa, volontà estranee
e dunque cause altrui. Ma qualora i nostri fratelli riconoscano
questo, essi ci giustificano.
È sempre possibile dunque e soltanto
giustificare l’errore di un fratello contaminato. Il Rispetto è
una cosa che viene data unicamente ai propri fratelli. Esso non è
altro che un patto di sangue che li lega spontaneamente per tutta la
vita. Tra appartenenti alla stessa fede dunque, a prescindere dal
ruolo con cui si serve la bandiera, vige il rispetto: dunque rispetto
provano i subalterni verso i loro gerarchi ma anche viceversa, e con
la stessa intensità, e rispetto verso i propri commilitoni.
L’Ammirazione è una cosa che si può dare invece soltanto a chi
serva 1) la nostra stessa causa 2) nel medesimo ruolo 3) con forza
superiore alla nostra. Tale è il sentimento che provano gli allievi
per i maestri, ed è destinato ad affievolirsi man mano che il
livello dei primi sale e scomparire quindi, quando l’allievo
raggiunge il maestro. Trattasi dunque di un sentimento di natura
sempre temporanea, e che può essere dimostrato soltanto da una
visibile emulazione, altrimenti è fasullo e ipocrita. Non si
ammira infatti colui, il cui esempio non si segue.
La Commozione, come tutti i sentimenti
positivi, è basata sull’affinità. Ci si commuove dinanzi ad un
fratello di sangue e di ruolo che vediamo votarsi in nome della causa
ad un sacrificio superiore a quello che noi stessi stiamo
sopportando. Vediamo quindi come essa sia un sentimento temporaneo,
come l’ammirazione, e che abbia, al pari di questa, ben tre
condizioni a) affinità di sangue b) identità di ruolo
c) una differenza di situazione che ci pone in posizione
subalterna nell’espletamento di una virtù. Non è facile, dunque,
ammirare. E non è facile commuoversi.
Se la prova dell’ammirazione è
l’emulazione, la prova della commozione è la difesa istintiva
della scelta del nostro fratello, che noi possiamo definire nobile
solo alle condizioni suddette, e dapprima impediamo che qualche
agente esterno si intrometta, dopodiché ci impegniamo a fare in modo
che il suo sacrificio non sia stato vano. La vera commozione (che è
partecipazione) non può prescindere quindi da una parità di
livello: come nell’ammirazione è contenuto il fatto che anche
noi saremo un giorno capaci di eseguire ciò che il
maestro ha fatto, nella commozione noi ci rendiamo conto che anche
noi saremmo in grado, nella medesima circostanza, di
compiere la stessa scelta.
Constatiamo dunque come l’onore sia
una questione legata all’identità, e non sia addirittura altro che
l’estrinsecazione di questa nelle arene della vita. L’identità
si rivela nell’insieme delle nostre scelte ma, non essendo
modificabile, si rivela invero perfettamente e nella sua completezza
in ognuna di esse, poiché ogni scelta è la stessa scelta,
che ha come condizioni quell’intero mondo, in tutti i suoi fattori,
cui noi ci opponiamo per piegarlo alla nostra volontà. Non è
pertanto possibile disonorare la propria bandiera perché non è
possibile tradire se stessi. Dunque non sarà neppure mai possibile
ricevere disprezzo da un proprio fratello che non sia stato ingannato
sul nostro conto, ed allo stesso modo non sarà mai possibile essere
sinceramente onorati da un nostro naturale avversario che non sia
stato analogamente male informato sui fatti. I fratelli hanno sempre
la priorità sui nemici: il più piccolo bisogno di un fratello viene
prima della più fondamentale necessità di un nemico. Questo tutti
lo sanno perché tutti hanno una identità e si sono comportati di
conseguenza nella vita. Non è possibile imporre a nessuno l’amore
per un dissimile, oppure l’odio per un simile. Tra dissimili vi è
una differenza di genere che sovrasta qualsiasi differenza di
grado presente all’interno di un genere. In qualsiasi
gerarchia sociale di un corpo omogeneo, la priorità di chi
sta sopra discende unicamente dal fatto che dal gerarca dipende la
sorte di molte persone: nel corpo sociale disomogeneo, la
qualità può battere la quantità, perché una massa di incapaci è,
in quanto non funzionale alla causa di cui si è rappresentanti, da
sacrificare anche ad un sol uomo capace. Sicuramente, dovendo
scegliere tra la sopravvivenza di un Re inetto e quella di un
eccellente Spazzino, bisogna sacrificare il re. Fatto sta che il re
inetto non è altro che un re avversario, che verrebbe invece
osannato da tutti i rappresentanti della fazione nemica. Quando
invece noi definiamo un gruppo di individui dei fratelli, è già
implicita la qualità in ogni loro grado: ognuno di loro rispetta gli
altri e non ci sono battaglie interne per un ruolo che tutti sanno
spettare solo ad una persona, e si ha una organizzazione
spontanea, priva di lotta. Una organizzazione omogenea implica
dunque l’efficienza riconosciuta di ciascuna funzione, sicché, in
tempi di guerra contro il nemico, l’unico fattore che determina la
priorità del gradino superiore è che la sua sopravvivenza può
garantire la sopravvivenza di molti più uomini e dunque condurre ad
una miglior gestione della guerra ed alla vittoria finale. Quando
infatti tutti gli uomini sono di pari valore, qui è ben il numero
a fare la differenza e giammai si può considerare conveniente
perdere un maggior numero di unità. In tempo di pace, invero, tutti
i ruoli sono parificati poiché vedono paralizzate le loro funzioni:
non vi è un nemico da cui difendersi e dunque nessun pericolo di
morte. In questi casi il concetto stesso di priorità perde di
qualsivoglia significato. Esso lo acquista invece, pienamente,
nell’ambito bellico, dove le forze esterne impongono scelte e
dunque sacrifici. Si deve sempre favorire l’uomo che è ancora in
grado di realizzare l’obiettivo finale, e precisamente un
delitto contro la propria specie, che merita il nome infame di
Egoismo, è pretendere che un uomo che possa oramai servire soltanto
se stesso e comunque un giorno morire senza nulla tramandare ai
posteri, cosicché possano proseguire la battaglia della specie per
il posto che la natura le ha assegnato sulla terra, riceva maggior
rispetto e protezione di colui che è ancora in grado di servire la
causa. Questa è una abietta morale anti-vitalistica ed anti-eroica.
L’eroe merita di vivere e sa quando deve morire. L’anti-eroe non
merita di vivere e non è mai disposto a morire. Chi non è più
funzionale alla causa è un peso morto, che non merita nemmeno di
essere vivo, e di succhiare le sostanze del corpo sociale senza
costituirne una valente prole destinata a far grandi cose. Non è
assolutamente giustificata dunque l’indignazione con la quale si
constatasse che un conflitto armato avesse provocato delle vittime
“tra i civili”, come se ciò fosse un delitto mentre i soldati
potessero tranquillamente morire come le mosche perché tanto è il
loro mestiere. Se un cittadino cura la sua famiglia, si adopra
nell’officina, nel campo, nel cantiere, nella guida di un tram,
nella costruzione di un oggetto utile, nell’impartire utili
insegnamenti, nell’effettuare ricerche, nel curare gli ammalati,
nella pulizia dei bagni e delle strade, nell’allietare la gente ed
infervorare lo spirito con la sua musica, egli è sempre in qualche
modo un soldato che serve la causa nazionale e non vi è allora
alcuna differenza di dignità con chi sta al fronte, e quindi la
nazione ha il diritto ed il dovere di piangere nello stesso modo un
caduto dell’esercito in senso stretto ed un caduto dell’esercito
in senso lato. Ma se una persona fosse solo un parassita sul corpo
nazionale, se non avesse niente di militaresco nel suo ruolo, questa
non potrebbe nemmeno chiamarsi cittadino e dunque non si
tratterebbe di un civile, ma di un individuo inutile che non potrebbe
nemmeno richiedere di avere dei diritti e di essere difeso dai veri
cittadini, operassero questi al fronte, o nelle retrovie con la
stessa nobiltà, e la sua eventuale perdita sarebbe forse addirittura
un guadagno. L’unica cosa sacra, nella vita, è la causa che
questa deve servire: e nessuna vita in sé stessa sarà mai qualcosa
di sacro.
Anche il benessere non è sacro, ed
anzi i sacrifici, posti in termini di vite umane e di felicità
personale sono doverosi ad essere deposti sull’altare di una giusta
causa. Per qualcosa si deve vivere, combattere, ed anche morire, non
si può restare in panciolle come se fosse nostro diritto e la
felicità ci fosse in tale modo garantita e consegnata come un regalo
divino e ci tenesse accarezzati come gatti da salotto. È indecoroso
indignarsi o lamentarsi delle sofferenze causate e dal sangue versato
da idee, concetti e battaglie: se erano idee giuste, giusti concetti
e giuste battaglie! Zuccherando invece la propria pigrizia pacifista
che lascia i problemi inalterati e la propria laidezza morale che
sviluppa i vizi e fa degenerare la civiltà e le capacità umane e
miete si molte vittime e produce delle sofferenze, stavolta davvero
ingiustificate. È veramente un indignitoso spettacolo vedere un uomo
che pone il proprio benessere e la propria serenità come punto di
riferimento sommo, come altare dal quale giudicare tutto il resto
secondo che li conservi o li metta a repentaglio, senza contare poi
com’egli trascuri di considerare tutte quelle battaglie altrui che
storicamente hanno contribuito a creare tal benessere, di cui oggi
suole compiacersi.
Un fondamentale errore dell’etica è
separare l’idealismo dalla felicità personale, per la mera
constatazione sociologica o storica del divario che spesso separa una
persona dai grandi ideali e sceglie di seguirli, dalla conquista
effettiva della felicità. L’uomo dal piccolo animo, ha dei piccoli
ideali, dunque facili da realizzare: ma la sua felicità non
prescinde comunque dal loro perseguimento, dunque dal suo piccolo
idealismo. La vita infatti non può essere davvero felice se non
realizza La Causa. Ogni deviazione da essa non fa altro che
dilazionare le uniche battaglie davvero utili e gratificanti:
sprecando tempo ed energie, logorando spirito e salute, immagine e
rapporti sociali, per un uomo che ha provato ad essere normale ma non
vi è riuscito e non vi poteva riuscire, ma per ogni uomo in genere
che sia stato indotto ad essere altro col risultato di non mai
parerlo nemmeno agli occhi degli altri, sicché sarebbe
stato più credibile, efficiente e rispettato come avversario puro e
semplice, o come distaccato solitario che accetta il suo destino ma
almeno lo affronta al massimo delle possibilità, non solo negative
ma anche positive, verso le mete che tale percorso può realizzare a
patto che non si continui inutilmente a prostituirlo con altri che vi
restano incompatibili, allorché ogni compromesso si è rivelato e
continuerebbe a rivelarsi non proficuo ed inconcludente, eppur
dispendioso e pungente, inquinante e fiaccante, facendoci infine
apparire anche degli incoerenti, dei deboli d’animo, dei
rinunciatari, delle persone non molto serie, su cui non è lecito
investire, riducendo le probabilità di quella sola forma di successo
che davvero conta e creando accumuli di lavoro non svolto. Dunque è
sempre preferibile anche per il singolo riversare tutte le sue
forze nella propria causa connaturata, quale che sia la situazione
storica e circostanziale cui la provvidenza ci ha chiamati a
combatterla: senza giammai sperare in altro, senza prestare orecchio
a seduttori e critici, agli sciocchi e agli egoisti, ai fattuali
nemici, evitando ogni illusione di benessere spurio, alienato,
rinunciatario, libero arbitrario, modestizzato, mutilato,
narcotizzato, con particolare attenzione alla velenifera assurdità
secondo la quale sarebbe possibile porsi un obiettivo, che non
sia quello che già parla in noi dalla nascita e ci manovra come un
demiurgo in ogni scorcio d’esistenza: che si possa dunque zittire
la natura e reinventarsi una volontà con una specie di gioco di
prestigio. Se accetti fin da subito la prospettiva di morire per la
tua causa, il fatto conseguente di vivere solo per essa ti
darà invero molti vantaggi. Smetterai di guardare il prossimo
facendo indebiti ed insensati confronti, tra persone che seguono
obiettivi diversi in territori diversi ed è ovvio che non possano
presentare né pretendere un parallelismo ed una somiglianza di
acquisizioni. Smetterai di pensare a sviluppare altre virtù che non
siano quelle di cui hai bisogno per il tuo obiettivo e la cui base ti
è senza dubbio stata donata da madre natura nella cassetta degli
attrezzi primari. Non sarà per te un’angustia notare altrui
qualità positive dal momento che non sei tenuto ad eguagliarle come
a loro non è mai passato per la testa di dover eguagliare le tue:
siano esse qualità naturali e che li rendono atti al successo in un
campo che non c’entra col tuo e che hanno più diritto di te di
conquistare, o siano invece qualità acquisite per via di vantaggio
esteriore ed anche di questo non ti devi curare poiché prima o poi
la finta roccia si sgretola e rende a Cesare quel che è di Cesare,
ed in questo caso l’imperatore usurpato di meriti e possessi non
saresti nemmeno tu, ma un milite di quel settore che si era visto
danneggiato da un meschino rivale e puoi metterti l’animo in pace,
ché sono affari suoi. Questo personaggio il quale a sua volta
dovrebbe armarsi di saggezza ed applicare lo sdegno dell’apparenza
che non rende il debito onore alla sostanza, pensando che ogni falsa
apparenza è temporanea come ogni vera ingiustizia che le sottende,
che di tale ingiustizia non siamo noi i responsabili, ma il cui
risanamento non può costituire il nostro obiettivo prioritario, di
cui tanto sentiremmo il bisogno, dacché le sue basi son troppo
profonde per poter essere inquadrate dalla nostra posizione e perché
già ora deteniamo la forza di scalzarle. Ciò che dobbiamo fare è
invece compiere ugualmente il nostro dovere, fino in fondo con la
massima passionalità e perizia anche sotto il giogo di mille
stridori e impedimenti di sorta. Non importano adesso oppressioni e
mancanze, non importino offese, umiliazioni, guasti: sembrano
insostenibili…
Ma sostenibili sono, e lo sono
tanto di più, quanto meno tempo perdi a crucciarti delle mancanze
presenti e reagisci subito con tutte le armi che hai spianate, su
tutto il perimetro del tuo fronte ideale, ignorando la data
dell’effettivo riscatto o se questo davvero avverrà, ma
conquistando più progressi che puoi, senza fermarti mai, rilanciando
sempre, affinando la prudenza del tuo coraggio ed il coraggio della
tua prudenza, riducendo ogni volta di più il margine di tempo morto,
di spreco, di degenerazione autoinflitta dall’immaturità. Sia
chiaro, tu non devi giammai accettare l’ingiustizia… ciò
non sarà mai giusto, infatti, né onorevole dunque. Devi invece
resisterle e sfidarla con pazienza. Ti vendicherai, infine: ma solo
nel contesto della realizzazione di quel progetto più grande cui eri
nato al servizio. Sicché non porre il carro innanzi ai buoi: fedele
invece concentrati in tale servizio,
senza badare a spese che non danneggino irreparabilmente il
protagonista impedendogli di conquistare il risultato finale che poi
ammortizzerà queste ed altre,
che avrà conseguenze talmente grandi
da farci quasi scordare il peso delle premesse, la cui matassa
infettiva può ora ben essere sbrogliata. Agisci grandemente anche
senza il companatico di soddisfazioni sociali che ogni uomo considera
giustamente associato alla virtù: dacché una vittoria finale avrà
in tal caso un onore raddoppiato. Se tu segui dunque la tua via,
avrai una vita fiera e almeno parzialmente soddisfacente, la
caparbia concentrazione degli sforzi consentirà più quotidiana
speranza di successo finale. Ma l’alternativa è una tentazione
infida…
essa conduce solo apparentemente a
felicità maggiori.
Tu infine, comunque, morrai. Avrai
avuto solo le soddisfazioni comuni a tutte le cause, e quasi sempre
accessibili, ma quelle propriamente personali le avrai precluse a te
stesso per facilitare la vita ai tuoi avversari, scioccamente
persuaso di poter essere felice a modo loro, hai lavorato
fattualmente per loro senza essere come loro e dunque
senza godere di eventuali risultati. Ti accorgerai di non essere mai
stato motivato, gioioso, fiero, univoco, sincero, in armonia col
prossimo, di essere stato lento e dubbioso, come ogni uomo in cui
convivono istinti contrastanti. Pare dunque erroneo affermare che ci
si possa davvero sacrificare per la propria causa. Ci
sacrifichiamo, invero, solo allontanandoci da essa. La chiave
dell’eroismo gioioso sta appunto nell’affrancamento di esso dal
concetto del martirio, dalla purificazione della nostra azione dal
concetto antivitalistico di morte. Noi ci sentiamo morire perché
sopravvalutiamo una vita che non ci appartiene. Non ci appartiene la
vita degli altri. Non ci appartengono gli obiettivi e i possessi che
non siamo nati per perseguire. Quando moriamo e siamo infelici, è
perché non eravamo pronti a morire. Ma se non lo eravamo è perché
ci siamo sbattuti nella direzione sbagliata, verso qualcosa che
poteva essere raggiunto solo sacrificando il nostro vero spirito:
questi si è ribellato e la sua unione con la vita ci ha condotti
alla morte anzitempo. Noi non abbiamo dunque realizzato noi stessi e
nemmeno le cause degli altri dal cui spirito eravamo fin qui
dominati. L’unica cosa che ci può impedire di realizzare noi
stessi è quindi cercare di realizzare quello che non siamo. Imitare
il prossimo. Voler essere come lui. È il prossimo, quindi,
l’influenza del prossimo, che ci fa morire.
Segui solo te stesso, e anticiperai te
stesso, col risultato che nessuno ti sta davanti e nessuno ti sta
dietro, non sarai dunque in debito, e non sarai in credito, non avrai
prestato né preso in prestito niente da nessuno: se ci sei solo tu,
sei necessariamente pieno, non approderai alla sensazione terribile
di morire incompleto, di abortire il parto del figlio di un Dio, non
giunto a maturazione per intrusioni inopportune nelle storie degli
altri e delle loro storie nella tua. Se completo morrai, saprai che
non servi più, che sulla vita hai vinto tu, che un nuovo Domani
vincerà per te, che più non sarà quello Ieri che odiavi. Il
segreto per vincere anche quando si perde, è di vivere per se
stessi.
Il segreto per perdere anche quando si
vince, è di vivere per gli altri.
Ma la vittoria ideale sull’ingiustizia
non è su essa vittoria materiale. Non sei giunto ad essere leggero
senza essere stato pesante. Però non è giusto, essere pesanti. Un
grande spirito abbandonato a se stesso su strade criminose lastricate
d’infamie giungerà ad illuminarsi, siccome a guarirsi, a
distaccarsi, sarà scrittore e picchiatore e costruttore ed amatore e
guidatore e animatore chiasmante e musicante, può essere tanto
altro, fatto sta che…quel che allora fu non doveva essere, fu
ingiusto allora sarà ingiusto domani, e vano sarebbe tanto
acrobatismo, se l’uomo di domani subisse ingiustizie altrettali.
No! Esse vanno annientate. Prevenute. Illuminate almeno alla sua
giovane mente che se ne sappia un tanto difendere e poi proietti
oltre un cambiamento che dalle sue mani già precocemente mature per
il nostro influsso forse ancor nella sua vita personale scenderà sul
piano concreto. Egli vedrà le pietre del regno, egli vivrà
meno postumo di noi, e lo farà per noi che glielo abbiamo
consentito. Allora codeste ingiustizie vanno delineate e in degno
stile denunciate. Gli stolti di domani non avranno i diritti con cui
hanno piagato i nobili di ieri. Alla scorrettezza legheranno le mani.
Bruceranno oppur la testa nel catrame.
Ed allora due aspetti di essa siano
adesso illustrati…
Una cosa veramente spregevole è
l’ipocrita ed ingrato pacifismo di chi, in tempi di pace, sostiene
di biasimare ogni sorta di soluzione violenta quando è salito sul
carro del vincitore come gli altri, dopo aver sperato con tutto il
cuore che quella fazione vincesse pur non partecipando direttamente,
oppure colui che, guardando un film storico dal punto di vista di una
generazione successiva,
si esalta e tifa per le gesta dei suoi
antesignani compari, e ha condiviso a mani basse il bottino di
ricchezze, potere, diritti e possibilità conseguenti ad una vittoria
militare. Egli deve i suoi attuali possedimenti e sicurezze personali
a quello che è stato conquistato da altri con la spada e tuttora
protetto dalla forza armata. Se questo spudorato villano si mette a
calunniare la violenza, egli insulta i suoi benefattori, e questi
dovrebbero a un bel momento essere legittimati, nel prossimo
conflitto, a spedirlo al macello per primo intimandogli di essere ben
Valente, perché ci tengono anche loro a passare una trentina d’anni
di serenità e benessere. La stessa orrenda ingratitudine raccolgono
spesso, stavolta sia dai combattenti che dagli ereditieri delle lor
battaglie, gli uomini d’intelletto e ricerca: quelli cioè che
hanno dato l’abbrivio al tutto, che hanno precedentemente
speso una vita di impegno e sofferenza controcorrente per creare
delle conoscenze o addirittura un Ideale nuovo che rappresentassero
una speranza di riscatto e progresso per l’umanità. Disconosciuti,
sovraccarichi, tormentati, infelici ed oltraggiati in vita: senza di
loro i soldati stessi, fieri di essere pronti all’azione epperò
assai pigri e spesso limitati mentalmente, non avrebbero una
causa per la quale combattere ed una valida occasione per
mostrare valenza, per non essere dunque una banda di ciechi predoni
senza arte né parte, senza una meta probabile ed opportuna. Gli
intellettuali tessono le bandiere e forgiano le spade: i soldati poi
usano queste in nome di quelle. Chi non ha conquistato una
bandiera non ha il diritto di sventolarla con orgoglio, ed il suo
onore può essere solo nel servirla. Il suo orgoglio, nell’averla
infine portata materialmente al trionfo ed al dominio.
Ma chi non abbia fatto né l’una né
l’altra cosa ed ora che i giochi sono fatti, formalmente e
sostanzialmente integrato fino in fondo nella società in cui vive,
dacché assolutamente nulla di originale sarebbe in grado di creare
ed apportare da se stesso, egli se ne vada per il mondo solo
impegnato a conservare od aumentare la sua quiete o la sua ricchezza
personali, vanificando i grandi idealismi del passato trasformandoli
di nuovo in piccoli egoismi, volti alla stasi e dunque
necessariamente al regresso, anziché al superamento; oppure si
mettesse a vivacchiare indolentemente, procacciarsi il necessario per
vivere adeguandosi senza alcuno sforzo mentale o critico alle
condizioni ed alle forme che il sistema attuale ed anche le
circostanze locali gli impongono per poterlo fare, ed in seguito
gozzovigliare, drogarsi, ubriacarsi, stordirsi con musica ripugnante
e attendere ad ogni forma di intrattenimento, senza scopo altro che
un ridicolo e squallido divertimento anti riflessivo, senza altro
Socialismo che non il bisogno di stare sempre in compagnia per non
affrontare la propria miseria interiore, e confrontandola con quella
analoga degli altri sentirsi meno miseri, senza promuovere
intellettualmente né operare concretamente il passaggio ad un nuovo
stadio di civiltà, assumendo talvolta un atteggiamento
cultureggiante e ribellistico da parte di uno che, di già a
guardarlo anche solo esteriormente dà la netta impressione di
essersi fatto un concetto positivo e poi addirittura una bandiera
della sua incapacità o pigrizia
nel rimettersi in sesto ed elevarsi,
talvolta di essere landronesco, sporco, ubriaco, sfatto, strafatto,
burbero, inelegante, indisciplinato, mentalmente limitato, naif, ed
altresì il suo concetto di libertà non sembra essere altro che la
libertà di rimanere tale senza essere messo in discussione o
svalutato rispetto ad altri, anzi avere il diritto di criticare
questi altri sentendosene eticamente superiori, addirittura impedire
loro che esercitino le loro maggiori capacità in maniera più
proficua, che si tratti di uomini altrettanto individualisti e però
più abili e scintillanti nell’accaparrarsi un maggiore successo,
spesso anche più risoluti e audaci, nonché tenaci verso la meta,
oppure invece di idealisti dalle capacità intellettuali e
caratteriali analogamente ben superiori: perché propriamente chi
sostiene principi di uguaglianza rimanendo egoista è solo uno che è
consapevole di essere inferiore agli altri sia in un ambito
competitivo che in un ambito idealistico, ma come tale non vuol
essere considerato e trattato. Un rivoluzionario, dunque, che più
conformista e difensore del sistema che gli fa fare quello che vuole
bisogna cercarlo, sbruffoncellante di frequente la propria bassezza
sentenziosa e quieta, priva di angustie perché priva della serietà
di una meta da raggiungere, di ingiustizie da sanare, e saputella,
giudicante, sdegnosa, beffarda, derisoria, inetta, egoista,
competitiva nel vacuo e nell’inutile, bramosa di ricevere amore per
sé, spesso screditante chi amore non tiene, o dei luoghi perduti
conosce le rene, mimante un improbabile amore ed una sensibilità per
il prossimo, un rispetto per l’umanità intera quando stenta a
rispettare i suoi migliori amici, e per lo più verso il prossimo è
evitante, prevenuta, chiusa, scarsamente disponibile, generosa,
disposta al sobbarco, ad intrusioni, interruzioni, contagi poco
allettanti o poco proficue sociazioni, poco considerante le ragioni
dell’altro in caso di pur modesto contenzioso, ascendente la sua
ipocrisia addirittura ad ideali di fratellanza, o di giustizia
universale, quando i fatti parlano chiaro: quanto al primo tema, del
suo rigoroso selettivismo che salva solo il radicalmente
affine ed il contingentemente compatibile, tollera ciò che di
diverso pur non lo tocca di striscio, sopporta quel che non ha
la possibilità di allontanare o perché non meglio annientare, ed
infine osteggia ferocemente, combattendolo assai spesso con
subdola meschinità, tutto ciò che davvero lo contraria nell’idea,
nell’ambizioni, nel comportamento, nell’interesse, nel gusto,
insomma il Diverso… Quanto al secondo tema, il profondo anelito
di giustizia, i fatti illustrano qui prontamente ed in prima
battuta il suo fondale menefreghismo, la selettività delle sue
preoccupazioni e la superficialità del suo spesso solamente
manifestato ma non sentito struggimento per quanto nel mondo non
funziona o presenta ingiustizie, anche perché uno struggimento
condiviso da milioni e milioni di persone a me sa tanto più di
comitiva festaiola politicheggiante più che di angoscia opprimente,
appannaggio di chi è controcorrente davvero, sente davvero una
risonanza simpatica interiore, sempre assai antipatica, di tutto ciò
che stride e pertanto percepisce una sorta di provocazione continua,
di rinnovato subbuglio, perdita delle certezze, espansione del campo,
di nuovamente tragico quesito, di responsabilità personale legata
alla capacità straordinaria e chiaramente insolita di analizzare e
connettere tutti questi problemi, ossia una vera speranza di poterli
risolvere e non soltanto fare delle considerazioni sparse su di essi
senza per lo più dire niente di nuovo oppure anche seriamente
occuparsi di un problema specifico sconnettendolo
dall’insieme: sicché percepisce tutta la sua gelida solitudine, la
mole di lavoro che lo aspetta e le capacità gestionali e
caratteriali necessarie vista l’ostilità incomprensiva del mondo
esterno. Vediamo invece da parte del soggetto imputato, l’istintivo
e magnetico avvicinamento ai nuclei di condensazione del
concetto di Ingiustizia, ovverossia quei temi chiave imposti dal
sistema stesso, anche tramite i mass media, da tradizionali gruppi di
interesse o fazioni politiche consolidate, come le ingiustizie in
voga, i problemi centrali dell’attualità moderna, talvolta
reali, ma spesso assai incompleti oppure presi come specchi per
allodole e capri espiatori volti ad evitare che si parli anche
d’altro, che si possano innestare troppe connessioni, addirittura
intuire ed un bel giorno arrivare a identificare e denunciare con
chiare lettere qualcosa di estremamente losco, malvagio, occulto e di
somma locazione sociale che sta dietro tutti questi singoli o non
precisamente interconnessi problemi. Il qual fenomeno rivela, oltre
alla scarsa autonomia di pensiero e la non diversità di esperienza,
anche la mancanza di senso storico, esistenzialista e quindi
filosofico, incapace di parlare in termini generali di un problema
appunto universale, ma anche la fondamentale simbiosi del soggetto al
legno omogeneo della propria epoca e la mancanza di quella difformità
che cerca, in quanto sente, le proprie radici altrove e in tutt’altre
tinte vede il mondo, che egli vorrebbe ridipingere quasi totalmente.
Mai invece che qualcuno proponga una visione sua
dell’ingiustizia, magari partendo da una questione poco
reclamizzata, considerata o condivisa, per poi generalizzare,
espandendosi a tutte le forme di ingiustizia, se davvero tutte
le vogliamo sanare, attraverso un percorso ermeneutico che ne
ridisegni le forme, le gerarchie e dunque le ipotesi di risoluzione.
Infine significativo è il suo assolversi automaticamente da
qualsivoglia ipotesi di collusione o anche sol sporadica
partecipazione al fenomeno dell’ingiustizia, il suo essere senza
alcun processo un cavaliere bianco forse depredato di qualche diritto
e interessante prospettiva futura, da difendere tutti insieme
appassionatamente e senza mai turbare la nostra serenità di fondo,
valore fondante della nostra esistenza e vero oggetto della nostra
passione, anche politica, come anche il non rendersi conto, o fingere
di non sapere che l’intero nostro mondo con i suoi sistemi politici
così evoluti ed ammirevoli è fondato sull’ingiustizia e difende
la conservazione e lo sviluppo delle ingiustizie da qualsiasi
attacco, e lui che finge nel branco di prendersela col sistema, alla
fine ha come nemici reali solo gli autori di codesti attacchi, anche
solo verbali, ipotetici o potenziali. Vediamo, in secondo battuta, le
scelte di costui testimoniare in maniera convincente la presenza di
uno scrupoloso amor proprio, se proprio qualche malalingua volesse
ancora insinuare calunniosamente che costui non si voglia bene,
coadiuvato da un tenace Semplicismo: di quel tipo che però giammai è
riuscito a raggiungere il semplice tramite il periglioso
contatto, quindi la disanima teorica ed infine la scrematura del
complesso e del conflittuale, e dunque rivela in lui la perfetta
ignoranza del significato stesso della parola Giustizia.
Un tal soggetto, il più delle volte privo nella sua memoria e dunque
nel suo organismo, dell’esperienza di un dolore veramente
significativo o insolito, e spesso indignantesi contro gli altri di
piccoli screzi del destino o torti ricevuti, mancanze, inaspettate
sconfitte, piccole mortificazioni personali, elementi di anche solo
superficiale disagio socio ambientale o umiliazione, non essere sullo
stesso piano con chi ti circonda o non essere apprezzato,
riconosciuto, che dappoi lo rendono astioso, critico, cinico,
prepotente, incapace di perdonare la persona in questione, il gruppo,
la categoria o quant’altro vi potesse essere connesso, escludente
una riconciliazione, manifestante fredda e caustica cattiveria verso
chi non gradisce o non stima e disponibilità a tradire anche i suoi
pseudo fratelli al sopraggiungere di un conflitto di interessi che
sovrasti il difensivismo di classe ossia l’esigenza di fare
compagine e caldo terriccio con tutti quelli che amano vivere nello
stesso modo e necessitano di giustificarsi a vicenda, peraltro
condannando con odio chiunque viva diversamente, sia con un livello
maggiore di successo personale e dunque diverso solo nell’abilità
dimostrata nel realizzare il proprio individualismo, ma in
particolare con uno sdegno sulfureo e pronto all’omicidio verso chi
davvero ragiona diversamente, sente diversamente, infine in generale
un atteggiamento ingrato ed ipocrita verso chi è stato una persona
seria ed ha usato seriamente tutti gli strumenti che possano condurre
ad un progresso e di quest’ultimo la vittoria sociale, persino
qualora andasse a vantaggio suo…Ecco, non vedo tale razza di
uomo, che suole tal più presentarsi come un punto di riferimento
per l’etica, una sorta di legittimo tribunale e pietra di paragone,
le cui idee pretendono non solo di essere prese in considerazione, ma
di essere investite a priori di un’aura di nobile superiorità, di
una autorevolezza, e giovanti della loro vastissima diffusione
sociale che sostituisce il peso degli argomenti, non vedo questo
individuo che razza di motivo possa addurre per richiedere ed
anco ricevere una qualsivoglia forma di rispetto.
Ammessa orbene la qualità di
tutti gli aderenti ad un movimento, non susciti tuttavia delle
sciocche proteste il fatto che, nelle guerre, i soldati siano i primi
a morire, e lo facciano in moltitudini: mentre solo per ultimi, a
guerra perduta, tocchi la morte ai capi. È vero che senza la
completezza dei gradi della scala, nessuna causa giunge a
destinazione, che dunque anche il capo dipende dal soldato
semplice. Il fatto è che vi dipende in modo non univoco.
Perché negli strati subalterni gli elementi validi sono reperibili
in numero sempre maggiore, e dunque sono sostituibili, mentre
più si sale nella gerarchia, più è difficile trovare dei sostituti
all’altezza ed infine, il leader risulta spesso davvero un
personaggio unico nel suo genere, tanto che si arriva a dire che un
movimento muore con la morte del Leader. Quello che tutti gli
aderenti hanno diritto di pretendere dal capo, prima di seguirlo, non
è che egli sia pronto a morire per primo - poiché ciò non è utile
alla causa - bensì che egli sia pronto, a tempo debito, se sarà
necessario, a morire anche lui. La stessa cosa può essere pretesa
dai superiori verso i loro sottoposti. Concludiamo che l’unico ed
imprescindibile criterio per assoldare un individuo qualsiasi ad una
causa qualsiasi è assicurarsi della sua consustanzialità
alla causa, dunque la sua affinità a tutti i fratelli, poiché
questa caratteristica, che prende poi il nome di Onestà, ha per
corollario tutto il resto: un impegno irriducibile di vita e di
morte. L’Onestà verso una causa è una cosa che non può essere
tolta e non può essere creata. Quelli che ci si trova
a dover costringere con la forza e l’inganno sono già dei nemici,
e tali atti di forza ed inganno fanno invero già parte della guerra.
Chi non è attento all’estetica non è
attento neanche all’etica. Una persona di superiore senso etico
detiene anche un superiore senso estetico, perché appaga con finezza
e con grandezza maggiori, e di sittale qualità necessita d’essere
appagato. Chi è in grado di apprezzare pienamente un’opera di
determinato valore, non è detto la sappia produrre a sua volta, ma
certamente ne sa produrre un’altra, di pari valore, in un altro
settore e quei due artisti si meritano come tutti gli spiriti affini.
Precisamente questo è il rapporto tra
buon gusto e creatività.
Se un allievo non è potenzialmente in
grado di eguagliare un maestro, egli non merita quel maestro.
Se un allievo è in grado di superare un maestro, è qui il
maestro a non meritare l’allievo: giacché, un individuo superiore
in una disciplina lo è tanto nei colpi eccezionali quanto nei
fondamentali.
La sua qualità superiore si esprime
infatti nei secondi come nei primi: già si vede nelle prime sessioni
di lavoro che costui è destinato ad essere grande ed anzi, la sua
futura capacità di fare cose grandiose dipende da quanto già si
destreggia in maniera straordinaria in quelle elementari. È giusto
quindi che egli debba imparare anche i fondamentali da un
maestro che sia alla sua altezza. Perché il maestro medio non esegue
invero nemmeno i fondamentali con la classe di un fuoriclasse:
il suo esempio sarebbe quindi limitante, soprattutto se egli non
abbia accesso ad altri, ma anche qualora ce lo avesse. Non servono
ben infatti svariati esempi di cose imperfette: ne basta una
perfetta. Le cose mal riuscite non vanno studiate, ed il miglior modo
di evitarle eticamente, ossia di non farle, è di cominciare
evitandole esteticamente, non entrarvi dunque in contatto, perché
noi non possiamo fare mai a meno del tutto di farci contaminare da
quel che vediamo, e conseguentemente di imitarlo. La giovane speranza
ha bisogno di avere invece davanti agli occhi un esempio chiaro ed
integro di ciò che egli sarà, affinché l’estetica possa ben
trascinare a sé l’etica, in un passaggio di testimone della
miglior virtù, ed il piacere ricevuto dalla prima venga restituito
alla seconda con la gratificazione che l’allievo donerà al
maestro, tramite risultati e vittorie. Perché l’insegnamento sia
efficace, è assolutamente fondamentale che tra allievo e maestro
regni una assoluta stima. Questa però non può
provenire da altro che dall’affinità. Mentre nei nostri modelli
educativi improntati alla promiscuità non si abbia l’ardire di
parlare di Selezione, quando vediamo ovunque 1) Insegnanti che
insegnano per un magro stipendio anziché per vocazione 2)
Allievi che si iscrivono a questa o quella scuola senza sapere
precisamente cosa vogliono diventare e se tale scuola effettivamente
li condurrà a codesto vago obiettivo 3) Insegnanti senza
possibilità di scegliere i propri allievi e vincolati altresì a
seguire dei programmi standardizzati 4) Allievi che non
possono scegliersi gli insegnanti e che devono, come questi, seguire
tali programmi 5) Allievi ed insegnanti che si disprezzano a
vicenda e non vedono l’ora che la scuola sia finita, e nel
frattempo si sopportano con dei compromessi ed entrambi attuano un
compromesso con il sistema che sta sopra di loro.
Risposta adeguata ad una ignobile
violenza concettuale…
Vincerò io, capito? Si faccia pestare
nel tino dell'ingiustizia, si faccia offendere,
opprimere, avvelenare, guastare,
disturbare, turbare, rovinare la vita, deridere, criticare,
ostacolare, spadroneggiare da uomini e
donne senza intelligenza e onore, e poi vediamo se guarda ancora di
sbieco l'estremismo. Tutti quelli che fanno così vogliono solo
sancire lo stato presente come giustizia: ovvero il loro dominio e
benessere, ed hanno paura che tutta questa rabbia fluisca contro di
loro. Allora scelgono di distorcere la retta filosofia per screditare
e incaprettare i loro avversari, vituperando l'uso della forza come
il fallimento della filosofia, oppure il fallimento della
ragione: eppure loro la forza l'hanno usata quando avevano torto,
si sono imposti e mantengono in vigore il loro dominio appunto con la
superiorità numerica, il benessere, i diritti usurpati, la
legislazione, la strutturazione del mondo materiale a loro immagine e
somiglianza, l'impostazione della vita economica e sociale, quindi il
monopolio culturale e la spudorata manipolazione, capziosa e
interessata, dei concetti dell'etica. Intanto che costoro continuano
a dartele, agendo meschinamente sia con le armi fisiche che con
quelle verbali, la loro idea è sostanzialmente che tu devi
continuare a prenderle e restare domato: e questo è il loro concetto
di pace. Ma il vero filosofo invece sa che la forza della ragione non
può affermarsi senza la ragione della forza: che dunque il tuo
cervello pilota deve assumere le sembianze del gorilla e di ogni
altra bestia meglio si adatti all'arena di ogni singola battaglia.
Santa è la violenza, infame mostro chi la calunnia.
La dittatura impone le opinioni
dall’alto, la democrazia le impone dal basso sottraendo però ad
esse il vincolo della responsabilità, ossia il complemento
condizionale di ogni autorità. Un buon passaggio potrebbe essere
questo: potete dire quel che vi pare ma sappiate che se dite una
stronzata pagherete col sangue i danni che ne sono conseguiti. In tal
modo i più si renderanno conto di non essere poi tanto sicuri del
loro valore intellettuale, e per evitare la responsabilità
rinunceranno anche all’autorità, consegnandola ad altri. Se non
fosse che, per realizzare ciò una autorità costituita che ha mezzi
per imporre la sua verità deve già essere presente, e in tal caso
non ammette che essa verità sorga dal basso. La mia proposta quindi
decade. Una autorità istituita esiste già e tollera che le spara
coerenti con essa, persegue i difformi.
Un mondo in cui anche una sola menzogna
sopravvive non merita di essere chiamato civile né di essere
rispettato. Una civiltà che conferisce diritti e libero corso alle
menzogne non può piangere i propri morti ad opera di rivoluzionari
indignati. Un uomo che mente non è un essere umano, e se viene
sterminato non può parlare di “crimini contro l’umanità” dopo
che lui per primo ne ha violentato il concetto. Vigeat veritas et
pereat mundus, hic et semper.
Le ipotesi sono come i sogni:
figurazioni di desideri e paure, sono eccezionali accessi al nostro
mondo interiore, viaggi intuitivi e come furtivi contatti con i
confini della nostra anima, dunque dei nostri ideali. In essi ci si
rivelano amici e nemici le cui fattezze non sono molto chiare
nell’usuale stato di coscienza. Dobbiamo fidarci delle ipotesi come
dei sogni, poiché queste come quelli ci portano più avanti, sono
uno squarcio luminoso improvviso verso ciò che dobbiamo realizzare,
ed una sensibile avvisaglia contro i grandi pericoli che ci aspettano
su quella strada. L’ipotesi è veritiera perché affine. Esistono
tante verità quanti sono i tipi umani. In una società disorganica e
dunque non gerarchica, queste verità sono in conflitto perché lo
sono gli individui: verità è infatti sinonimo di identità. Sino a
che il mondo non sarà unitario la verità sarà soggettiva.
Oggettiva, invece, quando i mille soggetti saranno divenuti oggetto:
un’unica azione a catena dall’alto verso il basso, coerente nella
forza, stroncherà le debolezze realizzando l’ultimo stadio della
coerenza cosmica. Non esistono ipotesi false, solo uomini deboli. Ma
se l’ipotesi è tale, se è dunque sincera, ogni ulteriore indagine
non farà che confermarla: ogni dato che troveremo, ovviamente,
personalmente interpretato, ossia filtrato, si conformerà a quel
dipinto come un tassello di mosaico costruito su misura e la
percezione del tutto, rafforzata da ogni tassello che si aggiunge,
richiamerà appunto gli altri, a ricomporre una originaria visione
unitaria, di cui la nostra persona conservava l’involucro.
La forza della mente lancia fulgida
rete ai confini inconquistati del corpo, essa sconfigge i nemici ma
il corpo non può seguirla: ma la tensione è creata, sicché uomo
d’intelligenza estrema che sia posto in locazione massimamente
subalterna conosce estremo il dolore.
Senza
l’eroica fiamma argentina dell’ipotesi, la scienza non si evolve.
Una
ipotesi è una testa di ponte insinuata in un territorio sconosciuto.
Se è una buona ipotesi ci permette di effettuare lo sbarco verso la
conquista, se è una ipotesi cattiva veniamo ricacciati in mare dalle
forze nemiche, e allora dobbiamo trovare un differente approdo.
Alla
base di ogni studio giace una volontà di potenza. Questa volontà si
infervora grazie all’improvvisa luce di una ipotesi. Sicché tu
devi affrontare qualsiasi studio solo animato dal tentativo di
verificare o falsificare quella ipotesi, tutto ciò che non vi
concorre va scartato.
Quando
leggiamo qualche testo e ci lasciamo guidare da esso, noi reagiamo
soltanto alle parole che solleticano un nostro bisogno, conciliandolo
oppure contrariandolo, e tale reazione è la nostra comprensione.
Quello che altresì accende il nostro interesse è il fatto che
alcuni elementi vanno a confortare oppure negare un’ipotesi che
avevamo già fatto ma temporaneamente sublimata nell’inconscio.
Dietro l’ipotesi stava un bisogno, dietro il bisogno una storia,
dietro la storia stavano una personalità ed un mondo. Il nostro
percorso conoscitivo, che si compie coincidentemente a quello attivo,
è la nemesi del rapporto originariamente infausto tra questa
personalità e questo mondo, ovvero la nostra vita.
Due persone uguali non discutono. Se
discutono, sono diverse, ma se sono diverse non possono mettersi
d’accordo: affinché potessero mettersi d’accordo dovrebbero
tutto al più scoprire che il punto di divergenza fosse solo
apparente ed in realtà, proprio su quel punto, essi fossero affini.
Dunque il problema, e la discussione,
si riducono ad accertarsi che si sta usando lo stesso linguaggio,
ossia che si sta parlando delle stesse cose. Una volta accertato
questo, se ancora si presenta la divergenza, è di valore
inestimabile sapere che essa si trova al di fuori della sfera
linguistica per giacere meramente nella sfera fisica e dunque alcuna
discussione, ossia alcuna operazione linguistica, può elidere il
disaccordo, ma solo appunto una operazione fisica: occorre modificare
i soggetti oppure entrare in conflitto armato. Le bandiere non
combattono mai se non tramite le spade: queste ultime infatti si
possono trovare sullo stesso piano, non invece le prime, che si
trovano in piani distinti, in una precisa gerarchia naturale che vede
quella superiore comprendere quella inferiore ma non viceversa, senza
che però la seconda possa giammai riconoscere la propria inferiorità
e non combattere pertanto la prima. L’Essere rifiuta l’Altro,
ossia il vero Non-Essere.
Essere sé stessi significa
ritenersi i migliori, ovvero gli unici. L’unico è
indiscutibile, perché per essere discutibile dovrebbe scindersi in
soggetto ed oggetto, ed il primo valutare il secondo, reagire ad esso
con un atto benevolo o malevolo. Prima di dimostrare dobbiamo essere,
dobbiamo essere per aver qualcosa da dimostrare, ma dobbiamo
dimostrare solo quello che non possiamo imporre, se non fosse che
quello che non possiamo imporre non lo possiamo nemmeno dimostrare,
giacché lo dimostreremmo sempre e soltanto a qualcuno che è diverso
da noi e non può dunque aver le stesse percezioni del mondo, dunque
ogni tentativo dimostrativo poggia sull’illusione di poter essere
il prossimo, di stare spiegando le cose a se stessi: sulla proiezione
dunque, di se stessi, nel prossimo, nella quale non si rivela altro
che l’invidia del suo ruolo sociale, nel quale vorremmo trovarci
onde poter semplicemente imporre la nostra volontà e con essa il
nostro intelletto.
Per sentire di fatto la propria
inferiorità mentale il nostro avversario dovrebbe fare cosa assai
paradossale ossia essere più intelligente di se stesso, in
quanto il soggetto che giudica è sempre lui, sicché dovrebbe
trovarsi a questo punto sdoppiato e sdegnare quell’altro essere che
però guarda caso è sempre lui medesimo e dunque per il principio
d’identità è costretto ad apprezzarsi ossia a voler esistere,
conservarsi, realizzare i suoi scopi, reagire agli stimoli esterni in
un modo ben preciso e naturale. La comparazione presuppone due
soggetti che, come tali, non sono un soggetto solo, sicché
l’autodisprezzo, qual versione intellettuale del suicidio, è
impossibile tanto quanto la suddetta scissione. Tu puoi dire ieri
ho sbagliato, non adesso sto sbagliando. Assumere un punto
di vista diverso significa già essere diversi. Non a caso la parola
convincere significa vincere insieme, ma per vincere insieme bisogna
essere simili, e l’avversario non può sopprimere la propria
diversità ad opera della stessa: no, sei tu l’unico che può agire
su di lui in modo distruttivo, e dove cerchi di farlo invece
intellettualmente, ti troverai di fronte all’irriducibilità delle
vostre differenti percezioni ad una percezione sola, allorché ti
viene la voglia di violentare i suoi sensi ed intelletto, perché
diventino più capaci, e rendendoti conto dell’impossibilità della
cosa, passi al desiderio della distruzione fisica di questi esseri
pericolosi ogniqualvolta tu non possa semplicemente toglierli dal
loro ruolo, in modo che non possano nuocere. Tutti i paradossi si
basano sull’autoreferenzialità, ossia sull’impossibile identità
di soggetto ed oggetto.
Il
cosmo è un sistema unitario, nessun elemento è isolato dal resto,
per cui, attraverso la mediazione di un determinato numero di
fattori, la condizione e l’azione di ogni ente di questo mondo
influenzano anche me. Sono ormai decenni che sentiamo discorsi
ecologisti seri e preoccupanti, ma che di fronte ad un interesse
economico rapido e tangibile non esimono le imprese dal fare quello
che vogliono pensando solo ad arraffarsi una fetta di mercato,
piazzare nuovi prodotti, stimolare bisogni e desideri superflui o
addirittura dannosi. E la gente si lascia trascinare, anche perché,
ad esempio nel campo della tecnologia, se non acquisti gli strumenti
all’ultimo grido, entro un mese sei tagliato fuori dal mercato; ed
un operaio che deve cambiare la macchina anche solo per andare a
lavorare non si mette certo a pensare all’impatto ambientale della
sua vettura e ai suoi costi di produzione pari all’energia
contenuta in x bidoni di petrolio. Solo dalla politica può partire
un nuovo condizionamento delle scelte economiche, sociali e private
che i singoli mettono in atto, perseguendo un interesse privato,
tangibile, a breve termine, ma di cui prima o poi pagherà le
conseguenze. Anche se ci fosse la volontà politica di fare questo,
la difficoltà più grande non è neppure quella dell’attuazione
di nuove regole, quanto quella di stabilire e dimostrare una priorità
assoluta, la condizione del
socialismo: perché tutti siamo animati soltanto da priorità
relative.
La
competizione può essere interpretata come la più grave malattia
della società moderna e industriale. Il bisogno di superare gli
altri nasce dal modello sociale secondo il quale, se non sei un
“vincente”, verrai di fatto scartato e calpestato e non potrai
soddisfare nemmeno i tuoi reali bisogni, mentre se sei un “vincente”
ti attende una “crescita” sempre maggiore che non si sa dove
voglia arrivare né se abbia senso arrivarci. Se invece un sistema
politico ti garantisce che nessuno ti sottrarrà mai ciò di cui
solamente hai bisogno, ecco che scompaiono la mentalità competitiva,
la prepotenza, la frode, il furto, l’inganno, l’ipocrisia, la
cattiveria, il rancore, la violenza, la malizia e l’invidia. La
concorrenza è inoltre concettualmente sbagliata e dannosa perché un
medesimo bene, e altresì un medesimo ruolo, sono più adatti nelle
mani di una persona che nelle mani di un’altra, e la persona stessa
e l’intera civiltà ne traggono più beneficio che nel caso
contrario.
Ci viene riportato da Hans Georg
Gadamer come i Greci appresero dagli Egiziani innumerevoli
conoscenze, ereditarono dai matematici babilonesi tecniche importanti
per le equazioni, per la teoria delle equazioni, quindi per
l’algebra, come diremmo oggi. Egli aggiunge: Eppure soltanto i
Greci raccolsero questi materiali, come nel caso di Talete, in un
concetto del sapere e, per così dire, in un ideale di scienza, così
formulabile: bisogna dimostrare ciò che si asserisce. Ed è noto a
tutti che in effetti il grande, definitivo risultato di questo ideale
di dimostrazione (che ha portato alla prima forma di scienza) ha
conservato tutto il suo valore fino ai nostri giorni grazie alla
logica di Aristotele, conoscendo negli ultimi due secoli un
sorprendente processo di affinamento e differenziazione. In ogni
caso, grazie a tutto ciò, oggi sappiamo che in quelle città
commerciali (con i loro traffici mondiali, con quel miscuglio di
conoscenze provenienti da tutto il mondo conosciuto) si è
manifestata anche l’audacia dell’indagine scientifica. Il
fatto che questa scienza intesa come sforzo per dimostrare quello che
si asserisce si fosse costituita proprio in centri di traffico
mondiali, dove afferivano conoscenze da tutto il mondo conosciuto,
suggerisce invece come la logica sia successiva alla dialettica,
intesa come forma verbale di inganno o violenza per imporre al
prossimo la propria volontà. In quel contesto non poteva che essere
dominante un molteplice disaccordo, e per risolverlo bisognava
trovare dei punti di contatto. Eppure il problema non sono le regole
della logica, son le premesse: esse hanno un valore di verità
(pleonasmo) opposto per persone naturalmente opposte, sicché, per
quanto a lungo si possa discutere, non si farà cambiare idea al
prossimo senza avergli fatto cambiare identità, cosa impossibile, od
al massimo scoterlo dal torpore contingente e fargli comprendere chi
esso sia veramente, un nostro simile che gioverebbe anch’egli delle
stesse soluzioni e scelte. Ma nello stesso modo in cui è impossibile
essere coerenti con il prossimo in un rapporto paritario e non
gerarchico, è altrettanto impossibile essere incoerenti con se
stessi sino a che non si è cambiati: ma si può cambiare solo nella
contingenza non nella sostanza e dunque il cambiamento consiste
nell’eliminazione di scorie eteronome (progresso) o nella loro
assunzione (regresso). La logica allora non si rivela essere altro
che il metodo efficace per scrollarsi di dosso gli altri, un
ritrovare la propria identità. Infatti essa vuole eliminare il
falso, ossia il diverso. Quando fallisce noi abbiamo subìto un
torto, non abbiamo avuto ragione del nemico. Non esistono una ragione
e un torto oggettivi: perché quando si realizzerà l’oggettività
tutti avranno avuto contemporaneamente ragione, ovvero si saranno
purificati e organizzati, mentre nella soggettività tutti hanno
torto ed avere ragione non significa altro che oggettivare la
soggettività stessa. Un’esortazione a ragionare è un’esortazione
a ritrovare se stessi.
Fare invece cose irrazionali significa
fare cose incoerenti con la propria natura poiché i nostri strumenti
conoscitivi sono stati intaccati dal morbo dell’alterità
(pleonasmo). Lo Spirito Scientifico è quello della purezza sul piano
individuale, e quello dell’organizzazione sul piano sociale, ossia
una purezza, che è sinonimo di unicità, macrologica. Scopo della
Scienza è rendere Uno il Molteplice. Non è possibile completare la
propria purezza individuale senza che anche l’organizzazione
esterna sia completa. I due processi anzi coincidono perché neppure
in minima misura tu ti purifichi senza un intervento compiuto
anche sull’ambiente esterno, e quando è quest’ultimo a cambiare,
esso influisce anche sulla tua situazione interna. La dialettica o
arte sofistica è stata chiamata la logica dell’apparenza
perché appunto mira ad imprimere in noi il falso cioè il diverso
senza che ce ne accorgiamo. Noi diventiamo in questo modo amici dei
nostri nemici, che invece ci tengono a distanza grazie alla vera
logica che possiedono e che ci ha riconosciuti come avversari, ma che
essi tengono celata onde poterci utilizzare come mezzi,
temporaneamente, ossia come reali amici che, nell’identità
contingente da noi incarnata, servono a distruggere ossia ad
espellere un nemico più radicale, più forte, quello da combattere
per primo, un diverso da cui dipendono altri diversi che saranno, a
tempo debito ovvero dalla debita personalità specifica che sola può
sconfiggerli, appunto sconfitti. Un nemico può essere sconfitto
soltanto da un altro che gli sia immediatamente superiore, in questo
si verifica il principio natura non facit saltus. Non a caso,
anche nello sport, surrogato della guerra, un grande campione snobba
uno sfidante che gli sia eccessivamente inferiore, e lo usa tutto al
più come allenamento, e si realizza veramente soltanto nella
vittoria su un degno rivale, di cui sia superiore di un gradino. La
scienza non può essere qualcosa di pacifico, ma proprio il
contrario, essa è l’Istruttore che forgia (o meglio la scopre,
scolpendola) la personalità dei soldati e stabilisce gli
schieramenti. Senza esigenze belliche non potrebbe esistere nessuna
scienza, mancherebbe la motivazione, se non fosse che la miglior
scienza della guerra coinciderebbe con la scienza della pace, poiché
la giusta guerra non contamina gli esseri e le civiltà, come fa
invece quella cattiva, ma produce solo purificazione ed armonia,
realizzando la pace.
L’Autorità
si può conquistare con la forza o con il consenso. Il consenso può
essere ottenuto solamente da un uomo che presenti la caratteristica
di essere un primus inter pares, ovvero possedere un talento
superiore che sia però ben riconoscibile dagli altri, da chi è in
grado di sentire una meta,
dunque di condividerla, nonché di vedere che tale uomo si muove
verso di essa con maggiore energia, rapidità, agilità, precisione,
dirittura di quanto egli non saprebbe fare autonomamente. Non si può
apparire autorevoli a chi non ci è affine,
ovvero non possiede il nostro stesso fine. Chi ha assunto un’autorità
con la violenza e l’inganno e ci tiene a mantenerla, continuerà ad
usare la violenza e l’inganno travestendoli di autorevolezza,
estorcendo un consenso che uno spirito differente non sarà mai
disposto a dare. Questo fenomeno è assolutamente dominante nel campo
degli studi, dove ai giovani ribelli e geniali, che assumono
posizioni critiche nei confronti del sistema, viene detto: Prima
accetta di essere giudicato, dopo giudicherai. Prima supera le prove
ufficiali e diventa qualcuno, poi cambierai le cose. Prima rispettali
e lasciati guidare da loro, poi, quando ti avranno detto che hai le
carte in regola, avrai il diritto di mandarli al diavolo.
Ora questi controsensi riescono talvolta ad apparire persino
credibili. Dovrei farmi conferire il diritto di essere intelligente
da una persona che non ritengo intelligente? Dovrei far giudicare la
mia onestà da un disonesto? Dovrei sentirmi una persona in gamba
solo dopo aver superato una prova che per me non significa niente?
Devo fare la guerra a qualcuno solo dopo avergliela data vinta?
Evidentemente queste persone si sono imposte su di me in maniera
violenta e fraudolenta senza essere superiori a me, e dunque senza
averne diritto. A questo punto io ho il diritto di fare la
rivoluzione come qualsiasi popolo oppresso da un tiranno ingiusto, e
non potrei affermare altrimenti la mia retta volontà dacché, come
io non posso riconoscere la sua autorità, anche lui non riconoscerà
mai la mia, perché esiste una disaffinità caratteriale tra me e
lui, che non appena io manifesterò, vedrà la sua radicale
opposizione. L’unica alternativa che mi resta è dunque usare a mia
volta l’inganno: fingere di rispettare il potere, prendere gli
attestati necessari ad assumere delle posizioni più rispettabili in
esso, e poi usare la mia autorità contro
l’autorità. Se è nelle mie corde fare questo, nessun principio
etico me lo impedisce, come nessun principio etico mi impedisce
invece di ripudiare questo metodo qualora lo ritenga personalmente
oltraggioso, improduttivo, inefficace, ed abbia una intolleranza
particolare ad avvoltolarmi in quel viscidume che oltretutto
impedisce, guasta e ritarda drammaticamente la mia crescita autonoma,
necessaria per realizzare il mio potenziale e nella quale impresa
avrei dovuto giovare di veri maestri e nobili istituzioni anziché
trovarne di indegni che mi fossero soltanto di intralcio e danno
anziché d’aiuto, mentre sento la forza di combattere
alternativamente il sistema senza esserne parte e dunque rinunciando
alla possibilità di appoggiarmi alle sue piattaforme ed ai suoi
titoli, con lo svantaggio di ritrovarmi solo e debole, condannato e
privo di consensi, ma tuttavia più libero di gestire il mio lavoro
secondo i miei principi, senza tradire me stesso e marcire in un modo
che ritengo ignominioso oltre che inconcludente, e scelgo dunque di
contrapporre a questo una battaglia che sarà anch’essa
tormentatissima e pesante, ma nella quale credo e pertanto sono più
lieto di porre in lei i miei sacrifici. In fondo, si tratta di
abbattere qualcosa di ingiusto: son loro nel torto, che si credono di
avere il diritto di governare, influenzare, opprimere, rubare il
tempo, distruggere le giovani anime e deturpare il significato della
parola Filosofia ed ogni onestà nei suoi confronti. Questi criminali
verranno infine messi dove meritano. Non tediatemi sugli strumenti
che uso: potreste aiutarmi invece, visto che non è solo
una questione personale. Se infine avrò successo, sarà infatti
perché non ho pensato solo a me stesso.
Uomini d’intelletto indegno ti
fracassano i coglioni con i loro interventi e la loro aborrenda
tenacia nell’affermare il falso e nell’imporre la loro volontà.
Spesso noi persone oneste e geniali non ci accorgiamo di conferire
loro un rispetto abnormemente superiore a quello che meritano. Noi
accettiamo con essi un dialogo e da parte loro un giudizio
assolutamente oltraggiosi, perniciosi, sfiancanti. Non ci rendiamo
conto che arriviamo a considerarli i nostri confessori e legittimi
valutatori, ci preoccupiamo delle loro reazioni emotive e delle
parole, ci sentiamo messi in discussione da esse, come se noi e le
nostre idee fossimo gli imputati dinanzi al tribunale della loro
legge, al quale competono la regolamentazione del processo, la
supervisione e l’ultima parola su ogni soggetto: questi sozzoni,
dalle idee prese a prestito, conformi in tutto e per tutto
all’andazzo del sistema, conformisti nel midollo, allignati sullo
stesso tronco alla cui sostanza sono affini e che non possono che far
crescere la stessa specie di albero nella sua naturale prosecuzione
biologica. Noi confondiamo il potere economico e politico che essi
possiedono su di noi, conseguentemente alla loro maggioranza ed al
loro dominio, con la loro dignità intellettuale. Quando una cosa è
sicura: che qualora le nostre due fazioni si fossero trovate fin
dall’inizio ad armi pari, e noi non fossimo stati imbevuti e
soffocati fin dall’infanzia dei loro veleni pastosi, plagiati dalle
loro menzogne, infiacchiti, logorati e resi estranei a noi stessi,
sfiguranti ormai nell’istinto e nella sensazione la nostra innata
virtù, che solo una lunga esperienza ed un impegnato pensiero,
costante durante tutti quegli anni in cui li abbiamo dovuti
sopportare, riesce a specchiarsi fedele nella nostra coscienza, senza
queste circostanze svantaggiatissime, noi non avremmo mai concesso
loro neppure la nostra attenzione, essi non si sarebbero guadagnati
nemmeno quel minimo rispetto umano che avrebbe consentito loro di
avere una conversazione con noi. Quando uno di loro mi fa
imbestialire con la sua sgradevolezza e barbarie ed io lo copro di
insulti sprezzanti e faccio una fatica immane a controllare la mia
brama di violenza fisica votata al più cruento massacro, ecco che
questo individuo, privo di quell’onore che gli consentirebbe di
offendersi per le verità che gli sputo addosso e di sentirsi un
fallito per le reazioni pessime che riesce a suscitare in una persona
intelligente che adesso lo odia come il cancro, può capitare che
costui abbia il coraggio abominevole di affermare che non abbiamo più
argomenti. La parola argomenti utilizzata da chi non ha mai
utilizzato nella vita un argomento che non fosse ridicolo ancorché
onesto oppure sofistico nell’usuale disonestà, contro filosofi
estremisti che hanno prodotto tonnellate di pensieri al limite delle
capacità umane, che la gente li invita a gran voce ad abbandonare
quella strada per le conseguenze tragiche che ha sulla loro vita ma
noi siamo quelli senza argomenti, non invece quelle sculture
di Bernini che provano ribrezzo ad essere messe vicino ai loro sgorbi
dadaisti, e per giunta dinanzi ad un pubblico di critici criminali
che dicono che quella è arte superiore e loro non si dovrebbero
neppure incazzare. Dio mio quanto odio la parità dei diritti che
rende vincente il numero sulla qualità, dio quanto è profondamente
giusta la violenza contro chi violenta il diritto e disconosce il
vero per la colpa imperdonabile della sua innata grettezza. Quando
mai questo branco di cinghiali vigliacchi si è imposto su di noi con
le sue ragioni? Se facessimo un faccia a faccia di ogni nostro
argomento contro ogni vostro pertinente, la nostra
sarebbe una vittoria impeccabile lunga quanto la nostra vita. Mi
capitano tra le mani queste pagine Internet, su relativismo e
universalismo su storia o pseudo storia dell’etica in stile semi
compilativo arbitrario condito con opinioni personali da filosofastro
da mezza tacca e mi imbestialisco di nuovo. Scrivono tutti come cani
e ragionano con una grossolanità massacrante, non dovrei neppure
confrontarmi con loro, studiare quello che dicono innanzitutto
traducendolo in una lingua rispettabile e scremandolo di ogni
ridondanza, quindi ponendo le mie obiezioni ad ogni loro singola
becera affermazione. Questo non mi compete, io devo essere uno
spirito affermativo, che altri perdano tempo a rimestare le loro
fanghiglie. Io dovrei soltanto contrapporre il mio sistema al loro,
agli occhi di un pubblico intelligente e non prevenuto, per vedere
che cosa scelgono. Senza che le note del mio supremo concerto
sinfonico si debbano sovrapporre alla loro mala musica, insinuarsi in
mezzo ai quegli starnazzi da orchestrina di liscio improvvisati sulla
base registrata di una storia della filosofia a sua volta impregnata
di sciatteria ed errore. Oppure dovremmo mettere semplicemente in
pratica i nostri due sistemi in due mondi paralleli, per vedere quale
funziona meglio e dunque chi tra noi fosse un Philosophus sapiens
e chi una Capra vulgaris. Di questi accessi di rabbia la mia
estetica risente, non riesco più a parlare con eleganza e
concisione, e ringhio, il mio volto si deforma, il mio corpo perde
coordinazione, bramo una violenza assoluta, e dimentico mie vecchie
sacrosante consapevolezze della miseria altrui, intellettuale e
morale. Sembra dunque che ogni nostro contatto e commercio con
spiriti inferiori riesca solamente a guastare il nostro spirito
equilibrato e condizionare negativamente le sue autonome prestazioni.
Se noi prendiamo le mosse dai fenomeni esteriori, ecco che la nostra
mente ordinatrice riesce a comporne un dipinto chiarificatore e al
contempo risolutore, e come tale esso viene apprezzato da chi fosse
turbato dal caos insoddisfacente di quella realtà ma non avesse la
forza personale di razionalizzarla. Allo stesso modo una musica di
grande qualità può insinuarsi benefica nelle nostre orecchie a
partire da una situazione reale negativa che ha bisogno di una
stimolazione adeguata ed in quella circostanza la godiamo
massimamente, mentre saremmo disturbati dalla mediazione di musica
scadente, che guasterebbe il nostro palato rendendolo restio anche
alle cose buone. Testi filosofici scadenti hanno la funzione di farci
perdere il contatto con quella realtà viva che soltanto avrebbe
giovato dell’opera di un maestoso cervello ordinatore capace di
darne ragione e perfetta espressione. La lettura di questi testi
disperde le nostre consapevolezze, rende nebuloso, indistinto,
sfuggente o sin vacuo ciò che prima era chiaro ancorché frammentato
e insoddisfacente, di cui aspettavamo la razionalizzazione da parte
di un filosofo serio, oppure ha tale effetto su quest’ultimo
filosofo che da sé medesimo intendeva compiere questo sforzo
professionale. Purtroppo il malaugurato cavaliere cui abbiamo teso la
nostra mano perché conducesse le danze è invece il filosofastro di
turno. Il suo passo così claudicante e disarmonico, oppure ancor
talmente privo di ritmo e vivacità passionale, quasi che il suo moto
fosse svincolato da ogni vera linea musicale percepibile, ci fa
passare la voglia di ballare, ci fa disgustare della musica stessa e
crediamo quasi che la colpa sia nostra, quasi che fossimo davvero
costretti a seguire le sue squallide movenze o a correggerle, e ci
sentiamo allor come se la musica stessa ci avesse rifiutati, quando
il nostro errore fu solo l’esserci lasciati sedurre e condurre da
quel poveraccio. Quando danziamo per i fatti nostri esce quasi sempre
fuori una bella cosa, quando invece si intromette uno di questi tizi
il livello scade a meno che la cosa non sia completamente gestita in
forma di lapidazione intellettuale o parodia sarcastica dal filosofo
contro il filosofastro. Ma perché esca un dialogo gradevole,
sia esso collaborativo oppure avversativo, i due partecipanti devono
essere della stessa categoria, altrimenti la mediocrità dell’uno
impedisce il dispiegarsi della tecnica dell’altro, costringendo
quest’ultimo ad imbarbarirsi e regredire, con esiti incerti e mai
piacevoli. Essi devono giocare inoltre con lo stesso livello di
lealtà, altrimenti giocano a due giochi diversi e non si possono
guardare due partite contemporaneamente. Inoltre, ci sono testi
complessivamente mediocri che contengono singoli frammenti di valore,
spesso costituiti anche solo da una citazione autorevole, ma
cominciando dall’inizio e procedendo nella lettura l’autore ci ha
talmente annoiati, infastiditi, irritati, frustrati, stancati,
confusi, guasti nell’animo che, quando questi passi finalmente
arrivano, probabilmente non li apprezziamo o nemmeno li capiamo al
volo, anche se la nostra attenzione, naturalmente disconnessa nella
fase precedente in cui leggevamo solo con gli occhi quelle
scribacchiature prive di qualsiasi interesse, si è improvvisamente
ridestata alla vista di una fiammella di spirito. Non possiamo in
questo caso essere considerati responsabili della nostra contingente
incomprensione, giacché la colpa di essa risiede totalmente
nell’autore. Ci avesse sparato subito quel pensiero significativo
lo avremmo capito al volo. Se poi lo avesse introdotto all’interno
di un tessuto raffinato al momento giusto, ci avrebbe addirittura
deliziati e riscosso la nostra ammirazione: ci saremmo innamorati di
lui. Dai cento cantoni della vita, della scienza e dell’arte sembra
giungerci lo stesso monito, lamentoso e sempre più rigido…
Le cose cattive non
vanno
mai accompagnate a
quelle buone.
La
bizzarra scuola sofistica insegna prima i colpi bassi di quelli
regolari. Il motivo è semplice: sono gli unici che la possono
rendere competitiva. I sofisti sono infatti consapevoli che, se
praticassero l’arte della filosofia seriamente, il loro talento
naturale li potrebbe condurre al massimo alla cintura arancione. Ma
la loro invidia per le cinture nere impone loro di non arrendersi e
pertanto ne studiano una più del diavolo per sconfiggere e
screditare i maestri agli occhi del pubblico ignaro, prenderne
indebitamente il posto oppure sostituirli con fanfaroni da mezza
tacca, guadagnare soldi al posto loro, eclissare la loro stella
insinuando un piccolo corpo oscuro tra lei ed il pubblico, operazione
che deve la sua efficacia solo alla vicinanza del satellite al
pianeta che di essa attende i benefici raggi, ma di breve durata ed
ignara del fatto che il calore di quel bulbo pulsante si irradia in
ogni direzione a fendere l’universo e la sua luce è inarrestabile
da tale piccolezza: il meschino astro del filosofastro. Quando poi un
professore non avesse l’intenzione di eclissare il genio ma volesse
invece illustrarne le idee ad un pubblico di discenti, egli non può
comunque evitare di farlo attraverso la propria personalità, di
levatura assai inferiore al suddetto, e la sua massa di corpo oscuro
riesce al massimo a diventare una palla nera circondata da una corona
di fuoco, la luce dell’Astro che si insinua oltre i suoi bordi
creando una scena surreale e minacciosa: deve però essere chiaro che
i due soggetti che producono il fenomeno sono di natura assai
diversa. Il corpo oscuro e filtrante può risultare molto utile a chi
non sia all’altezza dell’Astro maggiore e verrebbe accecato dalla
sua luce piena, mentre lo spirito affine non aspetta altro che di
esserne investito. I professori fanno mostra di stimare soprattutto i
massimi esponenti dell’ostruzionismo e della vacuità filosofica,
ma tanto per non passare per completi imbecilli anche agli occhi dei
profani che pure nella loro maggiore ingenuità hanno raccolto la
luce dei maestri nelle sue gamme più visibili devono stimare anche
questi ultimi senza nemmeno fare però una particolare gerarchia, o
meglio tenendo in segreto le loro preferenze perché dichiararle
sarebbe inconveniente, ma sicuramente non parlano della filosofia dei
maestri con l’atteggiamento di coloro che devono spanderla nel
mondo affinché diventi sostanza. La loro ammirazione dei filosofi
non è sincera poiché loro stessi non lo sono ed hanno seguito
tutt’altre regole di vita, esperienze ed ambizioni, dunque questa
ostentazione di rispetto è tutta interessata al loro fine, quello di
apparire competenti in una disciplina e poterne campare. Non potranno
infatti dire alla gente che quella falloppa di libracci che si sono
quasi studiati a memoria è stata scritta da un branco di intelletti
mediocri. Eppure così è.
Una
tecnica brillantissima di lor sofisti è quella di complicare le cose
semplici e rendere diffratto ciò che era stato facilmente compreso.
Essi sanciscono delle fantomatiche differenze concettuali in modo da
possedere tre o fin cinque
termini dove ne basta uno, o perché gli altri sono effettivamente
sinonimi, oppure perché sono concetti infondati cui non corrisponde
alcuna realtà percepibile, così da poterli utilizzare alla migliore
evenienza per negare quello che dice l’avversario o renderlo
sfuggevole in quel marasma di parole oscure. Dove non riescono a
moltiplicare i termini ed una varietà concettuale è già presente e
giusta, essi si accontentano di invertirne la naturale gerarchia o
per lo meno scombussolarla. Il sano mondo del lavoro, quello dove le
cose devono funzionare ed i conti tornare, ci vien qui in aiuto. Un
buon artigiano riesce a risolvere la maggior parte dei problemi
utilizzando i cinque attrezzi fondamentali del suo lavoro. Questi
arrivano con due casse piene di ogni diavoleria e non risolvono
nulla. Prendi in mano uno dei loro sgorbi costruiti con i piedi e sul
momento ti senti stupido perché non ne capisci la funzione. Lo
guardi bene anche se ha un aspetto poco raccomandabile e poco
gradevole, ma non ricevi particolari illuminazioni. Allora non resta
che provarlo. E vedi che non serve a piantare, non serve a scavare,
non serve a legare, non serve a stringere, non serve ad allargare,
non serve a tagliare, non serve a perforare, non serve a sollevare,
non serve…alla fine provi a ficcartelo nel culo e ti rendi conto
che quella
era la sua unica funzione! Da allora in poi rivolgiti ad una ditta
onesta.
Non
vedo come un pensatore possa sentirsi un vincente se dopo due righe
si è già fatto odiare
a morte
dal lettore. Se questi prosegue a fatica la lettura in un crescendo
di rabbia e disgusto interrotti soltanto dalla noia, litigando
mentalmente con estrema irritazione contro un autore che vorrebbe
tanto avere davanti per prenderlo a pugni e calci, scardinarlo
brutalmente dal suo seggio autorevole usurpato in qualche losca
maniera, da parte di una testina che non merita i raggi del sole, e
spaccargliela in due, quella cocomera, con una mazza d’acciaio
coprendolo d’insulti e sputi, imbracciare un fucile a canne mozze e
seccarlo a terra per la sua viscida e prepotente disonestà e per
quella forza immeritata e per la sua spudoratezza corrosiva
nell’affermare il falso e nel ferire, con ogni sorta di
scorrettezza, le persone senza peccato. Pensatori che non saranno mai
dei punti di riferimento per chi naviga o annega nel mare della vita
ed ha bisogno di illuminazione, e della forza calorifica donata da un
pensiero pieno umanità, di nerbo e sensibilità, di disciplina e
passioni, di astrazione e materia, espanso in una grande anima
avvolgente. Pensatori mediocri che non verranno citati da alcun
letterato o politico intelligente, le cui frasi non prenderanno mai
il volo e non verranno ricordate da nessuno, non si staglieranno
nell’immaginario collettivo per la loro bellezza e la grandezza di
un significato che può essere riscoperto in mille circostanze della
vita. Pensatori le cui parole non fanno sentire la presenza di un
uomo vivo, con una precisa personalità ed una esperienza da
raccontare, e che nella storia di questa disciplina non saranno mai
dei personaggi. Discutere con loro non è facile, ma mai per la
difficoltà intrinseca dei contenuti bensì soltanto per la forma e
per l’atteggiamento. I loro testi non contengono niente di
profondo: è che scrivono talmente male da rendere faticoso anche il
semplice. Il vero scrittore sa fare l’opposto: rende leggero e
piacevole anche ciò che è pesante e scabroso.
Prima
di criticare devi conoscere? Io dico che spesso prima di conoscere
bisogna criticare. Perché non tutto ciò che riceviamo dall’esterno
è buono, e di fatto, se lo abbiamo lasciato entrare senza filtri, ci
ha infestato l’organismo e potrebbe essere troppo tardi ma comunque
dispendioso espellerlo. Pretendere subito lo studio senza credenziali
è come imporre all’utente di un computer di aprire un file
sospetto per verificare che sia davvero infetto. Un autore se la deve
guadagnare l’attenzione. Per non parlare di uno studio
approfondito! Oppure dobbiamo stimare a priori come meritevoli tutte
le squallerie che ci capitano sottomano? Anche l’autorità o la
fama non sono buoni criteri: bisogna infatti vedere come se le siano
guadagnate e chi gliele abbia conferite. Fidati del consiglio di uno
come te. Quello che gli è piaciuto, piacerà anche a te, e quello
che non gli è piaciuto, non c’è bisogno di leggerlo: già lui
ardito ha compiuto l’infido esperimento e ne è rimasto guastato.
Perché devi farlo anche tu? Invece, un tizio diverso da te disprezza
senza mezzi termini il tale artista, il tale uomo, la tale cosa?
Fiondati in libreria e compralo senza guardare la copertina. Sappi
poi distinguere il vero apprezzamento da quello falso. Accertati che
della tale opera gli piacciano davvero le stesse cose che
piacerebbero a te, e nella stessa misura, perché sei affine a lui
come entrambi siete affini a quell’autore.
Gli
spiriti affini sono destinati a dire le stesse cose circa le stesse
questioni. Se essi si trovassero nelle acque di un oscuro e
periglioso lago, e dovessero trovare un approdo per uscirne, essi, in
analoga condizione di forma, tenderebbero ad affrontare gli stessi
spostamenti e trovare il medesimo approdo, ossia l’unico che
davvero rappresenta la soluzione. Se essi giungessero nel lago dopo
differenti viaggi e dunque in diverse condizioni contingenti,
vedremmo l’uno maggiormente confuso, arrancante, meno agile
dell’altro, e lo vedremmo girovagare in maniera più tortuosa e
forse cadendo vittima di gorghi ed immersioni preoccupanti, ma alla
fine egli troverebbe lo stesso approdo, annegandosi solo qualora
eccessivamente provato dall’esistenza, dunque per debolezza
contingente e non intrinseca. Uomini sono potenzialmente in grado di
risolvere una questione filosofica. Altri non sono. Due spiriti
disaffini sono necessariamente l’uno superiore all’altro, e
quello inferiore troverà sempre approdi fittizi cui darà piena
fiducia, ma che si sgretolano sotto le nostre mani e ci ripiombano in
acqua: non fosse che egli se ne può stare personalmente a galla
grazie ad un salvagente o canotto gettatogli dalla provvidenza,
mentre l’umanità ancor si dibatte nelle acque torbide per non
affondare. Chi pone infatti ad un problema una soluzione falsa
credendo che sia vera, è perché non è veramente coinvolto e
afflitto da esso. Altrimenti coglierebbe con chiarezza l’inefficacia
della soluzione. Iniziare una analisi filosofica a partire dallo
studio di altri autori è il metodo più fallimentare. L’analisi
deve partire dall’esperienza personale. Il numero di cose che
potenzialmente interessano un intellettuale è definito a priori,
perché esse rientrano nella sua meta: resta da stabilire quando
affrontarle, in quale ordine.
L’ordine dipende dalla situazione esistenziale del singolo: la
gerarchia dei suoi interessi è quella dei suoi problemi, della
stratificazione di insanità presente in lui, e la reazione è sempre
adeguata, nell’attaccare per primo un problema la cui soluzione è
propedeutica a quella degli altri. Per quanto riguarda la storia
della filosofia, non la si deve studiare tutta e tanto meno in ordine
cronologico. Lo studioso deve agguantare una percezione chiara dello
stato del mondo presente nei rapporti fondamentali, macroscopici, tra
le sue istanze. Sin dove persistono problemi, nessuno ha trovato,
nella storia culturale, soluzioni. Dove non ci sono problemi, la
soluzione è stata trovata da tempo, non importa allora quando e non
si devono studiare pensatori sorpassati, che vivevano in un mondo
dove nessuno ancora e loro compresi possedeva tale soluzione. Non si
deve affrontare alcuna lettura e neppure alcuna riflessione personale
senza una energia sufficiente ad enucleare
un problema: poiché porre la domanda in termini chiari significa
aver già tracciato dei confini e costretto la preda entro il loro
steccato. In questo caso, se si è deboli, la si può affrontare in
un secondo momento. Il nostro pensiero si sviluppa comunque sotto la
spinta degli stimoli esterni, sicché essi non possono mancare al
momento del bisogno, a completare il domino. Sia che noi utilizziamo
il solo strumento dell’esperienza personale, sia che vi annettiamo
letture, la sequenza del materiale deve andare a rispondere a tutte
quelle domande che sottendono all’obiettivo generale della nostra
vita. Ci potrebbe essere messa di fronte l’intera messe delle
conoscenze disponibili, sia le esperienze dirette che quelle di
seconda mano reperite sui libri, magari all’interno di una sfera
che, intorno al nostro centro, come palla fatta di schermi, le tiene
unite: ma esse non sono già disposte nella lineare sequenza ideale
per noi. Esse possono essere mescolate o già suddivise in insiemi,
per le esigenze di qualcuno. Noi stessi potremmo effettuare queste
suddivisioni: separare i libri di filosofia da quelli di matematica,
fisica, economia, storia, arte, ma poi non sapremmo a quale
disciplina dedicarci per prima. Potremmo allora cominciare con
l’economia e renderci conto che per comprendere alcune nozioni ne
sono prima necessarie altre filosofiche o matematiche, o che ad un
certo punto, per avanzare in uno studio di scienze naturali o di
matematica nel quale ci troviamo bloccati con gli strumenti a
disposizione, sarebbe benefico vivere qualche differente esperienza
personale, studiare la psiche umana, leggersi un paio di romanzi,
guardare una partita di tennis e appassionarsi a quello sport,
scrivere una poesia, ascoltare dischi e prendere in mano teorie
musicali, fare un viaggio, imparare i rudimenti di un’arte marziale
e fare per lo meno qualche round, brandire un’arma, accaparrarsi
un’improvvisa soddisfazione o invece un’improvvisa delusione,
mangiare diversamente, vestirsi diversamente, cambiare abitudini
quotidiane. Memore del fatto che la mia analisi filosofica era
approdata alle migliori conquiste all’interno di esperienze
difficili o comunque di un percorso personale molto vario di
elementi, passioni e stati d’animo, dissi ad un mio conoscente, che
da anni lavorava ad uno studio matematico e si trovava da tempo ad un
punto morto: gli dissi che, probabilmente, con gli strumenti che
aveva a disposizione, davvero non si poteva andare oltre, ed avrebbe
dovuto allora dedicarsi alla psicologia, oppure che la risposta gli
sarebbe venuta in mente durante un’escursione in cima ad una fredda
montagna, con il sopraggiungere del buio, la paura di non riuscire a
scendere, una serie di conflitti in corso, l’amore per una donna
lontana ed in testa la funzione alla quale stava lavorando. Non
stupisca che le migliori funzioni ci vengano in mente in questo modo,
visto che esse hanno la funzione di risolverci la vita. Se vivi per
trovare una funzione, sappi che si tratta della funzione destinata a
risolverti la vita. Nelle nostre indagini dobbiamo saltare di palo in
frasca quasi continuamente poiché ogni obiettivo culturale
necessita di una serie determinata di nozioni la cui locazione è
spesso ignota al pari della sequenza ottimale. Questo comporta che
prima di tutto bisogna sfrondare e scortecciare l’albero della
conoscenza, bisogna escludere tutto il superfluo, dacché un
intellettuale è nato per arrivare a dire una cosa e non altro: una
volta raccolti tutti e soli gli elementi essenziali, comporre il
quadro sarà banale. La difficoltà della ricerca è la ricerca
stessa, ben più della produzione personale: è l’abilità di non
annegarsi nella promiscuità del sapere e nella dispersione di esso,
altresì nella molteplicità delle fonti. Se anche questi fattori non
fossero stati avallati allo scopo
di mettere più ostacoli possibile tra un uomo e le sue conquiste,
questi sono stati fattualmente prodotti. Il motivo per cui occorre
saltare di palo in frasca è che la Storia stessa, quella che la
Filosofia vuole sbrogliare e redimere, si è inviluppata di pali e di
frasche in maniera infelice, allorché si parla di contaminazione
e non di armonica simbiosi. Tali contaminazioni il filosofo deve
individuare. Non già le zone armoniche, quelle in cui l’incontro
tra due teorie felici appartenenti a diverse discipline ha dato
origine ad una sistematizzazione, dunque ad un progresso teorico cui
ne è conseguito uno pratico. Lo studio storico non deve essere altro
che una investigazione volta a trovare i colpevoli. Per effettuarlo
occorrono 1) Il
corpo del reato 2)
una propria teoria della giustizia 3)
degli strumenti investigativi. Il punto primo attesta la necessità
di sapere di cosa si sta parlando e più precisamente quale sia il
problema da risolvere. Il punto secondo attesta che tu devi avere le
tue verità prima di poter criticare le falsità altrui. Il punto
terzo attesta che devi avere accesso a tutte le informazioni
necessarie. Voglio specificare il punto due. Va da sé che se tu non
sai nulla non puoi criticare quello che ti viene detto, e la ridicola
trappola di chi ti vuole imporre una verità è appunto costringerti
a cominciare i tuoi studi filosofici dalle opere altrui, che in
questo modo ti si forniscono le basi
della disciplina. Se non fosse che queste basi si riveleranno in
futuro delle sabbie mobili o delle tagliole, e ti sarà difficile
tirartene fuori una volta plagiato, perché appunto penserai sotto
l’egida di quei concetti, cui la tua esperienza personale ancor non
rappresenta la forza di un solido contraltare, e tale stessa
esperienza spesso è stata giudicata in maniera forzata e distorta
secondo altrui principi. Queste cosiddette basi
sono analoghe al completamento automatico delle parole operato sulla
rete dai motori di ricerca, il quale ufficialmente
aiuta la ricerca, in realtà la
indirizza dove vuole, con o senza il
tuo consenso. Se io sto in un lago e so nuotare meglio di un altro,
meglio che costui se ne giri al largo ad affogare per conto suo e non
mi intralci il percorso. Se già se ne sta al sicuro su di una barca,
egli non ha il mio stesso problema e dunque non voglio i consigli di
un inesperto. Se è immerso e vuol che io lo salvi, sappia che per
fare questo io devo alternativamente 1)
essere già uscito dal lago sicché gli sappia indicare come
muoversi, oppure 2)
se sono in acqua con lui, devo essere talmente forte da sostenere sia
lui che me stesso, ed in tal caso io devo già aver avuto il modo di
imparare a nuotare, in sostanza devo aver acquisito il mio sistema di
pensiero autonomamente, non posso prendere le mosse da uno che sta
annegando, giacché col principio che devo rispettarne l’autorità
i miei pensieri non possono andare oltre sino a che non ho acquisito
la sua dottrina, fallimentare, che mi ha già contaminato e ottuso il
cervello, scaricatomi le energie, ed in sostanza predispostomi
all’annegamento. Ho parlato dunque della forma che debba avere uno
studio storico. Ma esiste forse uno studio che non sia tale? Gli
studi teorici
esistono davvero? La teoria viene intesa come una cosa statica, prima
che le varie teorie si facciano la guerra a seconda degli ambiti in
cui i rispettivi seguaci le hanno applicate. Ma già la discussione e
l’argomentazione son battaglie, che presuppongono a loro volta una
precedente battaglia per acquisire le proprie idee. Queste idee sono
difficili da acquisire proprio perché altri aveva posto ostacoli
alla conoscenza creando un mondo viscoso e gravido d’ingiustizie,
sicché tu, non potendoti affermare istintivamente e direttamente con
una azione violenta, hai dovuto innanzitutto difendere il tuo diritto
di pensare e assicurarti le condizioni necessarie a farlo: eppoi, una
volta riconquistata la tua anima intelligibile, avendo la ragione
espulso gli intrusi e dato la possibilità al tuo corpo di percepire
secondo la sua specifica sensibilità e possa adunque reagire per se
stesso ed in nome di se stesso, ti muovi a persuadere con gli
argomenti coloro che avevano posizioni opposte. Non esistono però
posizioni che non siano imposizioni.
Quindi quando discuti non fai altro che respingere una nuova
invasione straniera, per verbale che sia, giacché le parole son
significative,
hanno dunque consistenza, peso, sapore, colore, odore, suono, poiché
contengono
oggetti.
Che
cosa significa Argomentare?
Significa
Bramare, Temere, osservare, studiare, accordarsi, allearsi,
promettere, mentire, tastare il terreno, prevedere, programmare,
pianificare, spianare, scuotere, insinuare, velare, dubbificare,
disorientare, sconnettere, rimandare, riandare, ritardare,
lubrificare, agevolare, frenare, accelerare, troncare,
sbrigativizzare, raccogliere, distribuire, estromettere, reinserire,
svelare, trasformarsi, spersonalizzare, mescolare, contaminare,
purificare, definire, annacquare, insabbiare, impolverare,
annebbiare, passionare, algidare, irrigidirsi, squagliarsi,
sbreccare, slabbrare, leccare, vezzeggiare, ciangottare, puntigliare,
aggrinzire, sgrezzare, trasdurre, temperare, sostituire, interporre,
interrompere, improvvisare, impedire, occludere, ingubbiare,
ingabbiare, incanalare, cementare, scaricare, martellare, scansare,
deviare, evadere, svicolare, sviare, mimetizzare, afferrare,
impugnare, utilizzare, pestare, esagerare, mollare, gettare via,
rendere inutilizzabile, distrarre, soverchiare, sfibrare, indebolire,
logorare, banalizzare, screditare, invalidare, declassare,
degerarchizzare, equalizzare, confondere, affermare un esempio
opposto, evidenziarlo, da qui riclassificare, inserire nuovi esempi,
invertire valori e ordini di priorità. Imprimere nella gente un
senso di ignoranza, di piccolezza, di non autosufficienza e autonomia
mentale, forse di collusione parziale con ciò che prende a
delinearsi come Male, alludere ad una possibilità di redenzione
tramite adesione alla nuova fede ed ai suoi sostenitori, promettere
una sorta di riscatto e vittoria, la possibilità di essere tra i
buoni e vincenti, forti ed uniti, che nessuno sia solo, visualizzare
una catalizzazione degli eventi contro i loro problemi, purché
ricondotti al male che ora assurge alla vetta. Mantenere una linea di
tensione e insicurezza che rende docili ad accogliere nuovi punti di
riferimento e fissarli come autorità: eccoli di nuovo spaventare,
poi rassicurare. Nel clima di onde medie, tranquille, che però ancor
temono oscuro il fondale marino, che potrebbe scuotersi o far
erompere mostri, che deve essere riassestato, la gente deve scordare
soluzioni tradizionali, feticci del sistema che più non serve la
causa. Acuire adesso la rottura con il prima,
desensibilizzando alle vecchie problematiche. Esse possono essere
scavalcate da magica forza imperiosa e nuova: la rivoluzione giunge
ora da lontano, daccui librarci possiamo sulle indegne fanghiglie e
spinose che ci hanno piagati ed oppressi per decenni per secoli dalla
notte dei tempi. Ed ora obliando, ridelineando, semplificare il
complesso cui non si vuol prestare attenzione ed in cui si potrebbe o
parrebbe aver parte negativa, complicare il semplice che risolverebbe
altrimenti e quello che vedrebbe in noi un chiaro colpevole, affinché
tutto si annacqui nel promiscuo, che protegge ben il falso innocente
quanto il falso colpevole. Sensibilizzare in altro settore, porre
enfasi, e di nuovo preoccupare. Fare un piccolo passo indietro che
serva da slancio ad un doppio passo in avanti: presentar di nuovo
come ipotesi
quella che è già una tesi mezza dimostrata ed in linea di
approvazione, ed allora nuovamente illustrare, indicare,
insospettire, mostrare abrupto un nuovo e se possibile più forte
esempio del male. Apertamente, orbene, colpevolizzare, sdegnare,
astraendosi da esso, ponendosi come controparte, aggravare la
percezione della cosa. Mostrare adesso compiaciuta fiera calma e
serena sicurezza, partecipazione ai sentimenti del popolo ma più
sovranamente dominati, così nelle ragioni e conoscenze, così più
esperti e muniti di qualcosa nel bagaglio innato che ci proietta
oltre, in forza ed altitudine: deconvincere la gente dei propri mezzi
se non asserviti in convergenza unitaria al nuovo riferimento.
Mantenerli ben ancora in uno stato di attesa, fatto di una angoscia
sottostante, circospezione, nervosismo, rabbia, discussioni che hanno
ormai nuovi denominatori comuni: però
cose ormai ben compensate
dall’altare di un nuovo concetto, addirittura un’Ideologia, che
dona sicurezza per la sua rotondità, la sua aura positiva e la forza
dei soggetti personali verso cui sta salendo ormai la marea dei
Consensi, dei Sentimenti, delle Volontà… ecco che vampate di calda
affrescata speranza giovano ai cuori. Siamo adunque a cavallo,
sull’altipiano che precede alla vetta, ormai…
È
possibile adesso identificare in nemici in maniera sempre più
agevole ed aperta, essere più decisi e netti nelle proprie
affermazioni e denunce, diminuire il Relativismo e la Cautela
precedentemente indotti soltanto dalla mancanza di una sicurezza
essenziale: quella di avere la forza e i consensi che contano dalla
propria parte. Iniziare adunque la marcia vera e propria…
Insistere
in propaganda e iniziative, usare il
successo e l’aumento di consensi
per creare nuovi consensi che suppliscano alle ragioni, far nuova
leva sull’emotività umana. Lo spazio razionale, così ben curato
in fase preparatoria, deve trascrescere adesso in mero sentimento,
istinto, reazione diretta, misticismo fideistico: presto tutte le
immagini convergeranno a Una, tutti i suoni si adegueranno al
sostegno di una Nota che si muove melodica e celestiale verso una
Meta a confronto della quale le altre più non contano, non esistono.
Rendiamo eccosissia la propaganda Artistica: ecco il teatro, la
musica, il cinema, lo sketch, la vignetta, il fumetto, il dipinto,
ecco tutte le modulazioni, le forme e i coloriti dell’arte giocare
nell’animo umano, a creare una realtà coerente, ricca, ben
plasmata, di solida struttura e sì cullante e gradevole. Rendiamo
infine la propaganda Fisica: un magico abbrivio fatto di balli,
feste, celebrazioni, riti, esibizioni collettive di sempre maggior
partecipazione, con la Natura a far da scenario, essere nostra ultima
forte alleata, il Dio che si esprime in lei come in noi patrocina la
nostra causa verso la Vittoria. La nuova realtà è adesso vissuta,
sentita, parlata, oramai pronta per essere fieramente agita
fin nelle estreme conseguenze. Quanto al discorso politico proprio,
possiamo adesso inasprire i termini, stringare gli slogan. Ormai
tutto sembra si possa dire
sul nemico, ben presto tutto si potrà fare,
quel che era una volta una timida e presuntuosa ipotesi da guardare a
priori torvo e di sbieco, che a tutti gemeva pungente nero il petto
solo a pensarla, a ben dire una Eresia, è adesso un fatto scontato,
si può ben variare nella declinazione dei casi di questo soggetto
infame…
Nel creare una nuova Opinione, si usano
verbalmente
gli stessi strumenti che poi si applicano in un reale conflitto
armato, dopo cioè che l’opinione è già abbastanza diffusa e
solida da potersi tradurre in operazioni pratiche
rivoluzionarie. Ogni conquista significativa nel campo dei Consensi o
nei fisici campi di battaglia, comprende cotali azioni …
…
aumentare la potenza dei propri mezzi, minacciare, provocare,
bluffare, temporeggiare, sorvolare, mimetizzare, fuorviare,
proteggere, premeditare, attaccare, sorprendere, stupire, penetrare,
invadere, spintonare, combattere, spadaccinare, devastare,
saccheggiare, trascurare, ignorare, squassare, scompaginare,
confondere, conquistare, prendere, togliere, rimuovere, nascondere,
spostarsi, manovrare, liberare, ripulire, spazzare, insistere, osare,
spezzare, superare, arrischiare, farsi male, cadere, perdere,
ripiegare, attendere, resistere, patteggiare, attenuare, concedere,
rallentare, minare, simulare, rilanciare, ingannare, adescare,
imboscare, attaccare, stroncare, seviziare, vendicare, sparare,
bombardare, sottomettere, insediarsi, stanziarsi, smontare,
riadattare, ricostruire, arruolare, addestrare, utilizzare,
sfruttare, regolare, organizzare, padroneggiare, sistemare,
confinare, presidiare, controllare, difendere, cintare, corazzare,
spinare, elettrificare, arroccare, istituire, presentare, comunicare,
dichiarare, ufficializzare, denunciare, diffondere, accusare,
processare, punire, infierire, umiliare, distorcere, distaccare,
negare, silenziare, espandersi, consolidare, estremizzare,
sistematizzare, giustificare, glorificare, mantenere, innalzare,
perpetuare, intoccabilizzare, indiscutibilizzare,
incontrovertibilizzare…
…il
fare questo a parole, anziché direttamente coi fatti, ostentando
che ci sia qualcosa di diverso nel succo, nella sostanza e non invece
nella forma o a dir bene in quelle che sono soltanto due necessarie
fasi del medesimo conflitto, è il colmo dell’ipocrisia, la
simulazione di una battaglia non
violenta, che in realtà serve a
prendere tempo tenendo il nemico a distanza…
…distanze
dalle quali ci si può tuttavia colpire, allorché il valore
simbolico della parola insinuata nel prossimo come onda sonora si
dischiuda in lui facendogli sentire il peso di una realtà esteriore
corrispondente e fattualmente ostile nei suoi confronti, e dunque
provocargli un trauma psichico che solo può corrispondere alla
previsione di un trauma fisico, e paralizzando altresì, attraverso i
nostri giudizi nemici, la sua capacità mentale di coordinare il
corpo a nostra offesa: illudendolo ben che in fondo siamo fratelli e
non dobbiamo guerreggiare, laddove appunto questo è vero solamente
in chi intavola una discussione fasulla, come al massimo grado
avviene in politica, al fine di inscenare una contrapposizione
ideologica agli occhi di persone terze dietro la quale essi fanno le
loro tresche ed i loro accordi di convenienza ed egoismo. La mente
però non può essere coatta senza tornare dopo la deformazione
all’ovile di forma originaria, l’esito della discussione è ben
spesso solo quello di visualizzare nettamente coloro che prima
apparivano come persone da convincere e riportare sulla buona strada,
come persone da vincere fisicamente, ineccepibilmente e senza più
nulla eccepire discutere, mediare, compromettere, o processare:
poiché incorreggibili e nondimeno
prepotenti. La stessa attività Teorica, quella meramente personale,
mentale, dunque, priva di vero dialogo, racchiude sempre in realtà
una discussione interiore del nostro spirito, che nei suoi passaggi
più veementi non riesce a fare a meno di muovere la nostra bocca,
emettendo suoni e con l’accompagnamento del corpo, contro tutto
quello che di estraneo ci si fosse insinuato o cercasse nuovo di
insinuarvisi. Essa è uno spogliarsi metodico, gerarchizzato quindi,
tramite quello che chiamiamo ragionamento,
di idee che abbiamo sentito e registrato ma mai davvero digerito, e
uno sbarazzarci delle obiezioni che ancora, sull’onda delle prime,
ci sentiamo muovere quando facciamo le nostre affermazioni: dacché
qualsiasi opinione o atteggiamento manifestato ci hanno informato
della specifica natura dell’oppositore, e se correttamente
l’abbiamo percepita, forti i nostri organi di senso, essa ci
consente ben di dedurre qualsiasi altra opinione o reazione quel
soggetto possa manifestare se lo sottoponiamo a differenti stimoli
che siano però coerenti, in quanto consustanziali, con quello che
egli
ha già raccolto di noi, nel precedente contatto. Nella nostra
solitaria meditazione, siamo investiti dagli stessi accaloramento,
timore, preoccupazione, fatica, oppressione, irritazione, rabbia,
urto, offesa, angoscia, sdegno, astio, che ci investono alla presenza
diretta degli interlocutori: tutti i moti dell’animo dibattente si
conservano. Poiché invero sempre nella
solitudine noi ci portiamo la società,
ed ivi dobbiamo tornare con la nostra nuova forza, come il filosofo
nella caverna per finalmente piegarla alla sua saggezza illuminata.
Ed ogni nostro sollievo e soddisfazione, ogni eccitazione e gioia,
analogamente provengono da una idealizzata e ben prevista
affermazione sul prossimo: grazie la forza del nostro argomento,
quei
che l’abbia smaccato, sbigottito, imbarazzato, ridicolizzato,
disorientato, zittito, intimidito, spaventato, offeso, traumatizzato,
affondato, schiacciato, demoralizzato, sconfitto.
Oppure,
che abbia persuaso del nostro valore soggetti dapprima imparziali od
erroneamente a noi contrapposti, che non ci avessero capiti, ed or
l’indifferenza e l’inimicizia si trasformino in considerazione,
stima, ammirazione, affetto, appoggio, conversione, aggregazione alla
causa, addirittura la calda attesa di un debito che quelli vogliano
saldare a noi per loro sgravio d’onta. Come vediamo, nessuna
società è fuggita con la solitudine, e ad essa ogni Addio è un
Tornerò. L’andirivieni può essere anche segmentato, come per
tutti lo sono i fronti, tra Sé ed un Mondo che si dee sconfiggere,
seconda che siam qui ora più forti o deboli. Ma solo quando la
nostra Solitudine sarà anche societaria,
noi saremo appagati: la guerra sarà finita, e tutti andranno in
pace. Noi siamo le bandiere, fin dalle origini prime, ma di già
aggloriate o strapazzate dai venti della storia, laddove siano
comparse in nostra veste: distese di imperturbato splendore e
stampate ovunque, o financo stracciate, di fango intrise, usate a
zerbini, gettate sotto il comò, od avvoltolate in sé stesse che
perfino ignorino la propria fattura, esse divengono
pria di essere, e la lor volontà è di tornare ad Essere. Quella
teorica, volta al rischiaramento interiore, è comunque Azione e
dunque qualcosa di storico, una mobilità volta a recidere un nemico,
fonte di infelicità, qualcun che ci avea precedentemente oscurati ed
occlusi. Sia il reperimento delle nostre idee, la conquista della
bandiera, sia la discussione teorica, ed infine la battaglia fisica,
hanno un’unica origine: il contatto tra spiriti superiori e spiriti
inferiori. Quella che ho chiamato Teoria della giustizia, necessaria
a contrapporsi alle visioni del prossimo, non è altro che la
superiore giustizia intrinseca
al carattere dello spirito superiore: egli deve agire con razionalità
e dunque con cautela e pazienza, e con teoria prima che con pratica,
solo perché l’ambiente esterno è più forte. Ma il suo istinto
coglierebbe sempre nel segno, se davvero è più evoluto di quello
del prossimo, ed egli non perderebbe tempo ad argomentare a sostegno
della giustizia del proprio comportamento, se non fosse afflitto e
preoccupato dai suoi condannatori. La sostanza inutile
dell’argomentazione consiste nel dire: se
tu fossi al mio livello di percezione della realtà ti comporteresti
come me, il che è equivalente a
dire tu saresti me
ed anche giustificheresti questa
azione. Perché giusto significa
coerente con la tua natura. Tutto ciò che non ci è affine è
rigettato e combattuto dal nostro organismo come sbagliato, come
nemico, e questo dal più grande genio fin al più ottuso imbecille.
Ho parlato di analogo livello di percezione della realtà perché
questo è
una determinata intelligenza e due persone differentemente sensibili
non si troveranno mai nelle medesime circostanze, perché queste sono
filtrate dalle maglie della sensibilità, nei due differenti
soggetti, dai due differenti filtri. Quindi non è corretto dire:
negli stessi panni si comporterebbe
così anche lui, perché i due non
vestiranno mai gli stessi panni senza essere la stessa persona. In un
contesto in cui prima di agire è opportuno effettuare una ricerca,
noi però non dobbiamo farci mancare il lavoro compiuto dai
nostri fratelli. Se essi hanno
raggiunto dei risultati prima di noi, dobbiamo approfittarne per poi
andare oltre a scoprire quella stessa anima che rimane immutata in
noi come nei vecchi maestri, solo abbisogna di tanto lavoro per
raggiungere la sua pienezza. Un giovane intellettuale ha già le
potenzialità per capire tutto
il verbo di un vecchio intellettuale suo simile.
Questa, e questa soltanto, è una
vera Base filosofica su cui egli si può appoggiare con sicurezza.
Non appena nota qualche stridore, qualcosa che non lo convince, egli
deve passare oltre. C’è un motivo, se non lo convince: e si trova
in una disaffinità. Se essa è tale solo a livello contingente, è
risolvibile, ed anzi doveroso è risolverla perché altrimenti ci
priveremmo del contatto benefico con qualcosa di amico, ed una cosa
davvero astringente in un mondo di nemici è perdere anche quelle
amicizie che possiamo definire fondate e sincere e dunque realmente
positive. Ma nella disaffinità non si ragiona: la conciliazione è
impossibile. Ognuno crederà sempre di essere superiore
e non inferiore al suddetto pensatore, ma in entrambi i casi quello
rappresenta un autore da abbandonare. Concludiamo proprio questo: che
dobbiamo leggere soltanto quello che ci piace. Nella nostra
formazione non deve comparire nulla di ostico, cioè di ostile,
perché lo rigetteremo sempre e neppure lo comprenderemo, dacché si
comprende solo ciò che si assimila e si assimila solo ciò che è di
fatto simile, scremando tutte le impurità che nuocciono alla nostra
economia interna. Le ragioni, ossia le radici, di un disaccordo sono
solitamente molto più profonde di quanto non immaginiamo. Quando
discutiamo con una persona dobbiamo renderci conto che è stupido
stupefarsi della difficoltà riscontrata nel mettersi d’accordo,
nel far riconoscere come vera la tal cosa e falsa quell’altra. La
verità è che le percezioni sono opposte e dunque potete ragionare
quanto volete: il problema non è la logica, che è la stessa per
tutti, il problema son le premesse: tutto quello che noi percepiamo
come buono per loro è cattivo, e quello che per noi è massimamente
buono per loro è ripugnante, ciò che a noi fa sorridere per loro è
ammirevole, quello che per noi è prova di forza per loro è prova di
debolezza, ed i nostri eroi son i loro zimbelli, ciò che per noi è
banale per loro è significativo assai, se per noi è ininfluente per
loro è fondamentale, quel che a noi è sacro per loro è carta
igienica, quello che per loro è una pecca che sarebbe meglio
togliere per noi è la ciliegina sulla torta, ed il nostro
interessante è il loro fastidioso, quello che noi giudichiamo il più
bravo di tutti per loro è il peggiore, ed il nostro discreto è il
loro mediocre. È interessante acquisire la capacità di accorgersi
di quando l’interlocutore finge
solamente di accettare le nostre premesse: noi crediamo che le abbia
accettate sul serio e ci stupiamo che egli non manifesti lo stesso
compiaciuto entusiasmo dinanzi alla conclusione, o che non sembri
dedurla con la stessa sicurezza. Il consenso apparente è il peggior
nemico del consenso. Tutti gli autori differenti da noi, e così
anche tutte le azioni che sono state messe in moto nello stesso
spirito, non costituiscono un materiale formativo, bensì
disformativo. È tutto Veleno. Lo leggiamo, sforzandoci di digerire
ciò che infine comunque rigetteremo, e ci sentiamo costantemente
urtati, pungolati, offesi, preoccupati, spaventati, avviliti,
innervositi, scocciati, e rispondiamo con rabbia anche in assenza del
nemico, che in tal caso non ci può sentire ma di cui invece noi
stiamo sentendo il dilaniante fiero monologo. Per ascoltar le parole
di una persona con interesse, dobbiamo ammettere l’ipotesi che
siano vere, ma facendo questo diamo ragione ad un individuo che ci
sta sputando addosso ed ammazzando, dunque lo facciamo entrare dentro
di noi in libera opera di devastazione, ci siamo alleati al nostro
nemico senza essere veramente come lui, in modo da poter sentire le
sue parole come benefiche.
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