Islanda

Islanda
arcobaleno sotto la cascata di Skogafoss in Islanda

domenica 10 maggio 2015

Testo integrale del mio primo libro (Prima parte)



NICHILISMO IMMANENTE


Nella scuola vige un principio: Cultura dell’Apparenza e Apparenza della Cultura. Esso è una conseguenza dell’universalizzazione di un diritto elitario e dell’imbarazzo in cui si sono trovati insegnanti e studenti allorché erano fuori posto, a maneggiare cose che non li riguardano e delle quali non sono all’altezza, che forse non li interessano nemmeno. Una volta implicati nel gioco essi devono pur far qualcosa, devono metterci per lo meno la faccia, sebbene non sappiano cosa debbano fare e quale obiettivo debbano perseguire. Così ci si appoggia a programmi standardizzati di cui vorrei volentieri incontrare il fautore, nozionismo arbitrario e scriteriato, mancanza di illustrazione del mondo del lavoro o della ricerca e tantomeno preparazione ad essi. Su questa base si inseriscono influenze personali di singoli cialtroni rivestiti da professori che possiedono un poco di personalità e pertanto riescono a dare la loro impronta psichica, assiologica e metodologica ai ragazzi, avendone il titolo ma non l’autorevolezza. Si procede, quindi, con parziali richieste ai ragazzi di mostrare la propria creatività personale e capacità critica in un modo che non è solo fasullo in quanto mira ad apparire, a confezionare qualcosa di presentabile, e non già a produrre qualcosa di risolutivo o di valore estetico, quasi come se costoro dovessero diventare dei veri intellettuali o degli artisti e nel qual caso l’insegnante, non essendo un maestro, non sarebbe in grado di valutarli o di compiere a sua volta quello che chiede loro; non solo richieste fasulle, orbene, ma richieste che sono anche assolutamente fuori luogo verso persone che di capacità critica o creativa non ne avranno mai, e che sono comunque premature in chi invece le avrebbe, ma avrebbe anche bisogno di un percorso personalizzato che intrecci adeguatamente studio nozionistico, esperienze personali, autonoma riflessione ed esercizio creativo, nelle qual cose le sue qualità innate ed i suoi obiettivi intrinseci detteranno la propria legge, e solo gradirebbero il paterno consiglio di un vecchio maestro che ci è già passato ed è di natura affine all’allievo. Il danno provocato dai principi egualitari è incalcolabile. Ma essendo tale principio antinaturale, ad esso si oppone automaticamente e in ogni luogo quello meritocratico, anche quando non è del tutto consapevole, fissato e dichiarato nelle sue ragioni. Tuttavia, grazie alle resistenze del suo oppositore, esso non si afferma mai totalmente, e spesso ne fanno le spese coloro che davvero meriterebbero, in quanto vengono soffocati da mediocri che ormai hanno infestato tutti gli strati delle gerarchie sociali e dall’alto o dal basso dettano legge. Se la scuola fa schifo è colpa della politica. Ma se la politica entra determinatamente nel campo dell’Istruzione, l’intero paese sente odore di dittatura, si mette istintivamente in allerta e, non potendo negare problemi evidenti, cercherà falsi capri espiatori.


L’organismo innesca istinti di difesa primaria contro i nemici più vicini, ed i nemici più vicini stanno all’interno del corpo: ogni sentore d’insania, ogni oppressione, sostanza che lo avveleni, esso cerca di espellere violentemente. Spesso a spingerci all’azione non è la completa e razionalizzata percezione della situazione esterna, con tutte le sue minacce ed occasioni, percezione che deve affiancarsi anche a quella interna, bensì l’intensificarsi di quelle sgradevoli sensazioni interne, che non abbiamo più la forza o la pazienza di sopportare, o anche solo di sfiatare in modo più accorto, temporaneo, incompleto, sublimato, deviato, il che sicuramente è meno piacevole nell’immediato, ma ci salverebbe dalla disfatta imposta poi dalle conseguenze. Credo che molte guerre siano state perdute in questo modo.


Il rapporto più significativo nella battaglia della vita è quello tra azione e conoscenza. La conoscenza ha indiscutibilmente come fine ultimo l’azione, poiché nulla siamo interessati a conoscere che non rappresenti per noi una minaccia o una promessa, entro le quali dobbiamo muoverci per realizzare il benessere. Molti fattori di questo universo sono stati mossi da un istinto cieco: esso ha prodotto dei danni che hanno innescato la nostra reazione difensiva, anch’essa inizialmente istintiva. Ma dacché potevamo disporre d’una forza ben misera, la nostra reazione istintiva ci ha portato a delle sconfitte, da parte dei fattori esterni, che in differenti legioni ci hanno soverchiato sottraendoci un’ancor maggiore fetta di benessere. Questa esperienza, questa azione è stata dunque illuminante, perché ci ha resi consapevoli di nuovi nemici, delle loro locazioni, movenze, spostamenti, di loro eventuali rapporti, del loro essere separati od organizzati, delle loro potenzialità offensive e difensive, nonché delle nostre, misurate nel confronto. Ora, l’azione risulta dunque illuminante anche per la conoscenza, ed anzi si rivela l’unica vera fonte di ogni conoscenza. L’azione diretta che produce la conoscenza non prescinde mai dall’ambito bellico: mentre noi ci muoviamo in un ambiente, notiamo che i suoi fattori sono sempre amichevoli oppure ostili, od ancor neutrali in tal contesto bipolare, poiché anch’essi alla ricerca del proprio maggior benessere, che sembra a tutti confliggere con quello degli altri. Per tale motivo il reperimento di conoscenze dirette è sempre pericoloso poiché appunto inizialmente ignaro ed avventuroso, sulla base delle energie di cui al momento si dispone, e che vengono mosse dai nostri istinti verso la soddisfazione dei nostri bisogni ed in vista dei nostri scopi intrinseci. Ma le molteplici esperienze dirette compiute nella storia da moltissimi uomini nelle locazioni più disparate hanno lasciato un segno che si chiamerà poi cultura. Tali conoscenze sono state dunque ereditate, a rendere possibile quel progresso, inaccessibile ad un singolo uomo o ad una piccola comunità. Si ha rispetto di una cultura poiché s’intuisce quanto lavoro e quanto sangue ci siano dietro il suo sviluppo storico, e si rispettano i padri fondatori di una scuola, gli antichi maestri di un’arte, poiché sono gli unici che se la siano guadagnata davvero, mentre noi apprendiamo in poco tempo ciò che è stato appreso dalla natura da pochi arditi. Tutti quei busti, le statue, le immagini, gli epigrammi, posti all’ingresso delle accademie ci vogliono ammonire d’un fatto: ho sofferto, osato, insistito, ricercato, ora non ci sono più ma quello che avete oggi lo dovete a me, rendetemi eterno onore. Per quanto meno vivide, nonché mediate dalla soggettività, tutti dobbiamo attingere a conoscenze di seconda mano, fidandoci del lume e dell’onestà di chi le ha vissute. La cultura è un ricettacolo di esperienze di seconda mano, il quale dona la possibilità di estendere le nostre conoscenze a ciò che non ci è direttamente accessibile, nonché quella di formarci in maniera più distaccata e dunque meno pericolosa, di crescere intellettualmente con meno sangue improvviso e meno gioia improvvisa, con meno spreco energetico, ma anche senza recupero od aumento energetico, senza sconfitta dunque ma anche senza vittoria, senza sottrazione né espansione, poiché sappiamo che l’esperienza, sia cieca o avveduta, può essere negativa ma anche positiva qualora siamo fortunati, ovvero incappiamo nella nostra azione in un maggior numero di fattori che di per se stessi non ci si rivelano ostili, ma favorevoli oppure ostili con bassa energia, sicché li abbiamo sconfitti raggiungendo una roccaforte di maggior benessere con nuove risorse da utilizzare. Appare ora semplice riconoscere che, se le tue risorse interiori, la tua potenza militare, sono poderose, ti puoi permettere un lavoro di ricerca ben ridotto ed essere incurante, di agire più ciecamente ed avventatamente di quanto possa fare un debole, poiché eventuali fattori negativi che si presentino inaspettati verranno soverchiati, sicché essendo più forti ci getteremo in una azione conquistatrice che indebolirà il nemico, ci annetterà nuovi territori, ci illuminerà di conoscenze dirette a buon mercato, ovvero con poco spargimento di sangue, ci affrancherà inoltre degli istinti sgradevoli sedimentati in noi, bramosi di uscire riversati nell’azione, nella concretezza, istinti a rischio di surriscaldamento e d’immarcescenza qualora si trattengano nel corpo, che funge orbene da fusibile, da ammortizzatore, giacché un impulso aggressivo non è giammai represso ma deviato in auto distruttività o sublimato in pensiero fantasioso o in creazione artistica. Un uomo forte e dai modesti obiettivi non deve dunque aspettare, né studiare gran ché, poiché di poche conoscenze ha bisogno e di pochi avversari ragionevole paura. Le conoscenze necessarie può farsele ben sul campo con qualche graffio ed avvantaggiarsi presto nei confronti degli avversari. La sua energia potrebbe del resto diminuire ed in generale il tempo giovare ai nemici, che possono avvantaggiarsi ancor più di lui nel momento in cui lo vedono indaffarato sui libri sicché possono agire indisturbati e inosteggiati, oppure ancor qualora, mentre siete tutti quanti in fase preparatoria, essi possiedano maggiori fonti conoscitive ed apprendano più rapidamente. Allorché lo scontro è prima o poi inevitabile, nell’ambito di obiettivi che si escludono reciprocamente, tutto sta a stabilire la data favorevole per esso, prevedendo rettamente l’aumento o la diminuzione delle proprie forze rispetto a quelle del nemico. Tornando al fattore ereditarietà, se non ti fidi delle conoscenze che ti vengono tramandate, puoi sempre investire su te stesso, tornare alla natura, fare i tuoi esperimenti e rifondare una scienza tua: c’è però una precisazione da fare. Chi ha creato un’arte, una cultura ha il più delle volte creato anche delle Istituzioni che la difendono, ormai riconosciute e piene di accoliti, inserite nel sistema generale, istituzioni oramai potenti ed egemoniche, che escludono o comunque rendono difficili le cose a spiriti critici e alternativamente creativi, sicché la situazione di questi ultimi è ancor più dura di quella dei padri fondatori. Questi infatti erano almeno liberi, in quanto erano i primi a battere un terreno e ad edificarci sopra. Quelli invece devono combattere contro le presenti istituzioni mentre tentano di edificarne di nuove.


La felicità è conseguenza di una azione vincente. L’azione vincente si innesca quando un corpo reagisce con sufficiente energia ad una percezione esatta. La teoria è la sublimazione intellettuale di una azione vincente alla quale non abbiamo accesso causa la mancanza di uno dei due fattori. La teoria è motivata dal fatto che esiste uno scarto temporale tra la percezione e la reazione, in quanto noi assumiamo un ruolo che non ci può competere ancora, veniamo informati, ovvero parti della realtà che dovremo affrontare si presentano a noi, spesso nella visione distorta di un modello ed una reazione istintiva si attiva in noi inevitabilmente, ma colpisce a vuoto oppure obiettivi surrogati, sprecando le nostre energie oppure ripiegandole in senso autolesionistico. Essere informati significa essere preparati all’azione, ma il concetto stesso racchiude una trappola perniciosa. Si è preparati all’azione quando se ne hanno la forza e la qualità percettiva sufficienti, e queste si acquisiscono tramite le propedeutiche azioni, non informazioni. L’informazione incarta l’istinto, non lo libera, vuole l’azione anzitempo, ossia prima delle propedeutiche azioni che ci mettono nelle condizioni di agire, ed è ovvio che l’individuo ne esca sconfitto perché viene colpito senza poter colpire. Esiste un pericolo terribile nei concetti generali. È possibile intendere con un concetto generale un insieme di oggetti, ed in tal caso questo è solamente più difficile da maneggiare in poiché molto più denso. Tuttavia esso è reale, ovvero ancor particolare. Ma altrimenti non ha alcuna realtà e di tale inconsistenza fornirò la consistenza di un esempio. Il concetto di intervallo musicale è totalmente superfluo a chi voglia imparare a suonare un giro di arpeggi su un pianoforte in più tonalità. Inizialmente poniamo che lo impari in do, ed il suo concetto di quegli intervalli, ossia il ricordo di averli suonati, è costituito dalle sensazioni corrispondenti al moto delle sue dita entro quelle quarte, seconde, quinte, settime, in tonalità di do. Ora tali concetti generali non lo aiutano minimamente qualora lui provi a trasporre il brano in fa#, perché i tasti sono comunque disposti diversamente nello spazio, l’intervallo sperimentato nella tonalità di do non è mai sovrapponibile a quello nella tonalità di fa#, e soltanto esercitandosi direttamente nella nuova tonalità egli potrà familiarizzare con essa, ossia fissarla in memoria in modo da rendere automatico e non più pionieristico e faticoso un nuovo passaggio per quei sentieri. Di ogni cosa diversa abbiamo un ricordo cioè un concetto diverso, da costruire e ridefinire singolarmente, non esiste alcun concetto generale che possa farne le veci e risparmiarci il lavoro. Un concetto generale assume realtà solo come rappresentazione di un insieme di oggetti, di cui il soggetto coglie dunque i rapporti ma non le particolarità, non le finezze, e tali oggetti visti da lontano conservano ai suoi occhi quelle fattezze che gli consentono di amministrarli, e stilizzati possono parere uguali anche se non lo sono, ma ciò è benefico ai fini gestionali e non spetta a lui cogliere differenze più minute, egli deve cogliere le macro affinità. Dovrà studiare discipline generali solo chi dovrà occuparsi di insiemi di oggetti, chi dovrà ricoprire un ruolo organizzativo. Nella realtà come nel linguaggio possiamo avere a che fare con oggetti semplici oppure con insiemi di oggetti, nel primo caso usiamo nomi singolari, nel secondo plurali. Tuttavia il linguaggio stesso e dunque ogni Teoria serve a far agire qualcun altro al posto nostro ed è dunque figlio della discrasia sociale, del mal posizionamento. Il linguaggio informa, dunque prepara all’azione chi non vi è stato preparato dall’azione ma si trova nella situazione di dover agire in maniera benefica. Tuttavia egli non può comprendere quello che non fa, sicché ogni comunicazione è illusoria, è un grido nel vuoto lanciato da ogni individuo che si trova a stare dove non dovrebbe, e vede altri stare dove non dovrebbero, ed altresì la prassi promossa ingannevolmente da chi vuol vedere perdurata l’irrisolutezza di un corpo sociale, entro cui presto si levano impeti imperiosi da parte di questi e quelli che si rendono conto che parlare è inutile.

Due uomini sono di fronte ad un bivio, l’opzione A e l’opzione B.
L’opzione A comporta una disfatta seguita da un’aura d’onore. L’opzione B comporta la salvaguardia dalla disfatta seguita da un’onta di disonore. Entrambe le opzioni hanno dunque un vantaggio e uno svantaggio. Dunque, qualcosa cui ambire e qualcosa di cui avere paura. Chi dei due è coraggioso? Partendo da un’ottica individuale, che prescinde dal confronto con gli altri, il coraggio è comunque legato ad una capacità di previsione del futuro che ti permetta di confrontarlo sul momento con il presente, sicché il valore delle due cose possa portarti ad una decisione, che poi è la direzione che prendi. Se il disagio della disfatta presente non si trova all’interno affrescato dalle correnti argentine d’onore che invadono i suoi pertugi, non ti è possibile avanzare sopportandolo.
Viceversa, se il disonore ti lancia i suoi orridi dardi dalla torre del futuro, ti sarà difficile stare fermo alla roccarella presente. Ma se lo fa, ecco che anche tu puoi sentire cosa ti fa più male, come il tuo compare dalla situazione inversa. Presi i due individui singolarmente, entrambi sono coraggiosi nella misura in cui compiono una scelta che li porta, nella postazione successiva in cui si misura la felicità, ad un livello maggiore di quello in cui li avrebbe messi la scelta opposta. Se quello che parte subisce una disfatta troppo grossa, che non può essere compensata dal miglioramento d’immagine, fu stolto e dunque vile, non coraggioso. Se quell’altro subisce un disonor troppo grave, che non può essere compensato dalla salvaguardia delle penne, anche lui è stato vile, non coraggioso. Ma nel sentire comune, che spesso valuta al contrario, sarebbero coraggiosi entrambi nel momento in cui scegliessero il male più doloroso. È la concezione del coraggio martire, la quale presuppone una gerarchia di valori, che pone in prima posizione un interesse esterno al quale tu, se vuoi essere virtuoso, ti devi offrire in sacrificio, dunque disprezzar te stesso in favor della causa. Ora è chiaro che per dare questo tipo di giudizi, questo terzo interesse deve essere presente, altrimenti coraggio e viltà dipendono, nell’ottica individualista, dalla scelta più o meno conveniente che fa il singolo. Mentre quando un valore esterno si impone, esso loda il personaggio che si schiera nella sua fazione, dunque che mette al primo posto lo stesso bene, dovesse anche questo comportare il sacrificio di sé. Perché infatti si doveva conferire onore a colui che partiva verso una disfatta? Perché disonore a colui che se ne proteggeva? Poiché l’interesse della schiera dominante non è il benessere dei due soggetti, ma solo la causa che essi possono servire. Se il martirio del primo non fosse servito materialmente a nulla, esso avrebbe comunque dato un esempio agli altri: che è buona cosa essere disposti al sacrificio per la nostra causa! Dacché, se voi siete più forti di quell’ardito, ardirete or più di lui d’avanzare ad ogni costo, purché un giovamento essa ne tragga. E disonore all’altro, perché ha amato più se stesso della causa e dunque, sebbene in questo caso non l’avrebbe ben servita a cagion della sua debolezza ed il suo sacrificio sarebbe stato inutile come quello del compare, egli avrebbe però dato il cattivo esempio, non avrebbe onorato i nostri valori. Sono stati dunque dei personaggi esterni a porre quei due individui nell’angoscia di un tale dilemma. Ed è secondario che la controparte del tuo comportamento siano onori e disonori, oppure materiali vantaggi o svantaggi, poiché i primi due non son che garanzie per i secondi. La sostanza è…
Tu fai il mio interesse? Ne verrai premiato. Fai invece il tuo? Ne verrai punito.
Ma se anche restassimo dentro il cuore del singolo, vedremmo qualcosa di analogo perché, se la sua capacità di giudizio lo inganna, favorendo la passione meno intensa, la più debole quindi, la passione più forte verrà poi mortificata e lo punirà con una sofferenza maggiore. In tal caso sono stati dei vili perché hanno trattato un debole come fosse un forte, ed un forte come fosse un debole, quando senza indugio avrebbero dovuto sacrificare il primo al secondo. Ed ancora nell’ottica individualista, e parificata adesso la capacità di previsione del futuro nei due soggetti, essi potrebbero altresì scegliere diversamente poiché i valori delle due opzioni non sono eguali, di modo che al primo la disfatta non fa poi così male, mentre il disonore lo distruggerebbe, l’altro invece sopporta meglio il disonore perché sul campo è talmente debole da uscirne spezzettato. Se i due si unissero in società contro una serie di mali che li minacciano, sarebbe saggio dunque che ognuno andasse incontro a quello che sopporta meglio, il che è ciò che avviene nella società quando la gente si sceglie un lavoro, allo scopo comune di appagare la totalità dei bisogni. Perché allora dovrebbe mai avvenire che una disfatta debba raccogliere onore ed una vittoria disonore, o comunque la prima un premio che non la ripaga del danno subìto e la seconda una punizione che supera il vantaggio? Nella vita assennata è appunto il contrario: onore ai vincitori e disonore ai vinti…
Il male e il bene sono coerenti, non si mescolano. Invece questo avviene ed è il succo di tutto quanto. Ci sono debolezze che, non essendo riconosciute come tali, si coalizzano con delle forze, e tale coalizione si scontra con altri gruppi analogamente frammisti di forze e debolezze. Il risultato è che i forti della prima squadra danneggiano i forti della seconda squadra, mentre i deboli si salvaguardano tra di loro, raccolti sotto l’ala dei forti. I forti possono infatti essere contrapposti solo allorché tra di loro esistano dei deboli. Sono i deboli che causano la guerra!
Il bene riesce a far del male solo se è mescolato al male. Ogni fazione deve bruciare gli insetti al proprio interno, poiché sono quelli che impediscono una vera vittoria. Eliminati i deboli, i forti si stringeranno la mano e vivranno in pace.


Quando riceviamo un sincero elogio da un avversario, ciò avviene poiché egli si rende conto che non siamo veramente suoi avversari, che nostro malgrado siam dunque contrapposti e quel bel colpo lo avremmo dovuto assestare a qualcun altro che davvero ci è nemico. Ora lui se la prende soltanto con quel nostro difetto che rende perdente il nostro pregio, ovvero non positivo verso i suoi fini e vorrebbe distruggere in noi solo tale difetto. Se lui però non ha le armi per distruggere quel difetto, né la possibilità di distaccarsi dalla nostra figura complessivamente dannosa, ecco che dovrà combattere l’intera nostra persona ed in caso di necessità ucciderla, poiché ci sono interessi superiori che giustificano il sacrificio di quella qualità buona che anche lui aveva riconosciuto in noi. Se quella commistione di buono e cattivo non fosse poi colpa nostra, ma di soggetti esterni che avevano approfittato di nostre ignoranze per mettere ingiustamente noi ed il nostro avversario l’uno contro l’altro, ecco che vediamo adesso chi sono i nostri veri nemici. Ma più precisamente, noi risaliamo una catena causale verso un nuovo stadio di illuminazione, che non è detto sia l’ultimo, poiché anche quella nuova debolezza, che ora identifichiamo come il nemico da abbattere, potrebbe essere apparente e dunque derivare da un’altra debolezza, che analogamente avrebbe forzato la compresenza di materiali eterogenei, quelli che si respingono per natura, come qualsiasi virtù aborre qualsiasi vizio e qualsiasi verità aborre qualsiasi menzogna: con il risultato di contrapporre ciò che dovrebbe essere invece unito, producendo il pianto dei giusti costretti ad ammazzare un loro simile. Un nostro simile è un nostro complementare, un elemento necessario a realizzare la nostra meta. I soggetti esterni non sono per noi più o meno forti, ma forti o non-forti.
Infatti ogni minimo elemento che viene sottratto alla compagine della forza, tutta la fa soffrire non consentendole una vittoria completa. Soltanto all’interno del tempo ovvero nel regno della contaminazione è valido il concetto di quantità. Mentre nella purezza e dunque nell’unicità le cose son buone o cattive e basta, da accettare o eliminare senza distinzioni di numero, poiché numero vuole dire che abbiamo una pluralità di esigenze erroneamente interpretate come una esigenza sola. Ma nel regno del divenire esiste invece quella che chiamiamo priorità. La priorità stabilisce quali falsi buoni dobbiamo sacrificare per poter uccidere i veri cattivi. Nella coscienza soggettiva, la priorità è conferita a quell’atto che ci procura la maggiore soddisfazione, ovvero appaga il maggior numero di bisogni. Tuttavia, lo scegliamo in base alla percezione di una gerarchia, in quanto oggetti di secondaria importanza sono dipendenti da possedimenti più basilari, primi i nostri mezzi di sussistenza. Ma ci renderemo conto che la sopravvivenza in se stessa non è un bisogno, non avremmo alcun motivo di sopravvivere se non per gustare la totalità dei piaceri della vita, liberandoci dunque da tutte le scorie nocive che intossicano il nostro organismo. Pertanto, se la soddisfazione dei bisogni presuppone la vita, è altrettanto vero che la vita sarebbe nulla senza la soddisfazione dei bisogni, e questo ribadisce come tutti gli elementi di questo mondo siano interdipendenti e costituiscano dunque un solo grande corpo che ambisce a strutturarsi in maniera impeccabile, poiché anche un solo elemento fuori posto, anche un solo bisogno inappagato rimette in discussione l’intero sistema. La felicità totale non è mai stata raggiunta da nessuno e nessuno l’ha posta come possibile, in un pessimismo sociale che ci induce a pensare che il mondo sia troppo complesso per essere ordinato e perché non resti dominante in esso una ostilità di fondo tra i suoi elementi in virtù della quale bisogna combattere costantemente per mantenere anche quello che si è acquisito, senza manco porsi il problema di ottenere tutto. Ma non appena di fatto il nostro livello di felicità personale cresce, ecco che chiediamo di più, ecco che istintivamente e inevitabilmente lo cerchiamo, e torniamo a guardare in basso solo sotto la pressione di una minaccia, sia materiale o narcisistica. Senza tali minacce, noi siamo proiettati in avanti, verso la perfezione. Tutto ciò che ci porta ad una felicità parziale è infatti ancora nel tempo e dunque è un false friend, poiché l’unica meta è la felicità totale, la quale può essere raggiunta solo una volta per tutte in quanto non è passibile di regressione. Se tutti compissero insieme lo stesso atto di giustizia, se essi riconoscessero qual è la priorità, la felicità cosmica sarebbe immediatamente realizzata. Ma questo non avviene perché tutti noi siamo contaminati, pertanto ognuno di noi è debole di questa precisa contaminazione, e solo il corso naturale delle cose, solo la gradualità automatica nello spezzarsi di questi legami nocivi può portare alla redenzione finale. Tutto ciò che va in malora e muore, è pertanto giusto che lo faccia, in quanto complessivamente esiste la priorità assoluta: essa non è altro che quello che succede, compresi i fatti più atroci, poiché noi non sappiamo quali ataviche ingiustizie essi vadano a compensare, quali profonde contaminazioni essi devono disciogliere, noi giudichiamo i fatti della storia troppo dal basso per comprenderne il senso. Possiamo dunque educare noi stessi a compiere un sacrificio per assicurarci un benessere più solido, più grande, e non appena ne gustiamo il risultato quel sacrificio scompare, non ne sentiamo più il peso: quel dolore, quella frustrazione era legata ad un bisogno figlio di una situazione insana, di una contaminazione che ora è stata dissolta sicché quel piacere era invero un nemico, una trappola, ed il suo presupposto era un tassello di realtà che andava scompaginato per giungere all’anello successivo del nostro processo di liberazione, sicché il dolore che abbiamo sopportato era invero un amico, e siamo stati coraggiosi nell’affrontarlo. Ma se anche invece quell’insania fosse aumentata, se fossimo degenerati ulteriormente, più contaminati ancora e quindi più deboli, ciò non avrebbe rappresentato una vera ingiustizia, sul piano cosmico. Su quello personale sì: poiché contaminazione è ingiustizia; ma se siamo costretti a soffrire e dunque sottoposti ad una necessità, ad una causa di forza maggiore, ebbene tale forza maggiore non è altro che un legame più profondo che deve essere rotto per arrivare a rompere anche tutti gli altri. Le nostre priorità personali sono tutte inganni, ai quali non possiamo però sottrarci. Noi cerchiamo il maggior benessere individuato sulla base di un momento previsto nel nostro futuro, ed ottenuto tramite una precisa sequenza di azioni in ordine di priorità, scartando dunque altre opzioni. Forse tale previsione era stata corretta, i nostri strumenti di valutazione funzionavano, e seguendo quella tabella di marcia noi di fatto otteniamo una situazione di maggior benessere, senza che esso sia mai però il benessere totale. Ma ci rendiamo conto che, spostando ed ampliando l’orizzonte, compaiono molte più informazioni, molti più soggetti con cui fare i conti, molti più fattori in gioco, molti più bisogni ovvero insanie da eliminare, e vedremmo ancora, come prima avevamo notato su scala più piccola, che l’eliminazione di una presuppone quella di un’altra prima, sicché la nostra tabella di marcia muta in funzione del nostro spazio visivo, della quantità di elementi che percepiamo. Non riusciamo mai a visualizzare l’interno cosmo in modo da comprendere la sua priorità, quella che si esplica nel seguente modo, nel portare i singoli individui verso ruoli sempre nuovi, fino a che non hanno trovato quello giusto. Il mondo è un cubo di Rubik. La vita non è in fondo altro che un percorso a ritroso verso l’unità perduta dei suoi componenti. Possiamo essere in un ruolo di potere e non avere le conoscenze corrette per espletarlo al meglio, come possiamo avere molte conoscenze ma non il ruolo che ad esse compete, ma se osserviamo meglio, questa compresenza di determinate conoscenze nella precisa posizione sociale che occupiamo è già un ruolo, quello del Politico Ignorante o quello del Dotto Impotente, ruoli che avranno delle conseguenze in noi e fuori di noi, e quando davvero avremo tutte le conoscenze necessarie per espletare al meglio un ruolo, noi ricopriremo di fatto quel ruolo. Non potremmo infatti arrivare a ricoprirlo senza avere le conoscenze sufficienti, ma non avremmo le conoscenze sufficienti senza ricoprirlo, poiché noi siamo quello che sappiamo e sappiamo quello che siamo. I due termini procedono all’unisono. I ruoli giusti comprendono le conoscenze giuste. Se c’era una commistione dannosa, già essa dipendeva da una debolezza strutturale che stava più a monte, e tramite la catena delle conseguenze tale commistione si dissolverà e cercherà di risalire a quella precedente.


L’Ignavia non esiste: perché non compiere scelte è impossibile. Decidere di non decidere tra due opzioni è una decisione, è di fatto scegliere una terza opzione, e questa scelta come tutte le scelte ha delle conseguenze con cui dobbiamo fare i conti. Si dice che l’ignavo non vorrebbe mai fare i conti con nulla, non vorrebbe assumersi responsabilità e dunque rischi. Ma se un uomo non si vuole assumere alcuna responsabilità significa che sa di essere talmente debole da essere incapace di qualsiasi vittoria, sicuro che qualsiasi rischio si tramuterà necessariamente in danno, oppure significa che egli è tanto stupido, così poco autoconsapevole e lungimirante, da non accorgersi che in realtà qualche punto di forza lo possiede o comunque potrà acquisirlo nel percorso e non essere così condannato a priori. Se noi disprezziamo questa debolezza generale, del corpo o della capacità di giudizio, il nostro disprezzo è dunque ragionevole. Non invece se disprezziamo la tendenza generale ad evitare il rischio e l’impegno, poiché tale posizione nei confronti di queste persone costituisce un processo assiologico più complesso. Presuppone dei giudizi di valore che vanno sottoposti ad una analisi più approfondita. È possibile che qualcuno di noi condanni anche, non già l’atteggiamento concreto che noi abbiamo, ovvero la scelta che facciamo, ma i sentimenti con cui questa viene accompagnata, ad esempio se noi accettiamo la cosa a malincuore, se ci sobbarchiamo un rischio ed un impegno sgraditi. Al ché i sostenitori ed amanti della causa ci rimproverano di non mostrare anche noi lo stesso entusiasmo ed ardore, o perché non siamo veramente d’accordo, o perché siamo troppo deboli per affrontare la cosa con piacere ed energia, e sentiamo invece stanchezza o fastidio. Noi tutti, necessariamente, ci opponiamo a tutto quello che si frappone tra noi ed il nostro massimo vantaggio, sia quello che sia, fisico o mentale, contingente o caratteriale. Ma nessuno di noi si lancia incontro al male. Nessuno cerca il rischio, il disagio, il dolore, il sacrificio e la morte. Fino a che anche una piccolissima quantità di queste cose è di fatto evitabile senza conseguenze peggiori, noi la evitiamo con il massimo scrupolo: perché questo vuole la natura. Infatti possiamo proseguire il discorso iniziale: abbiamo detto che scegliere una terza opzione, tra le due che ci avevano proposto, comporta delle conseguenze, forse più gravi dell’aver rispettato quella dicotomia. Ma non per noi, evidentemente, visto che scegliamo l’opzione tre. Ma dacché la nostra scelta ha delle ripercussioni, noi non vorremmo naturalmente fare i conti nemmeno con queste e allora magari andiamo a cercare una quarta opzione che ce ne esima, la quale anch’essa avrà però delle conseguenze. Possiamo andare avanti con una quinta e una sesta opzione, sin dove il nostro pensiero e le nostre conoscenze arrivano, oppure sino a che la ricerca di nuove opzioni che minimizzino il danno ricevuto non comporta in se stessa un danno ancora maggiore di una qualsiasi delle scelte precedenti. Il concetto è che uno prende in considerazione tutte le ipotesi che il suo cervello, nelle varie situazioni, è in grado di visualizzare, e calcola rapidamente quale sia la più conveniente, ed affronta in realtà sempre il rischio minore, perché anche quelli che scelgono un grosso rischio cosiddetto non necessario non è che amino il rischio, amano le lusinghe che ne riceverebbero sia nel caso in cui ne uscissero vincitori sia nel caso ne fossero sconfitti, sicché tale sconfitta non è una prospettiva così macabra, come lo sarebbe invece, in casi come questo ossia nella mente di persone condizionate da pregiudizi morali, un’accusa di pavidità o viltà che dunque essi temono terribilmente e dinanzi alla cui prospettiva fuggono a gambe levate dovessero anche andare incontro a morte cruenta. In ogni caso deve essere accertato che quel rischio cui essi dicono di andare incontro è realmente un rischio grande: bisogna vedere fino a che punto essi siano deboli e vulnerabili, nello stesso modo in cui bisogna controllare, prima di valutare lo spirito di sacrificio di una persona, quanto ella sia effettivamente sacrificata mentre procede in una condotta, quanto stia faticando, se stia rinunciando a qualcosa di veramente importante sul nostro altare, sicché il peso dell’amore di una causa come quello per una persona vanno misurati mettendo sull’altro piatto qualcosa di sostanzioso, non scatole vuote che si millantano piene. Le due alternative entro le quali un uomo viene chiamato a scegliere, non possono mai essere il Bene e il Male nelle accezioni generali, ma solo un bene ed un male particolari e quindi soggettivi, perché nell’accezione generale nessuno può scegliere il male. Egli agisce sempre verso ciò che crede essere il bene. Il dantesco non ti curar di lor ma guarda e passa è un’ostentazione di disprezzo e quindi non è totale disprezzo in quanto questi ignavi hanno assunto un ruolo, nei confronti della vita e nei confronti di Dante, egli se ne è sentito danneggiato, o anche soltanto disgustato ma in ogni caso toccato, sicché ha avuto questa reazione ostile, anzi ancor più ostile di quella avuta contro i dannati dell’Inferno, poiché ha valutato che il danno che riceveva da questi ultimi era inferiore a quello operato dai primi. Se preferisci i tuoi nemici alle persone neutrali è perché ritieni che quella precisa guerra sia maggiormente benefica della pace, anche se si dovesse perderla. La mitizzazione della battaglia, che sia per una causa o per la battaglia in se stessa, implica una svalutazione dell’essere umano, del soldato, che dunque ha il dovere di sacrificarsi in caso di necessità, o addirittura senza una precisa necessità, e viene maggiormente disprezzato se rifiuta questo sacrificio sopravvalutando se stesso, non ritenendolo un buon motivo per morire, per anche solo faticare, soffrire, fare delle rinunce. Nell’ignavo, ovvero colui che non si prodiga in una guerra precisa da noi considerata importante, noi odiamo la sua presunzione, la sua autostima immeritata che lo conducono ad una scelta egoistica, anziché servire qualcosa che noi riteniamo più importante. È dunque un conflitto di valori, quindi un conflitto di obiettivi, ossia un conflitto di egoismi. Quando le differenze assiologiche sono solo questioni informative, le si può risolvere insegnando alle persone quello che loro manca, o facendole ragionare laddove non arrivano per problemi contingenti. Dove esse non arrivano per limiti intrinseci, non v’è speranza di ottenere una conversione, ed allora deve intervenire il principio gerarchico: su di loro gli uomini più intelligenti devono necessariamente imporsi. Ma tutto ciò rientra nell’ambito della diversità contingente. Vi è però una diversità che riguarda invece il reale conflitto di interessi. Non dunque il giudizio sui mezzi idonei a raggiungere tali interessi, che possono anche essere palesi in entrambe le fazioni. Tale conflitto va eliminato alla radice da quelle poche persone tanto intelligenti da aver visto che esso non è necessario, non è eterno. Ma per dissolverlo anche solo in maniera teorica egli deve averne già visualizzato i mezzi. Non possiamo infatti vedere e dunque neppur desiderare ciò che non è realizzabile. Per risolverlo infine in maniera pratica egli deve impadronirsi di questi mezzi, in sostanza assumere il potere. Ma allorché ogni individuo si sarà impadronito dei mezzi con i quali dissolvere i conflitti d’interesse, in sostanza quando avrà il ruolo che gli compete, tale conflitto sarà già di fatto dissolto. Questo mostra come la guerra sia necessaria appunto perché è l’anima stessa della necessità. Solo la guerra è necessaria, senza di essa non vi sarebbe alcuna necessità in quanto non ci sarebbe alcun moto. Un necessario periodo di pace è una mossa tattica, una attesa strategica per rimettersi in forze, causata quindi dal nostro bellicismo interiore in cui devono trionfare le nostre fisiologiche forze risanatrici, o ancor si tratta dell’esigenza di strutturare meglio la nostra fazione, farla crescere economicamente e addestrarla in vista del proseguimento delle ostilità, fino alla vittoria finale. Essere implicato nelle necessità significa vivere nel mondo, prendere parte a conflitti che intendono appunto dirimersi nel benessere, e che cessano davvero solo quando ognuno ha trovato il suo benessere, mentre possono cessare parzialmente e dunque temporaneamente qualora un singolo o una fazione riescano ad imporsi con energia sugli avversari, cacciandoli in un buco dal quale essi, prima o poi, comunque usciranno. Combattere per la pace non è un ossimoro. Non si può far altro che combattere per la pace, chiunque combatta è perché non si sente in pace e la vuole raggiungere, quali che siano i mezzi che personalmente individua. L’errore del pacifista sta nel credere che lo scopo possa essere anche il mezzo. Che astrarsi dal combattimento, essere pacifici, serva a realizzare la pace. Non si può essere pacifici sin che la guerra non è finita. La guerra finisce soltanto quando non la fa più nessuno. Ma non la fa più nessuno quando nessuno ha più interesse a farla. Nessuno ha interesse a farla quando già si trova in pace. Dunque il massimo paradosso possibile è pretendere che i mezzi corrispondano agli scopi, giacché non v’è contrasto più insanabile, non v’è differenza più essenziale di quella tra mezzi e scopi, tra moto e quiete, tra vita e perfezione. Quello che succede in questo calderone di tormento non conta, conta solo in quanto ci porta fuori da esso. Ma tutto contribuisce a portarci fuori da esso, per cui tutto conta, poiché tutto è mezzo per lo scopo. Il mezzo è un anello, l’elemento unitario della catena della necessità, ovvero lo spazio, ossia il tempo, dunque la pluralità. Quello che definiamo scopo sta fuori da questa catena ed è ciò che viene voluto. Il mezzo è inizialmente l’elemento che ci è avverso, che noi pieghiamo al nostro volere conformandolo al nostro scopo, è un pezzo di stoffa eterogenea che noi annettiamo forzatamente al nostro costume d’arlecchino, quando però i colori differenti si rigettano a vicenda, poiché lo spirito della cosmica veste impone infine la sua legge: quella dell’uniformità. Ma l’Uniformità coincide con l’Unisostanzialità, ed entrambe si riassumono nella Unicità. Siamo tanto più felici quanti più mezzi abbiamo fatto divenire scopi, dunque quanti più elementi di realtà abbiamo assimilato al nostro ego. L’unico scopo è la felicità. Quando diciamo di avere scopi diversi, significa che abbiamo fatto un differente scarto tra ciò che ci interessa, ovvero rientra nel nostro ego, e quanto invece ne sta al di fuori, senza che mai nulla ne sia fuori realmente. Quando diciamo altresì di avere individuato mezzi differenti per i nostri scopi, abbiamo fatto analogo scarto legato alla posizione in cui siamo nel cosmo, che presuppone la vicinanza maggiore di determinati oggetti che dunque hanno per noi la priorità, dunque devono essere assimilati poiché portano a quel tutto assimilato che adesso, nella nostra visione parziale, coincide con quel singolo atto di assimilazione, giacché noi non possiamo muoverci verso il plurimo: ogni volizione ha un singolo oggetto, fosse anche composto da molti elementi ma viene percepito infine come unitario. Prima e Davanti sono sinonimi, così lo sono Dopo e Dietro. Quel che dobbiamo affrontare prima è perché ci è più vicino, quel che dobbiamo affrontare dopo è perché è più lontano: la vista del lontano è impedita da quella del vicino, sicché nella nostra quotidianità, questo lontano di fatto non esiste. La felicità consiste appunto nel rendere ogni mezzo lo scopo, nel dissolvere quel contrasto prima definito insanabile, nel portare la trascendenza nell’immanenza, ossia il nulla nella realtà grazie al concetto di totalità, dunque i Tutti nell’Uno e L’Uno nei Tutti. Verrebbe ora da chiedere: e qual è il mezzo per ottenere questo scopo? Si può parlare di mezzi soltanto nella coscienza personale la quale è limitata e dunque opera una selezione tra gli elementi della realtà. Il mondo non la opera giammai sicché non ha il concetto di mezzo, egli è uno scopo squassato nei mezzi, nell’irredentismo dei singoli che, ciechi, pretendono la propria autonomia. Sicché la vera guerra è tra il cosmo e le sue parti, e solo in apparenza tra queste ultime: tutte sono dominate invero, dal profondo, da questo demiurgo che mai non consentirà la vittoria stabile di alcuna di esse sull’altre. La vista completa viene dalla sinergia delle sue parti, il campo visivo totale dalla retta sovrapposizione dei campi visivi parziali: ma il mondo diverrà illuminato ossia veramente saggio solo quando – parallelamente all’atto in cui – esso sarà sanificato. Noi non possiamo individuare il mezzo per questo scopo poiché dovremmo aver già ottenuto lo scopo. L’uomo è quello che sa, ma sa quello che è, sicché un uomo dalla sua coscienza particolare non può capire le cogitazioni della natura, sa lei quali sono i mezzi, sa lei come dissolvere quel contrasto di egoismi che la costituisce, noi la osserviamo in un certo senso dal di fuori pur essendo al suo interno. Contempliamo il corso della storia, in quel che di esso possiamo comprendere dal nostro piccolo punto di vista. Quando vorremo quello che abbiamo, smetteremo di volere. È vero che la vita va trascesa, ma non in senso verticale. La volontà non può essere negata altrimenti che appagandola totalmente. Non è vero che ogni desiderio porta infinitamente ad un altro, esiste un fine. È vero infine che la volontà è la stessa in ogni essere. Ed appare diversa poiché in differenti gradi di oggettivazione, diceva Schopenhauer, cadendo in un fondamentale equivoco poiché l’oggettivazione è invero il processo tramite cui il soggetto cessa di essere tale, e diviene oggetto, sicché le volontà degli individui sono diverse solo poiché in differenti gradi di soggettivazione, di complessa soggettività da cui redimersi, ossia di posizionamento infausto. Il velo di Maja, la pluralità, il principium individuationis, non sta nell’intelletto, e non sta nella volontà. Sta nel mondo, esso è la realtà, e la vita stessa è il solo strumento affinché esso si dissolva. Razionalità, abbiamo detto, è la sanità dell’istinto, ma razionalità e altresì sanità significano coerenza, la prima sul piano intellettuale e la seconda sul piano fisico. Rientrando però gli intelletti nel mondo fisico, essi partecipano della stessa contaminazione, in differenti gradi, sicché in parte è vero dire che il velo di Maja sono le nostre forme di conoscenza a priori, nel senso che hanno dei limiti invalicabili nel nostro livello di intelligenza che non ci consentono di avere una visuale abbastanza ampia da poter comprendere quel conflitto cosmico che tutti ci affligge e che deve essere risolto. Per Schopenhauer, esso può essere risolto solo per via negativa, sopprimendo le parti in causa. Per Nietzsche esso non deve neppure essere risolto e le parti in causa devono combattersi in eterno quasi che la guerra stessa fosse lo scopo della vita e non, come abbiamo visto, inevitabile mezzo che porta al vero scopo. Entrambi i filosofi sbagliano. Il primo con una soluzione che vuol passare per sublime e profonda quando è invero assai grossolana. Egli biasima il suicidio personale, quale ingannevole affermazione della stessa volontà di vivere, e poi vuole elogiare il suicidio generale, il suicidio cosmico, che è invero qualcosa di impossibile quanto la distruzione della materia. Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma: si uccidono quindi solo i legami, solo le posizioni degli enti, non gli enti stessi, ma è vero dire che le nostre forme a priori sono lo spazio e il tempo, ossia la quantità che deve risolversi in mera qualità, di cui ognuno di noi ha una percezione relativa, gradualmente più completa, sino al filosofo che può averne una percezione assoluta, giungendo a quella che Schopenhauer chiamò la coscienza migliore, che a suo dire concedeva alla volontà la possibilità di redenzione. È vero: essa vi porta, ma non per via negativa. Schopenhauer cade nello stesso scoramento pessimistico dei tanti che, senza filosofia, vedendo la sterminata complessità del mondo disperano di ogni possibilità di comprensione e coordinamento, quella che nella ricerca è la cosmologia e nella politica diviene poi lo stato totalitario. Tale stato di massima illuminazione, posto invero come possibile da Schopenhauer, consente invece all’uomo di cogliere la priorità assoluta, grazie alla percezione dei confini cosmici, dunque di dirigere tutti gli altri membri della gerarchia intellettuale, ognuno capace di cogliere alla perfezione visioni parziali, sicché tutti possano operare infine all’unisono nell’opera di pacificazione, distruggendo ogni legame infausto. Se Schopenhauer non rinuncia di fatto alla soluzione del problema, eppure si appiglia ad una soluzione grossolana, Nietzsche è ancora più disfattista. Nega la realtà del problema, accetta il divenire come una cosa buona in sé stessa, come se fare una dichiarazione d’amore al fato, al tragico destino umano, possa davvero zittire le urla di chi ne viene schiacciato, e d’altro canto potessimo trarre una radicale consolazione dal pensare che in fondo la guerra può anche essere vinta, che i deboli si lagnano, ma i forti non se la passano poi così male in questo mondo. Tuttavia i suoi superuomini, le sue bestie bionde, anche possedendo buoni denti e buono stomaco, ed anche dei robusti artigli, sempre dovranno aggirarsi nella foresta alla ricerca del cibo, ed i loro piedi non saranno mai leggeri come quelli di un dio, poiché l’inverno arriva anche per loro, almeno nella forma della vecchiaia che prelude alla morte. È vero che se un individuo muore non cambia nulla poiché la vita ovvero il conflitto fra gli altri individui non scompare. Vero che se un individuo muore un altro ne nasce poiché rompere un legame significa crearne un altro, sicché alcuna vera diminuzione investe il mondo. La redenzione consiste nella vittoria della volontà generale su quelle particolari, che non sono invero tali, poiché Schopenhauer ha ragione nel dire che la volontà è una e indivisa, ma tali vengono considerate grazie alle differenze conoscitive che non sono altro che le differenze del nostro posizionamento. Pertanto il mondo guarisce intanto che si illumina, e si illumina intanto che guarisce, tutti contribuiscono, ed inutile è dire “in eguale misura” dacché nell’unicità non v’è più tale concetto, all’illuminazione, non esiste il singolo uomo intelligente poiché il mondo nella sua globalità s’intelligentisce e sanifica facendo evolvere la sua struttura, anche ponendo un uomo intellettualmente dotato nelle condizioni di sviluppare i suoi pensieri, che sono solo un tassello della nuova configurazione migliorata. Essa configurazione può anche peggiorare? Esistono i regressi? Per enti singoli, sì. Ma globalmente no. Il mondo non è più o meno sano, ma sano oppure non sano, poiché anche un solo elemento non perfettamente integrato fa collassare tutto ed in quel momento concentra in se stesso tutta l’infelicità di cui il resto del sistema si è liberato. Per il cosmo non esiste neppure il tempo, perché non esiste la pluralità, ed il passato ed il futuro non si confrontano nemmeno, perché tale confronto è una valutazione, dunque il più o il meno, la misura in cui, il numero di soggetti o bisogni che sono stati soddisfatti in quello che sia preso qui come riferimento ossia, ammettiamolo pure come riferimento sommo, lo stato ideale, quello totalmente felice. Ma abbiamo appena detto che non può essere più o meno tale, ma solo tale o non tale, sicché non è opportuno dire che nel presente ci troviamo maggiormente vicini alla configurazione ideale mentre nel passato ci trovavamo più lontani, oppure viceversa. Non vi sono quindi alcun progresso, ed alcun regresso. Il tempo è un’illusione, e noi diciamo che va avanti quando percepiamo un miglioramento del nostro benessere, che va indietro quando noi restiamo insoddisfatti rispetto a qualcosa che invece aumenta di benessere. Non è in definitiva corretta la frase con la quale ci sembra di dover concludere, ovvero che il mondo è in un continuo progresso verso il suo finale ordinamento, anche qualora ci siano dei parziali ovvero temporanei regressi. Poiché non sapendo il Mondo che cosa sia il tempo, cosa sia lo spazio, egli non fa confronti e non fa calcoli, per lui dunque niente conta, tutto è indifferente, poiché nell’Uno non vi sono Due. Il mondo non ha dunque una vita, e quello che chiamiamo mondo (ovvero il mondo transeunte) invero non lo è, poiché non è un sistema, ma un’accozzaglia di fenomeni in contrasto. È quindi improprio attribuire al mondo una volontà generale, una teleologia a qualcosa di composito: la teleologia appartiene ai singoli, ed è raggiunta attraverso il contatto reciproco, nella sua risoluzione.


Identità e Finalità sono sinonimi. Non esistono fini parziali come non esistono parziali identità. Esistono invece fini compositi. Essi sono nondimeno unitari. Fine plurimo è un ossimoro come identità plurima. Puoi essere una persona binaria, non due persone. Una persona binaria è una società di persone. La società si fonda sull’alleanza. L’uomo ha compreso di non essere autosufficiente nella guerra. Poi ha riconosciuto la sua affinità (dunque identità) con altri uomini. Tale affinità non preclude, anzi combacia con, la diversità dei ruoli. Infatti una affinità si scopre nella fattuale organizzazione sociale, che sola, nel suo complesso, costituisce il mezzo per quel fine. L’uomo non sa di essere più grande di se stesso. Avere un fine significa infatti cercare di andare oltre se stessi. Il solipsismo è assurdo. Infatti, se l’uomo fosse già pago di ciò che trova dentro di sé, non avrebbe alcun moto, alcun movimento nella società cui si appone il suffisso –ismo anche mettendoci davanti un solipse. La totalità dei bisogni dell’uomo può essere soddisfatta solo se ognuno fa la sua parte nella debita posizione all’interno del cosmo. Nell’individualismo l’uomo crede dunque di aver trovato se stesso, in realtà si è perduto e la sua felicità non può che esserne mutilata sino a che, realizzato il concetto al suo apice, completamente mortificata. Non può esserci alcuna gerarchia tra fini contrapposti perché ogni gerarchia presuppone una finalità. Pertanto gli avversari sono sempre stati e sempre saranno uguali sul piano etico, non esistono buoni e cattivi se non gli uni per gli altri. L’unico modo di eliminare la battaglia è indirizzare l’umanità verso un unico fine. È questa l’unica forma di uguaglianza ontologicamente corretta. All’unicità del fine non si può apporre alcuna altra uguaglianza, poiché i mezzi sono invece tutti fattualmente ed inevitabilmente diversi. Anche perché, se fossero uguali, non vi sarebbero alcun problema ed alcun conflitto, dacché ogni elemento di questo mondo sarebbe intercambiabile con qualsiasi altro. Il concetto di intercambiabilità ha significato solo nell’insieme dei mezzi, poiché abbiamo appena dimostrato come la diversità dei fini sia totalmente illusoria. Tutti noi abbiamo lo stesso fine. Ad ogni fine corrisponde un mezzo: fosse anche quest’ultimo composito, consistente in un insieme ordinato di altri mezzi, fatto sta che solo questo preciso insieme conduce a quel fine. E se tale insieme di mezzi fosse completo? Esso annullerebbe se stesso, in quanto, niente andrebbe più tolto di mezzo sicché non sarebbe più un mezzo. Ma il mezzo è un oggetto oppure il gesto che un soggetto compie su di lui? La domanda è mal posta in quanto i concetti di mezzo e fine hanno realtà solo in un mondo transeunte, non statico, e precisamente come opposti: tutto ciò che è mezzo (moto) deve condurre al fine (stasi). Gli oggetti non esistono nel mondo transeunte, esiste solo l’azione reciproca e dunque la relazione tra quelli che sono invero soggetti aspiranti all’oggettività. Se l’insieme dei mezzi fosse completo, dunque, annullando se stesso, egli annullerebbe anche il fine, nientedimeno che realizzandolo. Una unità di fini non è cosa da ottenere, perché non può essere un fine. Essa è una realtà. Quello che deve essere ottenuto è invece una unità di mezzi, poiché la loro unità annulla la loro medialità trasfigurandola in finalità. La ragione per cui la vita non si risolve è che ognuno scambia per un fine quello che è soltanto un insieme di mezzi. Se ognuno estendesse la propria percezione dei mezzi, dunque della esistenza posizionata di tutti gli altri enti, tutti avremmo immediatamente lo stesso fine, giacché realizzandolo ne coglieremmo l’unicità.


Il fine giustifica il mezzo quando lo percepisce come affine, ossia come compatibile, finalizzabile, inglobabile in un tessuto più ampio. Il fine è la volontà unitaria di tutti gli enti simili scompaginati: essi si attraggono tra di loro così come respingono i diversi. L’azione non è mai un fine, ma sempre e soltanto un mezzo. Gli oggetti invece, sono sempre e soltanto fini, mai mezzi.


Ad ogni fine corrisponde un mezzo. Per porre una gerarchia tra i mezzi bisogna porre una gerarchia tra i fini. Essa corrisponde alla gerarchia dei cervelli: essendo nella società reale questa gerarchia assente o addirittura invertita, ne consegue anche la pretesa, da parte di imbecilli che ricoprono un grado elevato, di ottenere un fine elevato con mezzi di bassa lega. Il fine della persona intelligente è lo stesso di quella meno intelligente: la felicità. Ma la sua visione è superiore, fino a comprendere la realtà tutta e dunque lo rende in grado di sancire una scala di priorità che non è accessibile alle persone limitate, che dunque non sono in grado di gestire una leadership governativa e nemmeno una leadership di ricerca. Chi sta all’apice della gerarchia dei fini può dunque stabilire una gerarchia dei mezzi, una scala di priorità d’azioni: essa conduce tutti alla stesso fine, mentre le visioni parziali di persone limitate in locazione elevata avrebbero prodotto delle ingiustizie, in quanto la loro scala di priorità avrebbe senza dubbio ignorato e trascurato elementi importanti.


Un mezzo non è un oggetto, ma una azione. Se esistessero oggetti non esisterebbe azione, poiché l’azione è appunto oggettivazione. L’azione presuppone una forza: ma la forza è la finalizzazione stessa. Ogni azione conduce infatti ad un fine e dunque finalizza quello che era un mezzo: ossia ingloba una parte mancante di sé stesso oppure ne espelle una estranea. Se Finalità significa Identità, Medialità significa infatti Estraneità. Possedere qualcosa di affine significa invero essere quel qualcosa, perché se noi solamente lo avessimo significherebbe che esso non fa parte della nostra essenza, sarebbe un accidente e non un proprio, dunque qualcosa da espellere. Noi abbiamo solo ciò che non è nostro. Ma abbiamo detto che un mezzo è una azione, quindi medialità è attività, ossia guerra tra due soggetti che devono purificarsi e dunque divenire oggetti. Chi vince la guerra? Si dice la vinca il più forte. Ma la forza è finalizzazione e questa azione è inevitabile e dunque sempre forte abbastanza poiché unitaria e non binaria, dacché la dualità è invece implicita nella conflittualità. Nessuna forza sarà mai assoluta e dunque nessuna vittoria reale sino a quando esisterà un residuo di impurità e dunque di pluralità nell’universo, giacché sempre la lotta è tra ogni elemento di questo mondo e tutto il resto nel suo insieme, e proprio perché, grazie a questa maglia, le due forze sono sempre equivalenti, eppure contrapposte perché mescolate, frammentate, nessuna delle due potrà mai vincere sino a che non si compia l’unificazione generale e dunque vincano entrambe. Due elementi diversi ma puri non combattono: si alleano. L’inferiore si assoggetta spontaneamente al superiore. A combattere sono invece gli elementi impuri, e tutti lo siamo in certa misura, sempre, fino alla pacificazione finale. Ciò che si sballotta da un essere all’altro sono le impurità, ed il più debole non è che colui che possiede il maggior numero di impurità.
La forza è il grado di purezza, e negli scontri è svantaggiato colui che già è maggiormente contaminato, perché se dall’esterno gli si riversano dentro elementi affini alle impurità già inglobate, la strada è spianata perché queste volontariamente si alleano, si uniscono, ed opprimono il soggetto sempre più soggetto e meno oggetto. Il numero di impurità, di elementi estranei, determina la difficoltà della lotta, ma la lotta è destinata ad essere vinta perché tutto ciò che perde rimane nel regno transeunte, nel regno della contaminazione, dunque nel tempo che è la misura della nostra impurità: può un essere dunque perdere temporaneamente ossia parzialmente, ossia mai perdere davvero, perché non è possibile perdere se stessi, l’identità è indistruttibile: fosse distruttibile sarebbe mistura, ed in vesti promiscue appunto noi, solamente, perdiamo, morire è perdere la propria identità personale per crearne di nuove, nel trasformismo cosmico che cerca la sua perfezione sicché la Sua identità, unica vera perché originaria, giammai può perire. Tutto ciò che ha un’origine temporale, deve invece perire: esso ha una Durata. Tali sono tutte le Alleanze per fini ancor personali e non cosmici. Ciò che finisce è perché contiene un’ingiustizia, ossia un’impurità. Tuttavia l’impurità vuol essere eliminata da ogni essere, che non sente l’intero cosmo essendone solo una parte, sicché la battaglia che questi attuano tra loro può soltanto trasferire impurità da un soggetto ad un altro, senza che mai nessuno si trovi completamente purificato sinché non lo sono anche tutti gli altri, ed il mondo vince sempre perché non ha avversari e parimenti i suoi componenti contrapposti lo sono soltanto in apparenza anche se in codesto regno di apparenza il dolore è reale, e devono la loro contrapposizione all’apparire gli uni gli altri diversi da quelli che sono, ma allo stesso modo non potrebbero apparire diversi se non fossero appunto già contrapposti ossia mal posizionati nella loro fattuale diversità, che non può esprimersi in altro che nella lotta. La lotta è complessivamente cieca eppure non abbisogna di vedere perché il mondo è soltanto uno ed il suo istinto non può dunque sbagliare, non ha scelte da compiere, ed i suoi elementi invece possono permettersi di sbagliare perché nulla può andare veramente perduto, bensì raccolto nel calderone cosmico dove continuerà ad agire sino a trovare il suo posto. Ogni soggetto ha una capacità percettiva e nel rispetto dei limiti di questa scaglia fuori di sé tutto quello che è estraneo e fagocita tutto l’affine. Se non ne ha la forza è perché la compagine di elementi estranei nella cui morsa è stretto dall’interno e dall’esterno è composta di un numero superiore di elementi, sicché è destinato ad inquinarsi ancor più ad opera del mondo. Infatti la guerra finirà quando tutti i rapporti si ridurranno all’unità. Sino a che ci saranno compagini, esse assoggetteranno altra materia di coesione inferiore, dunque con un numero di elementi inferiore, ed in tal modo si rafforzeranno senza tuttavia raggiungere la forza assoluta che è rappresentata dall’Unità totale, e posteriormente verranno scompaginate da altre compagini che erano aumentate di dimensioni ancor più. Mentre tu ti allei con gente a scapito di altra gente, succede che le vostre vittime a loro volta si alleano contro di voi e la guerra non finisce. I limiti della nostra percezione e la nostra fattuale posizione nel mondo determinano quello che faremo, ossia quello che butteremo fuori, incuranti dell’inquinamento creato, il quale avrà poi un prezzo, una ripercussione su di noi, e quello che ci annetteremo, eventualmente incuranti del fatto che sia tossico. Se non riconosciamo il tossico è perché le nostre membrane sono già affini al nemico e lo lasciano dunque passare. La vista dell’uomo intelligente è superiore sia nelle locazioni elevate che gli sono appropriate, e che una volta acquisite non son dunque accidenti ma proprietà, e sia nelle locazioni più basse, nel cui intrico egli nota più elementi nella loro strutturazione nonché un pertugio per andare oltre, per assumere un ruolo superiore cui l’istinto lo conduce. Quando l’uomo di sensibilità inferiore si trovasse in locazione bassa, egli non desidera andare più in alto poiché non sente niente di più alto mentre, si trovasse egli invece in alto, tratterebbe il macrocosmo che gli sta davanti come un microcosmo, coglierebbe da lassù solo le immagini sfocate di quello che vedeva anche da laggiù: le grandi cose non gli sono percepibili e dunque egli non può operare su di esse, ed in tal caso, da quel trampolo, nemmeno sulle cose piccole cui sarebbe idoneo ed ideal benefattore.


Esiste qualcosa al di fuori del tempo?
La Perfezione.
Essa è anche al di fuori dello spazio?
No, sono un nichilista immanente.
Il tempo è la contaminazione della materia, dunque la sua differenziazione che, tramite il moto, cerca di ricondursi ad unità. Possiamo parlare di spazio solo perché e finché questo è suddiviso, giammai se esso fosse uniforme.


La competizione come sleale contraffazione
della guerra cosmica


L’uomo leale tende a dire sempre la verità e sente l’istinto del confronto universale: ogni volta che percepisce in se stesso una debolezza, si immagina di confrontarsi sul momento con tutti i nemici possibili, che potrebbero in tal modo sconfiggerlo e vincere nelle maniere più complete e tremende; ogni volta che percepisce in se stesso una forza, si immagina di confrontarsi sul momento con tutti i nemici possibili, che potrebbe in tal modo sconfiggere e vincere nella maniera più completa e gratificante. Dietro questo atteggiamento sta la consapevolezza che ogni debolezza deve perire, ogni forza trionfare. Nella competizione i confronti sono selettivi e inoltre avvengono in momenti ben precisati, in una sfida intermittente. Negli intermezzi i partecipanti possono diventare più forti (mistificare debolezze intrinseche) o più deboli (mistificare forze intrinseche). La cosa si considera comunque giusta qualora la forza che si vuole misurare (o per lo meno una delle forze che entrano nella valutazione) è proprio quella di organizzare la propria crescita in vista della partita: ma si misura sempre una forza intrinseca e originaria, non una forza cangiante. Come si può infatti misurare qualcosa che diviene? Un film è una serie di immagini, è una immagine che diviene: ma lo si fotografa tutto intero come una sola immagine e lo si valuta come qualcosa di statico. Così in fisica quando si calcolano la velocità o l’accelerazione. Così quando si valuta una progressione umana, per esempio una carriera sportiva. Alla base della prassi competitiva sembra dunque stare l’idea che la debolezza va in qualche modo preservata, e la forza soffocata. Forse l’origine della competizione sta proprio in questo: in una viltà ancestrale, un voler difendere il debole eludendo la forza che lo avrebbe distrutto. Ma tale atteggiamento è innaturale, e possibile dunque solo tramite una trasfigurazione di forze e debolezze: la difesa di qualcosa che era solo apparentemente debole, e il tentativo di smascherare e sconfiggere una forza soltanto apparente. Per questo l’uomo può essere eccessivamente leale, ovvero ingiusto nei confronti di se stesso, nel momento in cui non preserva una sua forza o è indebitamente clemente con la debolezza dell’avversario. Giungiamo di nuovo alla condanna della menzogna come origine del male. Ogni menzogna infatti consiste nel considerare forte il debole oppure debole il forte.


When you can distinguish right from wrong and you must be right, that’s a virtue and it is called Sense of Honour. But whereas sense of honour means that you depends on other men’s views, that’s a flaw and it is called Lack of Personality. You don’t realize that you see yourself with their eyes, so that they decide your identity, you erase yourself by trying to turn into them, because you felt weaker and so not reliable: you wanted to be them because you see them stronger and happier than you, their victory is more probable. Our attitude is consequence of a judgement of value: the best thing or person is that which shows, overall, the highest probability to get victory and so more happiness. That is the only parameter, nor hierarchy exists between the components of this perceived power leading us to that preview: because hierarchy ever is based on that parameter. Because there isn’t Right unleashed from Strong and so from Happy. Anything is preferred for it warrants more happiness. When two opponents are fighting, absolutely you first became a fan of one of them because he made you feel the most powerful, and whereas his strength would globally decline under the other one’s, you would necessarily and immediately break your alliance with the former and become a fan of the latter, just like you break up with a beloved girl for another: there is only an object to which our Faithfulness is fond and unloosable: that is Pleasure. Any other Faithfulness is just forceable by blades of pain willingly stuck between you and your quittance. Any Relation is between Two elements, you and another. If the second is composed, though you feel it as unitarian. Nothing is really conceivable outside this direct contact. When you see two fighters, you can’t really value which one is the stronger unless you identify yourself to one of them and feel his victory or loss as he gets it on the other. The only elements that can compare A to B, they are A and B the same, not ever any third subject. If you play tennis and you oppose three players, in order Agassi, Federer and Djokovic, as you turn to Federer not a glimpse of Agassi is dragged in your soul, as if it were, you would not be facing Federer now, but an ibrid player which would false the match, and this is shown how a real comparison isn’t possible. As a matter of fact there’s only one match between any of us and the rest of the world as a whole, and no single battle ever is really apart from our history, and could clearly be judged only through the complete knowledge of it, precisely despoiling ourselves of every cinder that mystify our original identity which only could conduce to the right decree of placement, which is the real meaning of judgement. Competition is the praxis of placing a man according to a temporary identity as it is shown in a clash with another, which is likewise temporary, and both of them react to this placement until they feel it isn’t right, and it always will be wrong until the clash isn’t equal, that means played by the two bare characters, and not from all the subjects that joined the crew throughout their history, so that they pursue that bareness that only justifies a clash. Any other clash pollutes them both, and a later struggle for sanitation is required by nature herself. A player blinded by the spirit of competition, viz of greed, accepting these rules strives to take the clash in the major condition of advantage upon his rival, he tries to build it, and as he wins he really thinks he’s better in the measure of the score, and takes the advantages established in accordance to his victory, that at their own turn could be unfair, fool, even if the real best player had won, because he completely wins only whereas anyone has won likewise, I mean, if all the clashes have been right and harmonize with each other. In fact, any coin of abundance not deserved is stolen from the hands of another who deserved it, no exception, no twisting this.


L’uomo non deve eludere la guerra, ma solo focalizzarsi quotidianamente su ciò che davvero va combattuto. Non esiste altro stile di vita degno, non esiste altra fonte di soddisfazione, altro sentiero verso la felicità. L’uomo deve temere solo l’eventualità di perdere la retta via.


La natura parla dentro di noi con questo principio: non è giusto pagare per gli errori di altri.
Che cosa significa? Che la debolezza non deve contaminare la forza, rendendola anch’essa debole. L’unico modo che la forza possiede per contaminare la debolezza è distruggerla, trasformandola in forza. La debolezza non va punita, bensì eliminata. L’unica sentenza inesorabile e giusta che grava sulla sua testa è quella capitale. Il codice penale è superfluo o addirittura dannoso. Occorre un istituto che individui ogni punto debole del mondo (quindi anche nell’organizzazione del mondo, nelle strutture) e studi una soluzione per correggerlo, cioè eliminarlo. Occorre indubbiamente riconoscere anche ogni forza latente, ogni debolezza apparente, causata invero dalla debolezza altrui: ogni forza inibita o fatta degenerare, ma ancora potenzialmente foriera di felicità.


Un uomo viene danneggiato da un altro. Sicché gli dice, per rivalersi: perché non lo fai con qualcuno più forte? Se questo tizio più forte arriva e lo punisce, egli potrebbe adottare lo stesso criterio e dirgli: fallo con uno più forte. L’uomo molto forte punisce l’uomo mediamente forte che aveva infierito sul debole: ma questa è solo la rivalsa del debole sul mezzo-forte tramite immedesimazione nel forte, e la medesima rivalsa del forte che si era immedesimato nel debole danneggiato dal mezzo-forte. Se uno è più forte di tutti ecco che la sua violenza non trova condanne perché nessuna violenza superiore può intervenire. Questo significa “essere giustificata”…


L’unica guerra veramente giusta sarebbe quella di tutti i forti alleati contro tutti i deboli. Sarebbe l’unica vittoria completa e dunque la felicità. La vera forza è benefica e vincente per definizione, per tutto il creato; e così la debolezza è venefica e perdente per definizione, per tutto il creato. Il problema è che il mondo è cieco, e consente che un forte venga considerato debole e dunque non possa esercitare il suo beneficio e venga disonorato, e che un debole venga considerato forte e dunque possa procurare danni indisturbato e onorato: la prima debolezza che dobbiamo eliminare dunque è quella della nostra conoscenza. Il mondo deve essere illuminato.


La forza è appunto nella materia. I forti e i deboli lo sono in origine. Lo sono per costituzione.
Il degenerare del mondo, il dolore che viene prodotto che è appunto la misura della debolezza complessiva, il peso ed il prezzo complessivi degli errori del sistema, è dovuto in una prospettiva arcaica al fatto che i deboli si sono mescolati ai forti e nell’essere collettivo hanno assunto ruoli che non potevano competergli. La più grande e significativa debolezza dell’universo sta appunto nella struttura dello stesso, nel suo organigramma. Una struttura fallace consente alle debolezze di accerchiare, corrompere ed in tal modo sconfiggere le forze. Essa è il peccato originale.


Difendere un debole e punire un forte: ecco l’essenza dell’eresia cosmica.


Solo una cosa può farci risentire verso un vincente: che non abbia vinto per merito suo. Dunque che la sua forza fosse solo apparente. Solo una cosa può farci compatire un perdente e prendere le sue difese: che sia stato vittima d’ingiustizia, ovvero non abbia perso per demerito suo. Dunque che la sua debolezza fosse solo apparente. Vinca il migliore non è altro che l’augurio di chi vuole le cose secondo natura, ovvero le cose sane. Onestà non è altro che il retto riconoscimento di ogni punto forte e di ogni punto debole. Disonestà è mistificare forza e debolezza o contrastarne le naturali conseguenze, ovvero il trionfo o la sconfitta eliminatoria. Coraggio e viltà coincidono con questa contrapposizione. Non esiste coraggio che non sia coraggio della verità. Correttezza non è altro che il regolamento che impedisce al debole di prevalere ed al forte di essere prevalso.

L’unica menzogna che ha diritto di cittadinanza è colei che ha lo scopo di proteggere e far trionfare una verità più importante: non si tratta invero di un cittadino, ma di uno straniero in patria, che circola con documenti falsi al nostro servizio, è un elemento nemico che è stato assoldato dai difensori della patria con la forza o con l’inganno, che dunque avrà involontariamente tradito i traditori. Egli andrà espulso dallo Stato dopo aver recitato la sua parte, ed il copione andrà bruciato come tutte le maschere.

I paesi saranno lieti quando non avranno servizi segreti.
I segreti saranno svelati quando gli orecchi saranno educati.
Prima però di educare gli orecchi assicurati ch’essi non siano inetti.
Se sono inetti, cacciali via: non è più un segreto, l’opinione mia.
Ma ogni opinione sarebbe certezza nel limpido regno della purezza.
Mentre ogni certezza rimane opinione nel rancido regno della corruzione.
La prima cosa seria da fare? Ogni altro da te, tu lo devi sputare.
La seconda cosa che stantia pur conviene? Comprar tutte le maschere, fino a quelle più oscene. Meglio che tu le tenga alle superfici: non sarà la passione d’attori ed attrici. Quello che tu farai sarà un triste dovere, ma le sceneggiature son molto severe: con la stizza di chi vuole solo se stesso, alle luci del palco, vuole tutto ed adesso. Non capisce che solo egli dee sopportare, colossale agonia, per un lieto finale. Se tu hai soggiogato le anime bieche, se li hai ingannati con le loro monete. Loro tosti non sanno che questo teatrino non potea contenere un più grande destino. La sua verde speranza è cresciuta all’interno, e la luce ha affrescato ogni fiamma d’inferno. Lei che adesso rivolge la sua furia al futuro, nel presente schiacciata da ogni fianco di muro. Qual èQ l’unica cosa che ti uccide davvero? Che non parli arlecchino: tu sia lui per intero. Ed il vomere alieno ti muova le membra, ti ravani nel pieno d’ogni taglio che offenda. Non saprai più distinguere la notte dal giorno, è tempesta ogni clima, non minaccia di contorno. Una cosa sia chiara: devi esser te stesso, poi il mondo sarà, non può esser già adesso. Se non vuoi far girare la svastica indietro, usa bene le scale, o non si chiamino Pietro.


La virtù richiede purezza, rifugge contaminazioni. Così la verità: ella non accetta alleanze con menzogne, poiché tali alleanze la contaminano e ne rendono l’effetto perdente. Tutte le verità del mondo devono allearsi contro tutte le menzogne. La logica ha lo scopo di eliminare tutte le proposizioni false. Sono false quelle che crollano al rigoroso confronto con le vere. Non è un caso che si chiamino proposizioni. Esse sono infatti la teoria di cui la pratica sarà la copia. All’eliminazione di una proposizione falsa corrisponderà un attacco volto a recidere una debolezza.


Il nostro corpo conosce i nostri scopi prima della nostra mente. Un uomo segue per istinto un obiettivo, per istinto scarta tutte le attività e le conoscenze che non lo avvicinano ad esso, e in una condizione di brainstorming, di full immersion nella realtà e nella cultura, egli individua istintivamente il percorso migliore, ciò che deve precedere e ciò che deve seguire. L’uomo non ha un dovere: l’uomo è un dovere, una necessità, una meta, un destino. “Porsi” un obiettivo è un’assurdità, un’imposizione esterna che non ti riconosce e vuole condurti lontano dalla tua natura; l’uomo libero non si “pone” obiettivi, impara solamente a comprendere sempre meglio l’obiettivo che è in lui, districandosi nella giungla dei mezzi.


L’intima essenza di un uomo è il suo ideale. Il suo ideale coincide con il suo carattere, ed esso si presenta nella vita adattandosi alle circostanze e può apparire diverso temporalmente quando diversa è invece solo la situazione in cui si trova e dunque gli stimoli cui deve reagire, anche in condizioni traumatizzate o convalescenti che però non sono riuscite ad attaccare il suo nerbo centrale. Lo sguardo acuto rileva in ogni istante della vita di un uomo, nel suo comportamento dinanzi a qualsivoglia insieme di circostanze, le stesse virtù e gli stessi vizi di fondo, che delineano i limiti della sua anima, tali per cui alcune anime piccole sono perfette per ricoprire un basso ruolo sociale, cui difformi altitudini sarebbero d’intralcio, anime intermedie spettano a ruoli intermedi ed alle grandi anime soltanto competono i ruoli di massimo respiro ed ampiezza. In noi opera un demiurgo che mette in moto ogni suo organo e fa convergere ogni risorsa energetica verso una Forma a priori: il suo Ideale, il suo Carattere, la sua Anima. Non è dunque errato giudicare gli uomini in base alla grandezza dei loro ideali. Poiché tale grandezza è immodificabile e sancisce la statura di un Uomo. Il resto tutto lo si può acquisire. Mentre l’atto di un giudizio corrisponde al suo collocamento, l’assegnazione di un ruolo. Null’altro può chiamarsi Giustizia.


Un uomo ha un solo fine ed ogni altro è un mezzo. Solo il fine dipende da lui: perché egli stesso è quel fine, è una tensione ideale insita nella materia del suo corpo, è aspirazione formale di una sostanza. Un uomo è tanto più bello quanto più elevato è il suo fine. Un uomo nobile, capace di organizzare la vita ad un livello più alto e dunque più ampio, capace quindi di estetizzare ed eticizzare maggiormente il mondo, dunque di giustiziarlo, egli detiene uno sguardo nobile, e tutto il suo aspetto ed ogni suo gesto, anche gravati dalla contingenza e dal disagio che questa provoca, conservano questo tratto, ben riconoscibile a chi lo sappia vedere. Come in caso di necessità il nobile sacrifica se stesso per la comunità, così nel caso egli agisca invece, intellettualmente, come profeta o filosofo, come scienziato o artista, egli è pronto a morire per la sua opera, e divenire brutto purché quella sia bella, come un Dorian Grey al contrario, veder crollare la propria immagine personale purché quella della sua opera venga trasmessa giustamente e realizzi il suo scopo elevatore. Si chiama martirio estetico, solitamente più duro di quello etico. I sacrifici sono sempre personali nei confronti di qualcosa di più grande che un uomo abbia racchiuso in sé, di cui è il veicolo e il temporaneo rappresentante: un ideale quindi, qualcosa di non transeunte ma di eterno, che giustifica la sottomissione, lo sfruttamento e la morte di tutto ciò che invece è destinato a passare come sua siluetta o come strumento. Di fronte ad un impulso etico, l’estetica deve essere messa da parte: l’uomo è più vitale della sua immagine, poiché se il nostro comportamento riesce a dare una nuova impronta al futuro, coi canoni etici saranno messi sottosopra anche quelli estetici ed ogni valore sarà di nuovo apprezzato per quello che vale, e non all’inverso, come nell’epoca buia. Allora noi diventeremo i prototipi, assieme etici ed estetici, di una nuova filosofia dominante.
Ma perché avvenga un tale cambiamento, uno dei due elementi va temporaneamente sacrificato:
ed è l’estetica, dacché l’etica non può essere invece soppressa, sino a che un uomo vive, ed agisce coerentemente con la sua statura spirituale. L’immagine dell’uomo viene dunque lasciata alla deturpazione, allo sdegno ed al linciaggio, grazie alla scelta etica di travasarla in un’opera che, bella, stimolasse ad agire virtuosamente, e questa virtù ora apprezzata perché vissuta si rivolgesse di nuovo alle opere artistiche che ben la rispecchiano, fortificandone il sentimento, ed ora tramite questo circolo anche l’autore venisse rivalutato come uomo, per quello che ha creato, impossibile da farsi ad uomo vile. Se l’ideale riesce a realizzarsi, dunque, esso realizza anche colui che si è sacrificato per esso. Se il messaggio filosofico riesce a passare correttamente, esso riscatta anche il suo autore: giacché solo un cuore nobile può parlare o agire nobilmente. Un sol gesto del corpo, od una sola opera creativa, che possiamo chiamare nobili, rendono visibile il fine immutabile del loro autore, e riscattano allora anche tutti gli altri suoi gesti che fossero stati valutati male. Se questi avessero avuto dei difetti, significa che l’individuo era contaminato e veniva valutato come fosse puro, ed egli istintivamente inseguiva la sua purezza in via prioritaria, perché solo la purezza giustifica l’azione sistemica. Oppure, egli era stato posto fuori ruolo, laddove la sua virtù non realizzava il suo potenziale, e dunque egli inseguiva prioritariamente tale ruolo, ribellandosi alle angustie del fine cui era stato posto al servizio, quando lui era nato per altro, capace di servire ben altro fine, in altra locazione. I mezzi utilizzati sono sempre imposti dall’esterno: un uomo è imputabile solo per i suoi fini, quello che fa per realizzarli è assolutamente necessario, ovvero circostanziale ed egli non può decidere altrimenti.


Per realizzare un sogno occorre solo
una condizione. Che esso sia davvero il tuo sogno.


Il vero senso del dovere non è altro che autocoscienza. Potete imporre ad un uomo qualsivoglia dovere arbitrario, ma se il senso del suo dovere naturale non è d’accordo, egli non lo compirà, oppure lo compirà con un senso di mortificazione assurdo. Quando non sei in pace con la tua coscienza è perché non hai svolto il tuo dovere naturale. Quando non sei in pace con la coscienza degli altri è perché non hai svolto il tuo dovere artificiale, quello appunto impostoti dal prossimo, dalla società. La confusione tra i due contrapposti doveri, creata in parte appositamente ed in parte come conseguenza involontaria, porta l’uomo a soffrire di una colpa verso se stesso quando ha solo una colpa (una trascuratezza) verso gli altri. L’equivoco è stato in parte volontariamente architettato perché chi ti imponeva doveri arbitrari era consapevole che essi non corrispondevano al tuo dovere naturale, ma erano una frode nei tuoi confronti per il loro vantaggio. Chi sa difendersi dai modelli fasulli di dovere che la vita in società gli impone, vive con la coscienza più serena e allora si dice che egli “risponde soltanto a se stesso, alla sua coscienza”. Il problema è che bisogna innanzitutto campare, quindi anche essere accettati nella vita sociale. Ora, al proprio dovere naturale non ci si può sottrarre, poiché siamo noi stessi. Il nostro dovere naturale noi lo facciamo sempre volentieri e dunque non è mai una imposizione. Noi soffriamo invece quando le imposizioni esterne, i doveri eterodiretti, ci impediscono di seguire la nostra strada, anche se ci acquietano la coscienza rendendoci più accettabili dal nostro prossimo e dalla società intera. Il problema centrale, la fonte della nostra sofferenza è che in una società disorganizzata, od organizzata in modo da favorire certe posizioni a scapito delle altre, senza comunque poter donare alle prime un vantaggio assoluto in quanto riceveranno sempre delle ripercussioni dall’infelicità degli oppressi, per una società del genere, quindi, adempiere ad entrambi i doveri risulta praticamente impossibile. Ma un dato di fatto ci ammonisce: l’uomo non sarà mai autosufficiente dalla società, né la società da lui, ragion per cui nessuno dei due doveri è davvero eliminabile. Si conclude che la salvezza è la realizzazione dell’identità tra dovere naturale e dovere sociale. Chiunque non riesca in questo ha ragione d’esser chiamato fallito. Anche se a volte non è colpa sua e comunque non possiamo mettere tutti sullo stesso piano, perché tale impresa non è certo altrettanto difficile per tutti, dipende da che personalità hai e dal tipo di società in cui vivi. Alcuni hanno la strada spianata. Altri perigliosa e faticosa, ma tuttavia percorribile. In certi casi, la strada addirittura non esiste e bisogna pertanto costruirla, cosa che può implicare di dover rivoltare il mondo come un calzino, sicché si rischia di diventare doppiamente falliti perché non si arriva a fare né ciò che si vuole né ciò che è necessario per vivere.


L’antitesi tra dovere e piacere è probabilmente la regina di tutte le discrasie dominanti il nostro squallido mondo. Essa ragiona così: il dovere deve fare schifo e il piacere deve essere un abbandono agli stravizi, una sorta di scempio degenerante, non fosse per il semplice fatto che uno, dopo essersi fatto il mazzo in un lavoro che odia, senta il bisogno, per riprendersi, di perdere il controllo, affrancarsi dal senso di responsabilità, sballarsi tracannando alcolici e fumando marijuana o banchettando fino a tarda ora o ballare come un imbecille sparandosi nelle orecchie dell’inquinamento acustico chiamato presuntuosamente musica. La suddetta antitesi, che costituisce l’accoppiata perfetta per la propria autodistruzione, deve evidentemente invertirsi in una sintesi sanificante. Di una cosa son certo: tutto ciò che logora è sbagliato, si chiami piacere o dovere.
Ed ha origine in una ingiustizia che può trovarsi anche molto lontano nella storia. In ogni caso in un errore. Quando osserviamo che una cosa è necessaria, o pensiamo che lo sia, dovremmo chiederci perché è necessaria, cosa la rende tale. Se avessimo forza, voglia, intelligenza, tempo di indagare a fondo potremmo scoprire retroscena stupefacenti e che ci farebbero indignare di ciò che fino ad oggi abbiamo accettato, rispettato e venerato come necessario. Chi santifica il necessario lo rende eternamente tale. Per mantenere lo status quo è del resto fondamentale che esso venga percepito quotidianamente dalla massa e mantenuto in vigore come alcunché di necessario, morale, giusto. Per fortuna qualche persona sveglia o particolarmente insoddisfatta osa metterlo in dubbio e scavare per capire. Egli nota altresì che se questo fosse un atteggiamento costante e lo fosse stato nella storia, non avremmo bisogno, per aprire gli occhi, di attendere l’alba di crisi epocali, di cataclismi o di problematiche sociali giunte ad un livello tale da sfociare in rivoluzioni violente. Ma questa realtà non fa che confermare il principio in base a cui sempre e solo ad una minoranza esigua spetta il concepimento, lo studio, la pianificazione ed infine la guida di un’azione rivoluzionaria: e solo la serietà di questa ambizione giustifica e nobilita l’attività dell’intellettuale, solo il suo ruolo di futuro liberatore gli fa meritare il rispetto dei lavoratori che, temporaneamente, provvedono alla sua sussistenza materiale. Ma a volte l’unico che ha davvero bisogno d’essere liberato è lui stesso, perché la massa non è sufficientemente infelice nello status quo. Credo allora che in questo caso egli abbia ancora più diritto di prendersi quello che può, in quanto le ingiustizie sistemiche hanno convogliato in qualche modo su di lui una imponente dose di quel dolore che ne rappresenta il prezzo. Tuttavia egli deve farsi interprete di realtà vaste e sovrapersonali, deve allargare gli orizzonti storici, geografici, disciplinari, ed infine stupire anche gli altri con i risultati dei suoi sforzi, dimostrando la quantità di loro problemi che hanno proprio quell’origine che lui aveva intuito e posto come tematica scabrosa da esaminare, considerata con sufficienza da tutti gli altri, sancita come retta o tenacemente ignorata. L’intellettuale deve pertanto liberare anche chi non vuol essere liberato ed ha sempre sputato sulla cultura e sulla funzione che le è propria, pascendosi magari alle poppe della sua perfida sorellastra: la cultura dell’intrattenimento che non fa che divertire e ammansire le stanche bestie e spegnere eventuali focoli rabbiosi insorti loro in cuore, quella versione della cultura che di fatto favorisce lo status quo. Un processo pericoloso è quello per cui anche le opere d’intento rivoluzionario, o quelle che hanno assunto concretamente questo ruolo in passato, vengano riassimilate al sistema trasformandole in prodotti commerciali al pari di tutti gli altri e pronti a nutrire lo stesso, quindi in cultura edonistica o egotistica, poi in oggetto di studio erudito e professionalmente critico per essere infine inserite in quel Panorama Culturale che sembra sia lo sfoggio d’una civiltà impigrita, quella che s’addorme e crogiola nello status quo e cerca in esso la propria nicchia, fingendo d’avere differenti e sì più nobili ideali.


Se una lama crudele ti uccide, dovevi morire.
Ma se non ti uccide, essa è un segnale, un punto di svolta su cui si innesta una serie di eventi insospettati, la tua natura resiste e continua la sua marcia, applicandosi a nuovi stimoli, forieri di vittorie e creazioni più immense…
Non crucciarti d’aver sofferto, d’aver perduto, d’esser stato privato, di non esser stato compreso, non crucciarti d’esserti crucciato, l’uomo gradualmente si scolpisce, il mondo si monda, non crucciarti d’aver subito ingiustizia, la tua visione è limitata: devi prima assicurarti che questa insoddisfazione non sia il gradino cosparso di cocci di vetro che ti conduce ad altipiani più elevati, da cui si gode di una vista straordinaria. Ciò che non hai raggiunto non potevi raggiungere, ma gli obiettivi che sono in te, gli obiettivi che sono te, li raggiungerai senz’altro. Realtà e natura sono e divengono all’unisono, sono e divengono una cosa sola. La giustizia come necessità e la giustizia come felicità coincidono, se si accetta un mondo che diviene: la necessità conduce alla felicità. La necessità è infatti quella di essere felici. La giustizia non è altro che la catena della necessità completamente srotolata e giunta al suo anello finale. Si può accettare il passato solo trasfigurandolo in un evento necessario, cioè foriero di felicità: questa trasfigurazione è veritiera e dunque piacevole, ma anch’essa accessibile solo attraverso la catena della necessità ovvero della giustizia. Non crucciarti di non riuscire a trasfigurare il passato: non puoi ancora farlo. Quello che non è stato non poteva essere: te ne risenti poiché credi che potesse e dunque dovesse essere e dunque fosse, quindi fosse giusto, ovvero felice.


Il passato deve essere cancellato come una colpa, come un debito. Anche il merito ed il credito sono forme di sofferenza: manchevolezze del presente. Il tuo merito ed il tuo credito sono colpa e debito d’altri: solo la giustizia annullerà il tempo. Il tempo non è altro che il bene che lotta per liberarsi dal male. La storia durerà quanto i nostri errori.


La mia filosofia potrebbe essere chiamata nichilismo immanente.


La giustizia è la vita che si libera di sé stessa, è quella guerra che porta alla pace. Quello che ho chiamato nichilismo immanente, da contrapporre al pacifismo pigro, sancisce il fatto che non possiamo sottrarci alla guerra, che essa è necessaria per ottenere l’unica vera pace possibile: il compimento dell’organicità. Quando si entra in un contatto anche solo simulato eppure realistico con la battaglia, ecco che uno spirito nobile la trova immediatamente illuminante più di qualsiasi libro, quasi che essa fosse l’unico atto di vita vera. Egli ne comprende le possibili conseguenze e ne ha paura. Ma ne viene contemporaneamente affascinato. Quest’uomo si rende conto di trovarsi dinanzi a qualcosa di sacro. Rammenta ora le culture orientali che posero in essa tutta la serietà di un rito, di un’arte, di un sapere filosofico, e questa visione incute in lui rispetto. Ma porre la sacralità della guerra implica che essa deve essere maneggiata solo da nobili sacerdoti, forgiati non solo tecnicamente ma anche spiritualmente, che sanno riconoscere la necessità tra un gesto bellico e uno scopo giusto: uomini che non insultano la saggezza e non deturpano l’armonia, la bellezza, l’innocenza, che non sprecano un potere immeritato. L’acquisizione di un’arte marziale come di qualsiasi altro strumento bellico non può prescindere da un’educazione spirituale, senza la quale si originano eventi devastanti. La contrapposizione non è dunque tra pace e guerra, ma tra nobiltà e volgarità. Si può essere nobili o volgari nella pace come nella guerra. Il nobile combatte ove c’è da combattere e lascia in pace ciò che è buono. Il vile fa esattamente l’opposto. Nessuno spirito è tanto miserabile da disconoscere completamente questo, e dunque da essere un totale pacifista o un guerrafondaio senza scrupoli. Ma nessuno possiede la perfetta Nobiltà.


È assolutamente corretto dire che non si debbano colpire gli innocenti. È una aberrazione dire che non si debbano colpire i deboli, se innocenti non sono. La vigliaccheria non consiste nel colpire il debole, ma nell'approfittarsi di una situazione di forza contingente per colpire un innocente che sia contingentemente più debole. Ma spesso il debole distorce i principi morali a propria autodifesa, in particolare per restare impunito di un'ingiustizia commessa, e per avere il diritto di commetterne altre. Egli sostiene che non dovrebbe essere punito in forza della sua debolezza: in tal modo diviene meschinamente più forte della persona a cui ha fatto torto, e gli impedisce di vendicarsi insinuando in lui un senso di colpa e la paura di essere punito. Questo soggetto vile commette così una doppia ingiustizia. L'uomo giusto ha il diritto di usare tutta la propria forza e va difeso qualora si trovi debole.


Una cosa è la rivalità, altra è l’odio. Essere sconfitti lealmente non provoca mai odio, perché quella battaglia aveva come presupposto il rispetto reciproco e dunque un’affinità di fondo tra i due guerreggianti che intendeva liberarsi di un fardello di debolezza la cui locazione doveva, dal loro scontro, essere identificata nell’uno o nell’altro, per cui si può dire che essi fossero alleati contro le parti indegne di sé stessi, senza alcun rimpianto dunque, per la sconfitta subita da queste ultime.
Se il corso di una intera carriera sportiva deve rivelare a chi spetta il podio, essa è una guerra di due alleati contro chi li aveva messi indebitamente sullo stesso piano. Se nei singoli match di questa carriera l’uno fosse andato eccessivamente in basso, egli desidera quindi il riscatto poiché è stato subalternato ingiustamente, le sue erano debolezze contingenti e non intrinseche. Ma non odia per questo il suo avversario: non è lui infatti il colpevole, questi doveva comunque sconfiggerlo giocando al massimo delle possibilità, nel pieno utilizzo delle sue forze, perché queste sono le regole. Egli però odia chi gli ha imposto quelle debolezze, quelle impurità, ed allora diciamo che la competizione è un espediente per rivelare la forza di coloro che dovranno combattere davvero nella vita, essa è un test ed un istituto formativo, ovvero adibito a foggiare i guerrieri nella spada, e spedire poi ognuno al suo posto di combattimento reale. Ma nella battaglia della vita vera non ci sono rispetti e non ci si vuole riscattare ma vendicare, e non c’è rivalità ma odio. Chi ti sta al di sopra ti violenta ed opprime, e non ci sono più regole da osservare perché non vi è alcuna sfida, alcuna affinità che produca un’alleanza verso un fine condiviso. Al contrario, i fini non possono che essere contrapposti, come inconciliabili sono le visioni della realtà dei contendenti, perché differenti le loro capacità intellettuali. Nella vita non si è dunque avversari ma Nemici, e pertanto nella guerra tutto è concesso poiché vi è un unico fine: sconfiggere l’avversario. Se vi fossero delle regole vi sarebbero più fini gerarchizzati ovvero un solo grande e composito fine: ma questo fine è detenuto solo da alcune persone che analogamente non hanno regole - ossia l’opposizione spontanea di altri fini - nel contrastare il nemico della sua realizzazione. Ognuno di noi ha sempre un solo fine e dunque sempre un solo nemico, per quanto complesso possa essere il primo, e conseguentemente il secondo. Quanto più un uomo è intelligente, tanto più grande e dunque composito è il suo fine.
Non ha senso porre regole ad un troglodita, perché non percepisce altri scopi da realizzare che quelli più bassi e dunque non coglie neppure la loro gerarchia nel vivo delle arene di battaglia. Egli deve essere punzonato dove non deve calpestare, e senza lo sprone calpesterebbe. Ma non ha senso neppure porre delle regole a chi non le rispetterebbe spontaneamente poiché consustanziale nel fine, e dunque sempre capace di sentire, nella circostanza specifica, il percorso ottimale, il qual comprende talvolta il sacrificio necessario di un elemento. L’Inimicizia tra due fazioni invalida qualsiasi concetto di Lealtà, poiché quest’ultimo implica una parentela di un qualche grado e che sia sempre più fondamentale del restante terreno sul quale si è invece contrapposti e si è dunque nemici nel pieno delle proprie armi e della libertà di usarle. Non può dunque esserci lealtà tra nemici, e nessun codice d’onore in guerra, perché per codificare bisogna accettare un dialogo conciliativo, non solo avversativo. Bisogna, in sostanza, poiché lo si possa avere in forma ed anche formalizzarlo, qualche cosa in comune: il che è negato a priori dal termine nemico.
Quando, durante un conflitto, la parte che soccombe si appella alla lealtà del nemico, o rimprovera qualche violazione di codici d’onore che sussistono solo tra avversari e dunque parziali amici, essa dimostra la sua ipocrisia, innescata dalla necessità di ingannare il fiero vincitore, persuadendolo che lo deve trattare come se i due fossero molto più amici di quanto non siano.
Due nemici che non lo sono totalmente conservano dentro una base di rispetto. Ma allora essi
sanno quando fermarsi, sanno quali armi non è lecito usare: in quanto non è volontario né dunque piacevole. Essi sanno cosa non devono ledere, laddove non devono infierire, sanno quando devono essere clementi ed anche generosi. Ma non si può imporre la cosa dall’esterno senza falsare la partita. Nessuno viola l’onore, se si tratta del suo onore. Si può al massimo rimanere delusi da un avversario che prende a usare dei mezzi tali, da farci capire come egli non abbia invero il minimo rispetto per noi, e che dunque sia molto più nemico di quanto non sembrasse: ma a questo punto ce la prendiamo con noi stessi che ci siamo lasciati ingannare da un mezzo nemico apparente, e che lo abbiamo lasciato avvicinare, senza precauzioni su quei lati che noi pensavamo non sarebbero mai stati attaccati, ed ora che lo abbiamo visto in faccia, anche noi non possiamo fare a meno di riconoscerlo come un nemico mortale e rispondere con la stessa moneta, o con tutta la radicalità ulteriore che sospettiamo esserci nella nostra ostilità naturale, la qual detiene il diritto ed il dovere di manifestarsi sul campo senza restrizioni, cosiccome fosse invece amore. Nel mondo non si debbono veder meno battaglie e men dure, di quante e dure siano le reali inimicizie: cosiccome non si debbono aver meno collaborazioni ed amorose tresche, e men passionali ed intere, di quanti siano i veritieri amanti ed incomplete le cose. Non si deve arrestare la Natura dunque, e mortificare la volontà: dacché questo tentativo, la negazione della guerra e dell’amplesso, fa degenerare il tutto. Non genera esso pace né progresso, ma solo atroce sofferenza per ognuno. Ogni affine va congiunto, ogni altro disgiunto: amore e guerra sono i mezzi, così e solo si esprime la Vita. L’intelligenza tutta, nella teorica filosofica e nella sua applicazione pratica ossia la Politica, deve limitarsi ad Una, Sola, Grande responsabilità…


DIRIMERE I FALSI CONFLITTI
E LE FASULLE AMICIZIE


…cosicché nudi l’un di fronte all’altro non possano che trovarsi Veri Nemici e
Veri Amanti, in forma integra a dare il massimo in ciò che entrambi vogliono fare, cui la controparte sola mancava ed ora c’è. Uniti i compagni e riempitisi un dell’altro, disperse le nubi sul falso amico e sul falso nemico, la Guerra sarà adesso sana e giusta, ed il migliore vincerà. La politica deve essere soltanto maestra nell’evitare il sangue supervacuo, che uccide il buon con il cattivo, ed il dispersivo seme, che uomo non appaga, progresso non genera, umanità non innalza.


La discrasia che domina il mondo ha determinato la differenza tra dovere e piacere. Essa impone questa prassi: una volta soffro io, mentre tu godi di quello che io creo, poi ci scambiamo i ruoli, tu produci, e produci soffrendo, mentre io godo di quello che tu fai. Ma questo ha una condizione. Che quello che io e te facciamo sia buono soltanto parzialmente, sicché un soggetto debba goderne e l’altro soffrirne, e si siano spartiti i turni dacché una situazione eccessivamente asimmetrica non era lungamente sostenibile anche qualora qualcuno avesse la forza di imporla. Ora, questa condizione è un punto che bisogna assolutamente mettere in discussione, bisogna avere il coraggio di supporre che non sia affatto intrinseca alla vita e da questa ineliminabile, e di effettuare una ricerca che possa confermare o smentire questa ipotesi. Ogni ipotesi nasce da un esempio. Noi abbiamo visto, in noi stessi e negli altri, che a volte il dovere è piacevole ed il piacere doloroso. Possiamo pensare allora che essi siano due aspetti della stessa vita e pertanto della stessa lotta per il benessere, e che il dovere ne rappresenti la parte più difficile mentre il piacere la parte più facile. Nel dovere infatti devi combattere con delle resistenze, esteriori ed interiori. Nel piacere devi solo stare attento a non perdere il controllo, a non abbandonarti eccessivamente, poiché qualcuno che ha trasgredito alcuni aspetti del suo dovere ha predisposto mezzi che, inconsapevolmente abusati, ti possono danneggiare. Questo volendo mantenere la separazione indicata tra dovere, ovvero attività, e piacere, ovvero passività. Se dobbiamo effettuare un controllo nella nostra passività, ecco che esercitiamo anche un secondario ruolo attivo e dunque nel nostro piacere rientra una parte di dovere. Quando un uomo prova invece piacere nello svolgere il dovere, svolge anche un ruolo passivo, in qualche modo automatico, che non gli costa fatica. Ma perché abbiamo posto le equivalenze dovere = attività e piacere = passività ? Poiché esse sono verificate solo in un contesto discrasico come quello che, in certa e buona misura, regna nel mondo, ed illustrano allora tale discrasia. Ogni volta che spendi le tue energie per soddisfare un tuo bisogno, anche solo far del moto allorché il tuo organismo sia attaccato dagli agenti esterni ed interni e stia in qualche modo degenerando, tu provi piacere della tua attività, ed anzi all’inattività dovresti in tal caso essere costretto da un dovere. Quando un istinto ci domina ed è un istinto sano, noi siamo in qualche modo passivi e proviamo piacere. Quando in tale istinto sono invece presenti elementi insani e pertanto irrazionali, essi vengono appunto riconosciuti dalla ragione che ci mette le briglie e dunque noi, ancora in un’ottica egoistica che adesso astrae dal contesto sociale, stiamo soffrendo per il mancato pieno appagamento dell’impulso e dunque siamo soggetti ad un dovere, il che è l’intervento frenante e vincente di altre esigenze variamente presenti e mescolate nel nostro corpo che affermano adesso la loro priorità, grazie alla ragione che ne ha consentito la compresenza, la contemporanea percezione e dunque il confronto. Quando i nostri istinti saranno tutti sani ovvero non contrastanti ecco che potremo abbandonarci al piacere ed esser totalmente in balia dell’istinto, un istinto che non ha modo di tradirci e pertanto non deve essere posto sotto il controllo di alcun dovere. Infatti alla ragione non occorre porre contraltari a un corpo unico. Quando entriamo nel contesto sociale, le cose si complicano, poiché ad una disarmonia microscopica se ne sovrappone una macroscopica, e sanare gli istinti presuppone la strutturazione perfetta della società, fin nei minimi dettagli. La divisione in ruoli sempre più precisi non è altro che la gradualità con cui una società si organizza fino a dissolvere, nel suo grado apicale, il concetto stesso di ruolo poiché non v’è più nulla da controllare, nulla da integrare. Una struttura perfetta annulla il moto e dunque il lavoro poiché appunto essa era lo scopo del moto. Fuor d’essa nulla è completamente felice e dunque non lo è mai stabilmente. Ciò che si logorerà ha già iniziato a farlo, ed anzi improprio è dire cominciata una cosa ch’è sempre stata. Ciò che prima o poi si muove, non è mai stato fermo. Giunti nel contesto sociale, per stare bene abbiam bisogno di dare e di ricevere. Entrambi son piaceri, da trattar come doveri. Essi sono anche diritti ovvero qualcosa che ci deve essere garantito dall’esterno e dunque rappresenta un dovere per gli altri che, analogamente, devono trarne piacere. Stiamo supponendo una situazione apparentemente utopica in cui il dovere ci fa bene al cento per cento, sicché corrisponde al piacere. In una società strutturata secondo la massima saggezza tale utopia sarebbe una realtà. Poiché se ogni elemento di suprema potenzialità fosse stato messo al posto giusto, avrebbe adempiuto nella maniera ideale al proprio dovere, e pertanto avrebbe dato ad ogni altro elemento del tessuto sociale gli strumenti e le fattezze con cui svolgere il lavoro residuo con un quid minimo di logoramento. Ma le cose si sono sviluppate in modo che ciò che fa bene agli altri, quello che noi produciamo durante il dovere, sia logorante e nocivo per noi, o per lo meno lo diventi oltre un certo limite, dinanzi al quale noi dobbiamo però perseverare in quanto è nostro dovere. Varie minacce ci dissuadono in questo momento dal seguire l’istinto che vorrebbe farci interrompere. Se non arriviamo fino in fondo, gli altri faranno lo stesso con noi, e pertanto una quota ancor maggiore o più fondamentale dei nostri bisogni non verrà appagata. Inoltre, se questa considerazione non fosse sufficiente o non ci fosse facilmente accessibile, è stata escogitata la minaccia morale, che consiste nel far scadere la nostra immagine nel momento in cui ci sottraiamo all’atteggiamento comandato e proviamo dunque sentimenti tanto sgradevoli che risultano più difficili da sopportare che non la fatica. Si può infatti forzare un uomo a fare il proprio danno, solo minacciandolo di un danno maggiore. Ora gli sciocchi e i vigliacchi si fermano qui, e concludono che dobbiamo accettare tale situazione, che questa cosa che abbiamo voluto chiamare discrasia e che aveva fomentato una analisi è solo una scusa di viziati che vogliono sottrarsi al proprio dovere, che è una legge indiscutibile della vita, e sottraendosi a tale dovere ne accollano una fetta ancora maggiore a chi in piena nobiltà già ne aveva accettata la propria fetta. Altri ancora, pensiamo a un insegnante insoddisfatto del suo lavoro che lo persegue ugualmente nonostante sia animato da principi educativi erronei, magari anch’essi ereditati in maniera bassamente acritica dall’esterno, costoro riescono ad agire per dovere senza far il piacere altrui, e qui danneggiano dunque greggia e pastore. Fatto sta che ogni progresso dell’umanità è figlio della ribellione, della messa in dubbio, di un maggiore spirito osservativo ed acutezza, di un bando alla pigrizia, dell’ambizione a soddisfare maggiormente le esigenze dell’uomo, a conquistare nuove verità e con esse una felicità più grande. Il progresso è figlio della sfida intellettuale che si intreccia sempre con una sfida pratica, ovvero la rottura degli schemi, l’innescarsi di una perturbazione nel tessuto sociale le cui regole, valori, dinamiche, vengono messe in discussione e pertanto, in una società che non abbia a monte riconosciuto la sua parziale fallacia e dunque poste delle istituzioni di ricerca adibite al miglioramento della stessa, con dei diritti garantiti ai suoi operatori ed una rispettabilità riconosciuta, comporta stridori con tutti gli adepti alla vecchia scuola, critiche, condanne, sprezzo. Il primo dovere, quello che garantisce l’espletamento degli altri, in una tale società è dunque di non mettere in discussione i valori. Egli questo dover lo frange, scegliendo di complicarsi la vita. Nel computo della fatica non si considera infatti mai lo sbattimento che comporta il mettere in discussione le cose. Perché un individuo sceglie di farlo? Intanto è una fatica non riconosciuta poiché ignorata da chi non la vive, mentre i rappresentanti della massa, tra di loro si fanno sempre dei cenni di intesa e si capiscono al volo, tutti sanno di cosa l’altro stia parlando, sono tutti nella stessa barca, si tributano stima, elogio ed appoggio reciproci, i loro pensieri partono dallo stesso punto ed arrivano allo stesso punto, attraverso una gamma di passaggi intermedi la cui varietà è ancor modesta. Fatica che, quand’anche fosse riconosciuta, sarebbe nondimeno invisa perché considerata come finalizzata a scopi illeciti. Perché egli compie dunque tale scelta? Perché ha una meta nel cuore, perché il suo cervello ha delle zone sviluppate nella precisa misura necessaria ad individuare, nella giungla della realtà, i mezzi che conducono a tale meta, perché il suo dovere è raggiungere quella meta, ed è per lui prioritario rispetto agli altri, e lo è in virtù del fatto che gli fa percepire un piacere maggiore ogni volta che essa si staglia all’orizzonte grazie ad un progresso, dall’origine in qualche modo istintiva, poiché figlio di una reazione soggettiva ad una situazione esterna operata da un intelletto differente dagli altri, che dunque se la rappresentava in maniera diversa. Chi non riesce ad avere queste differenti visioni, non può accedere nemmeno in via ideale ad una alternativa, dunque essa non esercita una sufficiente attrattiva su di lui e questo determina il suo abbandono al dovere, allo status quo. Il nostro dovere è dunque una questione originaria legata alle precise caratteristiche della nostra intelligenza. Ne è la conseguenza.


Un uomo potrebbe avere il piacere di perseguire il dovere più grande: egli ha di fatto accettato il dovere di perseguire il piacere più grande. Si accetta solo ciò che si riconosce come il piacere più grande. Prima dobbiamo uniformare gli obiettivi, siano essi riconosciuti o meno, fare in modo che una sola sia la strada maestra. Su questa strada, pochi devono guidare e molti essere guidati. Sino a che l’intelligenza non sarà una variabile completamente controllata, e si possa far saggio lo stolto, molti dovranno essere pietre senza saper il disegno della casa.


Ammesso che l’uomo possieda una serie di bisogni in conseguenza delle sue debolezze, trascuratezze di vecchia data, danni subiti e imposizioni esterne, che nell’intrico della società sovrapponentesi all’intrico della sua anima tali esigenze siano compresenti e contrastanti, tali per cui se ne appaghi una devi frustrare quell’altra sicché non ti gusti nemmeno la prima perché viene inquinata dal logorio della seconda, che non vi sia un rimedio dunque privo d’effetti collaterali, ecco che il principio prima il dover poi il piacere significa, egoisticamente, spianarsi la strada verso un godimento più sereno e stabile, sgrullarsi dalle scatole il maggior numero di problemi, provengano donde provengano, affinché il piacere sia autentico poiché sei sano e colle spalle coperte. È dunque uno stratagemma di battaglia che può ancora prescindere da un idealismo sociale.


Del resto, possiamo avere anche dei piaceri insani ma di cui non possiamo fare a meno proprio per questo motivo, gli esempi più banali son le sigarette, il gioco, l’acquisto compulsivo, qualsiasi forma di dipendenza. Un piacere insano, cioè un vizio, che in tal caso diviene un dovere, poiché ne faresti a meno ma non puoi. Ora, tutto ciò che è insano va eliminato, si chiami piacere o dovere. Entrambi, ossia tutte le cose insane, provengono dalla debolezza. Volete davvero provare a elogiarla? Eliminare l’insano è dunque un dovere ed ovviamente anche un piacere.
Ma questo è l’unico dovere e l’unico piacere ai quali non possiamo sottrarci poiché costituiscono la nostra più intima ed originaria natura. Tutto il resto è eliminabile e serve solo l’intelligenza che determini una scala di priorità. Visto che tale intelligenza non è equamente distribuita, anche perché altrimenti i vizi non si sarebbero creati ed il mondo degenerato, si rende necessaria la gerarchia sociale, prioritaria per una azione su vasta scala che trascenda un attimo il mero potenziamento personale. L’atteggiamento di indignazione che una persona saggia assume nei confronti di quello che vede, di un soggetto, un fenomeno, un atteggiamento, deve variare la sua intensità in mera funzione del livello globale di insania che tali realtà provocano. Per esempio se uno si fa invischiare dal modello altruistico e martirico, potrebbe essere indotto a commuoversi e ad apprezzare un uomo che si sta autodistruggendo in nome di un dovere insano, e porre questo molto più in alto di un individuo che sta invece procurando danni in nome di un piacere insano. Perché il dovere deve esser meglio del piacere, se è altrettanto dannoso? Perché il piacere andrebbe svilito, qualora fosse più benefico? E si farebbe ancora differenza fra altruismo ed egoismo allorché, in un’ottica cosmica, essi coincidono? Siano doveri o piaceri, ed altruistici od egoistici, devono essere valutati in funzione degli effetti cosmici che provocano. Ora anche qui, la quantificazione è invero superflua, poiché valida solo nell’ambito temporale in cui tutto muta ed ognuno tenta di arraffarsi determinati vantaggi, incurante del futuro, incurante dell’intorno, incurante del Fine ultimo che tutti ci lega, che cambia di sesso e diventa la Fine. Ma in ordine a questo fine, le cose possono essere soltanto buone o cattive, non più o meno tali, possono essere giustificabili o ingiustificabili, non più o meno tali, devono dunque esistere o non esistere affatto. La domanda quanto vali? Deve essere sostituita dalla domanda vali o non vali? Ma tale conversione assiologica universale ha come condizione l’annullamento del pluralismo teleologico e la convergenza di ogni soggetto all’Unico Fine.


L’entropia può essere bensì destinata ad aumentare, nel caso sia stato in qualche modo previsto un massimo livello di cecità degli individui che anziché coordinarsi restano nel loro individualismo e dunque regni nel mondo una pluralità massima di fini ed un contrasto assoluto, non fosse questo un assurdo poiché, come l’organicità assoluta annulla il concetto di organo, così la massima frammentazione annulla il concetto di frammento, poiché nessuno è più parte di qualcosa, e se ognuno ha un proprio fine tutto è contrastante sicché nessuno può giammai realizzare alcun fine. Realizzare un fine significa infatti assimilare qualcosa a se stessi, portarla dalla propria parte, annetterla al proprio ego, renderla coerente e dunque non stridente con esso. Il mondo è un ibrido di individualismo e coordinazione, ed il livello di conoscenze possedute, l’illuminazione complessiva degli elementi di questo mondo determinano il grado di disordine. Se due forze si equivalessero davvero, non vi sarebbe il moto. Ma tutto è invece moto, e l’equilibrio perfetto è un controsenso, sicché le forze non si equivalgono mai perché non son mai soltanto due, se fossero soltanto due si equivarrebbero sempre, ma il concetto di due stride con il concetto di uguale. Quante forze ci sono in natura? Tante quante gli individui. Le forze si possono equivalere solo quando si riducono ad una forza sola, e questo è appunto l’apice dell’organicità, ossia la pace. Questo è non solo possibile, ma necessario, è il destino del mondo, ed il principio di conservazione dell’energia ha come conseguenza che, essendoci energia sufficiente e non passibile di diminuzione, tutti i bisogni dell’uomo e di ogni altro essere sono soddisfabili e dunque la felicità è raggiungibile, se soltanto le cose vengono organizzate, ogni elemento ritrova il suo posto tramite il suo istintivo moto che solo colà, appunto, vuole arrivare. Da tempo immemore il sapere umano separò qualità e quantità. Qual bisogno mi soddisfi? La sete. Quanto me lo soddisfi? La misura è un rapporto, dunque ancor pluralità, dunque se dico quanto dico quale. Nella fattispecie chiedo quali parti della mia sete ho soddisfatto. Non più una sola sete, ma tanti rivoli secchi da annacquare, dunque hai soddisfatto tre quinti della mia sete, ma sin che l’individuo è diviso in parti non è individuo, sicché non ha senso parlare di un bisogno solo, la mia sete. Quando ci sarà un bisogno solo non esisterà più il bisogno. Può essere la materia frammentata all’infinito? Invano, invano…poiché non si raggiunge alcun punto d’arrivo, per via negativa ovvero dissociativa, ma solo per la via diametralmente opposta. Se un elemento giungesse ad essere davvero tale, sarebbe felice, poiché incorruttibile.
L’un sarebbe il tutto, ma questo ha come condizione che anche il tutto sia uno.
Come può esser uno, se è un tutto e quindi qualcosa di più grande composto da oggetti più piccoli, strutturati quanto vuoi, ma ancor sempre plurali?
There’s the rub. Grande o piccolo non fa differenza, poiché l’infinito è doppio. Prendi il minuscolo e scomponilo, prendi il magno e consideralo parte di un corpo più grande. Ora il nostro esser soggetti ci trae in inganno. In origine grande vuol dir troppo grande per me, e piccolo vuol dir, troppo piccolo per me. Anche giusto vuol dir giusto per me, ma se altri soggetti non concepisco, a cui quel corpo non sia giusto e della cui infelicità assaggio i contraccolpi, io non saprei dir cosa è giusto, né grande o piccino, poiché tali concetti esistono solo nell’ambito della soggettività, non mai nell’oggettività. Ma se un soggetto, giovando della posizione naturale risultasse ora giusto per tutti gli altri e questi altri giusti dunque per lui e intra lor medesmi, nessun confronto sarebbe omai possibile perché i soggetti imperfetti son diventati un sol oggetto perfetto. L’una dimensione annulla le dimensioni.

Ogni devo che non corrisponda al voglio è figlio della debolezza. Ogni voglio che non corrisponde al devo è figlio del cattivo gusto. Dobbiamo rendere il nostro corpo all’altezza di adempiere ai doveri, dargli quindi la forza di compiere ciò che è per lui benefico, e analogamente dobbiamo rendere il nostro gusto in grado di distinguere ciò che è benefico per l’organismo, dunque accoglierlo piacevolmente, rigettando invece l’insano. Una cosa son le esigenze, altra i gusti. Entrambe sono cose soggettive ma possono essere ambedue insane. Una persona malata e debole abbisogna di azioni e arti ben diverse da quella forte e sana, e tali esigenze devono essere rispettate. Non invece il cattivo gusto, ovvero la debolezza della nostra interfaccia col mondo esterno, la difettosità dei nostri sensi o del nostro intelletto, la nostra incultura ed involuzione mentale, che non ci consentono di fare il nostro dovere ovvero risanare il corpo tramite l’azione compiuta e ricevuta, compresa in quest’ultima la somministrazione di materiale artistico, adescandoci con un piacere spurio e disgustoso a chi ne nota la perversità, caratteristica di ogni piacere che non si identifica con il dovere, come di ogni dovere che non si identifica con il piacere, il che avviene ogniqualvolta esso ci danneggia, perché non siamo capaci di comprendere il nostro ridicolo o vile martirio, oppure siamo costretti a gestire questi calvari temporanei, che nella nostra situazione di inferiorità nei confronti di soggetti esterni costituiscono comunque il bene maggiore. Il retto riconoscimento e la forza di sopportare queste situazioni, mentre si lavora al proprio potenziamento che dovrà condurre alla rottura delle catene, al proprio riscatto e completo risanamento, è una cosa, una volta che si è resa necessaria, da rispettare. Ma bisogna anche riconoscere qui una situazione figlia di debolezze pregresse, di guerre non combattute per tempo contro chi era determinato a sottometterci senza averne diritto, anche se la responsabilità di essa, orbene la debolezza reale, possa non esser la nostra ma quella di molteplici personaggi esterni o di intere generazioni precedenti che ci hanno ereditato un paniere di guai, entro i quali soltanto gradualmente e dolorosamente il nostro sparuto intrepido spirito riesce a far luce, armandosi verso la salvezza, depurandosi innanzitutto di una serie di pregiudizi e falsi valori inculcati dal sistema e dai propri educatori, quando ancora eravamo vergini e privi di capacità critica.


Impariamo a porre il più grande piacere nell’onore, così potremo porre il più grande onore nel piacere. L’affronto morale originario infranse l’alleanza cosmica. La forza morale dei superstiti la ricomponga. Da chi si debba partire lo decide il più forte: ovvero il punto di superiore unità deve annettere a sé altri punti. Un piacere onorevole può trascinare nel suo flusso torrenziale frammenti di onore come detriti. Questi possono deporsi come levigate pietre, spontaneamente a costituire un castello. Quivi un degno regnante può comandare lo scavo di un nuovo canale per il torrente.


I due errori supremi, le due rovine per l’umanità, i due tizzoni del tempo, il diabolico veleno che nutre la storia allungandone la vita, sono questi…

Sobbarcarsi una fatica poiché non si è avuto il coraggio di sobbarcarsi una guerra.

Sobbarcarsi una guerra poiché non si è avuto il coraggio di sobbarcarsi una fatica.

Il nostro dovere è quello di affrontare tutte le guerre e le fatiche necessarie a conseguire la felicità. La condizione di questo è che disertiamo fieramente tutte le guerre e le fatiche che ci portano all’infelicità. Tali sono solitamente le guerre e le fatiche che ci impongono gli altri. Scegli di adeguarti poiché ti sembra più facile? Farai lo stesso misero gioco di chi ti ha preceduto, non sarai mai davvero felice, e quelli che verranno dopo di te dovranno disporre di coraggi e spirito ancora maggiori, per opporsi ad una tendenza che accoglie nuove file di adepti di generazione in generazione, mentre i problemi si sviluppano e nessuno prova davvero ad invertire il senso di marcia. Per costoro sarà dunque più difficile dapprima illuminar se stessi, giappoi il mondo. Se la massa è pedissequa, in conseguenza della sua piccineria intellettuale, essa segue il buon come il cattivo esempio. Se quest’ultimo ha trionfato un giorno, esso ha segnato un’epoca.
Il compito di un genio e di dare l’avvio ad una nuova Epoca.



FILOSOFIA COME ARTE DEL GUARDABOSCHI


Questa è l'essenza della giustizia:
che ognuno segua la sua via.


Ralph Waldo Emerson




L’uomo era vissuto nella foresta per migliaia d’anni e poi si era trasferito nelle città. Ma la sua vita non venne ad essere più felice.
La foresta, infatti, non volle abbandonarlo.

Ogni città era attaccata da spire di piante velenose che invadevano strade, abbarbicavano case ed edifici e tentavano di soffocarli, stritolarli, e gli abitanti venivano punti dalle loro terribili spine…

Nessuno sapeva donde provenisse quel coacervo di rami maledetti, tale argomento non era frequente nelle loro discussioni, ma ognuno era tremendamente impegnato, con mezzi di fortuna, a combattere contro le spire che attaccavano la sua casa. Le tagliavano, quotidianamente, poiché sembravano non finire mai.

Un giovane ragazzo decisamente strano sembrava non accettare questa realtà, aveva delle intuizioni, delle visioni insolite, forse non capiva ancora dove sarebbe voluto arrivare o se fosse possibile arrivarci ma una forza dentro di lui lo spingeva in quella direzione…

Si aggirava per le strade e come gli altri, forse più degli altri, veniva turbato da quelle piante malefiche, si feriva di continuo e questo lo faceva riflettere profondamente.

Tornava a casa e passava ore a consultare libri di botanica di ogni epoca e paese, e da chi gli stava intorno veniva ammonito amaramente: perché non vieni giù ad aiutarci? Prendi quelle dannate cesoie e datti da fare, non vedi che rischiamo di soffocare?

Lui lo faceva a malincuore, ma onestamente, eppure non a sufficienza. Presto si innervosiva poiché il suo scopo era un altro, e sarebbe divenuto sempre più inesorabile. Egli aveva visto qualcosa di diverso…aveva intravisto connessioni nascoste tra i rami di quelle piante, e ne ricercava un’origine unica…Infine lo avrebbe capito: egli voleva estirpare alla radice l’infame pianta velenosa.

Quando comunicava questo intento a qualcuno, gli veniva rinfacciato duramente che egli inseguiva questo balordo obiettivo perché le spire delle piante locali le tagliava qualcun altro per lui. Lui si rendeva conto che ciò era fondamentalmente vero. E si tormentò tutta la vita se questo fosse giusto o meno, ma dentro di lui sentiva che lo era, e che lo sarebbe stato ancora di più.

Inoltre, in tutta la sua vita gli sproni più dolorosi e venefici non gli erano provenuti dalle piante più comuni, ma dagli sterpi che egli odiava maggiormente: gli esseri umani, i suoi concittadini. Anche lui aveva armi di fortuna che aveva affilato man mano, e per quanto avesse molto trascurato l’arroccamento ed il potenziamento personale, la gratificazione, anche lui aveva da sempre dovuto riversare enormi quantità di energie alla difesa della Sua casa e alla ricostruzione di muri demoliti e dilacerati. Ma tutto questo non faceva altro che distoglierlo con fastidio dalla sua vera causa…dal fine supremo.

Ad ognuno era stato insegnato che la vita consiste nel combattere contro i rami che attaccano la propria casa, per potersi guadagnare periodi di quiete e relax durante i quali non ci si sentisse minacciati. Era scontato che fosse così, solo pochi uomini lo mettevano in discussione.

Erano nati stili di vita, erano nate filosofie, erano nati mestieri, specializzazioni, competizioni nelle quali gli uomini avevano trovato gusto, realizzazione, orgoglio: io sono un tagliatore di Conifere, io un estirpatore di Felci, io produco diserbanti per Zizzania da cortile, io produco Narcotici Artistici, io fornisco Interpretazioni Dissolute, io sto in uno studio e ti convinco che il problema non sono le piante, sei Tu …

Il giovane cresce, riflette, sperimenta, crede di poter aver sempre sbagliato ma di fatto non trova la sua strada, sa di non poter seguire la sua stella ma sospetta di non poter seguire altro, in un modo o nell’altro, dovesse anche svolgere per sempre quell’orrida doppia vita che la società gli ha imposto.

I libri possono aiutarlo relativamente. Chi prima di lui ha tentato le stesse imprese ha fallito, poiché la vita è ancora una foresta velenosa. La soluzione spetta dunque a lui…

Talvolta succedevano cose eclatanti. Nella piazza di un paese un gruppo di persone si erano riunite ed avevano abbattuto un grosso tronco da cui serpeggiavano rami particolarmente molesti. Fecero una festa trionfale che avrebbe visto molti anniversari. Egli invidiò queste persone ma si rese conto che non avrebbe mai potuto seguirle fino in fondo. Altrimenti lo avrebbe già fatto. Inoltre, poco tempo dopo quel tronco rispuntò fuori di nuovo, ed egli nelle sue visioni d’insieme sempre tenute in vita contro le spinte specializzatrici che chiudono gli occhi, poteva confrontare diversi aspetti del mondo e rendersi conto che, laddove tronchi venivano abbattuti, subito in un'altra zona la situazione peggiorava. C’erano evidentemente connessioni trascurate, e quando tali Sterpi Assassini erompevano o facevano degenerare il territorio, la gente se ne stupiva come di fenomeni nuovi nati dal nulla, per una sorta di libero arbitrio, e non da quella comune radice sotterranea che reagisce agli sbattimenti locali e li compensa.

Era dunque un problema organizzativo, per evitare che un problema si ripercuotesse su un altro e dunque le soluzioni fossero solo apparenti, occorreva stabilire una procedura precisa, una scala di priorità, un piano per arrivare alla radice e strapparla via dal nostro mondo…

Il filosofo proseguì verso l’indomani curioso e afflitto di ciò che avrebbe visto, non sopportava ancora di potersi arrendere…


L’uomo giusto ha bisogno di tempo e studio per diventare tale solo allorché venga immerso e chiamato ad agire in un mondo che possiede già un’ampia storia alle spalle la quale lo ha visto complicarsi e degenerare nell’ingiustizia. Se uomini giusti fossero comparsi prima e avessero assunto ruoli apicali nelle strutture sociali, avrebbero compiuto decisioni giuste senza l’ausilio della scienza poiché il mondo era più semplice e il loro istinto più razionale. La ragione non è altro che la sanità dell’istinto. Compiere decisioni giuste in un mondo ormai complesso e degenere è invece difficile perché devi percepire e raccogliere sinotticamente una messe di dati molto più grande. Inoltre il corso malefico della storia ha intaccato anche la salute stessa dell’uomo giusto, che dunque deve curarsi e fatica ad agire all’altezza della sua nobile natura. La scienza non è altro che l’istinto dell’uomo giusto che tenta di agguantare la totalità del reale, la quale è sempre una totalità storica in quanto dolorante e figlia dell’ingiustizia. La Storia, allorché completa, sarà l’immagine del corpo egro dell’umanità, in tutta la sua evidente stratificazione patologica: la Scienza allora non sarà che il medico in grado di operarlo, suddiviso invero in una équipe di specialisti la cui direzione generale spetta al filosofo. La Scienza è la teoria dell’azione vincente, e viene ottenuta tramite progressive generalizzazioni di singoli risultati ottenuti da medici sopra singole parti malate.


Che noi dobbiamo scoprire i segreti della natura, significa che essa ci ha ingannati.
La scienza ha lo scopo di giustiziare la vita: ed un tempo si vendicherà anche di tutti i sanguinosi esperimenti cui è stata costretta. Quando un uomo è quello giusto nel posto giusto, l’esperimento è superfluo: egli ha la scienza infusa, egli compie un’azione che non era mai stata tentata, ma la compie efficacemente perché vi era stato ben preparato, mentre per prove ed errori si muove l’uomo giusto nel posto sbagliato, chiamato all’azione anzitempo.


Un uomo ingiusto si riconosce dalla sua scarsa attrazione per la conoscenza. Egli sarebbe stato ingiusto nella notte dei tempi e lo sarebbe ancor più oggi che è necessario sapere così tante cose. Un popolo che non conosce la storia non sarà mai pacificato poiché non conosce l’origine delle ingiustizie che ancora lo piagano con le loro conseguenze, e non potrà dunque porvi rimedio, ovvero l’unico modo che ha per dimenticarle e appunto consegnarle alla storia senza più curarsene. Infatti il passato da ricordare è quello insano, non quello bello. Ci si riferisce ad una brutta partita, da parte di una squadra di calcio, con l’espressione “una prestazione da dimenticare”, ma quella squadra potrà dimenticarla solo quando l’avrà controbilanciata con una buona gara. La felicità non ha memoria e la memoria non ha felicità: sono concetti antitetici. Si soffre solo in una dimensione temporale. Il presente non è mai esistito in quanto viene definito come qualcosa di istantaneo e dunque di statico. Ma il presente è lo scopo della vita. Il nostro futuro deve pacificare il passato neutralizzandolo e trasformandolo dunque in presente ovvero in stasi. Un presente privo di stridori è un presente libero dal passato e dal futuro. Il passato è il male, altrimenti non sarebbe possibile ricordarselo, e il futuro è la fantasia della risoluzione del passato. Quando essa si realizza, il passato e il futuro diventano presenti e noi siamo felici. Chiunque ha sperimentato questa felicità parzialmente in modo che questo discorso possa essere comprensibile, ma nessuno ha sperimentato la felicità totale che annulla il tempo proprio per il fatto di essere totale. Tutto ciò che è parziale è temporaneo, tutto ciò che è temporaneo è parziale. Giustizia come assolutizzazione di Spazio e Tempo.


A seguito di questa riflessione non posso non oppormi alla concezione Schopenhaueriana della giustizia come tratto caratteriale e non intellettuale dell’uomo: il nostro carattere non sarebbe tale senza una determinata intelligenza. Ma le dicotomie ottocentesche del tipo Intelletto - Volontà hanno fatto il loro tempo. È chiaro che con un errore così fondamentale crolla quasi tutto il sistema.


Concetto di “performance” legato alla temporalità, all’apparizione contingente la quale se molto buona la si rende immortale, in modo tale che la storia risulta fatta solamente di cose perfette, che pertanto non devono essere cancellate, che dunque si sottraggono alla temporalità per divenire parte di un oggetto nuovo, chiamato Storia, che racchiude in sé il tempo ma vuole essere perfetto e perciò fuori dal tempo. Il paradosso della storia è che è dominata dal tempo ma vuole trascendere il tempo, ed all’interno del suo tessuto, del suo arazzo accetta solo cose “senza tempo”, cose meritevoli di essere conservate. Perfezione temporale è un ossimoro. Infatti quando qualcosa non ci piace, ci dispiace anche che essa appartenga alla storia, diciamo “un periodo buio della nostra storia”, qualcosa “che dovrebbe essere cancellato dalla storia”. Esiste una Storia Perfetta? Si, quella che finisce. Quella che pertanto non ha bisogno di essere ricordata e non viene ricordata. Si ricorda solo qualcosa che non è finito, che non è risolto, che è in sospeso, qualcosa da cui non è stato tratto il massimo, qualcosa che attende una pacificazione. Ogni movimento è rivolto a rimettere qualcosa al suo posto, ed un movimento perfetto e dunque sommamente appagante non è che quello che adempie perfettamente a questo compito. In questo caso diciamo che la cosa è stata rimessa al suo posto e deve rimanerci per sempre. Se due uomini attendono allo stesso bene, mettiamo un primato sportivo, non possono essere entrambi felici: tenteranno di sottrarselo di continuo, e paradossalmente lo scopo di uno sportivo è cessare di fare sport, dopo aver vinto tutto: ciò che avviene durante la battaglia è spiacevole, egli è felice solo nel momento in cui mette a segno un punto, vince una partita, consegna un trofeo alla storia ovvero all’Intemporalità, ad una teca infrangibile, dalla quale nessuno lo potrà mai sottrarre. Fino a che c’è il pericolo di sottrazione l’uomo è teso e tormentato. Questa Vittoria Totale è possibile? Solo allorché tu non abbia fatto torto a nessuno, e dunque nessuno avanzi dei diritti su ciò di cui tu ti sei appropriato. Se invece lo hai fatto, la storia non finirà, non conserverai quel bene per sempre, gli scheletri ti inseguiranno nell’iperspazio sino a riavere il maltolto. Solo allorché regnerà una corrispondenza di fini, e dunque nessuno attenderà più ad un bene che non gli spetta, scomparirà quella competizione che è l’anima del mondo e la ragione del suo perdurare quale mondo infelice. La proprietà privata è sacra. Questo significa che deve essere protetta sia dall’arrivismo capitalista della libera concorrenza, dalla competizione quindi, sia dall’altrettanto aberrante comunismo che la vuole annullare, trasfonderla in una proprietà comune che è un assurdo qualora si mantenga il pluralismo. La proprietà comune è possibile solo nell’organicità, perché ognuno sta al suo posto e possiede solo quello che deve possedere: in questo caso egli di fatto giova anche di tutto ciò che hanno gli altri, poiché essi sono in relazione con lui.


Quando hai la forza militare, ti prendi quello che vuoi e non si discute. Se gli uomini fossero illuminati essi comprenderebbero quello che SOLO e PER TUTTI è il massimo interesse: in tal caso la guerra sarebbe annullata. La guerra totale è invece resa necessaria in quanto l’élite illuminata deve rimuovere con la forza e l’astuzia qualsiasi impedimento allo svolgersi dell’azione purificatrice il cui risultato è la pace. L’unica pace possibile. Le resistenze si hanno allorché strati di popolazione non accettano il loro ruolo o comunque con più o meno coscienza fanno irruzione in altri ruoli, talvolta per ovviare istintivamente al fatto che incompetenti e disonesti si sono pigliati i ruoli apicali ed hanno creato ingiustizie che tutti pagano. Si ha altresì resistenza poiché un uomo nato per stare in alto viene costretto in basso ed esige allora un riscatto. La guerra prioritaria consiste dunque nel ristabilire i ranghi. Si realizza così l’organicità professionale, la continuità del tessuto produttivo. Ma l’organicità non è in questo modo ancora completa. Gli uomini lotterebbero ancora con gli elementi naturali, la cui azione logorante necessita il Lavoro stesso dell’umanità. Sino a che qualsivoglia elemento verrà forzato fuori dal suo luogo naturale esso lotterà per riprenderselo, con istinto e ragione.


I nostri interessi possono essere tanti, ma il nostro massimo interesse è soltanto uno, uno per ogni elemento di questo pianeta, e lo stesso per tutti. Gli unici nostri veri avversari sono le menzogne che albergano nella mente di ognuno, ed ognuno di noi può agire solo guidato da ciò che ritiene vero: noi riteniamo nostri amici coloro che la pensano come noi, che identificano come mezzi per i loro fini gli stessi mezzi che anche noi identifichiamo, e nemici quelli che identificano mezzi opposti. Noi possiamo essere divergenti solo sul giudizio circa i mezzi, solo nel livello di conoscenza, illuminazione, intelligenza, non sui nostri scopi ultimi, poiché l’unico scopo ultimo è la felicità, ed anche quelli che chiamiamo scopi non sono in realtà che mezzi contingentemente giudicati. È possibile pertanto essere tutti felici senza spargimento di sangue qualora ognuno trovi il suo posto, anche un uomo insensibile e gretto che si appaga d’una vita semplice, la quale però gli può essere garantita, con buona pace anche di tutti gli altri che altrimenti ne risentirebbero, solo allorché i ruoli apicali della società vengano ricoperti da persone di ben altra levatura intellettuale e sensibilità.



FILOSOFIA DELL’EDUCAZIONE


Non è un’affermazione debole quella che ha bisogno di appoggiarsi su di un’argomentazione come su un paio di stampelle? Feci questa ipotesi ed il mio interlocutore matematico sprezzò “retorica da quarta ginnasio”. Ora io avevo fatto invero lo scientifico e la retorica non me l’avevano insegnata, ma la sua risposta suonava invece come la retorica di un frustrato che ha dimostrato finora ben poche cose nella sua spocchia di mente rettificante le arretratezze altrui. Ogni dimostrazione è un modo indiretto per affermare ciò che affermeremmo in maniera diretta se ne avessimo la forza. Queste due rette sono parallele? Questi due segmenti sono uguali? Questa azione è giusta? Questa affermazione è vera? Questo oggetto è bello? Se i miei occhi fossero in grado di vederlo, nessuno penserebbe a dedurlo, ovvero ad assimilarlo a qualcosa di altrimenti evidente. Chi ha una visione debole e dunque non soddisfacente, lo sente, sicché diffida dei propri sensi, necessariamente, per un principio autodifensivo che non ammetterebbe tale imprudenza, e si cerca allora un sostegno più solido, una immagine più nitida, l’apprensione di un organo più sano, come fa il fisico quando rifiuta le reazioni del suo proprio corpo come strumento di misura e si rivolge a quelle di uno strumento da lui costruito, che appare abbastanza sano da poter essere oggettivo, ovvero in realtà preso come riferimento da raggiungere, in quanto possessore di un maggior grado di perfezione. Un soggetto sano impone la sua visione poiché non può assolutamente evitare di aver piena fiducia in essa. Non appena dubiti, la tua forza è già deperita e tu lo sai, dacché cerchi altrove un senso di sicurezza. Se tutti i tuoi sensi sono fragili cerchi di unirne le capacità recettive, per delineare un oggetto che somigli il più possibile a quello reale, nei confronti del quale devi avere una reazione vincente. L’uomo pieno della sua salute sa cosa è il giusto e l’ingiusto, il bello ed il brutto, il vero ed il falso, e non si cura di dimostrare quello che già sa, semplicemente lo opera, sin dove ne ha gli strumenti. Ma è proprio questa mancanza di strumenti a necessitare invece la dimostrazione che è invero un rigirare la cosa ad altri, agli inferiori che vi oppongono le loro bieche visioni, mostrare loro la verità che noi sappiamo, in una forma che risulti loro comprensibile, dacché purtroppo abbiamo bisogno del loro consenso in virtù del loro potere esecutivo, del quale abbiamo ancor meno rispetto del loro potere giudiziario in quanto è il braccio armato di un pensiero sbagliato, ma dobbiamo di fatto venire a patti con entrambi. È in fondo per questo motivo che Nietzsche, spirito in piena salute come egli si sentiva, si vantava d’essere un individuo semplicemente affermativo, e non amava confutare, poiché un’argomentazione non è che in fondo una serie di opposizioni alle posizioni prese dagli altri, ed il suo “senso della distanza” dagli inferiori gli imponeva di declinare quest’atto di inutile e faticosa contaminazione. Ingiusto come ogni commercio con gli inferiori, ed inutile perché dimostrare ciò che vedi non può mai significare altro che il trovare un altro modo per vederlo meglio, da un altro punto di vista, con un altro organo maggiormente potente, che dunque può essere preso come metro. Ma se già il primo è valido e coglie nel segno, perché eccedere? Un fanatismo dimostrativo, pedante, prolisso, la spasmodica raccolta di ogni sorta di prove e controprove, il cercare di arrivarci da destra e da manca, da sopra e da sotto, da davanti e da dietro, è sintomo di confusione e insicurezza, l’ossessione di un avversario immortale, della presenza di troppi nemici da combattere, quelli che sul piano reale ti si oppongono fisicamente, e sul piano intellettuale si appigliano ad ogni sorta di osservazione e cavillo pur di porti delle obiezioni e negare la tua tesi, o addirittura rovesciarla nella sua antitesi. In ambito moralistico, ma invero in ogni ambito che vi si scopre in fondo affine, appunto Nietzsche protestava contro la pretesa dei decadenti di assolutizzare il proprio punto di vista circa i valori, dell’essere il metro in sé del valore delle cose, e non solo di quelle di cui loro stessi abbisognavano in virtù della loro debolezza e per la propria autodifesa cui giammai un individuo più forte accetterebbe di dover sacrificare la propria. Ed invero non esistevano valori in sé, semplicemente ogni salute è proiettata verso la propria crescita, ed ogni individuo compatibilmente con le sue percezioni del proprio e dell’altrui valore in vista del piacere massimo ovvero del perfezionamento del proprio essere, sceglieva la cosa più conveniente. Le distinzioni schopenhaueriane tra conoscenza intuitiva e conoscenza astratta sembrano invero giuste e venerabili solo ad un principiante, giacché una analisi migliore rende presto arduo riconoscere delle effettive differenze tra le due modalità conoscitive. Tuttavia egli enunciò di fatto in questo modo improprio la differenza tra i livelli gerarchici della conoscenza, al cui apice non sta altro che quello più immediato e diretto, nei confronti del quale gli altri non sono che un ripiego, ed allora egli, spirito coriaceo nei punti principali, si sentiva di prendere in giro coloro che, per usare le sue stesse immagini, si ostinano a camminare con le grucce pur possedendo le loro proprie gambe, oppure ad osservare un erbario quando hanno davanti agli occhi la natura incontaminata. Egli non coglieva chiaramente che appunto la debolezza di questi strumenti primari costringeva costoro a quelle vie traverse da percorrere col massimo scrupolo al fin di non perdere la bussola nel rischioso allontanarsi dal percepibile oggetto d’indagine. In fondo dietro ogni studio giacciono una debolezza ed una invidia. Quello che ti riesce d’istinto, tu non lo studi, e gli altri lo possono studiare soltanto analizzando tale tuo gesto istintivo ben riuscito, che precede ogni studio, che può farne totalmente a meno ed anzi ne verrebbe guastato e frenato, e tale riuscitezza soltanto, contrapposta al desiderio di imitarla, motiva il lavoro degli studiosi. Lo studio è essenzialmente un atto di imitazione, un tentativo di accedere a qualcosa di fisico che non possediamo, al quale giammai esso potrà insegnare qualcosa che non sia già presente in lui, qualcosa di cui lui non sia invero il modello ideale, l’apice. Il metro della qualità calcistica è Maradona, lui è il campione, ed ogni nostro ideale non potrà giammai superare il miglior esempio di ogni cosa che abbiamo effettivamente visto. Nessuno ha mai immaginato una donna più bella della più bella che ha visto. Se riusciamo a concepire qualcosa di meglio, ad esempio leggendo delle teorie filosofiche oppure ascoltando musiche, è perché in noi sono presenti altre forme di perfezione alternativamente acquisite, altri strumenti che pensiamo allora di poter applicare a quello che leggiamo e sentiamo, oppure noi stessi siamo dei potenziali maestri in grado di superarlo, pur avendo ancora bisogno del loro appoggio ed essendo dunque ancora nani sulle spalle di giganti. Noi potremmo essere tali solo contingentemente, nel senso che, disponendo dei mezzi e del tempo di crescita ottimale, anche noi raggiungeremmo i loro risultati autonomamente. Oppure possiamo esserlo intrinsecamente e possedere però quella sensibilità aggiuntiva che, annessa al loro lavoro, potrebbe portarlo oltre, appunto la statura di un nano che, per quanto piccola, innalza la visuale del gigante. Viva dunque i nani che sanno arrampicarsi sulle spalle dei giganti senza imbarazzo e di lassù far le loro osservazioni, e viva i giganti che capiscono la rettitudine del loro intento e non se li scrollano via con irritazione, consapevoli che il loro valore non ne viene sminuito o intaccato, ed il beneficio alla comunità ne viene aumentato, poiché loro, per quanto grandi, tuttavia non hanno detto tutto, né perfettamente tutto quello che hanno detto, e sarebbe un biasimevole atto di egoismo e superbia il pretendere che nessuno dica altro o voglia osare correggerli. Chiunque possa contribuire al beneficio di una comunità ha il diritto e il dovere di farlo.

Quando Nietzsche affermava che vi è più saggezza nel tuo bel corpo che nella tua miglior sapienza, intuiva la subalternità della funzione conoscitiva, di cui la perfezione fisica è invero la teleologia intrinseca. La felicità non cerca la conoscenza, mentre la conoscenza cerca la felicità. Mandare un genio a scuola significa il più delle volte ucciderlo e soffocarlo, e non è un caso che tutti i geni abbiano dimostrato una personalità ribelle ed una ostilità alle istituzioni o alle accademie. Tale “personalità” non è altro che la necessaria reazione della loro personalità entro un ambiente che la minaccia. Questa perigliosità dell’insegnamento si verifica a meno che egli non vada a scuola da analoghi geni che siano però già maturati. Se non gli fossero superiori quanto a potenzialità, ma tuttavia più anziani ed avessero raggiunto alcuni traguardi, potremmo pensare, che la loro istruzione sarebbe benefica sul giovane talento, che gli risparmierebbe lavoro ed errori. Questo è tuttavia errato, in quanto ciò che ha reso il percorso di quell’intellettuale scabroso, logorante e dispersivo, è stato invero l’essere immerso in un ambiente di persone mediocri e malvage quando non aveva ancora gli strumenti per difendersene, sicché soltanto per gradi e con molte sofferenze egli è giunto alla presente maturazione. E sono appunto questi fattori gli unici dai quali egli può salvaguardare per tempo la giovane speranza, sicché, se egli vive a sua volta in cotali ambienti, l’altro può essergli d’aiuto. Non invece qualora egli abbia la possibilità di vivere appartato e crescere autonomamente in virtù del suo talento, o addirittura in ambienti che siano realmente positivi per un intellettuale, ricchi ma non eccessivi di stimoli, concilianti i suoi bisogni, abitati di soggetti che compensino le sue carenze. In condizioni ideali, dunque, giammai uno spirito superiore può trarre il minimo giovamento da un altro spirito che gli sia anche sol minimamente inferiore. Al contrario, in tal caso ne verrebbe necessariamente guastato. Tutto questo continua a parlare a sfavore del tanto decantato valore del dialogo, che può invece essere benefico solo qualora l’uno voglia dare esattamente ciò che l’altro ha bisogno di ricevere, e lo possa ricevere soltanto dalle sue degne mani. Se viceversa, tu vivessi in contatto fin dall’inizio con un altro giovane di superiore valore intellettuale, ed il vostro percorso proseguisse in parallelo, saresti ora tu a danneggiarlo, poiché hai la vista meno acuta e costituiresti per lui un freno ed un fastidio, mentre tu non potresti in alcun modo essere migliorato da lui, qualora la tua inferiorità sia intrinseca e non contingente. Se tu venissi educato da uno spirito che ti è superiore e già maturo, la sua capacità di donare sarebbe superiore alla tua capacità di ricevere, sicché lui ne resterebbe amareggiato e tu non sapresti che fartene della sua saggezza che non può riguardare la tua vita, legata necessariamente alla tua sensibilità. Dunque, non resta che un caso, in cui lo scambio può essere benefico ed ugualmente desiderato da entrambe le parti. Quella di due spiriti di pari livello, due anime affini di cui una è anziana e l’altra giovane. Questi soltanto sono l’allievo ed il maestro ideali, tutte le altre forme di insegnamento non sono che drammatiche forzature. Quando tali due spiriti si incontrano, l’intensità del rapporto che li lega supera fattualmente quello di padre e figlio, che si esaurisce invero nell’atto della generazione la qual non c’entra con l’educazione che ne è il complemento ed è qualcosa di molto più lungo ed impegnativo. Che i tuoi genitori debbano essere i tuoi primi maestri, o anche solo avere il diritto indiscusso di partecipare in qualche modo alla tua educazione non è una cosa saggia, ma una convenzione sociale dalla quale l’umanità deve evolversi per il suo bene. Il sesso è una istituzione naturale, non la famiglia. Ma il maestro invece si sente porre dall’allievo esattamente le domande che anche lui si era posto ed alle quali adesso ha la facoltà e la volontà di rispondere, mentre l’allievo si sente dare esattamente le risposte che cerca. Non nel normale consesso umano, in cui è rarissimo trovare la risposta e sentirsi fare la domanda giusta. Quello che il maestro dice all’allievo, che ne viene profondamente irrorato di soddisfazione, non lo stupisce invero mai del tutto, poiché si rende conto che la risposta era già dentro di lui, solo che ci voleva tempo per arrivarci, e le anticipazioni poste lui dal maestro non sono vere e proprie anticipazioni, in qualche modo lui sa già di cosa il maestro stia parlando, nella vita ne ha già incontrate per lo meno le basi, in diverse tipologie di fenomeni.



Nessuno vede oltre se stesso


Il personaggio più evoluto si pone come orizzonte morale, come esempio sommo. Così come il miglior atleta sulla piazza. Insuperabile e incriticabile fino a che qualcuno non lo supera. Questa è prepotenza ultra-morale. Prepotenza che usa la morale. La morale ha due origini e non è sancibile in via definitiva quale fu la prima: una forma di patto (legge) ed una trappola psicologica (giudizio morale), esse si integrano ed appoggiano l’una con l’altra perché spesso una da sola può risultare insufficiente. Entrambe sono dipendenti da rapporti di forza. Il patto in quanto le sue condizioni possono essere inique se soltanto una delle due parti è più forte dell’altra: si sottopone ad una rinuncia, a corrispondere un servigio, un rispetto dell’altra solo nella misura in cui è di fatto da questa dipendente, nella misura in cui, quindi, ha una debolezza, una mancanza, un bisogno che può essere colmato dall’altra, su cui questa può a sua volta far leva per estorcere favori e rinunce alla prima. Quando uno è più forte pretende sempre di più di quel che dà. Impone la sua legge: se essa viene infranta egli ha il diritto (ovvero la forza) di punire, di trasformare il ricatto in danno. Alla legge si può aggiungere la morale, nel senso che la cosa vietata era divenuta anche spregevole e ci si era abituati a considerarla tale: l’oppresso, nell’infrazione della regola, si sente spregevole, e l’oppressore spregia il trasgressore. Ma vi è anche il giudizio morale opposto e più facilmente penetrante perché sentito come più veritiero da entrambe le parti: ovvero che spregevole da parte dell’oppresso è proprio il rispettare quei patti, perché denuncia la sua debolezza, la necessità di farlo: il suo è un maledetto dovere. E costui si sente dunque potente ed orgoglioso ogni volta che infrange la regola e nell’eventualità in cui, rinforzatosi, si può ora permettere di imporre lui nuove condizioni al forte, attuando la sua rivalsa ed un suo maggior benessere insieme. Il forte, consapevole essere il suo un originario atto di prepotenza, spregiava appunto fin da subito il suo schiavo, ed è spaventato della sua possibile crescita eversiva, e si premunisce contro di essa. Ora che le sorti si sono invertite, egli si vergogna di se stesso, si disprezza. In un ambiente in cui i principi morali di valore vengono creduti ipocriti, un moralista criticante e condannante l’operato altrui verrà sempre sbeffeggiato e si sentirà avvilentemente misero: la sua critica verrà ricondotta all’invidia e gli si dirà tu faresti ben di “peggio” se ne avessi le capacità, alché lui è oppresso materialmente e moralmente, proprio come il debole di cui parlavamo prima, nei confronti del forte. Se si vive invece in un ambiente in cui i giudizi morali vengono presi come veritieri, sia da forti che da deboli, essi divengono a loro volta uno strumento di forza, vengono presi come qualcosa che è legittimo usare per dichiararsi superiori ad un altro uomo e compiacersi di ciò, a prescindere dalla situazione materiale. Pensate ad una situazione in cui ognuno conduce lo stile di vita che vuole e tiene la condotta etica che preferisce: questo determina una qualità della vita. Ma tutti ammettono, soddisfatti o meno, che esistono una moralità superiore e una inferiore: l’uomo che tiene una certa condotta, insegue determinati scopi, rispetta principi, è più onorevole, più virtuoso. A questo punto gli si conferisce il diritto di rinfacciare la propria superiorità all’immorale. Questi magari è più soddisfatto, ma si sente un tantino svilito, e lo accetta: da questo punto di vista ammette di essere peggio dell’altro. Ma quest’altro, a sua volta, magari non è proprio un santo: qualche peccato lo ha commesso, e c’è pure chi è meglio di lui. E qui ricompare la forma di minaccia, nel momento in cui una persona molto immorale non si sente la capacità di rinfacciare, come vorrebbe, una lieve mancanza all’individuo solo modestamente e sporadicamente immorale: insomma ad uno che è comunque meglio di lui, perché altrimenti costui gli rinfaccerebbe brutalmente le sue pecche, più gravi. Sono partite: l’affermazione materiale e la dignità morale, nella misura in cui le si considera valide si vorrebbe emergere in entrambe. Si valuta dunque dove si è più dotati, si pensa a dove si ha più probabilità di emergere, o ancora quali sono i compromessi soggettivamente migliori, la strada meno dolorosa e più gloriosa. La sorte peggiore in quest’ambito ce l’ha colui che non vale niente in tutti i campi: un immorale debole, un debole malvagio, che tutti deridono e sprezzano perché non solo farebbe il male, ma non ne ha neppure la forza. Il più fortunato invece è il santo forte, doppiamente onorato, se non fosse che la moralità più diffusa comporta la rinuncia ad una buona fetta della propria felicità, come dissi all’inizio, sicché il suo è solo un mezzo affare. Nietzsche si sente al di là del bene e del male ed ha una fiducia estrema nell’istinto che agisce liberamente da qualsivoglia forma di freno inibitorio, veicolato nel cuore tramite l’intelletto, e considera appunto la morale stessa come l’unico vero male, l’unico impedimento alla crescita dell’individuo: accrescimento che egli tende a vedere come vero scopo della vita e fonte di felicità, anche se altrove lo vediamo criticare apertamente il finalismo stesso e l’eudemonismo; sicché egli santifica la guerra come unica prassi possibile verso la venerata “potenza”. Avendo dunque tolto di mezzo il secondo corno del problema, per i nietzschiani il valore morale coincide con il valore bellico. Volendo restare nell’ottica individualistica tanto sostenuta da Nietzsche, devo ripetere che, potendo la morale essere usata come arma, egli non può condannarla in quanto rientra nella virtuosa innocenza della guerra. Ma la guerra innocente è solo quella che si vince totalmente: non si può elogiare ciò che produce tormento. La morale si occupa infatti di porre lo scopo della vita e di indicarne i mezzi: dunque di mettere delle regole in quella guerra universale che in natura appare cieca, dispersivamente sanguinosa e sconclusionata, anche qualora essa non fosse malvagia in sé stessa, ma addirittura l’unico strumento di salvezza e di vera felicità. E come può l’uomo trascendere davvero l’ottica eudemonistica, quando gli stessi istinti e la guerra che questi attuano, portano appunto, indiscutibilmente, verso questa direzione? Virtuoso è dunque ciò che porta alla felicità. Assunto questo concetto, possiamo affermare che sia il guerriero sconsiderato che il santo combattono la propria guerra con strumenti inadeguati e si fanno del male da soli. L’uno danneggiando barbaramente ciò di cui ha bisogno e che, con le sue conseguenze, lo renderà sofferente e perdente. L’altro, mortificando se stesso in maniera pietosa e irragionevole. Per cui è vero che il valore morale deve coincidere con il valore bellico, poiché appunto solo la cattiva guerra porta al dolore, solo la cattiva guerra è cattiva, e ciò che è buono non è altro che buona guerra. La morale può addirittura essere fatta coincidere con l’intelligenza, ossia lo strumento che conduce l’istinto verso il suo obiettivo. La morale deve indicare ciò che va distrutto e ciò che va protetto. La morale deve riconoscere tutto ciò che è forte e tutto ciò che è debole. Dunque, la natura non può fare a meno della morale, come vorrebbe Nietzsche. In definitiva, la morale non deve sparire, ma solo liberarsi della sua incapacità, deve essere un’arma all’altezza del suo compito, e non un’arma che si ritorce contro colui che la maneggia. Che lo strumento di salvezza dell’uomo non costituisca la sua condanna. Il compito dei filosofi lungo i secoli è quello di perfezionare la morale.


Non esiste differenza tra intelletto e volontà. Qualsiasi filosofo abbia proclamato scissioni tra caratteri morali e caratteri intellettuali ha commesso un crimine di leggerezza imbarazzante. Come proclamare separato ciò che si trova nello stesso organismo? I cui anfratti ci sono altresì ignoti.

Gli stupidi non sono mai buoni.
Gli intelligenti non sono mai cattivi.
Una cosa è cattiva nella misura in cui è stupida.
Solo se è stupida essa fa del male.
Stupidità e criminalità sono sinonimi.

Crudele e stupido sono identici, la crudeltà è quella che non si rende conto, distrugge per gioco o per gretto istinto, non v’entra il sadismo che altera l’altro di cui s’era corrotto insino al giudizio. La malvagità è peggiore e ti addesidera la morte, poiché essa spegne e non deturpa. Lasciate stare i belli: non devono esser guardati male. L’occhio vile deturpa: tu che lo avverti, ma hai ancora il tuo corpo, questi ammazzi come dolce boia tristo d’apparir crudele.

Il buono non è quello che non uccide nessuno, che non picchia nessuno, che non insulta nessuno, che non manca di rispetto a nessuno, che non sbeffeggia nessuno, che non odia nessuno, che non disprezza nessuno, che non osteggia nessuno. Questo è un degenerato. Il buono è quello che sa dove e come indirizzare le sue frecce. Non bisogna essere buoni in senso cristiano. Bisogna essere giusti. Parola che in origine doveva equivalere al successivo buono, nato per convogliare la giustizia e dunque la saggezza nel valore soggettivo che aveva assunto appunto la valenza principale nel credo cristiano, ovvero rappresentava la condizione della loro esistenza e vittoria. Quanto tale esistenza e vittoria fossero giuste, è altra questione.

L’intelletto non è l’unico organo in cui opera l’intelligenza. Intelligente è tutto quello che funziona. La saggezza della mano è un modo corretto di esprimersi. La saggezza gestuale esiste ed anzi non se ne trova d’altro tipo dacché vivere significa compiere dei gesti. La filosofia è l’abilità nello svolgere operazioni con i concetti. Un corpo che non funziona è stupido. Un corpo brutto è stupido. La cattiva salute è un crimine in quanto forma di stupidità. La bruttezza è immorale. Nessuno ha il diritto di essere brutto e insano.

Appellarsi all’oggettività è un modo per mascherare la soggettività di chi ancora non è divenuto oggetto. È un modo per togliersi la responsabilità dei propri gusti. Succede cosa analoga quando si danno giudizi morali sancendo la giustizia di quanto è avvenuto solamente perché ci si trova in vantaggio e lo stato delle cose ci appaga personalmente. Se due persone ascoltano un disco e alla prima piace ed alla seconda non piace, quella a cui non piace non doveva ascoltarlo. La gerarchia dei gusti è la gerarchia delle persone. Si disputa intorno alla bellezza come si disputa attorno alla moralità, e si lo si fa soltanto invano, giacché si vive in una società discrasica in cui nessuno sta al suo posto, siamo in un calderone ad imporre i nostri valori come assoluti in quanto non sapendo bene dove andare dobbiamo spianarci le strade conquistando più ambienti possibili, affinché si confacciano alle nostre preferenze. Non è vero che quello che va bene per te debba andare bene anche per gli altri: ma è vero che quello che va bene per gli altri deve stare dove sono gli altri. Ed è vero che tutti devono essere soddisfatti, ma è drammatico e ridicolo parlare di pacifica convivenza tra cose diverse: si può parlare solo di pacifica gerarchia, perché nel livellamento tra cose diverse vigono inesorabilmente il fastidio reciproco e la guerra, tutto al più lo squallore dei compromessi. Ai piani inferiori proprio si deve ignorare quello che succede nei piani superiori, sebbene questi abbiano il dovere ed il piacere di vegliare anche sugli interessi dei primi senza doverne assumere ruoli ed usanze. Quando uno discute con un inferiore su chi sia l’inferiore dimostra di mentire a se stesso in quanto non lo considera in fondo inferiore. Per discutere bisogna trovarsi infatti sullo stesso piano. Ma noi assumiamo la discussione come prassi quotidiana e naturale perché la nostra situazione quotidiana anche se innaturale è di essere vincolati a fiumi di persone che giudichiamo inferiori. Essi hanno fattualmente un potere su di noi, allora ci sforziamo di convincere quello che dovremmo e vorremmo soltanto vincere. Vincere significa ottenere la postazione che ci spetta, e dacché ogni postazione è unica non si può convincere, ossia vincere in più di uno. Ma se ognuno trova il suo posto ecco che tutti vincono perché l’insieme funziona. Si vince in orizzontale, si convince in verticale. Invece nel nostro bel mondo si cerca di convincere in orizzontale e si perde, si riesce solo a sfiancarsi gli uni gli altri sino alla disperazione, e dal trambusto si leva spesso l’impeto della maggioranza che vince in verticale facendo perdere tutti, in quanto è stupida e non merita un ruolo di vertice. Infatti un superiore che già mal sopporta di dover parlamentare con gli imbecilli, esce fuori di senno quando la gerarchia non è solamente annullata, ma addirittura invertita e la sua virtù mortificata all’inverosimile. Quando la struttura funziona non c’è bisogno di convincere perché tutti hanno già vinto e quando si vince non si discute. Quando invece si perde, non serve discutere, bisogna cominciare a vincere. L’inferiore non si convince di esserlo, se davvero è tale.
Non gli si dimostra niente, se non quando la benefica struttura avrà dato anche a lui i suoi risultati, ma allora la felicità eliderà ogni discussione assieme ai problemi. Su di lui non ci si può assolutamente imporre con la ragione. In una discussione ci si impone con la ragione solo se entrambi hanno ragione: altrimenti, ci si impone con la forza. Sperando che il più forte abbia anche ragione. L’unica inferiorità di cui possiamo renderci conto è quella contingente, quella di chi non è un coglione ma solo rincoglionito, altrimenti non potremmo assolutamente stimare la distanza che ci separa dal superiore, mentre ciò è consentito dal fatto che egli sia solamente più benestante, maturo o colto, ma non più intelligente di noi. Al contrario, riconoscere la propria superiorità è banale, ed anzi inevitabile per ognuno, anche per l’inferiore. Infatti la statura di ogni uomo è il non plus ultra che egli possa concepire e dunque ognuno di noi è per se stesso un Dio pronto ad imporsi sul mondo: ognuno di noi è il migliore. Un uomo può sì ammirare un altro, ma senza mollare se stesso, il mirante, il giudice ultimo, ed inappellabile. Questo perché conoscere significa assimilare. Tutto ciò che ci sta sotto, senza tuttavia essere materiale di scarto ossia totalmente eterogeneo, è assimilabile poiché assegniamo ad esso un posto nell’organismo. Ma tutto quello che si trova invece al di fuori dell’ambito della nostra sensibilità, e ci è dunque superiore, non lo possiamo assimilare attivamente ma solo passivamente ed esso diventa parimenti un materiale di scarto, anche se ci sono sostanze nella società che abbisognano di essere inserite nel nostro corpo affinché esso e lei tutta siano più felici, e la cosa può essere realizzata solo sotto l’amministrazione di una persona saggia in locazione elevata, le cui visioni del mondo sono però inaccessibili allo stolto ruspante la sua suprema intelligenza. Insomma le persone grette non si rendono conto di avere bisogno di quelle intelligenti, mentre queste ultime si rendono conto di aver bisogno delle prime come le foglie dell’albero di aver bisogno dei rami, del tronco e delle radici. Ma è proprio per questa asimmetria che l’intelligente ha diritto di imporsi sullo stolto, perché lo comprende e dunque pensa anche nel suo interesse, mentre non è possibile invece il contrario. La propaganda è qualcosa di inutile, perché l’uomo assimila solo ciò con cui è d’accordo. Ed è d’accordo solo con ciò che assimila. Quando si cerca di persuadere gli altri, si sfondano delle porte aperte oppure non si sfonda un bel nulla. Si può forzare la forma mentale di una persona sino a traumatizzarla, ma questa si ricompone quanto prima ed espelle ciò che non le calza. Se mi si obbietta che tu potresti persuadere (plagiare) una persona che non abbia ancora acquisito altre conoscenze ed esperienze su un determinato tema, rispondo banalmente che in tal caso le opinioni che ci vengono proposte sono totalmente insignificanti perché senza esperienza noi non sappiamo nemmeno di cosa stiano parlando. Quando invece abbiamo la nostra esperienza, non vi è parola in grado di contraddirla, ed anzi essa sbaraglia qualsiasi concetto ci sia stato precedentemente insegnato. Quelle che ci vengono propinate possono essere al massimo informazioni false che non abbiamo il modo di verificare, ma in tal caso esse raccolgono un consenso fasullo e non sincero: se ci avessero dato quelle giuste, avremmo preso la posizione opposta, ci saremmo dunque messi contro coloro che di già le possedevano ma le giudicano diversamente da noi per differenze intrinseche e dunque per una diversa identità. Non è dunque possibile cambiare gli amici in nemici e viceversa, puoi solo confonderli o mascherarne i volti.
Ma tutto quello che doveva stare sotto e ci sta sopra è un nemico.


Niente un uomo nobile compie più volentieri del proprio dovere, niente più mal volentieri di un atto indegno. Per l’uomo intrinsecamente spregevole le cose stanno all’opposto, perché egli giova del suo atto egoistico cui la miopia dell’agente non riesce a porre contraltari nella visione delle conseguenze future, ossia la quantità di danni sociali o anche solo personali dell’improvvido gesto.
Non solo per la comunità ma anche per noi stessi dobbiamo essere coraggiosi. Quando nessun atto avrà un prezzo, la morale non esisterà più perché nessuna intelligenza dovrà distinguere le priorità. Ma allora la vita sarà già risolta. Sino a che non è risolta, gli atti hanno un prezzo che deve essere gradualmente scontato dalla nostra saggezza anziché aumentato dalla nostra dissennatezza che continua a compiere crimini. Sino ad allora, dunque, la morale è necessaria, perché solo gli uomini naturalmente virtuosi si comportano bene spontaneamente e, qualora sbaglino, si tratta di un errore contingente che pertanto essi sono in grado di correggere poiché detestano l’errore appena commesso. Tutti gli altri invece, non sono in grado di distinguere il bene dal male, non sono in grado di sacrificare una brama di bassa importanza per un’altra di maggiore importanza perché quest’ultima non è loro accessibile, si trova oltre le loro capacità percettive, quelle che invece consentono all’uomo nobile di andare con la mente oltre l’ostacolo che hanno davanti, a cogliere la meta per cui val la pena di battersi o di sacrificare altri beni. Quando lo scettro dei valori morali è detenuto dai migliori, essi costringono anche gli infetti a comportarsi in maniera virtuosa, o con l’ausilio della forza fisica, oppure inculcando in loro la paura con la vicina minaccia di una pena cui sono suscettibili. In questo modo tutti serviranno, volenti o nolenti, la giusta causa. Ma se invece lo scettro dei valori morali, grazie ai principi democratici che tutto assegnano alla massa volgare, passa a quest’ultima, ecco che avviene qualcosa di terribile. Non solo la massa esegue in tutta serenità e senza significative opposizioni quello che la sua bassezza le permette di percepire come buono anche se è deplorevole, ma essa sancisce come doveri delle azioni che non sarebbero affatto doverose in un mondo saggio, e come diritti delle azioni che non sarebbero assolutamente dirittuali in tale nobile mondo. La massa costringe a questa prassi ed a questa mentalità anche la classe dei nobili, contrariati dal dover fare cose infruttuose per i propri ideali e rispettando diritti che parimenti li danneggiano. Ogni negligenza o deliberata violazione di tale statuto di diritti e doveri comporta per loro una punizione materiale, morale, sociale. Egli prova così vergogna di cose che meriterebbero fierezza ed onori, egli si sente obbligato ad azioni discutibili, se non palesemente prive di valore agli occhi di un uomo saggio, e mentre le discute non può esimersi dal processare contemporaneamente se stesso poiché quella norma rappresenta un principio vigente sostenuto dall’autorità della maggioranza che immediatamente lo giudica, osteggia, contesta, condiziona, sprezza. Le cose buone a questo mondo sono sempre esistite, ma tutta la degenerazione, in ogni epoca, è dovuta al predominio sociale della feccia, cui nessuna rivoluzione aristocratica nella storia ha finora posto una briglia durevole e sufficientemente efficace.

L’orgasmo non aiuta l’intelligenza: l’intelligenza stessa non è tale se non è orgasmica.

La parola intelligenza designa la capacità complessiva di un corpo di autorisanarsi. Nietzsche affermava che una filosofia fosse la confessione del corpo del suo autore. Essa è più precisamente la generalizzazione degli esiti dei suoi tentativi di fuga dal dolore.

Sia la sofferenza o meno proficua per la filosofia e per l’arte? La sofferenza rivela le capacità di reazione del corpo intelligente, altrimenti latenti e invalutabili, ma nello stesso tempo ne delimita preventivamente l’ambito: nessun artista o filosofo può infatti parlare d’altro che della biografia del proprio corpo, e la sua arte avrà il valore del suo sistema immunitario, relativamente ai settori danneggiati e non un passo oltre.

L’individualità investe quindi anche i beni ereditari, come un patrimonio artistico, scientifico o filosofico, che possono essere tramandati efficacemente solo ad un pubblico consanguineo e di analoga esperienza di vita, poiché questi due fattori generano gli stessi dolori vissuti dall’autore che ce ne ha fornita una soluzione, affinché noi, fratelli suoi, che proseguono la sua esistenza in una generazione successiva, andiamo oltre, verso la conquista della vittoria e della felicità.

La cultura è un’ipoteca versata al te stesso che sarai.

La guerra della memoria è rivolta a guastare l’eredità storica positiva che i nostri avversari ricevono dai loro simili vissuti in epoche precedenti, oppure a riconquistare tale nostra eredità, analogamente infangata da loro, onde poterne usufruire. Solo un uomo che ha amato l’umanità intera può donare ad essa un beneficio universale con il suo retaggio culturale. Tutte le opere di uomini faziosi avranno solamente un valore fazioso.

Non è possibile votarsi ad un sacrificio senza prima aver perso una guerra o aver paura degli avversari.

Ci si giustifica solo dal momento in cui un altro ha del potere su di noi, sicché dobbiamo persuaderlo che non abbiamo fatto niente di male.

Tutti i mali provengono dal fatto che uomini dalla visuale limitata hanno un’autorità sopra uomini la cui visuale è più ampia.

È il decametro che misura il metro, non il metro che misura il decametro. Il metro può spostarsi ripetutamente sino a coprire la distanza di un decametro, ma scordando la strada che ha fatto: esso è infatti sempre un metro che non può espandere la sua visuale, sicché non comprenderà mai un decametro, nemmeno con dieci metri.

Le analogie ingannano. Infatti un metro può sperare di comprendere il decametro pensando che il rapporto che il decametro ha con lui sia uguale a quello che lui ha col decimetro: ma l’unico rapporto percepibile è quello fra se stessi e qualcosa di più piccolo ed omogeneo, sicché egli si scambia per un decametro indebitamente, e scambia un suo sottomultiplo con se stesso.


Il motivo per cui il mediocre non è in grado di apprezzare l’eccellente è esemplificato dall’immagine del quadro. Egli trova perfetto il disegno fatto su misura per quella tela dal massimo rappresentante di una sensibilità, il miglior artista sulla piazza di quella specie, avente maggior perizia tecnica degli altri ma solo entro i limiti geometrici di quella tela. Se si presenta un artista nato per visioni maggiori, questi dipinge sulla tela più grande, ma il mediocre ne vede solo la parte inferiore, dove quello ha poste alcune linee destinate a spandersi o svilupparsi nella metà superiore del quadro e solo dall’insieme avrebbero tratto il loro senso: ora il mediocre, limitato in altezza, non può che trovarle senza senso, oppure criticarne le dimensioni che stridono con i limiti della sua tela, a dir bene adatta solo a soggetti di data dimensione.


Non esistono rapporti equivalenti. Nemmeno quelli che si riducono all’unità, perché 3/3 è diverso da 8/8 nel mondo fisico, infatti sei persone non hanno gli effetti di sedici persone. Ma la parola rapporto è talmente generica che nel mondo reale può essere tradotta con infiniti significati. Se un rapporto è davvero riducibile all’unità esso è un falso rapporto, è invece una identità disconosciuta, e tali sono le petitiones principii. A patto che il ridurre non sia una reale operazione necessaria, nel qual caso ha degli effetti e dunque non è mai trascurabile, non si possono cancellare gli elementi opposti come niente fosse. +2 -2 non è uguale a 0. Sarebbe come dire che andare a Milano in macchina e poi tornare è come non esserci andati. O che nel tiro alla fune la forza risultante pari a 1 in direzione della squadra blu è l’unica forza in campo. È chiaro infine che due unità sono equivalenti finché non le metti in rapporto con un terzo soggetto. Lo so che 8/4 è uguale a 4/2, ma in aritmetica forse, non in fisica! In aritmetica per cancellare un otto basta scriverci sopra una stanghetta dopo un’agevole operazione mentale. Ma tagliare un tronco di otto metri in quattro parti e prenderne una non è come tagliare un tronco di quattro metri in due parti e prenderne una. Il primo, già è più ingombrante, poi lo devi tagliare 3 volte, e negli scarti ti restano da gestire 3 segmenti di 2 metri ciascuno; mentre il secondo, di già più maneggevole, lo tagli 1 volta e negli scarti da gestire ti resta 1 segmento di 2 metri. È chiaro che se la tua mansione consiste nel portarti a casa il tuo pezzo di legno, non ti importa quanto i carpentieri abbiano dovuto sbattersi per produrlo. Fatto sta che te lo fanno pagare in base a questo. Ed il numero di euro che hai in tasca corrisponde al numero di operazioni che sono state compiute per produrli. Quindi il match verte sempre sull’1-1


La forza non ammette forze inferiori. Quando un uomo raggiunge un livello di virtù dispregia e condanna tutto quello che si comporta peggio. Quando si valuta un comportamento e lo si giudica immorale è perché c’è stata gente che in quella situazione ha fatto di meglio. È una legge biologica ed evolutiva. Un uomo è felice se il mondo intorno a lui gli si uniforma. Dunque si uniforma anche alla sua virtù. Non si vuole tornare indietro: pertanto si accoglie solo ciò che si conforma al nostro stadio di virtù. Accettiamo ciò che è più grande solo se è in grado di elevarci poiché tale virtù è potenziale anche in noi, e siamo pronti ad un progresso, ma ciò non avviene qualora non siamo pronti a tale progresso perché la cosa ci logorerebbe ed allora il vizio si protegge dalla virtù frettolosa, di fatto traumatica. Quando la debolezza contingente sembra eterna, noi non ci sentiamo in grado di acquisire tale virtù ed allora ci sentiamo umiliati, condannati ad un livello di virtù inferiore: disprezziamo quindi noi stessi paragonandoci ai più virtuosi che, con la naturalezza sopra espressa, ci schiaccerebbero, sicché risulta più conveniente per il nostro ego il suicidio. Il suicidio nasce dalla sensazione di non poter adempiere alla propria natura, che si esprime sempre nella società e dunque rigettare se stessi è equivalente a sentirsi rigettati dagli altri, poiché solo visualizzando un contesto sociale possiamo farlo: ci flagelliamo tramite i loro occhi perché solo paragonati ad un ambiente noi siamo inferiori. Ma chi non ambisce ad una virtù perché essa esula dalla sua sfera sensibile non proverà mai vergogna ossia una premonizione mortifera, una morte parziale che, qualora vada ad intaccare tutto il nostro ego, diventa suicidio. Un inferiore intrinseco è uno che non ha il senso dell’onore relativo a quella virtù: perché solo possedendone le dimensioni spirituali e come dire l’involucro, noi desideriamo acquisirla e dunque riempire tale involucro, gementi di ogni suo vuoto incolmato. La vergogna non è altro che la percezione del vuoto, un vuoto che non può essere accettato perché ogni potenzialità vuole diventare fattualità. Accettarsi per quello che si è non significa solo rendersi conto di ciò che non possiamo raggiungere, ma anche rendersi conto di quello che non possiamo fare a meno di inseguire poiché la sua acquisizione rientra nella nostra natura ed è lo scopo della nostra vita. Le cose a cui siamo sensibili hanno una valenza ineludibile nella nostra vita: anzi, la nostra sensibilità è nata per rendere possibile il nostro intervento in determinati settori del mondo. Un uomo sensibile non può pensare di semplificarsi la vita diventando gretto e menefreghista, oppure ponendosi obiettivi più modesti perché quelli ambiziosi sono troppo difficili e tormentosi. Non è fattualmente possibile tradire se stessi ed i propri simili. Lo si fa per errore e ne si paga il prezzo. Se tradisci un uomo che non era veramente un tuo simile, se tradisci una bandiera che non ti apparteneva veramente, se tradisci una causa alla quale non tenevi sul serio, non sei colpevole. La colpa non è il tradimento, ma il giuramento. L’errore è stato fatto a monte: questo è un giusto rimedio. Nessun uomo può ragionevolmente essere costretto contro la sua natura. Al contrario ogni giustizia politica nei suoi confronti consiste nel convogliarlo dove la sua natura crea benefici ed egli marcia da solo svolgendo inesorabilmente e fieramente il suo compito con passione, e distoglierlo da tutto quello che non lo riguarda e che egli dunque potrebbe solo danneggiare spiacevolmente. Fare la paternale ad un uomo che non possiede il senso dell’onore relativamente ad un obiettivo, è vano. Non lo si fa sentire in colpa, perché nella sua anima non vi è alcuna lacuna in quei siti, non c’è nemmeno l’involucro di quella virtù, un organo cavo che debba essere riempito. Lui non si sente in debito, è a posto con la coscienza perché ha marciato verso i suoi obiettivi, e non gli interessano i nostri. Non lo puoi far sentire vuoto né marcio, perché manca un contenitore in cui possa stare qualcosa, sano o marcio che sia. Il rancore verso queste persone in realtà è solo dovuto al fatto che siamo stati in relazione con loro e siamo stati danneggiati, perché essi avevano una posizione che non meritavano, né sopra di noi né sul nostro stesso piano, sicché il danno che ne abbiamo effettivamente ricevuto richiede una vendetta, e noi non potendo spesso averne una fisica e non potendo togliere il personaggio infido dal suo ruolo, ecco che ne cerchiamo una morale. Vogliamo fargliela pagare con la lama del disprezzo, alla quale lui non è però sensibile e questo ci priva della nostra vendetta. La cosa ci fa imbestialire ancora di più perché vediamo che lui non soffre nonostante sia un miserabile e abbia compiuto danni. Ma se non soffre, egli non gode nemmeno. Se una cosa non ti interessa non ti interessa nel bene come nel male, egli non sente di aver vinto su di noi perché non ha di fatto mai affrontato le stesse battaglie, non sa nemmeno dell’esistenza di certi obiettivi e di conseguenza delle relative difficoltà, sentimenti e pensieri. Noi ci sentiamo sconfitti da lui senza che lui si senta vincente su di noi. Semplicemente egli non doveva trovarsi in quel ruolo, ma in un altro in cui noi avremmo potuto ignorarlo senza rancore. Il nostro errore è stato entrare in contatto con lui, metterci a competere con uno che non persegue le stesse cause. Ma se lui davvero fosse in grado di rendersi conto del male che ha fatto, nella stessa misura non sarebbe malvagio, ed in tal caso il vero responsabile del male è l’insieme di fattori che lo hanno messo in condizioni di fare il male, dunque elementi materiali e intellettuali. Non ci si vendica di chi non ha onore, egli non si sente vincente su di noi, perché non abbiamo mai avuto gli stessi obiettivi. E come la virtù è premio a se stessa, così il vizio è punizione a se medesimo. Quando un uomo nobile sbaglia, non merita invero alcuna punizione dall’esterno, perché appena si rende conto di aver sbagliato ne soffre, ed automaticamente si mette all’opera per rimediare. Quando un uomo ignobile sbaglia, non riesci ad offenderlo moralmente, perché egli non distingue il bene dal male, e la punizione fisica può essere per te uno sfogo ma non per lui una fonte di correzione. Egli non può migliorare, se per natura è malvagio o stupido che dir si voglia, si può solo toglierlo dalle locazioni in cui danneggia gli altri. Le promesse e le minacce, i premi e le punizioni, sono incentivi innestati in un corpo sociale già iniquo e discrasico, non meritocratico, in quanto gli uomini posti nei loro ruoli spontaneamente adempiono ai loro doveri senza bisogno né di regalie né di punizioni di alcun genere. Si è pensato di stimolare l’azione con alternative fonti di gioia e dolore, rispetto a quelli che l’uomo avrebbe tratto dal semplice esercizio corretto o scorretto della sua attività. Ma laddove gli uomini non fanno le cose spontaneamente, non dovrebbero essere tenuti a farle: essi non meritano quel ruolo. Fatto sta che l’impostazione non meritocratica cui si è abbandonata la società ha necessitato la seguente produzione di normative penali e campagne di promozione della Responsabilità. La responsabilità è data dall’unione di Competenza ed Onestà.
L’onestà conosce il fine, la competenza i mezzi. In sostanza questo sistema ha dato la possibilità agli immeritevoli di arrivare a ricoprire praticamente qualsiasi ruolo, e dacché sollevarli non è comunque facile a causa del sistema stesso, noi siamo costantemente a rischio di venire fottuti da farabutti ed incapaci di ogni risma, e ci difendiamo con una Legge che, anche qualora giusta, è diventata più difficile da difendere che non la criminalità. Ma è la stessa legge fondamentale dei nostri stati moderni a permettere questo, in quanto che è democratica e pertanto non meritocratica. In definitiva la Giustizia in uno stato richiede di essere difesa perché non esiste.


Tutte le strade dovrebbero avere tre corsie

1) per gli impiastri
2) per i pirati
3) per i piloti

Ma il pilota si definisce dalla capacità di districarsi in mezzo agli impiastri ed ai pirati


La democrazia dichiara di essere la culla della cultura mentre il totalitarismo essere privo di cultura.
In questo modo la fautrice del confronto ha estromesso il suo avversario dallo stesso ambito concettuale del confronto: si può essere più scorretti? La cultura non è altro che la disciplina della battaglia, è l’intelligenza che la indirizza in maniera vincente. Un uomo colto non è altro che un uomo che sa combattere. Una cultura che non costituisca un aumento delle nostre prestazioni belliche e dunque del nostro benessere è fatta solo di pigrizia e viltà, ovvero l’antitesi netta della disciplina esistenziale, ossia bellica. Quando un uomo si rende conto di saper affrontare meglio una situazione che prima lo angosciava, ecco che egli si sente più colto. Non invece l’uomo che abbia letto, visto, ascoltato, imparato, elucubrato, discusso, ma si ritrovi, nelle perigliose arene della vita, allo stesso punto di prima, nelle stesse difficoltà. Il primo uomo è invidiato dal secondo. Non il secondo dal primo.


Ogni forma di istruzione deve condurre alla guerra.
Cosa deve imparare l’uomo? A riconoscere i suoi nemici e ad annientarli.
Niente altro può donare la felicità. Ogni istruzione che sia negletta di questi risultati è mediocrità o impostura. Di cosa abbisogna l’uomo? Di una Bandiera e una Spada. Quando è seduto a riflettere, egli pensa come procurarsele, e di niente altro soffre che della loro mancanza, dacché i suoi nemici le possiedono invece e le hanno usate efficacemente contro di lui. Una bandiera indistinta e una spada poco affilata sono le angustie del guerriero, ossia dell’uomo nel suo concetto più genuino. Non si può combattere se non si conquista prima sé stessi. Ossia non si conquistano la propria bandiera e la propria spada. La bandiera è dentro di noi, si tratta di portarla alla luce. La spada è la nostra capacità combattiva potenziale, il nostro stato di forma ideale. La piena consapevolezza di sé stessi e la padronanza dei propri strumenti bellici costituiscono la Fierezza. Chi non è fiero è facilmente destinato alla sconfitta. Vi è uno stadio in cui i pensieri divengono pallottole: ed è allora che saremo liberi. L’eccitazione nello stendere cadaveri ci dirà chiaramente che è finito il tempo dei giudizi ed è arrivato il Giorno del Giudizio, che il nostro percorso conoscitivo è compiuto, e non vorremo più fare altro, sentiremo che non avremmo mai dovuto fare altro, solo che non abbiamo potuto. La Razionalità ambisce alla pura Istintività. La razionalità è l’istinto che insegue la propria pienezza. La razionalità non è altro che una istintività più cauta, che non riesce a identificare prontamente il nemico oppure non ha e forze sufficienti per abbatterlo: L’esperienza l’ha vista colpire nel vuoto, essere traumatizzata o punita. Tale istinto acerbo si diffrange allora in molteplici rivoli, entro i quali sa invece cogliere amici e nemici, si allea coi primi, schianta i secondi, sin dove ne ha le forze, ed aggira un nemico centrale che è troppo forte o che possiede una identità incerta. Ma la sua ostilità può essere dedotta dalla sua discendenza da nemici già acquisiti, già evidenti: questo il senso di ogni ragionamento. L’istinto è trasformista in funzione dell’ambiente, quando è insicuro o debole, imperioso e tempestivo trasformatore di esso quando è sicuro e forte.


Il coraggio è il comportamento che consegue ad una qualsiasi pienezza d’essere.
Ma coraggiosi si nasce o si diventa? La risposta è che si nasce e si diventa. Ogni uomo ha una innata statura i cui limiti non possono essere oltrepassati: egli ha una capacità mentale ed una capacità fisica determinate a priori e che dunque pregiudicano anche il coraggio massimo che egli potrà mettere in campo nella vita, ed in tal modo su quali campi è opportuno che egli venga posto ad operare, in quanto ne è all’altezza, oppure no. L’esperienza però ci mostra come un uomo non riesca ad essere coraggioso, ovvero a sfidare il mondo esterno senza compromessi per l’affermazione della propria volontà, se non conosce pienamente e chiaramente le sue ragioni o se si trova in un cattivo stato di forma fisica: quando egli sia dunque ignorante o debole, non sia dunque pieno nella bandiera o nella spada. Ma poiché l’uomo può essere ignorante o sapiente solo di sé stesso, di chi tosto egli sia, e può essere forte o debole solo relativamente ai propri fini, a dove diavolo voglia arrivare, ne consegue che un uomo che sia pieno di se stesso non possa fare a meno di comportarsi coraggiosamente. La misura di coraggio che dimostriamo sul campo varia unicamente in funzione del prodotto tra Bandiera e Spada. La forza della mente per la forza del corpo. Possiamo constatare nella storia della nostra vita come, in tutte le occasioni in cui il nostro coraggio ha difettato, è perché eravamo infrolliti nel corpo o manchevoli nella mente. Quando invece siamo stati coraggiosi è stato sempre perché sapevamo il fatto nostro e dotati del vigore corrispondente nei punti del corpo necessari a mettere in moto quelle nostre certezze trasformandole in azioni. Come in ogni prodotto, se uno dei due fattori è nullo, il risultato, anche, è nullo: e noi diciamo allora che la nostra sapienza è sprecata perché non abbiamo i mezzi per affermarla positivamente oppure che sprecata è la nostra forza perché siamo impossibilitati a metterla a frutto con l’intelligenza. La mente e il corpo hanno dunque bisogno l’uno dell’altra, ed ogni acquisizione, successo, vittoria, atto di forza, non possono che risultare dalla loro sinergica prestanza, da quella virtù di essi che non può venire a mancare in quei precisi punti che devono contrastare una realtà esterna. Quando un uomo sente se stesso, non ha bisogno di sentire altri, e sentire altri sarebbe vano, perché le loro ragioni non sono le sue, perché il loro scopo non è il suo, perché gli altri non son lui: poiché essi sono nemici. Quando conosci te stesso, hai conosciuto infatti, necessariamente, anche gli altri, poiché il processo di definizione è un processo di separazione, ed avviene a partire da uno stato di promiscuità. Tutti gli errori contingenti non sono nostri e sono pertanto scusabili. Noi eravamo contaminati: non abbiamo potuto agire nella nostra pienezza e non siamo pertanto responsabili del nostro fallimento che, equiparata la forza al coraggio, imputiamo alla vigliaccheria, termine in cui si traduce ogni incapacità. Dal momento infatti, che la forza sola determina, prescrive, assolutamente consegue nel coraggio, ed il coraggio non è altro che la manifestazione della nostra forza, la visibilità, l’operatività di essa nelle arene della vita e dunque nel contatto con il mondo esterno, possiamo usare i termini forza e coraggio come sinonimi.
Perché se sei forte sei anche coraggioso e se sei coraggioso sei forte.
Non è dunque corretto dire che un uomo è stato debole e codardo, perché la seconda cosa è corollario della prima, ma questa separazione concettuale che spesso trova spazio nelle discussioni illustra la consapevolezza della distinzione tra contingente ed intrinseco. Infatti esiste un coraggio figlio delle condizioni in cui la vita ci ha posti, e ne esiste uno che prescinde e precede da queste condizioni, e raggiungerlo, operando con quello stesso coraggio che mai si separa da noi e che solo viene posto a confrontarsi con una situazione più difficile e dunque non in condizioni ideali, è lo scopo prioritario della vita, cui consegue il secondo, ossia la battaglia per la propria posizione. Prima dobbiamo diventare noi stessi, riempire il nostro ego personale, poi diventeremo il Mondo, riempiendo il nostro ego cosmico, annettendo in noi anche tutte quelle parti che, nella nostra identità personale, sono ancora manchevoli. Infatti un uomo, non potendo mutare la propria anima, la propria statura naturale, è sempre coraggioso nello stesso modo, quale che sia il suo livello di forza contingente, poiché in realtà egli risulta debole nelle locazioni particolari solo perché sta invero affrontando una battaglia molto più difficile: egli deve contrastare tutti quei fattori che lo discostano dalla sua identità (sua vera meta), e che spesso superano di molto quell’esiguo insieme di fattori in rapporto ai quali i personaggi esterni pretendono di giudicare la sua forza intrinseca, dal momento che lo vogliono diverso da quello che è, fraintendono la sua natura e gli attribuiscono un ruolo, nella loro stoltezza, verso i loro scopi. Dal momento che ogni uomo ha un solo scopo, il suo coraggio va valutato solo in relazione a quello scopo. Ma dal momento che nessuno ambisce a quello che non può realizzare, lo scopo è contenuto nel bagaglio iniziale delle sue qualità, e lo raggiungerà senza dubbio, quale che sia il Tempo (ovvero il numero di fattori avversi) necessario a diventare quello che è. Siamo dunque tutti coraggiosi abbastanza verso quello che vogliamo fare e si compirà dunque il nostro destino. Ma nel calderone sociale dove ognuno è costretto da una struttura insana ad affrontare quello che non gli compete, nei nostri obiettivi contingenti dunque e quindi eteronomi, siamo invece tutti quanti, sostanzialmente, sempre vigliacchi, cioè inefficienti, imperfetti: otteniamo dei risultati non completi, ed insoddisfacenti sia per noi che per il prossimo, a meno che non ci imbattiamo in una improvvisa affinità dei due percorsi, e dunque il bisogno nostro e quello del soggetto esterno si concilino alla perfezione. Il mondo è vile, e dunque non funzionante ed infelice, solo perché è disorganico, e diventa sempre piè vile quanto più si insiste a mettere le persone fuori luogo: un luogo nel quale non è possibile che essi abbiano prestazioni eccellenti,
e analogamente vengono loro precluse le prestazioni eccellenti che avrebbero altrove.
Il fatto che ogni uomo abbia dei limiti intrinseci alla propria virtù e che detenga un solo scopo a cui queste virtù sono correlate e consustanziali, ha dunque due conseguenze: 1) Che ogni uomo nella sua pienezza si comporta in maniera coraggiosa ovvero si pone all’affermazione esterna senza indugio, esitazione, cautela, premura, risparmio, scrupolo, paura, rinuncia, compromesso.

2) Che in queste condizioni di purezza il più forte è destinato a vincere, dunque a conquistare il suo ruolo naturale, dal quale poi compirà i suoi atti di organizzazione di ogni subalternità. Il motivo per cui la guerra tra puri è incruenta è che i puri non si sfaldano né scalfiscono: essi confrontano orbene non la loro quantità, ma solo la loro qualità. La loro forza qualitativa (densità intrinseca di materia, agente in maniera unitaria) e non la loro forza quantitativa (aggregazione massiva di soggetti, agenti di fatto separatamente). 

Di fronte ad un trivio l’uomo d’onore vuol prendere la strada più difficile ma che egli sa condurre la più alta meta. Persegli non sia pien di bandiera e spada, inesorabilmente esita. Tuttavia la forza dell’ideale, fattivo il suo legame all’idea, la meta, lo trattengono ben sullo snodo del campo a ponderare sul da farsi, perché il suo stato di forza contingente or non gli consente una rapida scelta tra una ritirata ed un proseguimento ardito, oppure un ripiego sulle strade d’ammezzo,
poiché per saper qual sia la scelta migliore, coerente col suo livello intrinseco di altezza spirituale, vi è bisogno adesso di una nuova esperienza: non consentitagli questa, precedentemente, dalla vita, in preparazione di tale prova, egli la ottiene ora sul campo, da quella offertogli in gestione. Il guerriero, impedito nelle naturali sue movenze, trasforma in filosofo e come tale prosegue la battaglia interiormente, sin che una sua vittoria in tal terreno non lo rianimi, con nuova luce di giorno e affilata luce di spada, sicché di nuovo agguanti egli la seconda ed affronti il primo, fosse anche il buio della notte. Ogni uomo ha imparato come tali due soggetti collaborino in duetto che vede sempre voce principale una e controcanto, poi invertiti i ruoli: dacché la vita ha scompigliato i ranghi e non possa l’uomo trovar se stesso che binomial mente agendo, in compromesso che tuttalavia si fa sempre men stridente, man mano sia che la sua forza cresca, tra azione non completamente illuminata e conoscenza non completamente agibile. Inesperto l’uomo e circondato da nemici, sarà egli sempre, lungo la sua vita, determinata via di mezzo tra Spada Cieca e Genio Paralitico… ma Spada Geniale egli fu in origine, pria della catastrofe, il peccato originale. Tale egli ritornerà alla fin dei tempi, rincucciando con fiera maestà le bestie cieche alla paralisi che sola essi meritano. Egli si trova orbene in condizioni non ottimali per adempiere alla sua natura, poiché solo può empire l’esterno chi già sia pieno all’interno: ma sa che dee compiere scelta comunque onorevole, la qual sarà, sempre, di valore analogo a qualsiasi altra sua scelta precedentemente fatta o compita in futuro. La prossima volta egli saprà decidere più rapidamente, nella stessa situazione, e la sua scelta sarà di fatto quella giusta perché già lo è stata la volta precedente, spinta dal profondo della sua virtù anche priva degli esteriori avalli, e destinata adunque, col tempo, a prendersi anche quelli avalli e compire il suo percorso. Egli non prevede adesso se il suo istinto lo porterà a scegliere ugualmente la china più perigliosa o la ritirata più agevole, né opzione una intermedia: sentirsi può mentre lo pondera, e quando infin decide. Egli sente il suo rifiuto all’idea di tornare, di ripiegare in giù la strada battuta, seppur lui stesso, lui, l’avea battuta. Non sente però ahimè, dentro sé adesso, abbastanza coraggio per prendere la più difficile: il rapporto infatti di corpo e mente è oggettivamente insufficiente a determinare l’azione. A tal punto soltanto, siddue fattori interni, posson di già aumentare il suo coraggio, dacché la diminuzione delle avversità esterne è caso che non prendiam in considerazione: parlan staremmo infatti, di un’altra sfida. Questi fattori sono, semprancora, aumento di forza material o conoscenza propria. Se forza non cresce, e non vi son accessi, di razional memoria o esterno senso, a nuove cognizioni, qui unica visione, che possa consentire, annoi di proseguire, sull’impervio cammino, è quella lei che svaluta, stoica le conseguenze, in rapporto all’obiettivo finale. Diciam noi non importa, codel qu’accada: quanto sia negativo, è desso giusto. Ossia che desso serve, la nostra meta meglio, di qualsicaltra opzione, or sia nella coscienza – ad esempio il tornare indietro nella prospettiva di rilanci migliori o percorsi alternativi, od anco scegliere strada d’ammezzo il cui né carne né pesce non migliorerebbe significativamente né la fattura della bandiera né la nostra qualità di armigeri. In tale caso noi accettiamo, com di natura il nostro destino, d’esperienza la sua attual spiacevolezza, qual gradino necessario, e procediam con ferma audacia, sia quello che sia, ma senza più esitare: noi quivi abbiamo infatti, preciso in quel momento, ben superato un riflessivo snodo, siam approdati a conoscenza nuova, che ci consente anuovo di procedere, posar bene il pensiero ad imbracciar l’azione. Tutte le azion sono formative pel pensiero, sia le vittoriose e piacevoli e dolorose le sconfitte. La nostra potenza mental intrinseca sempre è la stessa. Imperossia nella vittoria essa vien trasferita su un piano superiore, e quella perdita di sensibilità che investe il già acquisito e ci rende inadatti a parlare o dar consigli a coloro che ancor si trovano braccati da infelicità più basilari è fondamentale, acciocché essa si concentri a ben percepire la tension tra il nuovo stato e quel che manca da raggiungere: essa espande, od innalza dunque, la visuale a coglier nuovi elementi non conformi, negativi, dolorosi pertanto, necessariamente, saranno i nuovi essi avversari da affrontare, saranno ossia la prossima sfida. L’esperienza di una nuova sconfitta invece, ben lungi anch’essa dallo spegnere il lume della nostra ragione spegnendo la sensibilità senza cui quella è nulla, porta ad analoga anche se inversa quivi traslazione del pensiero, che stavolta è regressione sopra stadio inferiore di applicazione, e non di certo – sia ben chiaro – degenerazione dello stesso: non si tratta mai di una capacità inferiore di ragionare, ma di ragionamento d’argomento inferiore, che pure è necessario a risalir la china verso gli alticieli. Quando sei in basso la reazione monocorde del tuo spirito, che è uguale a dire del tuo corpo, investe una serie di sostanze che pria non ciangottavi né all’interno né all’intorno: per liberar di queste, metti in moto spada e bandiera nello stesso modo di chi gioca la sua partita più altolocata, e dunque con lo stesso andamento sodale, e che giammai può esser paritario senza perder cognizion differenzial tra le due voci, che son a dir bene unisono ognevoltaqual la nostra azione sia vincente. Finanche nella rosa dei progressi che portano a cotesto unisono di fiume principale, mente e braccio son già in sintonia negli affluenti e nei flussi componenti in cui s’era trovato suddiviso il grande, laddove in ogni rivolo corpo e mente han lavorato, unisoni, pensando il primo agendo la seconda.


La principale e disastrosa conseguenza della dottrina del libero arbitrio, una dottrina per questo motivo criminale, è che interrompe l’indagine della realtà nel suo sviluppo causale. Ad un certo punto, grazie a questa dottrina, nel risalire la catena degli eventi ci si ferma ad un suo anello, il più delle volte colui che si ha esigenza di incolpare, e gli si conferisce la completa responsabilità dell’atto; quando naturalmente lui è solo un anello, uno dei tanti fattori in gioco. In questo modo molti elementi di fatto colpevoli non vedono denunciata la propria debolezza e non possono essere corretti, mentre si esagera la debolezza dell’elemento incriminato. Nasce così l’ingiustizia.


Non bisogna mai prendersela con la colpa contingente, ma solo con la colpa intrinseca, caratteriale, originaria, costituzionale: insomma non con l’operari, ma con l’esse. L’operare è conseguenza dell’essere e ciò significa che è colpa dell’essere strutturale, dunque della struttura che sancisce la compresenza e la correlazione infausta tra due esseri, il cui risultato è il danno. Questo danno è una contaminazione perniciosa di altri esseri, ovvero la loro degenerazione o indebolimento. L’essere dei singoli enti diventa operari in conseguenza dell’ingiustizia, ovvero del loro infausto posizionamento, della fallacia e dunque spregevolezza della struttura. Infatti l’operare è moto, e scopo del moto è la quiete. La libertà d’azione è gradita non perché l’azione sia un bene in sé stessa, ma perché può giungere, se illuminata, alla quiete. Distruggere la causa del male è la nostra reazione istintiva quando subiamo un danno. Se non fosse che questa reazione è 1) cieca, oppure 2) la vera causa prima del danno non è direttamente accessibile, sicché sfoghiamo la nostra opprimente emozione sull’ultimo anello, quello che è entrato in diretto contatto con noi, mettiamo l’auto che ci ha urtato o la persona che ci ha innervosito. In questo modo scarichiamo una parte del nostro male, che comunque andrà curato completamente, all’esterno e questo costituisce sicuramente un parziale rimedio, perché legami perniciosi sotto forma di sostanze soffocanti che si erano create in noi vengono di fatto dissolti, noi sputiamo del materiale tossico che non doveva trovarsi nel nostro corpo: se non fosse che in questo modo creiamo un danno al personaggio esterno. Un danno di solito maldestro e incontrollato, impreciso, arrischiato, senza aver la certezza che poi quell’anello della catena del male abbia la possibilità di scagliarsi a sua volta sull’anello precedente, e quest’ultimo fare altrettanto col suo carnefice, sino a che il male non ritornerà all’originario colpevole: e sottolineo, per distruggerlo, non per punirlo, poiché la punizione, la pena, il procurare una sofferenza, sono un rimedio sospettoso e infido. Ogni sofferenza è sintomo di un aumento dell’entropia, un allontanamento dall’ordine, quindi dalla quiete e dalla felicità cosmica, che è quella di ognuno. I legami infausti vanno rotti. I legami benefici vanno ricomposti. Ma nessun elemento può cambiare posizione ovvero infrangere un legame, una relazione, senza al contempo creare un nuovo legame: per cui distruzione e costruzione sono due facce della medesima medaglia. Avvicinamento e allontanamento, ovvero gradualità nell’accoppiarsi o dividersi tra due elementi sono di fatto creazione e distruzione completa, poiché priva di parti, di legami più piccoli facenti parte di esseri più grandi. Quando un processo richiede un tempo per compiersi, il tempo è direttamente proporzionale alla complessità dell’oggetto ovvero al numero di elementi di cui è composto. Il mondo è quantizzato. Quando un processo di riassestamento di un legame fausto che era stato spezzato costa fatica, significa che il processo comporta la rottura di altri legami fausti. In termini pragmatici, il rimedio ha un costo, che talvolta può superare il vantaggio stesso, allorché si dice che non ne vale la pena, che il gioco non vale la candela o che la pezza è peggiore del male. Ma quel costo, ha anch’esso il più delle volte un’origine plurima e dunque non va addossato tutto alla causa esterna del nostro male, poiché non soltanto sua è la debolezza, o magari per niente sua, che era malcapitato in quel posto per errori strutturali, bensì anche di tutti quegli elementi che ci hanno reso fragili, poco resistenti ai colpi e alla difficoltà dei recuperi, determinando appunto quel danno ulteriore. Se noi siamo infine deboli intrinsecamente, dobbiamo essere allora dissolti oppure riposizionati. Dissolti, se il nostro essere non può felicitare né essere felicitato in alcun contesto. Riposizionati, qualora tale felicitazione sia invero possibile, e quindi la nostra debolezza divenga forza, non appena venga stroncata la vera debolezza che in tal caso è nella struttura sociale. Tutte le debolezze, ossia tutte le colpe, vanno annientate. Un atteggiamento poco accorto ne distrugge solo alcune oppure addirittura aggrava la situazione creandone di nuove, spesso tramite brutali punizioni.


Inneggiamo alla Coerenza come alla regina delle virtù. Eppure l’uomo coerente con idee sbagliate fa solo del male, non del bene. Anzi, vista la quantità di idee sbagliate che scorrazzano in giro, si diffondono e prolificano, se qualcuno riesce a fare del bene dobbiamo spesso ringraziare la sua incoerenza, come anche, altrove, il suo assoggettarsi alla guida d’altri, l’assenteismo, l’evasione, l’estraneità, oppure la mentalità servile. Tuttavia se sei coerente con idee sbagliate dimostri almeno che sai ragionare e cogliere premesse minori. In effetti quando scemano le valutazioni morali legate al cuore si continua, e stavolta ragionevolmente, ad apprezzare o disprezzare quelle qualità dipendenti dall’intelligenza. Solo con una idea giusta si può essere coerenti fino in fondo. Le idee sbagliate stridono sempre con qualcosa. In quest’ottica, identificando la coerenza con la pace, e con l’unica pace possibile, diviene corretto dire che la coerenza è la regina delle virtù, anzi la virtù in sé stessa, poiché tutte le virtù umane: salute, forza, intelligenza, sensibilità, coraggio, che portano verso di essa sono già in sé stesse forme parziali di coerenza, interiori, che appunto vogliono estendersi al Tutto. Il motivo per cui si tende ad apprezzare comunque un uomo che professa idee da noi non condivise, purché sia coerente con esse, deriva da un oscuro sentore della verità che ho appena enunciato. Sentiamo che l’uomo coerente con idee sbagliate potrebbe essere vicino al Bene quanto colui che è incoerente con idee giuste, ed anzi più vicino di quest’ultimo. Infatti, al primo potrebbe bastare una fulminea illuminazione per spianare tutte le sue virtù, tutto il suo bagaglio di coerenza, verso uno scopo più giusto, verso una coordinazione più vasta. Mentre l’incoerente ha ancora molta strada da fare. In questo modo egli tende a produrre un danno maggiore e per questo motivo viene spregiato. Il dominio dell’ideale individualista contemporaneo avalla ancor di più questo modo di valutare. Non si ha la percezione del legame presente tra tutti i fenomeni del mondo, li si considera in buona misura distaccati ed anzi se ne esalta la competizione, che sul piano sociale produce molta incoerenza, sebbene potenzi il singolo che da essa esce vincitore. Mentre la forza personale, la coerenza, viene appunto ritenuta indispensabile per raggiungere degli scopi ed essere un uomo vincente, e allora si rispetta l’uomo che presenta queste caratteristiche, visto che la coerenza cosmica, anche laddove costituisca un ideale riconosciuto, viene comunque considerata utopica. Inoltre, sempre all’interno della mentalità competitiva, dai più fondamentalmente accettata, l’uomo coerente viene apprezzato come il nemico dichiarato, che ha il diritto di essere nemico purché abbia questa correttezza e non cambi continuamente faccia, e ci consenta in tal modo di giocare la nostra partita. L’ideale individualista rimane molto pericoloso, ed illustra una contrapposizione umana assai significativa. Da una parte c’è l’uomo che vuole rinforzarsi, ottenere una maggior coerenza personale, ovvero una pace interiore, nonché una posizione di potere allo scopo di fare la guerra al resto del mondo. Dall’altra un uomo che sente di dover fare la guerra a molti elementi di questo mondo per ottenere una pace interiore, una forza, ed anche una posizione sociale che gli consentano di lottare per la pace nel mondo. I grandi imperialisti della storia fanno parte della prima categoria. La più grande benedizione che si possa avere è quella di un uomo che ha raggiunto la forza personale, la coerenza, il potere, e lo utilizza non per la cieca conquista ma per il bene del mondo. Il tiranno buono, il tiranno illuminato.


So che l’artista deve prediligere il fuoco interiore e l’analisi dell’esperienza che sta vivendo, sulla quale si innestano gli esperimenti creativi ed il serrato lavoro, che giammai deve distogliersi da questo per prendere in mano opere altrui, illudendosi di trovare in esse maggiori illuminazioni.
Se fa questo egli tenta di risparmiarsi una fatica produttiva preferendo un’altra fatica che poi risulta poco produttiva, ovvero lo studio di testi altrui, che deve invece innestare nell’intorno di un processo creativo personale, per trovare suggerimenti allorché si trova bloccato nel proprio autonomo lavoro, per avere informazioni ed espandere l’argomento, ma avendo la necessaria percezione personale della problematica che affronta, cosa che lo rende un critico più rapido e avveduto, qualora anche la belligeranza critica rientrasse nei suoi obiettivi o necessità, poiché il suo valore si confronta adesso in maniera più regolare con quello altrui, si illuminano più chiaramente fattezze caratteriali, inclinazioni, punti di divergenza, egli capisce dove può decisamente abbandonare un autore e dove invece chiedergli aiuto, imparare da lui ed anche sfruttare il suo lavoro, appoggiandosi ad esso come è giusto, in modo da non vanificarlo qualora fosse davvero stato onesto e valido. Naturalmente tutto questo non può essere generalizzato ad ogni forma di studio, poiché se devi studiare la storia non puoi aspettare di trovarti nella stessa situazione dei grandi personaggi, poiché di fatto di lassù devi agire tempestivamente, altro che studiare, dunque lo studio di tali personaggi deve basarsi molto su di uno sforzo immaginativo che espande mentalmente quell’esperienza di vita che di fatto abbiamo e senza la quale non potremmo giammai comprendere nulla di ciò che leggiamo, e valutare non tanto la forza e l’intelligenza di tali personaggi, un giudizio invero inaccessibile a chi non s’è mai trovato nei loro panni, quanto invece gli esiti finali e i risultati del loro operato. Per farci un’idea della fattibilità delle cose, delle conseguenze, e non ripetere gli stessi errori. Dissi infatti che le lunghe parentesi di studio, che sono necessarie oggi e che fruttano dell’esperienza altrui, sono determinate dal fatto che il mondo si è complicato, danneggiato ed inquinato poderosamente, sicché l’intervento di un uomo dissennato ed ignorante non potrebbe che essere fallimentare, per quanto fosse energico, determinato, generoso ed eroico nella sua ingenuità. Mentre se gli uomini d’oggi, almeno quelli più intelligenti che adesso studiano per riformare le cose, fossero vissuti prima che il mondo degenerasse, in quella maggiore semplicità avrebbero di fatto impedito tale degenerazione, sarebbero felici d’aver ben gestito la situazione ed imparato dall’esperienza diretta qualcosa che avrebbero potuto utilizzare in seguito per risolvere altri problemi. Concludiamo logicamente che la vastità degli studi debba essere direttamente proporzionale all’ambiziosità della propria causa ovvero della grandezza del problema che vuoi risolvere. L’ignorante che millanta d’aver ambizioni radicali è solo un impudente, mentre se davvero ha di cotali ambizioni deve avere anche l’intelligenza di capirne i mezzi, la pazienza coraggiosa di acquisirli, nel clima fetido di dura sopportazione e vasto disconoscimento che un atteggiamento di ricerca comporta. Giacché i mali imperversano senza aspettar le nostre soluzioni, spesso nessuno ci aiuta a contenere i danni personali che riceviamo dagli elementi molesti che seguono una filosofia sbagliata, quella che noi abbiamo il desiderio di stroncare alla radice, come farebbe un buon servizio di polizia o un buttafuori che allontana fogne, imbecilli e teste calde dal nostro locale preferito, e le nostre passioni premono per essere esternate anche allorché non possediamo ancora le armi per rendere tale sfogo vincente e risolutivo, non già controproducente. Inoltre, mi rifiuto di definire coraggioso un uomo che agisce senza rendersi conto dell’effettiva complicatezza e vastità di una causa, della quantità di fattori che potrebbero danneggiarlo gravemente con probabilità assai vicina alla certezza nonché far fallire miseramente la causa assieme a lui, e che grazie alla sua pochezza e pigrizia mentale giova quasi sempre di un umore sereno, una mente lucida e di una notevole energia fisica. Se costui vuole risolvere la causa grande coi mezzi sufficienti appena per le cause piccole, è un cretino. Ma può essere un prode combattente invece, se si dedica a qualcosa di meno ambizioso eppure utile, le cui conoscenze sono rapidamente reperibili per via empirica personale o giovando della tradizione ricevuta dai libri, o della guida di un leader più anziano che già ha avuto i suoi modi di crescere mentalmente. Fatto sta che il morbo è soltanto uno, ed ognuno deve collaborare coi suoi mezzi e la sua personalità, mentre sia nell’ambito combattivo della ricerca che nell’ambito combattivo dell’azione, nonché tra i due ambiti analogamente combattivi, si attua una bieca e deplorevole guerra tra vittime, anziché mostrare una compatta compagine agguerrita verso i veri nemici, ovvero i mali che tutti ci affliggono. La cultura, che parte dallo stato naturale di guerra e costituisce in se stessa una guerra, è la preparazione teorica della guerra pratica, e nella prima come nella seconda occorre rispettare i principi collaborativi e gerarchici. È deprimente che ogni Uomo, che essendo tale ha dentro di sé uno scopo intrinseco e una potenzialità combattiva, debba innanzitutto lottare per il riconoscimento della propria identità positiva e del proprio ruolo, ovvero della propria dignità, e finalmente essere lasciato a combattere in pace. Filosofie scorrette e pensatori disonesti vanno combattuti dai filosofi, non da altri che non ne hanno il titolo. Poi, se al filosofo resta il tempo per agire in ambito più particolare, contro qualche manifestazione singola o intermedia di quel male, potrà sempre farlo, oppure occuparsi ancora di una questione teorica ma più specifica, per ovviare ad una mancanza degli specialisti. In generale, un uomo pratico può sporadicamente fare le veci di un teorico, qualora si senta da questi tradito, dal momento che analizza le conseguenze del suo pensiero e le vede negative. Un teorico può darsi alla pratica quando veda che alcuni non sanno applicare correttamente le sue idee, allorché le abbia già raggiunte e che esse siano diventate dominanti oppure qualora egli debba partire dal basso, istruendo i singoli e non già i suoi diretti sottoposti in un ordine gerarchico ancora da costruire. Analogamente, se restiamo all’interno dell’ambito dell’azione, un soldato semplice può discutere gli ordini di un suo superiore qualora si renda conto che sono stupidi e folli e abbiamo esiti sanguinosi, così come un gran signore può abbassarsi talvolta a svolgere il lavoro di un servo maldestro. Allo stesso modo, all’interno dell’ambito della ricerca, ecco che un geometra può correggere un architetto, un divulgatore uno scienziato, un precettore un filosofo, un infermiere un medico, un insegnante di musica un compositore. Ognuno di noi possiede invero un’ampia rosa di capacità che gli consentono di cavarsela qualora si ritrovi nella vita quotidiana, cosa che non dovrebbe mai succedere, a dover svolgere ciò che compete ad altri, improvvisando oppure giovando di preparazioni plurime e parallele alla sua attività centrale. Questa versatilità e plasticità dell’uomo sembra una benedizione, innestata in lui da una natura provvidente verso la complessità della vita o meglio la sua caoticità e struttura cangiante, senza che un errore all’apice del sistema procurasse il collasso generale della struttura che verso il basso si adegua ed esegue le direttive senza riflettere né poter porre un freno. Fatto sta che la struttura è partita dall’assenza di struttura, e l’evoluzione delle strutture non è altro che una serie di esperimenti falliti e ritentati con delle modifiche, poiché ogni elemento cerca istintivamente il suo ruolo e la conseguente realizzazione delle sue potenzialità ed anzi, il ruolo in sé è accidentale, vi si perviene cercando di realizzare le proprie potenzialità, arrampicandosi in una struttura invero già esistente, o ancor rendendosi conto che puoi agire anche dal basso, profittando d’una struttura che non riesce a dominare tutto e lascia spazio a fenomeni che agiscono contro dessa. Quando gli insegnanti stimolano gli allievi a pensare con la propria testa, vi sembra di poter avallare con leggerezza e senza riserve questa prassi come benefica? Non è questo indice del fallimento istituzionale? Una istituzione funzionante ti istruisce in tutto ciò che ha riconosciuto tu non sia e non sarai mai in grado di fare da solo, e ti vieta e ti impedisce di fare altro. Qui l’insegnante ammette invece di non aver nulla da insegnare e dunque annulla il valore del suo stesso ruolo, conservandolo altresì nel seguente insegnamento, ovvero che il sistema è fallace, dovete arrangiarvi, oppure ingegnarvi voi per costruire qualcosa di alternativo. L’insegnante dimostra altresì di non saper operare una selezione tra gli allievi, assumendo un principio egualitario per evitare di sbagliare precludendo la strada ad un individuo meritevole, sottovalutando il fatto che lasciare invece aperta la strada a molti individui immeritevoli potrebbe essere assai più nocivo, come dare armi pericolose ad un pazzo, oppure perché effettivamente si pensa che chiunque sia in grado di ottenere dei risultati validi pensando con la propria testa. Sarebbe un buon consiglio, quello di dire ad una gallina di volare con le proprie ali, ad una talpa di vedere con i propri occhi, ad un nano zoppo di giocare a pallacanestro? E magari ammettere la possibilità che la gallina, la talpa ed il nano assumano ruoli dirigenziali negli spostamenti aviari, nelle scienze osservative, nello sport. Del resto quando un uomo che è ufficialmente inferiore ad un altro e si permette di correggerlo, con questo si dichiara fattualmente superiore e meritevole lui di ricoprire quel ruolo, a meno che non rientrino nello statuto del suo ruolo inferiore il compito e l’abilità di correggere sporadicamente gli inevitabili errori del maestro quando questi è stanco oppure oberato di lavoro, che l’inferiore non sarebbe comunque in grado di svolgere complessivamente. In quest’ultimo caso non son messi in discussione i ruoli, ma solo la loro fisionomia. Nel caso precedente invece sono messi in discussione i ruoli, son tutti colpi di stato, volontarie insubordinazioni, che non discutono cosa si debba fare ma chi lo deve fare. Fatto sta che finché ognuno ficca il naso, il cervello e le mani in cose che non gli competono crea dei danni a cui gli operatori onesti devono porre rimedio. Una struttura mal funzionante è l’aids della società, che impedisce alle potenzialità difensive dell’organismo di combattere i mali, e diciamo che i gradi evolutivi della struttura sono il processo tramite cui si assimila il tutto, ogni elemento viene inglobato nel tessuto, nell’organismo. Male è tutto ciò che è ancora alieno alla struttura e cerca di danneggiarla: ma essa può essere danneggiata solo qualora sia imperfetta, dunque anch’essa è male e quell’elemento ha le sue ragioni per prendersela con lei, in quanto non lo ha reso felice, non gli ha riconosciuto il suo ruolo. Tutto questo ci mostra ancora come vi sia una sola via per la pacificazione cosmica, una scala di priorità che sia assoluta e dunque rappresenti il solo vero Socialismo, in quanto qualsiasi altro sistema lascerà fuori alcuni elementi, e questi rimetteranno in discussione, con pieno diritto, l’intero sistema per trovare il loro posto, facendolo in modo indiretto collassare affinché sia riconfigurato. L’unica vera mano invisibile è quella dell’istinto che ci guida verso il suo scopo, ma dal momento che vi è un solo modo di raggiungerlo, il mercato ovvero in termini ontologici il moto tende verso l’organizzazione perfetta, l’incontro equo tra domanda e offerta, la massima soddisfazione ovvero la stasi, sicché è vero affermare con Adam Smith che il massimo interesse della civiltà si ha quando ogni singolo ricerca il maggior interesse per se stesso: per la semplice ragione che i due interessi coincidono.


Nel disordine si è soltanto liberi di essere
schiavi dell’imponderabile.


Molti fattori mi hanno fatto dubitare pericolosamente delle mie teorie o ambizioni totalitarie: il vedere la bellezza di alcuni Manga giapponesi di cui non sarei capace, la bravura di un artigiano, quella di un medico, quella di un atleta, la complessità di ogni cosa, l’impressionante varietà apparentemente incontrollabile di ogni fenomeno artistico, fenomeno sociale, fenomeno commerciale, la mobilità dell’intero mondo in ogni sua parte, che dà luogo a configurazioni innumerevoli, morti, rinascite, ingiustizie, danni, energetici sprechi, deviazioni, ed ogni cosa ha precise conseguenze sulla psiche dei singoli, i loro percorsi di vita cambiano per sempre e tu, come puoi prevedere in cosa incapperanno? Mi stupisco della precisa commistione di elementi in un carattere umano che nemmeno avrei pensato potessero essere compatibili, consapevolezza che stimola la ricerca di una dottrina generale e di una schedatura possibilmente completa di questi soggetti, anche solo suddivisi in gruppi. Poi sento storie di deviati, storie di pazzi, storie di scemi, storie di storpi, storie di fannulloni, storie di puttane, storie di puttanieri, storie di locali falliti, storie di zingari, storie di famiglie, di drammi, storie di crimini, di promiscuità sessuale, di insapienza relazionale, di malattie, d’incidenti, di guerra, vedo il peso millicangiante e personale che ogni elemento di questo mondo ha per ogni elemento di questo mondo. Entro in una discoteca e dico come puoi totalizzare un ambiente come questo? Una piazza gremita e come puoi totalizzare questo? Un concerto uno stadio un nugolo pullulante di strade e automezzi, negozi, merci, intemperie, correnti, animali, piante e scosse telluriche. Questo mi impone una roncolata in fronte e mi rivede improvvisamente disperare di ogni possibilità di controllo. Ma so anche che devo mantenere in vita quell’idea, poiché potrebbe esser vera, e questa mia forza d’animo viene immediatamente ripagata da un’intuizione. Subito fa capolino l’obiezione: il mondo si è complicato insanamente ed è destinato ad una ulteriore complicazione poiché lo si è lasciato andare per la sua strada per millenni, con pigrizia dissennata. Ma tutto ciò che sta in piedi lo dobbiamo alle forze organizzatrici, che vi hanno posto le benedette briglie, contrastando la naturale entropia conseguente all’azione delle forze oscure ovvero dell’individualismo. E se ancora tanto benessere riesce a sopravvivere in questo mondo, come nel cuore di una banda di falliti sempliciotti con cui parli in una nottata al bar della stazione coi loro cento spassosi aneddoti, lo dobbiamo in parte al torpore ed alla narcosi in cui essi vivono, anime mutile per natura o volontariamente mutilate per non soffrire, ed in parte a quel mondo parzialmente ordinato che qualcuno ha avuto la virtù di architettare e che lavora ogni dì per tenere in piedi, senza il quale saremmo tutti perduti.


La Libertà sono le condizioni materiali della propria realizzazione. Queste sono costituite da un sistema a gerarchia sociale perfetta. Altri concetti di libertà sono ingenui o fasulli, perchè la loro concretizzazione abbandona il singolo ad una giungla di conflitti, impedimenti ed incertezze, che di fatto negano le condizioni della sua realizzazione, precludendo lo scopo in vista del quale egli desidera essere libero.


Lo scopo dell’economia sta nella pariteticità di domanda e offerta. All’interno di ogni paese dovrebbero essere costantemente monitorati ed aggiornati due parametri: 1) Il fabbisogno energetico del paese 2) la forza lavoro del paese. Essi devono equivalersi, e la politica non deve poi occuparsi di altro che del collocamento. Da ogni cittadino deve essere estratto il massimo potenziale che corrisponde, sommato a quello di tutti gli altri, all’esatto fabbisogno energetico della comunità. Lo scopo dell’educazione e dell’istruzione è esclusivamente quello di forgiare Cittadini. Ossia lavoratori efficienti, patriottici e rispettosi delle regole. L’educazione dovrà quindi comporsi unicamente di interventi volti ad aumentare il senso di appartenenza, di amore e di fierezza del proprio paese, la comunanza con i suoi concittadini che deve indurre ognuno al rispetto di tutti per il tramite delle norme di convivenza, ed infine le abilità specifiche di quello che sarà il suo lavoro. Nel sistema esistono invece una serie di problemi causati dall’Individualismo, che interpretato in senso economico è quella dottrina e quella prassi che considera l’Ottimo corrispondente alla concentrazione del massimo potere energetico nelle mani della singola persona, con il rispetto di regole imperfette volte solamente ad evitare la degenerazione bellicosa di quella che rimane comunque una battaglia economica per il predominio sul mercato, e sceglie di potenziare, anche qui in maniera non scientifica, la forza lavoro del singolo solo a questo scopo, quando egli la utilizzerebbe senz’altro meglio e nella sua interezza per la comunità, costruttivamente, finalizzandola all’aumento dell’organicità di questa e dunque alla diminuzione dei conflitti. Ogni conflitto crea infatti attrito e dunque spreco energetico, quando non ottiene invece traumi e rotture assai costosi a ripararsi e sconquassi difficili da riorganizzare. Tutti i settori dell’economia nazionale dovrebbero essere nazionalizzati e vi dovrebbe essere una sola industria per ogni settore, organizzata e dislocata opportunamente sul territorio nazionale sia per la produzione che per la distribuzione. Ottimizzando il sistema educativo-istruttivo, la meritocrazia conseguente escluderebbe il pluralismo mercatale, dacché ogni talento insufficiente verrebbe dissuaso dall’operare all’interno di un determinato settore, se meglio possa essere impiegato altrove, vale a dire ottimamente e non essere abbandonato alla guerra del mercato, nel seno del quale, essendoci differenze qualitative, si creano delle classi economiche ed esso mercato si segmenta dunque, non già in una benefica varietà di domanda cui deve rispondere varietà d’offerta, basate su effettive differenze e specificità esigenziali dei cittadini, bensì in fasce di reddito cui corrispondono fattualmente scambi di beni di qualità rispettivamente alta, media, bassa, laddove tutti invece avrebbero bisogno del medesimo prodotto di qualità. Se un sistema ha ottimizzato l’istruzione, non si dà il caso che un cittadino resti un nullafacente o un lavoratore mediocre, né tantomeno posto fuori luogo quando i suoi talenti siano altri: essendo ordunque tutti efficienti, e contribuendo in eguale misura al bene comune, nessuno di loro merita di non poter giovare come gli altri dello stesso prodotto soddisfacente. Non è dunque la differenza oggettiva di qualità a determinare e giustificare l’individualismo e la conseguente disuguaglianza. Ma viceversa è l’individualismo, inteso come dottrina sociale e non personalistica, laddove invece le differenze sono psicofisiche, sono oggettive e devono essere rispettate, è quella dottrina erronea a determinare tale sociologica differenza e quindi a delegittimare le sue conseguenze.



Commentario al Breviario di Estetica
di Benedetto Croce



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Un sistema è una casa che, subito dopo costruita e adornata, ha bisogno (soggetta com’è all’azione corroditrice degli elementi) di un lavorio, più o meno energico ma assiduo, di manutenzione, e che a un certo momento non giova più restaurare e puntellare, e bisogna gettare a terra e ricostruire dalle fondamenta. Ma con siffatta differenza capitale: che, nell’opera del pensiero, la casa perpetuamente nuova è sostenuta perpetuamente dall’antica, la quale, quasi per opera magica, perdura in essa. Come si sa, gl’ignari di codesta magia, gli intelletti superficiali o ingenui, se ne spaventano; tanto che uno dei loro noiosi ritornelli contro la filosofia è che essa disfaccia di continuo l’opera sua, e che un filosofo contradica l’altro: come se l’uomo non facesse e disfacesse e rifacesse sempre le sue case, e l’architetto seguente non fosse il contradittore dell’architetto precedente; e come se da questo fare e disfare e rifare delle case, e da questo contradirsi degli architetti, si potesse trarre la conclusione, che è inutile costruire case!


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la ricerca del filosofo intorno all’arte è costretta a percorrere le vie dell’errore per ritrovare la via della verità, che non è diversa da quelle, ma è quelle stesse, attraversate da un filo che permette di dominare il labirinto

lo stretto nesso dell’errore con la verità nasce da ciò, che un mero e compiuto errore è inconcepibile, e, perché inconcepibile, non esiste. L’errore parla con doppia voce, una delle quali afferma il falso, ma l’altra lo smentisce; ed è un cozzare di sì e di no, che si chiama contradizione.


Il “filo” che permette di dominare il labirinto non è altro che lo spirito superiore il quale si muove istintivamente verso l’uscita, sentendo immediatamente l’odore dei vicoli ciechi senza bisogno di percorrerli, mentre gli altri ci si perdono, lo richiamano animosamente in quelle direzioni, ne obbligano il passaggio e non si convincono di aver sbagliato neppure quando si trovano dinanzi un muro. Oppure pensano che quel muro sia ciò che si stava cercando. Il labirinto stesso è il male, costruito dagli spiriti mediocri, esso è il mondo con i suoi problemi, di cui si ha una copia mentale, entro la quale si cerca una soluzione che scenderà poi nel vivo del mondo come un manto balsamico e risanatore. Ma la verità non è intrinsecamente connessa con l’errore, essi non costituiscono un sinolo, e non nascono in alcun modo l’una dall’altro. La verità si fa strada attraverso il nugolo degli errori. Ma essa è tale originariamente. È una virtù in sé, gettata nel fango del mondo, nel quale cerca di muoversi e districarsi. Essa cerca di fatto di estendersi al mondo ed ha pertanto uno scopo correttivo. Ma affermare che essa sia figlia degli errori è un vituperio ed una eresia nei suoi confronti, un oltraggio. Dall’errore nascono solo altri errori. Non appioppiamo agli errori dei meriti, non elogiamo il male, non invertiamo la gerarchia cosmica la cui perdita costituisce il peccato e la cui ricerca costituisce lo scopo della vita.


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ci sono stati periodi storici, nei quali dominarono le più storte e rozze dottrine dell’arte; e ciò non impediva pur in quei tempi, di discernere solitamente, nel modo più sicuro, il bello dal brutto, e di ragionarvi intorno assai finemente, quando, dimenticata l’astratta teoria, si veniva ai casi particolari.

È un pio ma impossibile desiderio, quello che richiede che essa venga esposta direttamente, senza discutere o polemizzare, lasciandola procedere maestosamente, sola: come se tali parate da palcoscenico fossero il simbolo adatto per la verità, che è il pensiero stesso, e, come pensiero, sempre attivo e in travaglio. In effetto nessuno riesce ad esporre una verità se non mercé la critica delle diverse soluzioni del problema a cui quella si riferisce; e non c’è meschina trattazione di una scienza filosofica, non c’è manualetto scolastico né dissertazione accademica che non collochi a suo capo o non contenga nel suo corpo la rassegna delle opinioni storicamente date o idealmente possibili, delle quali vuol essere l’opposizione e la correzione. La qual cosa, per quanto sia sovente eseguita con arbitrio e disordine, esprime per l’appunto la legittima esigenza, nel trattare un problema, di percorrere tutte le soluzioni che ne furono tentate nella storia o sono tentabili nell’idea (cioè nel momento presente, epperò sempre nella storia), in modo che la nuova soluzione includa in sé il lavorio precedente dello spirito umano.


Invece la parata da palcoscenico è proprio il simbolo adatto per la verità, ed il modo giusto che essa ha di essere, operare, mostrarsi. Un architetto del pensiero dovrebbe costruire la sua cattedrale senza curarsi delle altre edificazioni, e se i suoi principi architettonici spontaneamente concepiti dinanzi al problema reale si ipotizzano come superiori, giacché la verità è superiore all’errore, ebbene la guerra contro codesti errori è un’imposizione eteronoma e odiosa, altro non è che una battaglia aggiuntiva per il proprio diritto di costruire, e nella fattispecie di essere riconosciuto come mastro architetto, o di impedire ai mediocri di propinare aborti come grandi opere. Non si dovrebbe mai discutere, solo essere. La discussione presuppone il fatto che siano state messe sullo stesso piano due cose di valore diverso. Ma ciò è l’errore per antonomasia.

Lo scopo della discussione è trovare un accordo. Ora, se due persone di uguale intelligenza possiedono nozioni diverse sullo stesso soggetto, il dialogo è proficuo poiché essi se le scambiano. Ma una volta accertato che entrambi possiedono lo stesso insieme di informazioni, se ancora ne traggono conclusioni diverse sicché il disaccordo permane, è evidente che uno è più intelligente dell’altro. Qui bisogna troncare la discussione, poiché non porta nulla di buono.

L’ ultima frase di Croce afferma che la nuova soluzione includa in sé il lavorio precedente dello spirito umano. Ma è più corretto dire che i veri filosofi di oggi proseguono la battaglia che iniziarono i veri filosofi di ieri contro la menzogna in cui la loro epoca come ancora la nostra era immersa, e nella quale il filosofo in generale è un’anomalia. Quella degli uomini della conoscenza, diversi nelle concezioni ma uniti nello spirito fondamentale, è un’alleanza diacronica contro la volgarità. Diciamo che senza gli errori non si sarebbe presentato il problema, ma non che gli diciamo grazie per essersi presentato.


Un dialogo ha senso fino a che entrambi sono ancora disposti a cambiare idea.


Un tale dialogo è di tipo platonico ed ha una funzione euristica, non dialettica.
Ciò che è fisso e obbligatorio in un dialogo platonico è l’onestà della ricerca, mentre la sua conclusione resta totalmente aperta, in quanto costituisce l’obiettivo della discussione. In un dialogo sofistico la conclusione costituisce invece il dato presupposto, assolutamente fuori discussione, mentre in ballo ci sono soltanto gli espedienti per affermarla. La retorica è uno strumento mirabilmente utile per ovviare al fatto che chi non ha il diritto di giudicare se ne sia invece appropriato, in quanto non è stato educato alla cieca obbedienza come sarebbe giusto, e allora il depositario della verità duramente conquistata deve non solo comandare, bensì persuadere, poiché senza persuasione il popolo non obbedisce ed anzi vuole essere lusingato di questo onore: che l’ultimo giudice sia in verità lui stesso, e che il governante comandi solo grazie al suo mandato, sia un funzionario del popolo e sia sostanzialmente tenuto ad eseguire la sua volontà e le sue opinioni.


Cosa v’è di peggio che avere torto? Aver ragione e non poterlo dimostrare.


Imporre la vittoria con ogni mezzo, in quanto…


Vittoria non richiede giustificazioni - Sconfitta non le accoglie.
Perché propriamente l’unica cosa giusta è la vittoria, l’unica sbagliata è la sconfitta. Quando si processa anche un vincente, è poiché si ritiene che egli non abbia veramente vinto, oppure non sia stato lui a vincere. Quando si processa un perdente, una giustificazione è solo il riconoscimento che la sconfitta fosse solo apparente o che non ne fosse stato lui la causa.


Il Re ed il Filosofo sono figure analoghe da un lato, antitetiche dall’altro.
Analoghe perché il ruolo apicale nell’organizzazione politica ricoperto dal re corrisponde, nell’ambito conoscitivo della ricerca, a quello del filosofo. Sfido qualsiasi esercito a vincere una guerra seria senza il capo di stato maggiore. Sfido qualunque comunità scientifica a condurre a risultati stabili e coerenti senza il direttore generale ovvero il filosofo. Se si discute la necessità di questi ruoli, non ci si lamenti poi del fatto che non si risolva davvero mai nulla, o che le soluzioni siano locali, parziali e temporanee, sicché il tessuto sociale si mantiene disarmonico e stridente, e che i rappresentanti di discipline diverse non si mettano mai d’accordo e si contestino gli ambiti di giurisdizione. Ma il Re ed il Filosofo sono figure antitetiche per quanto riguarda un fondamentale principio deontologico: il filosofo non può avere certezze, il re non può avere dubbi. Nella ricerca sono bandite le certezze, nell’azione sono banditi i dubbi. Questo giustifica anche la propedeuticità dell’attività del filosofo rispetto a quella del sovrano. Se il filosofo parte con delle certezze indimostrate è destinato al fallimento. Se il re parte con dei dubbi è destinato al fallimento. Non ti puoi nemmeno presentare in politica con una sporta di dubbi e una valigia di ipotesi. Se devi persuadere e guidare gli altri, tu per primo devi essere il più convinto di tutti, da rasentare il fanatismo. Se devi districarti in un nugolo di circostanze, avversari, cospirazioni, i tuoi obiettivi devono essere chiari, le tue conoscenze sicure e la tua azione tempestiva e autoritaria, altrimenti sarai sconfitto e con te il tuo paese. Chi è posto in un ruolo di comando ed è costretto a meditare questioni teoriche per via di carenze conoscitive si sente a disagio, come colui che è posto in un ruolo di ricerca ed è costretto a prendere decisioni pratiche prima che tale ricerca sia conclusa. La divisione dei ruoli in una prospettiva storica e quindi evolutiva si è resa necessaria, perché funzionava meglio rispetto alle epoche in cui entrambe le mansioni erano svolte dallo stesso individuo. Inizialmente gli uomini si divisero semplicemente le varie mansioni pratiche, ma ogni specialista ne era sia un pratico che un teorico (un ricercatore), visto che doveva continuamente migliorare. Poi la quantità di lavoro necessario all’interno di ognuna delle due sezioni si è gradualmente ingrossato al punto che ogni disciplina ha preteso la divisione in teoria (ricerca) e pratica (applicazione). La devastazione complicata del pianeta è dovuta agli effetti prolungati e sovrapposti delle decisioni dei cattivi sovrani, magari educati da cattivi filosofi. Fortunatamente ciò non è successo in eguale misura per tutti i gradi ed i settori dell’azione e della teoria, altrimenti avremmo di che piangere. È evidente che dappertutto ci siano stati errori gravi, ma non gravi come quelli operati da filosofi e politici. Per lo meno nelle altre discipline gli errori ci hanno aperto gli occhi e portato precauzioni, rimedi, innovazioni. Ma la politica e la filosofia mi sembrano sempre imperniate intorno alle stesse scemenze. Il Conflitto che vediamo oggi è lo stesso Conflitto dei popoli antichi. Se vediamo due persone, anche anziane, che litigano, per stabilire chi ha ragione non si pongono reciprocamente argomenti diversi da quelli che si ponevano i litiganti 2500 anni or sono. Se poi i due si rivolgono alla Legge non è che il discorso salga di molto in termini di raffinatezza o profondità. Direi che in tutte le discipline vediamo progressi superiori a quelli mai avvenuti nella filosofia e nella politica che ne è il corrispettivo pratico. I sovrani ed i filosofi di oggi devono pertanto essere molto più bravi di quelli del passato ed eseguire un lungo apprendistato, tale per cui un Re che si rispetti dovrà salire sul trono piuttosto anziano ed il Filosofo, anch’egli, assumere l’epiteto di saggio ad una età avanzata, dopo aver studiato una vita. Il settore più apicale della conoscenza non può purtroppo contare, a mio avviso, su di una solida e sana tradizione, anche perché la collaborazione con le altre discipline non è mai stata adeguata, bensì dominata da fenomeni di reciproca ignoranza, sospetto, sfiducia, disputa, snobismo, competizione, irredentismo, insubordinazione, confusione, avventata intromissione, spartano confronto, diatribe sui confini, sovversione, mancanze di rispetto, isolamento in sé stessi, ed una generale assenza di spirito di gruppo. Ma questa è appunto l’ennesima denuncia della mancata organicità del mondo ch’è infine il tema centrale di questo libro. Ma ritornando invece al concetto centrale di questo aforisma, concludo con ciò che deve esser chiaro: qualora il filosofo scenda in politica, prima deve appendere la tunica al chiodo. E se gli capita di passeggiare sotto il peripato, sarà per tessere intrighi con i suoi colleghi, oppure per non tesserli, ma non per discutere se sia o meno giusto tessere intrighi.


Una buona norma per chi voglia coltivare la filosofia è quella di sottrarsi il prima possibile alle angustie del campanilismo, le cui forme gradualmente più estese sono il provincialismo ed il nazionalismo, ampliare gli orizzonti per comprendere quanto ci sia di diverso, e anche di migliore, in realtà circostanti la nostra zona e dunque nemmeno troppo lontane, che potrebbero anche zittire la nostra arroganza, la nostra criticità ed una serie di concezioni che vanno bene solo per la ristretta realtà che abbiamo visitato e con cui siamo stati magari in lungo e fastidioso contatto. Vero è anche che chi viaggia molto per paesi stranieri, come diceva Cartesio, diventi a poco a poco straniero in casa sua. Vero che la nicchia ti isola ma contemporaneamente ti protegge. Il filosofo ha comunque bisogno, per rendere valido il suo lavoro, di ampliare gli orizzonti non specializzandosi in niente, e di ricevere di ogni realtà la quintessenza che serva al suo prodotto ed al suo ruolo dirigenziale. Il problema sta allora nel trovare una dimora, un quartier generale, la migliore ai suoi fini, come fu Francoforte per Schopenhauer. Non saprei come trovare questa dimora e non avrei i soldi per andarci a vivere, ma questo è un altro discorso. Per fortuna grazie a Internet posso viaggiare da casa mia. L’istinto organizzativo del filosofo porterebbe quest’ultimo ad assicurarsi in primis la Percezione dei Confini dell’Universo Culturale, i suoi centri di produzione e di gestione, la dislocazione di alcuni elementi, la quantità di elementi organizzati e quelli a sé stanti. Dovrebbe conoscere per lo meno a grandi linee o suddivise per categorie tutte le istituzioni, le associazioni, i processi economici globali e locali senza eccedere in un particolarismo che non si conforma al suo compito: ma egli dovrebbe cogliere nella loro essenzialità tutti i rapporti tra le istanze di questo mondo. Avere dunque questa panoramica entro la quale deve muoversi e programmare il suo lavoro, documentarsi, sapere dove e dove soltanto ci sono le precise cose che servono a lui, ed una mappatura della realtà attuale che egli dovrà criticare alla luce della sua autogena filosofia della cultura, e di tutto il resto. Poiché egli era incappato assai presto in difetti conseguenti ad una filosofia culturale sbagliata, oppure alla mancata applicazione di quella giusta. La mancanza di formazione al riguardo fu uno dei temi centrali della mia insoddisfazione universitaria e della mia critica alla stessa, questa irresponsabilità dei professori nei confronti di chi dovrà assumere ruoli culturali importanti. Ma giacché l’Università non è mai stata una istituzione per filosofi, e quelli che la frequentano non hanno di queste esigenze, problemi, obiettivi, è perfettamente normale che tali tematiche siano trascurate. Non vorrei scoprire che in realtà sono io l’unico pirla che ha difficoltà ad orientarsi o che non sa quello che ognuno ha presto acquisito come ovvio, ma credo che la voce della verità vorrà porre a questa superficiale insinuazione uno stentoreo diniego.


Non ci dovrebbe essere alcuna ragione, in un mondo sano, ad impedire che un uomo possa fare tutte e sole le esperienze di cui ha bisogno per essere felice, ed allo stesso modo non vi dovrebbe essere alcuna ragione per cui un uomo non possa collezionare tutte e sole le conoscenze di cui ha bisogno per realizzarsi al meglio nel suo lavoro, e poniamo l’accento adesso su quello più apicalmente intellettuale ovvero la filosofia. Che cosa impedisce quest’ultima cosa? La sovrabbondanza di cultura e la sua non ottimale organizzazione nemmeno dal punto di vista della semplice fruizione, tale per cui non sai di preciso dove si trovino le cose di cui hai bisogno e molte di cui avresti bisogno non sai neppure che esistono e ti ci imbatti forse per caso se sei fortunato. La cultura non è stata gradualmente scremata durante il corso della storia, sicché noi ce la portiamo ancora dietro tutta quanta, senza che qualcuno sia in grado di tirarne le somme, anche perché si tratta ormai di una addizione con tanti di quei termini, nemmeno messi in fila ordinati e bensì sparsi per il mondo o raggruppati in collezioni arbitrarie e sempre lacunose, da perderci il conto e l’orientamento ancor prima della vista. Il concetto di tradizione non può essere discrasico con quello di innovazione. Il rapporto è lo stesso che vige nel calcio: squadra che vince non si cambia (tradizione). Ma se perdi, qualcosa devi cambiare (innovazione). Se tu senti l’esigenza di scrivere un nuovo testo su una disciplina, mettiamo la sociologia della comunicazione, è innanzitutto perché vedi nel mondo attuale che persistono dei problemi irrisolti, li riconduci alla mancanza di dottrine corrette, poi ti vai a leggere quelle disponibili, la storia di tale disciplina appunto, e noti gli errori grazie alla tua percezione delle conseguenze, e già ipotizzi nuove e più evolute soluzioni grazie a strumenti scientifici che il progresso ti ha fornito nel frattempo, grazie alla tua esperienza personale e ad un acume osservativo ed analitico che senti come superiore a chi ti ha preceduto. In sostanza, se scrivi roba nuova è perché bocci tutte le vecchie, le consideri ormai carta straccia e questo è un principio imprescindibile di ogni progresso, che non deve avere l’ipocrisia di ostentare un rispetto per il passato che vada oltre il riconoscimento di un debito reale, presente qualora tu effettivamente abbia conservato alcune basi delle vecchie ideologie e vi abbia sopra costruito: ma quando metti in discussione anche le basi scompare ogni minima stilla di questo rispetto e si tramuta anzi in irritazione per le conseguenze nefaste che tali castronerie hanno provocato, per non parlare della tua fatica di dover smontare tutto quando, se tu fossi stato il primo a scriverci sopra, avresti subito colto nel segno, e adesso oltre che con la disciplina oggettiva ti devi battere anche contro tutto quello che è stato istituito in conformità allo spirito antico e con tutti i suoi accaniti e pedissequi sostenitori. Quello di bruciare i libri non è necessariamente un delirio, purché lo si faccia con un criterio scientifico. Essa è anzi un’operazione salutare, necessaria al progresso dell’uomo come a quello della società. Un nuovo libro che viene scritto su una qualsiasi disciplina dovrebbe invalidarne una cinquantina dei vecchi o anche tutti quelli che sono citati nella bibliografia qualora alle loro affermazioni abbiamo contrapposto le nostre. Il problema è che il nuovo libro non annulla la serie dei precedenti, semplicemente vi si affianca irresolutamente, sicché il fardello della cultura non viene minimamente alleggerito, bensì appesantito e destinato alle povere spalle della prossima generazione che di questo passo, andrà ancora a scuola quando ormai le saranno spuntati i capelli bianchi. Il bagaglio culturale che una persona deve portarsi dietro varia in funzione di dove deve andare e di quante cose non è in grado di affrontare con i suoi propri strumenti innati o alternativamente acquisiti. Ma metterci dentro coltelli spuntati, cibi ammuffiti, indumenti che non indosserà mai, attrezzi superflui, carte geografiche tracciate da chi non aveva il satellite, campioni di roccia e vegetali di seconda mano, personalmente selezionati, classificati, tagliuzzati, innestati, lavorati, confezionati, quando può benissimo vedere gli originali e farsi le sue idee, tutto questo mi sembra un reato contro lo spirito santo. Non vi dovrebbe essere mai alcuna querelle des anciens et des modernes, ed il fatto che solo nel primo novecento sia comparso un movimento come il Futurismo, che ha preso posizione in maniera netta e vigorosa su questo tema, è un indice preoccupante di una lacuna fondamentale che ha presidiato l’intero percorso della nostra civiltà, quella di una corretta Filosofia della Cultura, più in generale una visione corretta del rapporto dell’uomo col proprio passato, e di che cosa significhi evoluzione. Se siano meglio gli antichi o i moderni? La risposta è semplice: entrambi sono stati messi alla prova, dunque, chi ha dato i risultati migliori? Innanzitutto se si è cercato qualcosa di nuovo è perché il vecchio non era mai stato completamente soddisfacente oppure la nuova epoca presentava esigenze nuove cui tutti gli aspetti della cultura dovevano adeguarsi per esserne all’altezza. Vi dovrebbe essere in ogni civiltà un rigoroso controllo, una precisa identificazione di chi ha causato un problema e di chi ne ha invece trovato la soluzione, bisogna sapere esattamente qual è l’intento di ogni nuova teoria, quale problema pratico intende risolvere e poi se effettivamente lo ha risolto: perché innanzitutto qualsiasi nuova teoria deve muovere, ed anzi essere promossa dal governo, dalla retta percezione di una zona insana della società, e si deve sapere da quale mancanza teorica essa derivi. Ci dovrà quindi essere un vincolo imprescindibile: la nuova soluzione dovrà essere applicata proprio come era stata applicata la vecchia, e mantenuta in vigore fin quando sia risolutiva, abolita immediatamente qualora abbia fallito. Se qualcosa sia meglio o sia peggio non deve essere una querelle, deve essere assolutamente evidente. Ma può essere evidente soltanto quando ogni elemento sia vincolato ad una funzione in maniera ineludibile, dentro una società. Se invece questo vincolo si rivela aleatorio o preferenziale, non v’è il controllo sui rapporti tra colpevoli e vittime, tra meriti e benefici, sicché il problema non può essere risolto e da una tale epoca di barbarie deve svilupparsi un movimento illuminista che ha come primaria ambizione quella di ristabilire tale possibilità di monitoraggio, cui segue la correzione. Se tutto funzionasse in questo modo, vi sarebbero risparmi astronomici. Ogni studioso, prestamente selezionato grazie alla previsione delle sue capacità risolutive in un determinato settore, verrebbe formato con le sole nozioni necessarie a mettere a frutto infine il suo specifico talento, la sua superiore capacità visiva e connettiva, che gli consente di attuare quel progresso agognato dal sistema e che era accessibile solo a lui. Riguardo alla filosofia egli dovrebbe studiare solo l’ultimo filosofo comparso, perché tutti i precedenti sono stati rigorosamente smontati, ognuno dal successivo, e di quest’ultimo filosofo sono chiare le affermazioni veritiere perché, essendo state applicate rigorosamente, sono semplicemente quelle che hanno prodotto benefici e prassi che ancora funzionano, mentre gli errori sono altrettanto evidenti, per lo stesso motivo, ed è esclusivamente su questi punti carenti che deve intervenire il nuovo intellettuale. Invece un filosofo di oggi deve rimettere in discussione tutta la storia della cultura universale a partire dalle mille piaghe e mal funzionamenti della società presente. Perché per millenni gli uomini di cultura hanno lavorato in modo dissoluto, frammentario, fazioso ed incoerente. A questo personaggio voi dite che se proprio ha bisogno di coltivare questa risibile, inutile ed anzi immorale ambizione, può ben farlo nel tempo libero, una mezz’oretta tutte le sere, ma deve fare per forza un altro lavoro, intendiamo dire un lavoro vero, perché la filosofia è un lusso, altro che lavoro, e se anche fosse un lavoro nessuno ti pagherebbe per farlo, a meno che tu non faccia carriera all’università dove però non si coltiva affatto quell’obiettivo e si vive parassitariamente della cloaca orgiastica indifferenziata ed inconcludente che è appunto la nostra Cultura. Non è neppure così indifferenziata in realtà. Poiché anche in regime democratico ci sono sempre idee dominanti, e chiunque abbia una minima autorità in un ambito della vita che sia materiale o culturale, ebbene egli prende decisioni, effettua delle precise scelte e dei precisi scarti, e li impone in maniera dittatoriale laddove ne abbia interesse, senza tuttavia ambire ad essere un vero dittatore perché in fondo non ne ha bisogno: la sua vita se la è ritagliata lo stesso e non ci si trova poi così male. Perché dunque dovremmo cambiare il mondo? Cerchiamo di agire tutt’al più contro chi minaccia il mantenimento della nostra relativa quiete. L’uomo agisce se è motivato a farlo ed il mito dell’oggettività è qualcosa di osceno e pernicioso, che qui voglio ben chiarire. Qualora oggettività significhi avversione ad ogni forma di opportunismo, essa va santificata ed imposta come principio cardine nella deontologia di qualsiasi professionista. Tuttavia questa accezione del termine è solo metà della faccenda. Poiché oggettività significa anche fedeltà alla causa, significa passione irrinunciabile, significa esserne sommamente, completamente e personalmente coinvolti, significa non poter vivere senza coltivare quella disciplina e raggiungerne i risultati. Soltanto questa persona avrà la forza propulsiva per raggiungerli, non un freddo e abulico mestierante. Entrambe le parti che compongono questa sacra mela, questo frutto del peccato, vengono trascurate nel mondo, ed è questo il primo tema culturale su cui una nuova aria politica deve mettere ordine. Chi vive di una cosa deve vivere anche per essa. E chi vive per essa deve vivere di essa. In ogni caso la Cultura dell’Indifferenziato è una cultura, così come lo Scetticismo Filosofico è una filosofia, consapevole di auto contraddirsi ma che non ha interesse a smettere di farlo, la Cultura dell’Uguaglianza condanna come diversi tutti gli avversari dell’egualitarismo, il Multiculturalismo è una cultura che condanna la cultura del pensiero unico, con cui si può essere o meno d’accordo a seconda dei benefici che se ne traggono. La Scienza? La scienza è futurista e non passatista, pertanto ha viaggiato come un treno a vapore e poi come un treno ad alta velocità, essa produce gli strumenti della sua stessa crescita. Ma la forza attorniata dalle debolezze può portare ad esiti infelici. La scienza, che già non è perfetta, deve fare i conti con filosofia, economia, politica. Nella scienza nessuno discute che le cose moderne siano superiori a quelle antiche, a parità di obiettivi. Nella filosofia potrebbe, in linea di principio, avere ancora ragione Aristotele, oppure Bacone, altrimenti John Locke, o anche Kierkegaard, perché non c’è stata la scrematura rigorosa, possibile anche grazie al supporto della scienza, che la si applica solo quando ci tira, e del resto solo singoli filosofi seri ritennero necessaria questa scrematura e argomentarono rigorosamente fino ad invalidare, con tutti gli strumenti di cui disponevano, le filosofie precedenti. Ad ogni modo l’esigenza non doveva essere così angustiante poiché le idee filosofiche non sono sottoposte al vincolo dell’applicazione. La politica può ignorarle totalmente come invero può ignorare tutto, anche scienza ed economia, e questo favorisce il senso d’irresponsabilità e non consente la pronta verifica della soluzione. Se la politica non è vincolata ad applicare gli ultimi progressi di ogni disciplina, noi che ricerchiamo a fare? Ora c’è però il fatto che i progressi filosofici non sono paragonabili a quelli scientifici, se consideriamo poi che l’istituzione che dovrebbe promuoverli è invece animata da un passatismo parassita e sterile, anziché da un fervore quasi mistico e missionario verso la ricerca del Vero, come dovrebbe avere essa stessa e trasmettere ai giovani in un rito iniziatico. Parlo al plurale indebitamente poiché un compito del genere spetta invero a pochi eletti, forse uno soltanto, almeno sugli aspetti più fondamentali della disciplina, ed una intera istituzione di quelle dimensioni rivolta a promuovere cambiamenti di natura così elitaria sarebbe, anche qualora onesta, un’assurdità. Basterebbe un fondo monetario per il filosofo attorniato da collaboratori scelti analogamente finanziati in tutto, con il fondamentale accesso a qualsiasi informazione sia disponibile sul pianeta, ogni sito Internet, anche quelli protetti da segreto governativo, quindi ogni sorta di libro, a disposizione la biblioteca vaticana, ogni giornale, rivista, film, disco, passe-partout nei teatri, musei, siti archeologici, mostre, convegni, concerti, manifestazioni sportive, viaggi organizzati in ogni parte del mondo per attingere alle esperienze dirette e alle informazioni necessarie ad integrare quello che manca nelle fonti che ho elencato e che necessitano comunque di esservi affiancate per essere davvero comprensibili e criticabili, e gli devono essere concessi colloqui diretti con qualsiasi personaggio. Dico questo perché la posta in gioco è altissima, è capitale, ed il lavoro da fare, in un mondo che si è complicato all’inverosimile, è semplicemente immenso e la generazione attuale non ne vedrà probabilmente la fine. Accesso anche alle informazioni più segrete e pericolose, ho aggiunto, per il semplice fatto che il filosofo, come del resto la sua equipe selezionata, non le userebbe mai a fini illegittimi, in maniera faziosa, opportunista, turpemente distruttiva, e non si venderebbe mai a nessuno, perché egli vive per la sua causa, la sua onestà in proposito sta nel suo codice genetico e non può dunque tradirla. Ma forse gli stati stessi che gli dessero queste opportunità, non sarebbero altrettanto puri d’intenti e infatti, in realtà non gliele darebbero mai, poiché si troverebbero ben presto ad essere messi in discussione e a farsi mordere la mano da colui che nutrono. L’Economia? L’economia è una disciplina ibrida. Essa è costretta in parte ad essere attualista e futurista e passatista nella misura in cui serve per fare soldi, è frammentata in molti soggetti che agiscono a seconda del bisogno di attuare un profitto a breve termine oppure a lungo termine o entrambi, deve far tesoro delle ultime teorie matematiche perché ha a che fare col calcolo, in particolare deve spendere poco e guadagnare molto, deve soddisfare gli attuali bisogni ma anche preconizzarne e fomentarne di futuri, e magari quando fette di mercato sono sature potrebbe rilanciare qualche moda del passato in un ritorno di fiamma, ponendo le vecchie cose in forma nuova oppure in un contesto moderno nel quale fanno un effetto diverso. Poi il grosso dell’economia la gestisce l’industria, che per potenziarsi ha bisogno della tecnologia avanzata, sicché, qui, l’economia deve essere futurista ed investire sulla tecnica. Il marketing utilizza le neuroscienze, le scienze della comunicazione, applica principi dell’arte militare, per far man bassa di quattrini anche perché, se noi guardiamo al secondo lato della scienza economica, quello che ha un’intersezione con la filosofia, notiamo che essa non trova un grandissimo appoggio poiché l’etica non le fornisce risposte certe, e quando essa cerca di darsele da sola, fa mostra della propria povera superficialità, tipica di un soggetto venale e materialista. Se l’economia si chiede infatti Cosa è il Valore? Qual è lo scopo della vita? Che cosa è l’utilità? Cosa porta alla felicità? I soldi lo fanno? Che cosa è un bisogno? E un desiderio? Dobbiamo cercare il piacere o la quiete? La competizione è una cosa buona? Dobbiamo essere egoisti o solidali? Quali diritti e quali doveri abbiamo in ambito economico? Che cosa è la giustizia? Ecco che essa non trova molto di soddisfacente, ancor meno di quanto facessero i filosofi. Ma essa decide di agire lo stesso con quella fermezza che è necessaria nell’azione, ed il valore cui si tende istintivamente a convergere è quello del massimo profitto. Se andiamo poi sulla vasta scala, dopo secoli l’economia non sa ancora se deve essere lasciata in mano ai privati o statalizzata o qualcosa di intermedio, poi se debba tendere all’uguaglianza o invece alla disparità e alla differenziazione. Stiamo parlando dunque di scienze che sono ancora di là da venire quanto a risultati sicuri, persino sui punti fondamentali, e la crisi economica ne è una prova, a scapito delle frequenti assegnazioni di premi Nobel. La filosofia deve fare la sua parte dando finalmente una sgrossata vigorosa al ceppo di questi problemi e cogliere dannatamente nel segno per una volta. Ma tutte le scienze possono essere asservite al mercato e dunque agli interessi privati, ci sono istituti di ricerca che operano presso le aziende stesse, e allora tutte le virtù delle scienze sono vanificate dall’uso che se ne fa, come ogni male contamina ogni bene, e la ricerca al servizio del capitalismo è l’aspetto economico della ricerca al servizio della guerra. La guerra, che a sua volta viene fatta per scopi economici privati.
In un circolo vizioso senza fine.


Sentiamo cosa dice il Dizionario Treccani
del termine Antropogeografia.

Settore della geografia (detto anche geografia umana) che ha per oggetto la distribuzione qualitativa e quantitativa degli uomini sulla superficie terrestre in relazione alle condizioni naturali e alle risorse del suolo, l’influenza che tali condizioni esercitano sulle manifestazioni delle loro attività, e le modificazioni che gli uomini apportano, con la presenza e l’opera loro, sulla stessa superficie terrestre; comprende una parte fondamentale, che ha per oggetto l’ambiente e la sua interazione con l’uomo (detta anche geografia ecologica), e numerose specialità, quali, per es., la geografia degli insediamenti, la geografia urbana, la geografia sociale (o dei fatti culturali), la geografia politica, la geografia economica.

Parlano di distribuzione qualitativa e quantitativa degli uomini sulla superficie terrestre: questo implica un soggetto osservativo che dall’alto osserva i movimenti dei singoli soggetti o gruppi rivolti alla propria soddisfazione, che possono essersi affermati positivamente o negativamente ed essere stati parzialmente illuminati dalle loro esperienze ma che tutti quanti sono inevitabilmente affetti da una limitazione visiva in larghezza e dunque anche in profondità, da cui tutti traggono nocumento, il che giustifica il ruolo di quell’elevato osservatore che può cogliere la fonte dei loro errori, e può farlo a sua volta in un’ottica individualistica, ovvero per trarne personale profitto, oppure in un’ottica organicistica. Poi parlano di interazioni uomo-ambiente, nei differenti ambienti, relazioni che possono anche essere reciprocamente infauste e compromettere in partenza sia un ambiente che un’etnia umana, pregiudicando anche tutta la loro cultura in quanto figlia di una condizione insana. Poi ci dicono che l’antropogeografia ha una parte fondamentale detta geografia ecologica che ha per oggetto l’ambiente e la sua interazione con l’uomo, e poi numerose specialità come la geografia degli insediamenti, la geografia urbana, la geografia sociale, la geografia politica e la geografia economica. Chi ha stabilito questa partizione? Il primo fondatore della disciplina ha posto ad essa il nome di Geografia Ecologica, in un’opera che, probabilmente, aveva mosso da alcune considerazioni particolari da cui egli aveva evinti rudimentali principi generali: ma che sono stati accolti dai suoi seguaci i quali ne hanno seguito le particolari branche, indicate dal padre fondatore oppure da essi stessi ramificate. Ora sino a che tu sei uno studioso singolo non hai una istituzione che ti rappresenti, questa può nascere quando il corpo di studi cresce necessitando di una separazione organizzata, per cui il direttore generale pone una provvisoria visione d’insieme che per essere perfezionata necessita di nozioni maggiori e più corrette nelle singole branche: queste vengono assegnate a studiosi che possono sviluppare le loro indagini indipendentemente l’uno dall’altro, poiché sarà il direttore generale che, quando questi gli presenteranno i loro studi, potrà confrontarli e reimpostare una visione generale più matura e indirizzare nuove file di studiosi a ulteriori ricerche volte a perfezionarla. Ora questa loro accademia di ricerca può essere privata, oppure la loro disciplina può essere divenuta universitaria, essersi spostata quindi sotto l’egida della fondamentale istituzione culturale di un paese, con la quale quindi deve venire a patti beneficiando però dei suoi poteri, delle sue risorse e delle sue interrelazioni con le altre istituzioni, in particolare quelle del mondo concreto, quelle che hanno un ruolo decisionale e operativo, dunque le forze politiche, economiche, militari. Poiché infatti qui vuole arrivare ogni ricerca, che era appunto partita dall’individuazione di un problema, di un male, di una carenza, da una istintiva ribellione ad esso, da uno scopo correttivo di cui il singolo innovatore si era sentito capace grazie alle sue intuizioni che richiedevano però di essere sviluppate in Scienza. Ora nel passaggio di una disciplina pionieristica sotto l’egida universitaria si creano dei nuovi ruoli. Innanzitutto delle cattedre corrispondenti a nuovi corsi di studi che però dovranno avere uno sbocco il quale dovrà essere concreto e ben previsto. Occorrerà in sostanza avere preparato il posto per nuovi professionisti, dei quali invero un sistema saggio dovrebbe essere in trepidante attesa in quanto potenziali ed unici benefattori. Invece l’inserimento nel sistema di nuovi professionisti animati da nuove conoscenze e capacità non è un processo agevole, bensì ostacolato, viscoso, aleatorio, frammentario, graduale, battagliero. Essendo il mondo della ricerca legalmente svincolato da quello della prassi, e quest’ultima dominata da innumerevoli soggetti fieri di un individualismo determinato, per lo più materialistico e senza scrupoli, dunque da un bellicismo costituzionale attivo sia tra i soggetti economici analogamente faziosi, ma anche tra i movimenti politici o parapolitici che tentano di influire su questi processi già concretamente in corso, alcuni sostenendo questo o quel soggetto, e ostacolando i suoi avversari ideologicamente o con la propaganda denigratoria, altri animati invece dalla volontà di eticizzare il tutto, indirizzare, regolare, frenare, vietare, reimpostare, organizzare questi processi e tutte le parti già in essi operative. Questi ultimi sono invero gli unici meritevoli di ricoprire ruoli organizzativi, in quanto medici di un corpo egro. Filosofi e politici faziosi, non sono tali: essi sono le peggiori serpi, essi si appropriano di uno strumento terapeutico creato dagli antichi saggi, giunto in parte effettivamente ad avere un ruolo nella società e attorniato di un’aura nobile. Di questo farmaco essi conservano solo la bianca etichetta sostituendone il contenuto con intrugli velenosi, per poter fare impunemente, loro e la fazione che sostengono, i propri interessi a detrimento dell’ambiente. Si pongono dunque sotto sacre vesti che tradiscono con le loro losche ambizioni, meschini pensieri e condotte inique.


Nella società omogenea non vi è più differenza tra essere e avere.


La cosa maggiormente anelata e rivendicata dagli abitanti di questo mondo è il proprio ruolo. Già il fatto che ci si riferisca ad un ruolo, generico, quasi che davvero noi non potessimo, in un mondo disorganizzato, ambire a qualcosa di meglio che ad un espediente per guadagnarci il pane, il che è già un lusso, relegare invece le nostre vere passioni, cause, ragioni di vita, i nostri scopi intrinseci, dunque il nostro ruolo naturale in un ghetto dell’animo e della nostra vita, in quel residuo, subalterno e quasi colpevole spazio di un hobby… Tutto ciò è sintomatico del degrado, dell’insanità e della follia di fondo delle nostre cosiddette civiltà. Il primo pilastro dell’educazione di oggi non è quello di combattere per i propri sogni, ma quello di stroncarli il prima possibile per lasciare il posto ad un sano realismo, ovvero uno squallido adeguamento alla pregressa degenerazione causata da mentalità analogamente ignobili, alle quali noi ci accodiamo peggiorando le cose. Vero è che non si campa di soli ideali, ma è vero anche che non si idealizza di solo campare. Dacché il primo emistichio del chiasmo è sostenuto da persone che hanno come solo ideale quello di campare, e non dovrebbero ipocritamente sostenere di averne altri e di averli dovuti sottomettere per necessità, ecco che coloro invece che di ideali ne hanno sul serio, in un mondo che non conferisce loro nemmeno un ruolo adeguatamente remunerato per costruire quella rivoluzione che sarà benefica per tutti, ed andranno a risolvere anche quei problemi di cui la gente non è consapevole o di cui ignora le vere origini, essi non devono assolutamente vergognarsi di coltivarli, dovessero anche essere mantenuti da qualcuno, campare di rendita o comunque di non essere autosufficienti, dunque di giovare in parte, come del resto fanno (ed in misura ben maggiore) anche quegli artisti che condannano lo stesso sistema grazie al quale si arricchiscono, dei prodotti di quel mondo a loro dire corrotto e marcio. Nessuno può rifarsi da nuovo, ogni strutturazione della società è invero una ristrutturazione, su qualche antico o recente pilastro è necessario appoggiarsi anche se noi avessimo il fine recondito di abbatterlo. Noi in realtà ereditiamo tutto, anche la possibilità di cambiare, e non potremmo cambiare nulla se davvero nulla di buono non fosse già presente: un organismo completamente infetto muore. Ma tutto ciò che in esso è sano va sfruttato al fine di disinfettarsi, non vi è altra strada. Vero è che se noi avessimo una sola gamba saremmo costretti a fare altre scelte: però non implica che sia illecito avere due gambe. Se uno nasce bello ha dei vantaggi innegabili: e allora cosa deve fare, sfregiarsi la faccia perché un altro è più brutto? Se anziché una questione cosmica ed escatologica volessimo farne una questione banalmente etica legata al senso comune, potremmo dire: “Questo mondo non l’ho fatto io, le condizioni in cui vivo sono determinate dal corso della storia: avrebbero potuto essere molto peggiori ma anche molto migliori, c’è tanta gente più sfortunata ma anche tanta gente globalmente più fortunata, che si gode quello che ha tenendoselo ben stretto ed anzi cercando di aumentarlo, senza tanto stare a pensare alle sfighe altrui, e quelli invece più sfortunati si lagnano solo di non essere stati fortunati come coloro che invidiano e la maggior parte di loro non vuole la giustizia nel mondo ma solo un riscatto personale. In ogni caso le mie condizioni di esistenza non le ho decise io e nemmeno persone particolarmente buone o sagge e in definitiva, visto che i lati negativi me li sono beccati tutti quanti, non vedo perché dovrei sputare sui lati positivi e non approfittarne”. Un uomo non deve privarsi di quello che ha né sentirsene in colpa, qualora sia positivo, deve eliminare solo i difetti che è possibile eliminare, dentro e fuori di lui, poiché nessuno può astrarsi dall’ambiente in cui vive ed esser felice fino in fondo se esso è difettoso in una sua parte qualsiasi, ed a tal fine deve sfruttare tutti i suoi pregi, anche quelli eterogeni come può esserlo la ricchezza. Alla fine questo è il succo dell’etica. Hai un pregio: usalo. È tuo diritto e dovere. L’importante è che non lo sprechi o non lo utilizzi in modo dannoso. È forse questa la Parabola dei Talenti? Nel caso di un intellettuale dovremmo togliere alla parola approfittare quel senso individualistico che le è associato. Senza dubbio lui ne approfitta anche egoisticamente poiché lui stesso fa parte di quella selva di esigenze che tutte andrebbero soddisfatte e che già sarebbero maggiormente soddisfatte se ci fossero stati più intellettuali intelligenti nel passato e in generale popoli più virtuosi. Lui non deve per forza essere un martire perché anche lui vale, anche lui deve essere salvato dall’ingiustizia o da essa riscattato, la sua rabbia è legittima, non deve essere un individuo impersonale, un disinteressato, nell’interesse generale rientra a buon diritto anche il suo, anche lui vuol essere felice, sebbene sia disposto di fatto a sopportare una grande infelicità, superiore a quella del conformista, per arrivare a compiere qualcosa di più grande. Un benessere decente rientra dunque nelle sue ambizioni e sia nelle condizioni necessarie ad estendere tale benessere all’umanità grazie ai frutti del suo lavoro. Non c’è incoerenza nel venire a patti col sistema. L’incoerenza sta nel fare una cosa che non corrisponde a quello che vuoi senza che neppure tu ci sia costretto per arrivare a fare quello che vuoi. La coerenza, peraltro, ovvero la felicità personale e universale, non può essere un presupposto, non può essere un datum, una condizione iniziale, ma un obiettivo, il fine di tutti noi, ciò che anima ogni nostro moto, scelta, battaglia e lo si raggiunge per gradi. La vita non è altro che il processo tramite cui un mondo incoerente giunge ad essere coerente. Vi è una bella differenza tra l’Ipocrisia, ossia l’incoerenza tra quello che è un fantasma e l’atteggiamento di una persona reale completamente diversa, e quella che è invece la normale condizione della vita ovvero l’incoerenza, nel senso che non puoi fare tutto quello che vuoi e non puoi essere felice come vorresti ma ci devi arrivare, coerentemente con la tua natura, coerentemente con le opposizioni esterne, insomma coerentemente con un mondo incoerente ovvero conflittuale in quanto disarmonico. Altra cosa sono ben quei controsensi di chi fa cose che non conciliano i suoi veri interessi benché questi siano certi e reali, per mera ignoranza o incapacità di giudizio e deduzione. Fare un compromesso tra due esigenze contrastanti che si presentano contemporaneamente – e dunque sono incoerenti – è però coerente con il solo obiettivo con cui l’uomo sarà sempre coerente ossia la realizzazione della propria felicità: infatti quel compromesso è ciò che la massimizza nella percezione contingente, il che è quello che ce la fa percepire come possibile, poiché nell’unicità di un fine non esiste appunto la quantità ma solo la qualità ovvero l’oggetto oppure la sua mancanza, e noi possiamo vivere solo nella prospettiva di realizzare la nostra felicità. Se ad essa venisse sottratto anche un solo elemento e ciò ci fosse garantito irrevocabilmente, noi ci suicideremmo. Il fatto che noi sopravviviamo invece è dovuto alla limitatezza dei nostri orizzonti, per la quale la nostra felicità viene identificata nel quotidiano con un progresso specifico, un obiettivo specifico, quello per cui stiamo combattendo, quello che ci eccita e galvanizza nella prospettiva positiva, che ci angustia e avvilisce dinanzi ad un calo di energia, a volte tradottosi insindacabilmente in un fallimento, cui corrisponderebbe necessariamente la fine della vita, se il nostro istinto del piacere ora stordito, disorientato e fluttuante non avesse la facoltà di distaccarsi dall’oggetto della frustrazione per aggredire un nuovo obiettivo posto nuovamente come realizzabile e dunque giustificante la vita. Un idealista è nato, e ripeto nato, per positivizzare tutto quello che può, coerentemente con il suo carattere e non un passo oltre. Tutto ciò a cui non è sensibile non lo può e non lo vuole positivizzare. Tutti siamo idealisti nel senso che dobbiamo realizzare qualcosa. La differenza la fanno la grandezza e altresì la consapevolezza di questo qualcosa. Tale consapevolezza – anch’essa da acquisire – è ciò che ci porta ad agire in modo da essere chiamati appunto idealisti, poiché risulta chiara la coerenza tra il nostro atteggiamento e quello che anche gli ignari vorrebbero realizzare ma non ne vedono ancora i mezzi, poiché non conoscono le connessioni tra i vari elementi della realtà presente, o quelle persone che ancora non son giunti nelle più decisive e classiche arene di battaglia perché non se ne sono ancora costruiti la forza. Ma Forza e Illuminazione fanno per prodotto il Coraggio. In realtà tutti vogliamo realizzare la stessa cosa: la felicità, solo che dobbiamo spartirci i ruoli conformemente alle nostre capacità visive e operative. Un filosofo è un egoista con un campo visivo molto ampio il che lo fa diventare un panegoista, un organicista. Anche la filosofia dunque, con gli obiettivi che comporta, è un fatto egoistico: lui non ha scelto di essere filosofo, ci è semplicemente nato dunque lui è invero molto più felice a fare il filosofo che ad adeguarsi ad una vita qualsiasi. Del resto, ci ha provato. Se ci si fosse trovato bene come gli altri, e come controparte non avesse dovuto rinunciare ad una cosa tanto importante e produttiva come lo è la sua autonoma attività intellettuale, una rinuncia di cui solo lui si rende conto non essendo gli altri dei veri intellettuali ma solo gente che coltiva la cultura in maniera consumistica, egotistica, oppure opportunistica quanto ai mestieranti, ma giammai con serie e profonde ambizioni creative ed innovative, addirittura rivoluzionarie, ebbene senza queste condizioni anche lui avrebbe perseverato su quella strada, necessariamente, risparmiandosi ogni strale o gravame socio psicologici legati alla singolarità. Ma nessuno è tanto infelice come l’uomo costretto a vivere non secondo la sua natura ma secondo la natura degli altri. Chiunque sopporta più volentieri le sofferenze legate ad una causa che gli appartiene, che non il vivere per qualcosa che non gli appartiene. Questa si chiama alienazione. L’uomo odia ciò che gli è estraneo, e quando diventa estraneo a se stesso, uccide se stesso. È quello che fanno tutti coloro che vedono come impossibile distaccarsi da un ruolo che è realmente avulso alla propria natura e dunque alle proprie ambizioni. L’uomo fa necessariamente tutto ciò che è necessario per realizzare se stesso, e quando realizzarsi non è più possibile, sopprime se stesso, senza scampo, senza eccezione, perché così vuole la natura. Proprio come sei disposto a morire per una donna che ami, e ti pesa di più far dieci chilometri per una che non ami. Se tu non potessi avere giammai la donna che ami, ti uccideresti, senonché il più delle volte ella è un obiettivo soltanto apparente per quanto ferocemente efficace, e quando l’incantesimo svanisce, torna nell’uomo il senno a spegnere il fuoco mortale e posare la pistola. Ma se tu dovessi andare per sempre a macinar chilometri per andare a trovare una donna che non amerai mai, ecco che la pistola la ripigli in mano e la usi: garantito come il giorno segue la notte. Sei dunque tu stato costretto dalle circostanze a fare centinaia di chilometri per qualcosa che non ami? Allora, se questo è vero, me ne dispiace. Ma non è neppure colpa mia! Potrei dirti sono affari tuoi, come tu dici a me quando ti parlo dei miei problemi e come chiunque tende a dire a chiunque altro, soprattutto allorché costui sembra lo voglia far sentir in colpa o pretendere che anche lui presenti lo stesso problema o percorso di vita o che si debba comportare secondo gli stessi valori e principi, far le stesse scelte e dare gli stessi giudizi. Sicuramente la colpa delle tue condizioni qualcuno ce l’ha. Io che sono un filosofo, se riuscirò a realizzare il mio potenziale vorrò senz’altro intervenire anche su questi problemi. Ma non puoi pretendere che io abbia risolto i tuoi, dal momento che trent’anni fa non ero ancora vivo a porne le condizioni. Dunque prenditela con chi ha filosofato o governato il mondo prima di me, che invece renderò migliore la vita dei tuoi figli o dei tuoi compatrioti, se mi lasci fare quello che so fare. La verità però è che molte persone millantano di essere volontariamente andate contro la propria natura, il che sarebbe stata oltretutto la più grossa delle fesserie, o di essere stati costretti a ciò, quando invece, se cogliamo correttamente gli elementi della loro personalità, notiamo che c’è invero un buon ed ampio accordo tra quest’ultima e la loro vita reale e l’ambito professionale in cui operano, e la loro infelicità, che pure è presente, non è così grande ed è dovuta più ad altri fattori che non ad un radicale contrasto tra Ruolo e Natura. Dall’esterno molte nostre scelte non sono poi così obbligate, almeno nei nostri paesi, e ci sono anche molte possibilità di cambiare se uno ne ha la volontà, le convinzioni, la forza e il coraggio: ma spesso manca qualcuno di questi fattori. La gente deve essere più onesta con se stessa e con gli altri. Ma nessuno è accurato nell’analizzare davvero la storia altrui, misurare il vero livello complessivo di felicità e infelicità, ogni vantaggio e svantaggio, ogni fatto e misfatto, ogni virtù e vizio, le esatte condizioni esterne che lo hanno costretto a determinate scelte o tutto ciò che invece è da ricondurre alla persona nel bene e nel male. Basta dunque, col mettersi sul piedistallo e svilire il prossimo, con una perizia analitica ed una onestà da bar sport, con l’intelligenza e l’irruenza sgraziata di un tacchino. Se dunque gli uomini comuni hanno avuto il modo di vivere conformemente al proprio carattere e sono cresciuti in un sistema nel quale ciò era possibile, in quanto ché la cosa era lecita, accettata, onorata, condivisa, e comportava una sufficiente remunerazione e determinati vantaggi sociali e psichici, allora a titolo personale e per tutta la mia categoria dichiaro che anche l’uomo eccezionale dovrebbe giovare di questo diritto, rivendicarlo, e prenderselo con gli interessi qualora gli sia stato negato.


Ho dato una squadrata al tema dell’Identità. Per essere qualcuno devi inserirti in un contesto sociale di cui accetti obiettivi, valori e regole, e brillare secondo questi, distinguerti in positivo: questo comporta che riceverai dagli altri onore, beni e servizi, a seconda del piacere che rappresenti per loro. Se invece tu contesti obiettivi, valori e regole nel modo in cui la gente sostiene che sia lecito farlo, sei ancora qualcuno per loro, probabilmente sei costretto ad infrangere alcuni doveri e ad accumulare alcune mancanze che la gente più allineata invece non presenta e che ti procurano qualche svantaggio, critica e risentimento quando sei in mezzo a loro, ma hai ancora una identità positiva anche per loro, oppure per altre persone che condividano alcune tue idee e che ti sono meno direttamente legate sicché le tue negligenze contornali non li interessano: tu sei dunque per tutte queste persone un ribelle, anzi uno specifico ribelle, magari il simbolo dell’anti perbenismo, sebbene, in quanto ribelle, tu abbia certamente dei nemici, per i quali sei qualcuno in negativo. Ma se tu davvero ti opponi anche ai principi radicali, è ovvio che non puoi piacere a nessuno, non puoi essere nessuno in positivo e questo implica che lo sei in negativo, dovunque ti inserisci, poiché non puoi essere veramente neutro finché esisti, non puoi essere veramente nessuno, ma rappresenti in questo caso un fastidio, e necessariamente verrai scartato, disprezzato, preso a pesci in faccia. Se davvero non ti sta bene nulla non troverai neanche un paio di mutande da metterti, non ti daranno nemmeno un bicchier d’acqua, se vuoi bere devi andare al fiume e attento che un contadino non ti spari contro col sale grosso. Ma uno a cui non va davvero bene più nulla, si suicida. Chi non lo fa è ancora indubbiamente legato a molte cose della vita che lo allettano, e solo deve trovare il modo di ottenerle in un contesto che egli contesta e che, sino a che è qui, non può far altro che combattere. Per un uomo che vuole arrivare ad essere se stesso, ovvero ad essere anche socialmente e dunque per tutti gli altri quello che potenzialmente già è, entrano qui in gioco la strategia, il compromesso, il doppio gioco, l’inganno, il trasformismo. L’essere cioè temporaneamente, o per lo meno l’apparire, qualcuno che non vorremmo essere in quanto non lo siamo, e trarre dalla rosa delle proprie carte d’identità i vantaggi necessari a proiettarsi oltre, verso l’unica Vera. Se tu ti pigli le carte che ti servono e le usi solo come strumenti, non sei tacciabile di incoerenza ed ipocrisia, perché la tua è soltanto una furbizia che il tuo unico vero scopo consente in pieno, purché quest’ultimo venga infine realizzato. Se non ti senti la coscienza serena facendo questi compromessi, è segno che non hai un solo scopo, ma vuoi adempiere a modelli di fatto contrastanti, sicché la tua è una incoerenza di tipo interno, una battaglia interiore che si fa più pesante e cruenta allorché nuovi elementi di realtà, nuove esperienze che si schierano dall’una o l’altra parte, vengono convogliati nel corpo e nella mente. Questo bellicismo interno è il primo a dover essere risolto, perché altrimenti ti impedisce di combattere appunto con coerenza, il che significa semplicemente avere una sola meta e considerare tutto il resto come un mezzo. Devi in sostanza chiarificare te stesso, sapere quello che vuoi. Sei invece tacciabile di incoerenza e ipocrisia nel momento in cui ti pigli a cuore quelle carte d’identità che cerchi di collezionare nel portafogli, e ti misuri secondo esse, ti senti sminuito se te ne manca una, ti incazzi se quest’altra non ti viene convalidata, e ci tieni ad essere chiamato Dottore. Sembriamo qui aver contrapposto fattori narcisistici a fattori materiali, e sostenere che i primi sono appunto legati alla percezione della propria identità, i secondi a quello che puoi ottenere in sua conseguenza, oppure sono il mezzo di soddisfazione di esigenze secondarie. La questione sarà presto chiarita. Il Narcisismo è Vanità. Vanità significa vuoto. Significa vuoto perché la vanità è ciò noi rappresentiamo per gli altri, il che il più delle volte non corrisponde a ciò che siamo veramente, sicché non può portare quei vantaggi materiali che soddisfano infine i nostri veri bisogni. Se la nostra immagine, in noi stessi e nella coscienza degli altri, corrispondesse a ciò che di fatto siamo, noi avremmo in mano la soddisfazione di tutti i nostri bisogni materiali. Ovvero gli unici bisogni reali, poiché quelli narcisistici non ne sono che un preventivo calcolato in base alla percezione della propria immagine, una sorta di garanzia di ciò che ci aspetterà nel bene e nel male. Il narcisismo è un fantasma o meglio un demone fatto delle nostre paure, legittime, di essere defraudati di tutti gli oggetti del bisogno qualora la nostra immagine crollasse nel disonore, e dalle nostre zuccherine speranze, quelle succulente previsioni di bella vita e vantaggi materiali che conseguirebbero invece ad una impennata d’immagine, ad una trasfigurazione fortemente irrealistica e montata della persona che siamo veramente, la nostra mitizzazione e sopravvalutazione. Quest’ultimo è un utilizzo dell’immagine fraudolento e biasimevole come ogni falsificazione, ed ha conseguenze disastrose nella misura in cui il falso si espanda e domini. Abbiamo l’Industria del Falso, lo Yield Management dell’Immagine, che cerca di sfruttare e favorire ogni lacuna nelle teste delle persone, ogni opinione sbagliata, ogni ingenuità, ogni pigrizia e conformismo, ogni stupidità, ogni invidia, ogni paura, ogni situazione, ogni bisogno, sia questo reale o a sua volta indotto, ogni sentimento, sia questo preesistente o analogamente costruito o ancor involontariamente creato da un mondo che non può controllare tutto, ma cerca di controllare tutto quello che può portargli un vantaggio. Ma ancora: la procedura di associare la propria immagine a qualcun'altra che già si è affermata come positiva, ad esempio una marca di occhiali ancora non famosa alla faccia di Valentino Rossi, oppure chi si appiglia alle glorie del passato per abbellire la propria miseria presente, o al contrario si cerca di associare l’immagine di qualcosa che non amiamo a qualcos’altro che è già stato riconosciuto socialmente come negativo, portando quindi molta gente dalla nostra parte, oppure screditare un nostro avversario di oggi associando la sua immagine a quella negativa di un avversario passato che di già è stato sconfitto, anche qualora i due non avessero niente a che fare e non fossero neppure simili. Ma al di là di tutte queste porcate, esiste un narcisismo sano e giusto: quello che ambisce ad apparire come realmente siamo. Poiché ciò soltanto può portare alla soddisfazione dei nostri bisogni. Noi abbiamo di fatto bisogno di tante cose, e questi vantaggi, che sarebbe invero illecito chiamare vantaggi in un modello sociale che non è più competitivo, non stridono con la nostra identità e sono cose dunque che noi non contestiamo affatto, e non siamo incoerenti allorché cerchiamo, come possiamo, di impossessarcene. Il fatto centrale è che questi beni possono essere ottenuti, in un mondo strutturato in maniera ingiusta, solo da chi ricopre determinati ruoli, sicché compare la temporanea necessità di apparire, di rappresentare quello che non siamo per avere quello che ci spetterebbe di diritto allorché fossimo quello che siamo in un mondo giusto, in un mondo strutturato bene. Nella storia sono stati creati infatti dei ruoli con allegati determinati poteri, diritti, vantaggi che non corrispondono a giustizia. Alla fin dei conti la nostra ambizione è quella di essere persone soddisfatte, ma nella globalità di una vita sociale ognuno di noi può essere soddisfatto solo allorché la struttura sia perfetta. Quando non lo è noi siamo in balia di molteplici insoddisfazioni. Allora ci accaparriamo quello che ci manca o infrangendo la legge, oppure diventando ipocriti agenti del sistema, nelle locazioni che consentono un maggior benessere.


Un’opinione maldestra…

Se tutti ci mettessimo a fare gli intellettuali criticoni, non mangerebbe nessuno.

È falso. Perché se tutti ci rifiutassimo all’unisono di sottostare a regole ingiuste, il potere sarebbe costretto a cambiarle, o addirittura a cedere lo scettro a chi maggiormente rappresenta il popolo. Il potere di chi comanda sta nella mente di chi obbedisce. Una minoranza non può imporsi sulla maggioranza senza il suo consenso. Quindi, o si ammette che la maggioranza sia di fatto collusa col potere ed invero soddisfatta della propria vita e convinta della giustezza delle regole, oppure non resta che denunciare la negligenza originaria con la quale essa le ha lasciate svilupparsi negativamente, quando avrebbero potuto essere stroncate subito, con atti di intelligenza e coraggio. Se il sistema sbaglia e si è consolidato nei suoi aspetti deteriori: potere a chi non lo merita, viscosità, conflittualità, disordine, cultura asservita al mantenimento della situazione anziché al suo superamento critico (principalmente scuola e università, ma anche tutto ciò che resta) ed ipertrofica a rendere impossibile lo smaltimento, lo dobbiamo, se non alla volontaria collusione, ebbene ad una generalizzata pigrizia, viltà, miopia e stupidità delle masse: e sono infine questi errori che necessitano il filosofo al suo lungo apprendistato studioso, analitico, scrittorio e solo alla fine concreto, dacché egli è stato messo da solo di fronte ad una situazione materiale, sociale e culturale (ed invero quest’ultima solo gli spetta come filosofo) talmente intricata e densa, e crescente a vista d’occhio durante la sua vita, resa tale dalle negligenze di intere generazioni. Altrimenti, egli sarebbe stato un politico o un condottiero, o si dedicherebbe ad una nicchia del sistema serenamente visto che i massimi sistemi sono già sistemati. I soldi con cui lo studioso chiedesse di essere mantenuto ma invero a miglior diritto stipendiato: per costruire un futuro serio, sono del resto un’inezia rispetto ai miliardi con cui la massa lavoratrice finanzia lo stato e tutti i suoi sprechi e le sue scorrettezze. I servi interessati del sistema commettono a questo proposito, contro gli intellettuali ovvero i soli veri nemici del presente e creatori di futuro, e lo compiono insistentemente e frequentissimamente, un atto di estrema vigliaccheria rinfacciandogli la loro indipendenza economica contrapposta a quel classico stato di dipendenza, di fatto parassitaria quanto a questioni di sussistenza, nel quale gli intellettuali spesso si trovano. Il nucleo di questa riprovevole vigliaccata è semplice ed evidente. Loro hanno ereditato (e non conquistato o costruito) un sistema la cui struttura fondamentale coincide coi loro limiti, materialmente ed intellettualmente: di conseguenza possono realizzarsi lavorando ad un suo aspetto particolare, avendo un riconoscimento sociale e dunque un onore garantito, una protezione politica, e una remunerazione economica. Questo perché le basi sono già state impostate e dunque non stridono con quanto vi viene sopra innestato, allorché tali uomini possono sentire di vivere in un clima sereno, nel clima della propria epoca, in mezzo ai propri simili, e quello che fanno viene ad essere quindi per lo più appagante ed anche liberatorio: esso non lascia particolari riserve o risentimenti, ed il residuo di contrarietà ed affaticamento che comunque lo caratterizza con determinata costanza è dovuto precisamente alla misura in cui tale sistema, in cui tutti si inseriscono, resta di fatto abbastanza denso di elementi differenti, in modo da determinare la necessità di produrre anche cose che non vorremmo produrre od in forme non piacevoli, solo perché esse appagano gli altri, o di produrne quantità eccessive rispetto alla nostra volontà, ed il nostro non sia dunque un mercato perfetto fatto di equilibrio tra domanda ed offerta, ma necessitato a conciliare un aspetto appagante, per ogni lavoratore integrato, unito ad un aspetto degenerativo o usurante, il quale non è uguale per tutti e che dovrebbe appunto essere ricompensato proporzionalmente da un plusvalore in denaro, rispetto allo standard di equo benessere, dal momento che metà dello stipendio dovrà essere usato a scopo terapeutico e solo l’altra metà a scopo espansivo. In una società di questo tipo, individualistica ma che si ritrova sociale nella misura in cui moltissime persone sono di fatto simili e dunque vanno d’accordo nel lavoro e nello svago, tutti i lavoratori, chi più chi meno, vedono nella sfera della propria vita una fase realizzativa diretta che li mantiene felici con la sua costanza, a cui è sovrapposta una fase altrettanto costante di equilibrio chimico fatta del binomio degenerazione - rigenerazione. Il risultato è che la maggior parte della gente è fondamentalmente felice, dovendo però sopportare un quantitativo di disagio quotidiano che, nelle persone che raggiungono un maggior reddito, viene ampiamente e prontamente riparato ben oltre l’essenziale, nei più poveri invece viene ricomposto a malapena oppure non lo è mai completamente ed anzi vede una progressiva degenerazione della persona, che si usura giorno per giorno, anno dopo anno, senza riuscire a rimettersi in sesto se non compare un riscatto socio-economico che consenta la ripresa del circolo virtuoso e quindi la crescita del benessere, o per lo meno blocchi la parabola discendente e la sostituisca con un regime di mantenimento. Nel sistema individualista dunque, dal momento che ognuno ha degli obiettivi modesti, tutti possono essere felici con una certa facilità e senza dover affrontare una vera e propria guerra ma solo una competizione che tuttavia risulta abbordabile e non sempre così feroce, che spesso può risolversi in un accordo, in una spartizione del mercato che è sufficiente per molti a stare bene e frustra solo i più ambiziosi ed arrivisti incalliti. Il sistema borghese consente a tutti i membri della classe borghese l’accesso alla felicità pur non salvaguardando completamente nessuno dal rischio di affondamento economico inerente al libero mercato. Se un uomo però non appartiene alla classe borghese, bensì a quella nobile, egli non si adatta a questo sistema. Egli ha intrinsecamente degli scopi organizzativi e dunque non accetta né la competizione né la democrazia: il rinchiudere la propria vita nelle angustie dell’individualismo materialistico e di quella finta guerra che si chiama competizione, il dover accettare un mondo caotico, disarmonico ed incoerente, entro il quale spicca il dominio di opinioni superficiali, con i comportamenti dannosi ed impuniti che ne conseguono, rinunciando alla loro correzione laddove questa sia possibile, ed alla sottrazione di ogni loro influsso materiale qualora sia invece impossibile, per ottenere il dominio del vero e la sanificazione del mondo… il soffocare, dunque, i propri ideali, gli dà una sensazione talmente mortificante da fargli rigettare il lavoro, che in se stesso è un bene ed è amato e necessario per chiunque in quanto unico mezzo del benessere, ma che venendo asservito agli scopi di una classe inferiore soffoca la propria al punto che la remunerazione economica e dunque i beni materiali, che assolutamente nessuno disdegna, non sembra valgano la candela, e i diritti democratici, di cui anche lui giova, assumono molto di più l’aspetto di doveri antiaristocratici, di impedimenti e contrarietà di ordine materiale, sociale e concettuale alla realizzazione ideale di un individuo intelligente, e dunque favoriscono molto di più i suoi avversari che non lui. Ogni sua eventuale conquista intellettuale ottenuta con la ricerca, dovrà comunque rispettare il relativismo, il diritto di ognuno di continuare ad essere un idiota, un buzzurro, un ignorante, un egoista e comportarsi di conseguenza: essere quindi utilizzata solo per una affermazione personalistica ed economica, vale a dire mercatistica. Fatto sta che in un sistema dominato dal borghese, gli scopi dei nobili non sono contemplati e dunque non giovano di riconoscimento sociale, protezione politica e remunerazione economica. Precisamente questa è la fatale ingiustizia sociale per la quale egli non può campare del suo lavoro, che viene ad essere quindi una guerra, la si combatta direttamente con la lotta armata o ci si trovi ancora in quell’opprimente fase preliminare in cui si deve conquistare la propria bandiera e dunque ritrovare se stessi tramite un lavoro di ricerca intellettuale. Nessuno può apprezzare, riconoscere, proteggere, e finanziare un’attività sovversiva: che però è assolutamente vitale e prioritaria per una razza come per un gruppo sociale che, precedentemente sconfitti, fossero stati decimati e posti ai margini e magari non fossero stati completamente sterminati solo per errore o peggio, per sadismo. Un nobile adottato dalla società borghese è un animale in cattività: può mangiare comodamente, se lavora, ed egli non è certo incapace di lavorare, né troppo pigro per farlo, dal momento che ha capacità superiori e non inferiori al borghese, provenienti dall’intelletto che implica anche il carattere. Il fatto è che capacità superiori non possono essere asservite a scopi inferiori. Precisamente questo gli richiede invece il sistema: di vendere la sua anima per mantenere il suo corpo in mezzo ad una organizzazione difforme. Fatto sta che noi siamo anima e corpo: non possiamo vivere senza entrambe le cose, e non possiamo essere felici senza la loro sinergia realizzativa. Il nobile viene quindi posto in un dilemma irrisolvibile, al quale il borghese dominatore non è invece sottoposto: potendo egli realizzare ad un tempo il corpo e l’anima. Il borghese non si vende al mercato: vive nel mercato, egli è una merce, uno specifico prodotto commerciale, un individualista materialista, ed è felice nella misura in cui si vende. Non vi è nessuna alienazione nel lavoro capitalista, per un borghese, e non c’è neppure nel proletario che ha un’anima ancora inferiore al borghese: la mortificazione del proletario riguarda il corpo, non l’anima. Dagli più soldi, dagli condizioni migliori di lavoro, e il proletario stringe la mano al capitano d’industria. L’elemento narcisistico che potrebbe far sopravvivere una ostilità, è stato creato da chi ha distrutto l’ideologia sociale, organicistica, da chi ha inventato l’Uguaglianza degli uomini a danno di tutti gli uomini felicemente diversi: per cui nessuno si sentiva più sicuro se, oltre a se stesso, non aveva anche le capacità degli altri. Il Narcisismo è un male sociale, una schizofrenia indotta nell’anima di tutti per distruggere la civiltà. Dal momento che nessun uomo, avente capacità specifiche, poteva più avere garantita la sua dignità e la sua sopravvivenza: perché gli era stato detto che tutti devono essere uguali. Trovandosi egli incapace di essere come gli altri, di avere le qualità di altri, si è sentito mortalmente minacciato da chiunque ne avesse di superiori, ed ha reagito come la natura reagisce in questi casi: scagliandosi ferocemente contro la fonte della minaccia. Il concetto di Uguaglianza, che provoca schizofrenia in una mente sana, ossia una guerra tra anime incompatibili, si traduce concretamente nei conflitti di classe, nell’odio reciproco tra le classi, impossibilitate ad identificarsi e dunque determinate a distruggersi per salvare la propria individualità. Ma queste anime sono incompatibili appunto psicologicamente, non sociologicamente. Il mondo deve essere uno, come somma ordinata di molti, ma i singoli non possono invece essere plurimi senza impazzire, senza disgregarsi con una guerra interiore. Il mondo è stato distrutto ficcandolo dentro l’uomo, che non può esserne invece che una singola parte. Concentrato nella sua lotta interiore, dove tutti gli altri si presentano come nemici, ognuno si è disinteressato della struttura sociale, ha perduto la percezione del suo posto ed il fattuale vantaggio di esso, non ha più potuto lavorare in maniera altrettanto proficua per la società e vedersi ricambiato da essa: la società si è così scomposta e frammentata, cadendo in balia di chi volesse governarne gli elementi a suo piacimento. La furia distruttiva proletaria è stata inoculata e scatenata dall’egualitarismo che ha implicitamente richiesto all’operaio di essere quello che non poteva essere: alienato, questi ha reagito al suo senso di insufficienza abbattendo i simboli materiali di un’ambizione irrealizzabile, e dunque destinata, se mantenuta in vigore, a farlo soffrire eternamente. Il borghese, e poi il nobile, reagiscono allo stesso modo per salvare la possibilità della propria realizzazione: il dogma egualitario li vuole più piccoli di quelli che sono, li vuole oppressi in forme di vita più elementari, retrograde, e la loro anima è mutilata in funzione della distanza tra la statura morale e le condizioni di vita materiale. Le donne odiano gli uomini dal giorno in cui gli è stato richiesto di essere come loro. Gli uomini hanno reagito, ed è nato il conflitto tra femminismo e maschilismo: dagli effetti devastanti e lungamente insostenibili. La natura riesce a fare in modo che in un corpo sociale il livello intellettuale di una classe sia inversamente proporzionale al numero dei suoi membri naturali. Grazie alla struttura piramidale essi non combattono tra loro e i meno numerosi non vengono soverchiati dai gruppi più massicci che non hanno neppure motivo, se la gerarchia corrisponde effettivamente alla scala intellettuale, di ribellarsi ai superiori, che sempre agiscono nell’interesse comune. Ma il dogma egualitario abbatte la difesa strutturale, la piramide appunto, della società: ecco che il fattore Merito viene annullato e resta solo il fattore Numero a determinare la forza. Di conseguenza gli strati inferiori, per il fatto di essere più numerosi, sono destinati a trionfare, a decimare le classi superiori ed assumerne le funzioni senza averne potuto assumere le capacità: questo precisamente demolisce una civiltà e rende i suoi membri superstiti in balìa della classe intellettuale di un popolo straniero che volesse servirsene. Dopo una rivoluzione antigerarchica la civiltà si trova inizialmente ad un punto di stallo, di inconsistenza che, fossero ancora presenti un numero sufficiente di nobili e le classi subalterne non fossero state precedentemente infestate dal virus intellettuale delle idee egualitarie e dunque plagiati dalla convinzione innaturale e non empirica, non sensibile, dalla prepotenza di un concetto quindi, che essi possono e devono assumere qualsiasi ruolo e che non devono accettare nessun capo, ecco che i nobili potrebbero ancora riprendere facilmente il loro ruolo e parimenti chiunque, come a ricominciare da capo da una tabula rasa, si vedrebbe dalla comunità riconosciuti i propri specifici talenti e la piramide si ricostituirebbe. Per evitare, appunto, questo, gli istigatori di una rivoluzione hanno calcato la mano con la massima forza sulla propaganda egualitaria, e fomentato una politica del terrore che comprendesse il reale sterminio della maggior parte dei nobili. Nel connubio di questa inferiorità numerica schiacciante e del popolo alienato nel delirio di onnipotenza, i nobili non potevano più fare nulla, se non guardare atterriti il naturale sviluppo delle istituzioni democratiche, leggi, costumi, prassi: fattori che avrebbero consolidato nel tempo la forza di questo nuovo sistema, che li avrebbe di fatto lasciati ai margini, privi di spazi riconosciuti, ed essi in una situazione di semiclandestinità potevano a questo punto solo cercare di agire intellettualmente per demolire quella filosofia devastante e restaurare una visione aristocratica e organicistica del mondo, come unico viatico che avrebbe consentito, schiarendo e rinnovando la psiche delle prossime generazioni, già culturalmente e materialmente integrate nel mondo democratico fin dalla nascita, una nuova rivolta che abbattesse i bastioni materiali di questo sistema, nel frattempo diventati sempre più imponenti, di fatto impossibili da stroncare direttamente, senza una preventiva rivoluzione intellettuale che compensasse quell’altra, analogamente necessaria al precedente passaggio epocale. Dunque: 1) Per prima cosa passa un virus intellettuale 2) Questo porta ad una rivoluzione violenta che abbatte la struttura sociale e ci si ritrova nel caos, però con una sproporzione estremizzata tra le classi dovuta alle epurazioni delle classi attaccate e con la classe rivoluzionaria invasata dal delirio di onnipotenza 3) La classe materialmente vincitrice della rivoluzione non può evitare di assumere il potere, ed il suo livello intellettuale determina anche la forma della civiltà e dunque i suoi limiti, inquantoché si pone al suo vertice ed allora mutila tutto quello che gli è superiore, incomprensibile e dunque inutile, a meno che non accetti di asservirsi ai loro massimi sistemi che non sanno di essere soltanto medi (società borghese) o addirittura infimi (società comunista o tribale). Chi troneggia la vita politica troneggia anche quella economica e decide dove vanno i soldi.
I finanziamenti vengono dati, banalmente, a chi meglio serve il sistema: dunque nello stato borghese vengono investiti laddove promettono di creare il maggiore giro di affari, che però non sono volti al risanamento, alla pacificazione, all’ordinamento, alla giustizia, ma alla supremazia individualista. Se tu ti accontenti di sviluppare un giro di affari minore, ti basteranno meno soldi, ma sappi che vanno utilizzati nella stessa ottica di fondo (ed in quest’ultimo caso non è nemmeno possibile fare altrimenti visto che i soldi sono pochi e li devi usare per te stesso e per i tuoi cari altrimenti non avresti mai il benessere sufficiente per sostenere delle cause sociali). Il nobile non ci sta: egli ha rabbia, vuole cambiare il sistema, però si rende conto di non averne i mezzi e che questi vanno dunque pazientemente costruiti. Solo che il corpo può sopravvivere anche tenendo l’anima in un cantuccio: mentre l’anima si disgrega parallelamente al corpo. È dunque prioritario vivere: ma economicamente si vive solo grazie al sistema e dunque servendo il sistema, non osteggiandolo. Se il nobile vuole campare, deve uccidere l’anima, sebbene questo non sia davvero possibile, perché anch’essa è necessaria alla prosecuzione della vita analogamente all’energia del corpo, e si possa quindi solo opprimerla indefinitamente ed accettare una sua crescita graduale. Il nobile deve comunque accettare di essere un borghese, ossia l’impossibilità di essere normale. Se vuole salvare l’anima, oppure è ansioso di svilupparla rapidamente perché si rende conto che è grandissima e che se perde vent’anni non gli resterà più tempo utile, egli è destinato a diventare un barbone… a meno che qualcuno non lo mantenga. Il problema è che quelli che soli potrebbero mantenerlo… sono borghesi! Sono la civiltà inferiore che essi vogliono distruggere. Siete voi disposti a finanziare la crescita di coloro che vi distruggeranno? Non esiste. Il Nobile è pertanto costretto a combattere una guerra contro chi in qualche modo lo sta nutrendo, ed il compromesso è possibile solo in virtù del fatto che l’incompatibilità non è totale, dal momento che lui riesce anche a vivere in parte sistemicamente, ed in parte a ricevere una qualche fiducia e rispetto che comportano anche il sostegno economico da parte di soggetti che sono sì borghesi e tarati dai limiti del borghesismo, ma che questi non sono (o non sono sempre) dei precisi limiti razziali. Il borghese fa parte di una razza come qualsiasi altro individuo, ma non è in se stesso una Razza, bensì un Rango. Equipariamo il concetto di razza al concetto di anima e quindi diciamo che ogni uomo appartenente ad una razza ha la stessa anima e rappresentiamo l’anima con una linea. Qui inseriamo il concetto di Rango e diciamo che i ranghi sono i consecutivi segmenti che coprono quella linea: i proletari ne capiscono il primo segmento, i borghesi anche il secondo, ma non il terzo ed ultimo che viene coperto solo dal raggio intellettivo del nobile, che comprendendo gli altri e facendo parte della stessa linea animistica ha interesse a governarli per il loro bene e non sarà mai loro ostile a meno che qualcuno non inserisca una perturbazione sociale che minacci questa gerarchia. Ci sono borghesi di razza buona come proletari di razza buona e ci sono anche nobili di razza cattiva che invero dovrebbero fare parte di un altro popolo e che sono altra cosa rispetto alle due figure suddette, perché quei due sono tollerabili ed in fondo amici in una società strutturata bene, mentre i vertici di razze aliene sono nemici mortali. Se parliamo di omogeneità razziale, ma di struttura sociale corrotta, possiamo vedere che il motivo dell’incomprensione, dell’ostilità, dell’inaccettazione che il nobile riceve nella società borghese è spesso da ascrivere ad una struttura sociale di fatto impostata e vigente ed ogni giorno nutrita dalla forza d’inerzia e dalla propaganda culturale, dalla quale la borghesia non ha le armi per distaccarsi e per superarne i limiti: però potenzialmente può accogliere anche l’ipotesi di una direzione politica più elevata, e non è vero che il borghese non comprende per niente il nobile o lo considera un nemico. La rivoluzione borghese non l’ha fatta propriamente la borghesia perché non era una lotta razziale, e dunque i borghesi non odiavano i nobili: fu una rivoluzione fomentata dall’esterno per scopi esterni, adescata da ideologie perverse ed ingannevoli. Ma la società borghese ha dei limiti che vengono pagati anche dai borghesi stessi, fattualmente incapaci di risolvere determinati problemi, con la loro mentalità ristretta, e che vorrebbero vedere ben risolti da qualcuno che dimostrasse all’improvviso di esserne capace, innanzitutto perché li comprende e poi perché ha il coraggio di combatterli. Anche il rifiuto, da parte delle classi borghesi e proletarie, di un ritorno ai vertici dell’aristocrazia nobiliare è da ricondurre molto più a fattori propagandistici, al plagio delle coscienze operato dai veri signori del sistema: gli stessi che guarda caso pilotarono le rispettive rivoluzioni, che non invece da un’ostilità naturale verso i nobili. È stato loro fatto un lavaggio del cervello costante: col concetto che i nobili sono malvagi, quando è vero il contrario, ed anzi tutti loro ne avrebbero estremo bisogno perché senza questi personaggi la società non può risanare delle piaghe fondamentali e che coinvolgono tutti. Il fenomeno di corruzione spirituale a cui ho accennato, se non lo si comprende chiaramente come tale, e nella sua genesi e possibile soluzione, può portare all’eccesso di considerare il borghese e il proletario delle Razze, e dunque dei nemici per l’uomo nobile, entrambi da distruggere in quanto incompatibili. Certo non è così. Essi sono incompatibili solo sino a che la gerarchia sociale è fattualmente invertita ed i rapporti di forza materiali e culturali non consentono una sovversione. Certo ogni guerra ha le sue vittime: e se è necessario uccidere un grande numero di borghesi e proletari per riportare al vertice la nobiltà, sarà fatto e senza tanti scrupoli, anche per sana vendetta e non solo per la necessità della causa. Ma quando la guerra sarà vinta, non ci sarà bisogno di sterminare i superstiti avversari, poiché essi non sono nemici intrinseci, ossia nemici di razza, e sono invece elementi assimilabili nel nuovo sistema, seppure adesso nella debita posizione subalterna, sotto il nostro comando politico, culturale ed economico, e che possono dunque giovare a quest’ultimo come elementi invero necessari e che altrimenti andrebbero sostituiti, ed essere dal sistema serviti e felicitati più di quanto non lo potessero essere prima, non rendendosi conto dei limiti che avevano e che c’erano allora problemi di fatto irrisolvibili volendo mantenere al vertice politico quella classe sociale. Una considerazione importante trova adesso il suo spazio. Ossia che Il Borghese Integrato, si tratti di un imprenditore, di un politico, di un avvocato, di un giurista, di un magistrato, di un poliziotto, di un medico, di un insegnante, di un giornalista, di un ricercatore, qualsiasi borghese integrato conosce le magagne del suo sistema molto meglio dell’intellettuale controcorrente. Per la semplice ragione che egli le ha viste dall’interno, e con maggior dovizia di particolari, anzi vi ha partecipato attivamente con le sue scelte, mentre l’intellettuale è per lo più costretto a ipotizzarle e poi dedurle sulla base degli esiti finali di cui è stato effettivamente testimone coinvolto, ma non avendo voluto integrarsi per principio gli sono mancate le fonti dirette: accessibili solo a chi accetti di essere coinvolto e alla fin fine di sporcarsi le mani a sua volta, cosa che affranca lui da eventuali contraccuse di collusione, e garantisce invece nell’opportunista, anche colui che non fosse pienamente d’accordo e magari non avrebbe preso lui per primo una decisione di vertice tanto bieca, una disposizione piuttosto ferrea all’omertà e una fidelizzazione al mal partito, dal momento che non potrebbe uscirne completamente pulito. Dunque, il filosofo si è fatto uno schema concettuale assolutamente coerente nella sua logica schiacciante: ma non è mai stato in prima persona nelle segrete stanze, non ha ascoltato certe conversazioni, non ha visionato i documenti firmati, non ha partecipato a certe operazioni, ed ha pochissime informazioni personali sui soggetti coinvolti. In sostanza egli detiene una caterva di prove razionali ma quasi nessuna prova concreta. D’altro canto egli non è un detective, un inquirente, una spia, un avvocato e quant’altre figure possano ottenere dati più precisi. Quando un borghese integrato legge le critiche generaliste di un filosofo antiborghese, è naturale che abbia una reazione duplice. Il primo lato della reazione comprende considerazioni di questo tipo: 1) questo tizio sembra sapere molte più cose di quelle che è plausibilmente in grado di sapere 2) egli non si rende conto di fino a che punto e con quale vastità di sottofenomeni queste cose siano diabolicamente vere 3) egli fa il passo più lungo della gamba perché probabilmente si sente pressato ma se lo lasciassero tranquillo attraverserebbe tutta la prateria con comodo 4) egli si dirà che ci è andato giù pesante ma in realtà ci è andato leggero 5) si dirà che fa delle affermazioni e delle accuse inaccettabili ed è bene definirle tali perché se andassimo a verificarne empiricamente la fondatezza ce la faremmo tutti quanti in mano. La seconda metà della reazione comprende invece consimili considerazioni: 6) Essendo un filosofo, costui afferma ed argomenta in maniera astratta e dunque generica: il pericolo di codesti attacchi è che colpiscono tutti, la loro debolezza tuttavia, è che non colpiscono nessuno. Egli ci ha smascherati tutti con la forza della sua logica ma non può di fatto incastrare nessuno perché non ha le conoscenze specifiche: tantomeno delle prove in mano, e qualora gli venissero richieste lui si troverebbe in imbarazzo come ci siamo sentiti noi leggendo questa roba. 7) Si tratta di un libro di livello piuttosto elevato e quindi scarsamente fruibile 8) Non glielo pubblicherà nessuno perché oltre che poco commerciale è anche di un estremismo improponibile 9) è un individuo singolo e probabilmente pieno di problemi: è molto vulnerabile e se vogliono stroncarlo, lo spazzano via in tre minuti.

In ogni caso se anche non fosse lui a portare delle prove empiriche, le sue tesi si trovano in una botte di ferro perché, ammesso che siano dedotte correttamente da una serie di dati empirici esatti, sono necessariamente vere, ed è allora sempre possibile, da chi se ne interessasse, andare a reperire codeste prove e poter formulare finalmente anche delle accuse personali, senza contare che già diverse persone ne sono sicuramente a conoscenza in quanto implicate e leggendo quel testo generalista si sono prontamente sentiti chiamati in causa e preoccupati, magari non direttamente dal suo autore, persona dai mezzi sicuramente limitati, ma da quante persone siano invece vicine a loro nella storia precisamente come vittime e possano quindi unire le loro informazioni specifiche a quel tremendo quadro generale contenuto nell’opera, che rende assai meglio interpretabili alcuni fenomeni di nicchia, sottovalutati nell’ignoranza delle loro interconnessioni e dell’unità della radice, ordunque nell’effettiva pericolosità. Si sarebbe allora costretti, moltissime persone sarebbero costrette, ad eliminare queste prove: senza tuttavia poter eliminare definitivamente le prove dell’eliminazione, la quale poi costituirà una prova di colpevolezza munita di un’aggravante. Ogni evento ha ulteriori conseguenze, e se si tratta di un evento ingiusto avrà delle conseguenze negative che ricadranno sulle spalle di altre persone: chi indagasse su ciò che venisse testimoniato e magari denunciato da codeste persone, troverebbe l’imbroglio, osserverebbe poi come vi debba essere dell’altro dietro, e consentendo ciò di proseguire l’indagine fino a che ogni nodo divenga al pettine ed infine l’originario malfattore non si trovi con le spalle al muro con una espressione sul volto che dice soltanto COLPEVOLE, e che non si cancellerà ormai nemmeno se questo tizio si spara in bocca. È dunque assolutamente fondamentale che questo dannato testo non venga alla luce. Se viene alla luce, nulla varrà neppure perseguitare, diffamare, condannare, linciare o anche giustiziare il suo autore. Anzi, ciò sarà controproducente per l’evidenza del movente e lo trasformerà in un martire. Quello che è difficile da dimostrare in quanto, pur avendo una connessione logica con un evento accertato, non si hanno i mezzi personali per verificare empiricamente, è anche più difficile da smentire dalla parte avversa tramite delle prove empiriche che dovrebbero essere necessariamente falsate, e la cui falsità, non solo stride logicamente con verità evidenti e dunque rende assurda la sua testimonianza, ma può essere contestata direttamente da altri testimoni oculari. Questi testimoni andrebbero dunque circuiti, plagiati, comprati, ricattati o eliminati: sicché la cosa si complicherebbe in maniera eccessiva e troppo rischiosa. Ragion per cui, verso chi sostenesse delle tesi generaliste di così alto livello, la difficoltà di trovare obbiezioni logiche non verrebbe aggirata da un risoluto utilizzo di obbiezioni empiriche: si sarebbe infatti costretti a mentire, con i rischi suddetti, e la temporanea impossibilità dell’avversario di contestare empiricamente la tua affermazione, anche chiaramente ammessa, non sarebbe sufficiente ad attestarne la verità, mettendola al sicuro da ogni contro indagine fattuale. In definitiva ai destinatari di codesti attacchi ideologici si conviene il Silenzio: ed il silenzio è un fatto difficilmente contestabile.


L’unica istanza indipendente dalla filosofia di un regime deve essere la Ricerca.
Poiché tale ricerca è richiesta dal sistema stesso per essere migliorato, e di conseguenza non può che contestarne alcune parti. Se un sistema fattualmente fallimentare si crede perfetto e non concede nemmeno il diritto alla ricerca, che è per definizione stessa finalizzata al cambiamento ed alla riforma, tale diritto va preso con la forza, ed è la prima legittima rivoluzione. Chi la dichiara legittima, se il sistema stesso la esclude? A farlo è la natura stessa che volge all’organizzazione. Le forze organizzative, che pulsano negli individui maggiormente dotati di intelletto, sono quel bene originario che ora ha preso corpo in loro e grazie a loro può adesso affermarsi, allargarsi a sempre più ampie fasce del sistema, o meglio a quell’insana amalgama che deve diventare sistema per essere felice e giusta. Tutto ciò che è sotto lo Stato deve essere coerente con le direttive statali. Ma lo Stato stesso è sotto la Ricerca, ed è vincolato ad assecondarne il progresso. Lo stato è il garante di un equilibrio temporaneo, ossia è garante della sua propria forma. La ricerca è il garante di un equilibrio stabile, quello che si realizzerà attraverso la serie di equilibri imperfetti e dunque temporanei, le Forme di Stato, ottenute tramite i Passaggi di Stato, ossia le rivoluzioni. I due massimi alleati sono dunque Lo Stato e la Ricerca: la seconda consente di andare avanti, il primo di non tornare indietro. Il primo feconda, la seconda genera. Se definita in quest’ottica, la democrazia è stata dichiarata un sistema imperfetto in maniera inesatta, poiché essa non è un sistema coerente, bensì uno stato semi gassoso, espressione di una crisi ideologica generale, spesso conseguente ad un conflitto bellico, che vede l’incapacità immediata, in coloro che restano in piedi dopo il crollo di un regime, di passare da una forma di governo all’altra, ossia da una dittatura che crolla ad una dittatura nuova di colore diverso, e allora si sopravvive con forme parziali di organizzazione, caratterizzate da una regolamentazione meno rigida e dunque ampie libertà per i singoli, tuttavia sotto il controllo di certi principi fondamentali e vincolanti per tutti. Questa analogia con la fisica non è casuale: lo stato maggiormente disorganizzato e caotico è quello gassoso, che nel mondo sociale è l’Anarchia, quando invece le forze organizzatrici attraverso condensazioni e solidificazioni giungono alla struttura cristallina che vuol infine raggiungere lo Zero Assoluto, la fine del moto, la morte termica dell’Universo. Una vera Democrazia, essendo instabile, è lo stato governativo che deve maggiormente difendere e promuovere la Ricerca, perché risente ancora di una grande incoerenza strutturale cui porre rimedio. La Democrazia converge naturalmente alla Dittatura poiché la seconda rappresenta uno stadio di organizzazione maggiore: eppure la teme poiché rischia di essere uguale a quelle passate che hanno, o si dice che abbiano, generato disastri. La democrazia teme dunque che dal suo calderone sublimino e si pongano a principi regolatori e dominanti gli stessi elementi che già abbiano sbagliato una volta. La democrazia è dunque uno stato infelice ma prudente, che in mancanza di valide idee nuove che abbiano un aspetto rassicurante preferisce mantenere la propria incoerenza, crogiolandosi in essa, la propria litigiosità tollerante e irresoluta, compromissoria, contenuta, falsa, e difende se stessa con mille inviti e lusinghe nei confronti del pluralismo e delle forze in equilibrio instabile il quale deve impedire che una sola forza prevalga, poiché potrebbe essere quella sbagliata. Il passato ha fallito per il semplice fatto di essere passato e pertanto è giusto un principio che neghi il ripresentarsi di un regime identico a uno di quelli passati. Ma un ordinamento costituzionale che vieta il passaggio dalla Democrazia ad una nuova Dittatura, o la possibilità di produrre un principio che invalidi quelli già espressi, è invece contro evoluzionistico e va pertanto espunto del relativo articolo. Lo Stato attuale, fattualmente sottostante all’autorità della Ricerca, non può porre valori esclusi a quest’ultima. La Ricerca è infatti al disopra dello Stato ed è nata per farlo evolvere: altrimenti è completamente inutile. Ed ogni diritto o sostegno statale alla Ricerca diviene puramente formale ed ipocrita.



La Gabbia


Arginiamo il corso della storia! Noi dobbiamo sacrificare il futuro al presente! Vituperare, infettare, fiaccare e stroncare il prima possibile qualsiasi cosa odori di cambiamento e ne proietti le potenzialità! Tutti gli obiettivi elevati vanno sacrificati sull’altare di obiettivi indegni servi del presente! La bassezza del presente va conservata ad ogni costo, in ogni sua locazione: solo in questo modo il sistema non rischierà di evolvere, e noi potremo sopravvivere in questo terriccio dove coviamo nuovi progetti di distruzione! Oh sì il mondo deve regredire! Degenerare sino al non ritorno! A questo scopo, le poche stille di virtù che ancor si difendono devono trovarsi in condizioni sempre più proibitive. La sofferenza e la fatica li soffocheranno: e saranno innocui! Poniamo ogni elemento innovativo che riesce a farsi strada in mano alla massa, sottoposto al suo giudizio ed alla sua amministrazione, che essa lo sottragga di fatto dalle mani del suo pericoloso inventore ed impari ad usarlo per suoi scopi auto conservativi! Massifichiamo ogni cosa, apriamo i bacini di risonanza, coinvolgiamo la gente, stronchiamo l’eletto, condanniamo come abietta presunzione la sua richiesta di stare su un piedistallo con i diritti conseguenti. Dacché la Cultura poggia sul privilegio, che ogni privilegio sia delitto! Copriamo di vergogna il sol pensiero di essere qualcosa di superiore, osteggiamolo, confondiamolo, indottriniamolo, facciamolo dubitare di se stesso, rendiamolo nemico a se stesso, un criminale, incolpiamolo della sua virtù e facciamola andare a male, che lui per primo la percepisca come qualcosa di marcio da espellere, poniamo l’obbligo all’eletto dalla natura di farsi valutare ed eleggere dalla commissione dei mediocri per ottenere l’abilitazione a seguir la sua stella: ed è ovvio che non gli daremo mai il nulla osta, né tantomeno il nostro appoggio, per quella che diverrebbe inevitabilmente un’attività eversiva! Instauriamo il reato di apologia della diversità per fermare gli unici che sono davvero diversi dall’essere se stessi e dal pretendere la postazione apicale che gli spetta come direttori generali d’una rifondazione sistemica! Diciamo che essere diversi è un peccato dettato dal libero arbitrio o dalla miseria interiore. Il Principio Primo è che tutti hanno il diritto di essere diversi purché siano uguali. Questa è l’unica politica morale ed accettabile, dall’intento fossilizzatore eppure presentata come la più moderna ed evoluta in assoluto, la migliore possibile, una forma eterna da non mettere in discussione! Tale è la cosiddetta Diversità Egualitaria, quella che ingloba la fattuale ed inevitabile diversità naturale sottraendole la sua conseguenza ossia la gerarchizzazione della società, e la asserva al suo progetto di conservazione del presente quale habitat naturale dove la nostra specie mediocre sopravvive al meglio e prolifica! Manteniamo dunque in vita questa maschera della tolleranza, di cui abbiamo bisogno per conservare il nostro dominio, facciamo finta di non essere ostili a nessuno anche se opprimiamo persone fino al desiderio di morte, facciamo passare il concetto che tutti possono essere felici nel nostro calderone indifferenziato, sottolineo Pacifico e Libero, dove regna una tenera armonia gioiosa, purché non ne mettano in discussione le basi. Poniamo in vigore la diversità non belligerante e non gerarchica e dunque solo formale e non fattuale, perché in essa il vulgus conserva il suo predominio sociale! Se la diversità naturale fa sentire la sua voce ascendente, abbiamo le nostre contromisure. Se il conflitto è inevitabile dobbiamo fare in modo che esso rimanga il più possibile in equilibrio. Poniamo dunque subito un contraltare ad una forza che erompe minacciando di crescere troppo, se una non basta creiamo una compagine. In generale favoriamo la moltiplicazione delle culture. Di modo che tutto sarà confuso ed indistinto, e l’uomo si perda nell’oceano dei mille colori, che ci voglia una vita a studiare tutto, che sia molto impegnativo anche solo pianificare quello che si vorrebbe studiare, o capire quello che è davvero necessario ai propri scopi, oscurati appunto dall’ignoranza dei mezzi, dalla loro caotica molteplicità, che sia un’impresa impossibile ascoltare tutti e sia difficile prendere una decisione, ma soprattutto prenderla con una netta cognizione di causa e con la sicurezza di non aver trascurato nulla di importante: sicché anche le decisioni prese non possiedano quella fermezza e determinazione che tanto giovano alla battaglia, che dunque un proposito non divenga una Fede per cui si è pronti a uccidere e morire. Che la consapevolezza dei propri limiti favorisca invece, nelle persone, una maggiore umiltà e l’abbassamento degli obiettivi, un generale spirito relativista, scettico, modesto, prudente, particolarista, piccolo egoista, tollerante, democratico e dunque non-ideologico, rassegnato circa la possibilità di grandi cambiamenti. Che l’uomo moderno sia ignaro del fatto che tale situazione abbia una genesi storica e non rappresenti affatto una legge della vita: che L’attuale stato della società limita l’essere umano nei suoi orizzonti intellettuali e materiali. Che molti prendano dunque una decisione per stanchezza, per necessità, per ignoranza, per umoralità, per opportunità, per gioco, per caso, per bisogno di appartenenza, ma senza vera convinzione e determinazione. Che molti rinuncino alla sola idea di trovare un ideale rivoluzionario e giusto e si appaghino di un estetico, occasionale contatto con qualcosa di adesso gradevole, che suoni confortante od appaia addirittura sanificante: senza però una garanzia di sicurezza ed immersi nel dubbio su quant’altro di meglio si sarebbe potuto trovare in questo guazzabuglio di tutto e di niente. Che tante persone si richiudano in un individualismo di sopravvivenza adattiva, serpeggiante, astuta, nichilista, dominata dal precario, dalla confusione etica e concettuale, dall’etica fai-da-te, dal siamo-tutti-filosofi, dall’idealismo occasionale, da quello settorializzato, troncato nelle sue possibilità di espansione o radicalizzazione, vanificato invero dalla mancanza di un coordinamento centrale dei singoli apparati con le rispettive linee di azione benefica e destinato quindi, al massimo, ad ottenere progressi temporanei come tutto ciò che è parziale, assente una weltanschauung che dia forza di significato e coesione al tutto, quella visione del mondo che possa generare una Fede. Che sopravvivano un idealismo filtrato e selezionato alle reti dell’egoismo, quello nato dai condizionamenti esterni e dagli inganni, quello riconducibile a qualche esigenza psicologica, quello impedito dalla stupidità, quello necessario a potersi guardare meglio allo specchio, a sviare il maggior numero di disprezzi i cui vetri sono onnisparsi e non ben prevedibili nell’inquieto e promiscuo calderone sociale. Che sopravviva il pensiero non-sistematico in un mondo che sistematico non è, divenuto talmente complesso e contraddittorio da rendere quasi impossibile trovare punti di riferimento stabili e credibili, un mondo così fitto di necessità contingenti da non consentire la contemplatività e quelle lunghe riflessioni capaci di cucire gli stralci delle nostre conoscenze in un sistema coerente, una veste su misura pronta per essere indossata come divisa di una missione. Un mondo che non ti lascia il tempo di inquadrare il piccolo nel grande, di confrontare i fenomeni, anzi di approfondire del tutto anche un solo argomento, tanto sono diventati ipertrofici anche i minori. Un mondo che produce molta più cultura di quanto non sia il tempo per studiarla, utilizzandola quindi per promuovere un cambiamento reale quale sarebbe lo scopo di ogni vera cultura. La vita dell’uomo scampa così tra un dovere poco sentito, legato quasi solo alla necessità di campare e di non perdere la faccia, tutto al più all’amore per alcuni congiunti: con un senso di responsabilità miope e devitalizzato dalla perdita dell’idealità societaria, dal senso di appartenenza ad un corpo unico movente verso un'unica meta, e piccole anse di piacere agguantato nel mare dell’offerta mosso dai venti del marketing, nei suoi milioni di soffi e contro-soffi, nei suoi assalti ad ogni spazio disponibile in un mondo in cui niente sa più quale sia il suo spazio e ne detenga il diritto esclusivo e la precisa responsabilità sociale legata al ruolo e dunque al dovere: anse di piacere che sono anch’esse miopi e scarsamente responsabilizzate verso se stessi, perché prive di un disegno generale ed affidabile, di un programma complessivo di risanamento che deve conciliarsi con quello operato nella vita lavorativa. Tale stile di vita in cui siamo immersi ci priva di fatto della possibilità psichica, conseguente a quella fisica, di operare progetti a lungo termine, e ci costringe invece nel piccolo, nella selettività che stride con le ansie di coordinamento, precludendo ad ognuno la possibilità di pensare in grande, condizione necessaria per arrivare ad agire in grande, promuovere dunque quel grande cambiamento che urge ad un mondo così drammaticamente e generalmente contaminato. Questa frammentazione generalizzata determinerà la fattuale debolezza di ogni movimento, genererà tante discussioni e confronti che dissiperanno consapevolezze ed energie e le piccole faziosità e tafferugli distoglieranno tutti dal problema centrale, dalla lotta contro il potere costituito. Se anche le speranze di alcuni gruppi si mantengono vive in questo senso, comunque tutti si terranno a freno a vicenda e nessuno conquisterà i mezzi per giungere al dominio: probabilmente nessuno tenterà neppure un’azione eversiva, molto vicina all’Utopia, indicata e sentita come anacronistica. Ma il concetto di rivoluzione sarà anacronistico solo quando il tempo sarà finito, poiché esso è, nella sua essenza, un processo di rivoluzione, interrotto soltanto dalla realizzazione definitiva e ultima della Giustizia. Lo stato attuale delle cose è stato posto dai signori del sistema come la Giustizia. Ecco perché il concetto di rivoluzione è anacronistico. Vogliono rendere impossibile quello che è solamente, oramai, difficilissimo. Che facciamo noi astuti signori del sistema? Conferiamo a tutte le culture uguale dignità e pari diritti cosicché assumeranno pressappoco tutte lo stesso quantitativo di energie, concediamo ad ognuno un libero spazio di espressione e sfogo che giova al concetto di Cultura che più ci aggrada, quella Estetica che traferisca le energie creative e le pulsioni nel regno dell’Apparenza, dopodiché tutti ritornino nei ranghi, sicché nella loro pace insincera o nella loro guerra equilibrata sopravvivremo. Noi mettiamo tutti contro tutti affinché nessuno riesca ad emergere, e tutti affondino sotto il giogo del nostro silente inganno. Affinché una vera Cultura non sia accessibile, la fortezza della Controcultura deve essere sempre più impenetrabile: ponderosa, spessa, granulosa, viscosa, viscida, sgradevole, stantia, senescente, ammuffita, giallognola, scoraggiante, sfiancante, dispersiva, fuorviante, oscurante, frustrante, umiliante, deprimente, mortificante, in ogni possibile modo dissuasoria, una membrana citoplasmatica che converga all’ermeticità, con un salvacondotto per gli elementi già affini o agevolmente assimilati in sede superficiale. Annettiamo a questo fardello il contraltare di una vastissima cultura di intrattenimento fatta di copertine variopinte e molto accattivanti per storie fantasy, storie dell’orrore, storie erotiche, storie thriller, gialli, romanzi storici e complottistici, lasciamo spazio a testimonianze di sopravvissuti ad eventi scottanti, rivelazioni di infiltrati e notizie trapelate da qualche falla, nuovi documenti saltati a galla da chissà dove e chissà perché e chissà perché proprio adesso, ponderose opere di saggistica che possono dire molto ma non diranno mai tutto e soprattutto non diranno quello che non può essere detto, e del resto nessuno avrà il tempo di leggere questa mastodontica produzione in modo da correlare gli argomenti, e allora si appassionerà solo ad uno di essi come se davvero potesse essere risolto nella sua singolarità, sempre che si tratti di un lettore idealista che un giorno si trasformerà in attivista, oppure lo troverà semplicemente interessante, ne leggerà venti pagine tutte le sere e ne parlerà con gli amici nel tempo libero, in alternativa a quelli che scelgono sempre i piaceri maggiormente fruibili dello schermo cinematografico o televisivo, della lettura faceta o frivola di una rivista, della semplificazione faziosa di un quotidiano, dei giochi da bar, oppure si scaricano e ricaricano nel dilettantismo sportivo, nello yoga, in pratiche meditative intellettualoidi, nei viaggi, nel modellismo, nel collezionismo, nella piccola creatività, in mille varietà di passatempi più o meno sani, più o meno sedentari, più o meno competitivi, più o meno fisici od intellettuali. Non possiamo certo dire che manchi la scelta! Che il sistema non ti consenta sempre un modo per tenerti impegnato. Forse però possiamo dire che nessuna strada ti dà qualche certezza di condurre ad una soluzione. Ma noi non vogliamo che qualcuno trovi, che nemmeno la intuisca, una soluzione! Aggiungiamo dunque alla nostra fortezza, anno dopo anno, nuovi strati di libri, monopolizziamo il mercato della cultura, che nella sua libertà economica unita alla nostra supervisione mette un secondo caos a manforte del primo: appropriamoci dunque di tutti i suoi centri e di tutti i suoi spazi. Rendiamo sempre più lungo e macchinoso il processo scolastico: disseminiamolo di tempi morti, di attività inutili e stancanti, mortificanti una sana e produttiva giovinezza, sovraccarichiamoli di lavoro innaturale, svalutiamo il concetto di personalità. Che essa non venga coltivata! Siamo dunque scettici e trascurati verso le sue richieste, brutali nel calpestarle, subdoli nell’ingannarle, miserabili nel giustificare questo crimine, sottoponiamola a livellamento, scoraggiamola, critichiamola, provochiamola in maniera controproducente, poniamole condizioni fasulle, falsi doveri, la necessità fraudolenta o stupida di determinati passaggi e forme di espressione ed azione, riassimiliamola al sistema, provochiamole mille complessi e pensieri perniciosi, facciamo in modo che debba fare i salti mortali per capire se stessa e farsi strada nell’intrico di menzogne di cui la investiamo e circondiamo, di tutti gli stridenti fattori contrari che si ritroverà sul cammino, facciamo in modo che non sappia con certezza dove stiano le colpe e spesso le attribuisca a se stessa, che la conquista di ogni piccola verità sia il più faticosa possibile, che debba conquistarsi duramente ogni diritto e serenità di coscienza, ogni visione realistica del mondo esterno, difendersi strenuamente da ogni sorta di accusa e riabilitare autostima ed onore, facciamo leva sulle sue debolezze contingenti di cui siamo responsabili per umiliarla, pretendiamo che agisca anzitempo in maniera distruttiva e fallimentare, pretendiamo che abbia già dimostrato e realizzato quello che è solamente potenziale ed a cui noi dovremmo dare gli strumenti ed il tempo di realizzazione, colpevolizziamola, punzecchiamola, diamole interpretazioni distorte, neghiamola, confondiamola, portiamola fuoristrada, accusiamo le nostre vittime di vittimismo, poniamo i loro aneliti di giustizia come ingiustizie, i loro attacchi al crimine come crimini, ogni animo nobile come mostruoso e vergognoso al pari dei suoi intenti, ogni sua idea come falsa, deprechiamo ogni sua reazione anche se è sacrosanta, e la sua intelligenza sia stupidità, la sua forza debolezza, il suo coraggio viltà, la sua frustrazione follia. Diciamo ai ragazzi che sono il futuro e togliamo loro i mezzi per conquistarlo. Perché il mezzo imprescindibile della costruzione di un futuro è un preciso e precoce riconoscimento di ogni singola Personalità unito ad un investimento su di essa da parte del sistema attraverso un percorso educativo coerente con le sue necessità intrinseche di sviluppo e con misure davvero rivolte a rimuovere gli ostacoli contingenti di natura familiare, socioeconomica, fisica o psichica legati per ogni soggetto al contesto in cui è nato ed in quelli in cui malauguratamente dovesse trovarsi durante il percorso. Illudiamo i nostri giovani di fare Cultura. Che non capiscano che la cultura che noi promuoviamo non è niente altro che la passiva masticazione del passato allo scopo di magnificare la perfezione del presente, rimpinzare le sue file ed insinuare l’odio per il cambiamento o la rinuncia ad esso. Sterilizziamo gli anni ufficialmente dedicati allo studio affinché non si esaltino nello studente entusiasmi inopportuni tramite luminosi squarci nel velo della realtà e precoci conquiste, fervori troppo intensi e fiducia nella realizzabilità di insoliti progetti. Diamo il colpo di grazia ai loro romantici aneliti con la cruda necessità, seguente quei giovani anni sprecati, di inserirsi nel sistema rispettandone valori e regole al fine di poter campare. Rendiamo necessario lo studio dei nuovi figli spirituali della cultura ostruzionista a chi voglia diventare un uomo Colto, ed assumere un ruolo culturale, che nel sistema Proteggente il Presente da ogni assalto si riduce a quello di cane da guardia e agente incaricato dello sbarramento degli spiriti promettenti. Quelli che, lasciati liberi, potrebbero raggiungere la verità.


Chi sono dunque le vittime di tutto questo? I ragazzi, i giovani che poi vanno a far casino per le strade lamentando che non hanno più un futuro e sperano che conti qualcosa.
Quello che non capiscono, è che se il futuro non glielo hanno costruito le generazioni precedenti, invero miopi ed egoiste, non resta altra via che costruirselo da soli. Questo significa farsi un mazzo tanto, ma non nei percorsi del sistema, dichiarato corrotto e fallimentare, ma in un progetto personale, come lo è quello filosofico che avete tra le mani. Investire dunque su se stessi per agguantare quelle conoscenze necessarie a trovare dei nuovi modelli che sia possibile opporre a quelli presenti e passati. Sta proprio qui il punto. Non si vince se non si hanno valide alternative. Le alternative però bisogna farsele perché nessuno ce le ha pronte. Noi dobbiamo acquisire con mezzi propri quello che ci sarebbe spettato di diritto fin dall’inizio e non ci fu dato, dobbiamo trovare le conoscenze e poi sancire le regole di un sistema nuovo, in qualche modo puntellandoci a quello vecchio ed in generale sopravvivendo e vivendo al suo interno come possiamo perché, se non è possibile rinchiuderci in una torre d’avorio, disponendo di tutto ciò che ci serve fino a quando non avremo concluso il lavoro e forgiato le nostre armi, questo non significa nemmeno che dobbiamo privarci d’ogni furbizia e restare dove moriremmo soffocati senza poter di fatto cambiare nulla. Le risposte tu non le hai a sedici anni, non le hai a diciotto e se vuoi essere sincero, non le hai nemmeno a venticinque. Quando parti senti quello che non va, ma non sai ancora dire cosa andrebbe bene, come dovrebbe essere fatto un sistema per essere giusto, e quand’anche avessi delineato il modello, non sei ancora in grado di stabilire un piano preciso per la sua attuazione, non sapresti da dove cominciare perché non conosci abbastanza a fondo il sistema attuale. All’inizio la tua idea è un istinto, una reazione, una insoddisfazione variopinta, un disagio riflessivo, una serie di intuizioni ed ipotesi non ancora trasformate in teorie né tantomeno provate e documentate adeguatamente, e tutto è ancora nella tua mente e non nella realtà, perché non hai ancora alcuna piattaforma concreta su cui appoggiarti, che rappresenti la tua idea nel mondo, e credimi che sarebbe una piattaforma molto fragile al momento, praticamente indifendibile, come molto difficile è stato difendere il tuo atteggiamento quotidiano che è invero la prima ed ineludibile manifestazione della tua idea e la prova che ci credi veramente, così come costituisce una prova di essa l’ostilità critica e sprezzante che ne hai ricevuto. Ma siano esse piattaforme comportamentali oppure basi concrete che non coincidano con il mero stile di vita di alcuni individui singoli, i quali non costituiscono ancora un vero e proprio movimento, ma uomini in autonomo movimento, esse devono essere sempre maggiormente oculate e sagge se vogliono arrivare da qualche parte. Esse sono deboli fino a che sono materialmente deboli oppure animate da persone ancor piene di dubbi e dunque munite di una forza idealistica debole, che assieme all’eventuale scoramento subito dai protagonisti nel corso della vita vanno a costituire la debolezza morale del movimento. Se queste sono le condizioni, una tua piattaforma risulta difendibile solo qualora si trovi dove non viene notata da nessuno o dove non spaventa né preoccupa nessuno, oppure che essa non sia di fatto quella base minima di concretezza senza la quale non esiste pensiero, ovvero i luoghi che tu adibisci alla riflessione, allo studio, al dialogo su questi temi ed alla scrittura. Certamente biblioteche e Internet sono strumenti del sistema che possono tornare utili anche a chi sta pianificando sabotazioni eversive, come ogni altro bene materiale di cui usufruisci, sicché tu non sei mai contro tutto il sistema ed il sistema non è mai tutto contro di te. Puoi appoggiarti anche alle sue piattaforme, ed anzi saper approfittare di queste costituisce la maggiore abilità di chi ha mire rivoluzionarie. Ora, finché tu stai a questo punto, sei comunque in svantaggio. Il sistema infatti una idea ce l’ha, per quanto possa essere sbagliata, incoerente, faziosa e sordida. Ma soprattutto l’ha già realizzata. Poiché tutto quello che c’è là fuori è l’oggettivazione di questa idea. Istituzioni, leggi, polizia, aziende, negozi, centri commerciali, prodotti, mezzi, metodi di produzione, di distribuzione, strategie di vendita, obiettivi e metodi di ricerca, regolamenti, professioni, scuole, programmi scolastici, programmi televisivi, programmi governativi, giornali, pubblicazioni, associazioni, gruppi sociali, gerarchie, prassi quotidiane, ricorrenze, feste, mode, costumi, arti. Una idea la quale dunque dirige tutto e si impone su di noi. In sostanza sono più forti nella teoria e nella pratica, quindi è ovvio che tu non potresti reggere il confronto, che però ti verrebbe richiesto immediatamente se tu partissi in quarta contestando e pretendendo di smontare tutto, e ci faresti solo la figura del coglione, seguita da una ineffabile sconfitta. Ora, se alcuni ti dicono di cambiare il sistema dall’interno, innanzitutto non fanno che proporre slogan beceri che non hanno creati loro, giacché li hanno creati persone superficiali quanto a strategia e moralismi, oppure molto furbe tra quelle presenti all’interno del sistema, che appunto ti invitano a farti invischiare in qualcosa da cui poi non ti staccherai più e rinuncerai al suo cambiamento, oppure che vogliono attirarti nella trappola che ho appena descritto, quella di lanciare la tua offensiva generale quando non hai le condizioni perché essa sia efficace, mentre loro, già potenti, ti stroncano sul nascere, spiritualmente e materialmente. Mi sembra semplice affermare che non puoi vincere un gioco di cui non accetti le regole, le autorità o addirittura gli obiettivi. Ora, se vuoi fare strada nel sistema devi accettarne le logiche almeno fondamentali e la generica corruzione, dovrai fare innanzitutto cose che ti disgustano e saranno talmente impegnative e competitive che di fatto non ti daranno lo spazio per far crescere le tue idee rinnovatrici, ovvero di fare quello che, data l’ambiziosità della causa, non sono riusciti a fare pienamente nemmeno i grandi filosofi della storia che effettivamente hanno avuto la possibilità di vivere in condizioni privilegiate, disponendo di libertà, tempo, e magari anche soldi. E ce la dovrebbe fare uno impelagato tutto il giorno in mezzo a quegli invisi ambienti e alle loro beghe? Credetemi, queste cose non sono mai successe, sono millanterie impudenti di uomini che sono al massimo arrivati a cambiare qualche aspetto secondario del sistema e non hanno mai veramente desiderato andare alle fondamenta. Vedete di parlare di ciò che avete vissuto, pseudo ribelli che nel sistema non ci stavate poi così male e non avete sentito l’esigenza di far crescere proprio alcuna idea rinnovatrice, poiché quest’ultima non vi è neanche mai passata per la testa sotto forma di una intuizione fetale, e non teorizzate la compatibilità tra imprese di segno opposto, quando una esperienza anche minima sul campo vi avrebbe svegliati dal torpore ingenuo e fatto capire che è una cosa ingestibile, e mille volte più tormentata di quanto l’uomo medio abbia mai accettato di dover essere. E smettetela di chiedermi perché ho lasciato l’università, perché se dopo aver letto questo libro ancora me lo chiedete potete buttarvi nel fiume, e credo che vi seguirò, còlto dalla disperazione. Del resto, non puoi pensare nemmeno di fare la pecora bianca in mezzo alle pecore nere, perché ti sgamano subito e ti cacciano via o ti vessano, e lo hai già sperimentato mille volte mostrando la tua onestà, le tue critiche, le tue accuse, i tuoi problemi, i tuoi pensieri originali o comunque non ortodossi, i tuoi sentimenti, i tuoi propositi, i tuoi dubbi. Ora, una idea forte può vincere contro una idea debole, ma se quest’ultima è sostenuta da un sistema più forte, vince lei. Pertanto, anche quando l’Idea sarà disponibile, si presenterà la necessità di preparare qualche base concreta da cui gli aerei con la tua bandiera potranno bombardare qualche altro obiettivo importante. Se persino la tua idea è ancora debole, e non hai nemmeno delle basi più forti di quelle del nemico, come speri di vincere? Inoltre, una certezza anche sbagliata batte sempre un dubbio, quindi tu non ti puoi presentare con dei dubbi dove loro hanno certezze. I sentimentalismi commuovono solo quelli che sono in una situazione come la tua oppure condividono le tue idee. Mostrare poi problemi e debolezze, soprattutto quando nessuno è ancora in grado di comprendere che essi sono conseguenze degli errori sistemici contrapposti alle tue verità, è il più grosso degli errori. Invero il doppio gioco si può fare, non esiste solo nei film di spionaggio. Ma si può fare ad una condizione: che si conoscano molto bene le regole di entrambi i giochi, si conoscano molto bene dunque se stessi ed i propri nemici. Nemmeno di questa condizione dispone il giovane. Perché il sistema lo conosci sul serio soltanto col tempo e dopo essertici invischiato bene, e se ti ci lasci invischiare fino ad arrampicarti su qualche vetta e dominarlo, tranquillo che non hai avuto il tempo di pensare alle alternative e non appena ti prendessi una pausa, in tal caso necessariamente lunga, per ovviare alla mancanza, ecco che ti farebbero le scarpe e perderesti la tua duramente sudata carica. In politica devi agire, è finito il tempo della filosofia. Dovresti in tal caso ricominciare da capo, in un modo affatto disorientante poiché, per sviluppare una critica vincente, sarebbe opportuno ed anzi necessario un confronto progressivo e parallelo tra le due realtà contrapposte, quella presente e quella ideale che tu vuoi concepire, e l’unica causa concreta nella quale devi essere implicato e coinvolto totalmente perché è il tuo mestiere, è appunto la realizzazione di questa critica, tramite questo confronto, perché la tua idea non si sviluppa se non in reazione a ciò che esiste ed è sbagliato, ma non si sviluppa nemmeno se in esso tu sei invischiato fino al midollo. Devi pertanto avere la possibilità di trascegliere le esperienze dirette di cui hai bisogno, relativamente al sistema, ma in generale più come spettatore che come attore poiché la causa di cui tu sei protagonista militante è un’altra e di essa senti il peso, la responsabilità e gli strali, e nessun uomo può coltivare due grandi ambizioni contemporaneamente. Per tutto ciò che non puoi vedere con i tuoi occhi, occorre che tu disponga di affidabili fonti di seconda mano che te ne esimano, mentre dall’altro lato produci pensiero personale e metti tutti i tasselli al loro posto. Infatti, non sai ancora tu che cosa vuoi ottenere, fino a quando non l’hai scoperto. Perché la tua idea è in divenire, e come il Dubbio perde dalla Certezza, così il Divenire viene sconfitto dall’Essere. Giunti infine alla certezza dell’essere, e dell’essere qualcosa di meglio dei nostri avversari, seguirà la rivoluzione. Quando un uomo conosce fino in fondo se stesso conosce fino in fondo anche il resto del mondo, poiché percepisce tutte le relazioni che ha con esso e dunque quali siano i ruoli. Quei ruoli che, come tutto questo libro ribadisce, sono ciò che si deve cambiare per pacificarlo. Se il nostro dubbio ed il nostro divenire sono rivolti verso una certezza più veritiera e verso un essere maggiormente virtuoso, e resistono, essi prima o poi vinceranno, se solo avranno avuto l’accortezza di non suicidarsi. Ogni dubbio ed ogni divenire, che vogliono costruire il futuro, avanzano grazie ad un confronto continuo con la certezza e l’essere del presente, che invece non vogliono cambiare poiché sentono di essere giusti. Ragion per cui la battaglia non è mai abbandonata ed è sempre sia mentale che concreta, perché non può attuarsi senza percepire e relazionarsi con il mondo esterno, avulso ai nostri intrinseci ideali. Non è dunque possibile cambiare il sistema dall’esterno. Lo cambi, in realtà, sempre dall’interno, ma cambiando posizione e mantenendo una mentalità trasformista, dinamica, insomma movendoti necessariamente in esso con gli strumenti che hai, con le condizioni e le conoscenze che si sviluppano, ma in ogni caso nella maniera più astuta, e più passa il tempo più ti accorgi che non è mai stata sufficientemente astuta. Il fatto che non ti puoi tirare fuori veramente da qualcosa che hai intenzione di cambiare, non significa che vi sia un solo modo di gestire il rapporto con essa e dunque di combattere questa battaglia, né stabilisce quale sia il modo migliore.
Il modo migliore non è niente altro che il più furbo. Se vuoi consigli, ascolta soltanto chi ha compreso chi sei, cosa hai dentro e intorno, cosa hai intenzione di fare e a cosa vai incontro.
Tutti gli altri mandali al diavolo.


Il filosofo dovrebbe aggirarsi per il mondo come uno spettro, che tutto attraversa ma a nulla si lega. Condizione della sua felicità e del suo radicale e lungo beneficio sul mondo.


L’insanità è contaminazione micrologica, ossia personale, la disorganizzazione è contaminazione macrologica, ovvero sociale. L’insanità può essere causata solo dalla disorganizzazione, in quanto per contaminare un forte devi metterlo in una posizione subalterna, da cui i deboli intrinseci possono inconsapevolmente per quanto inesorabilmente danneggiarlo, grazie al potere sistemico che hanno, in grado di volgere contro di loro molte forze che, prese ognuna per se stessa, giammai avrebbero potuto sconfiggerlo ossia penetrare in lui come elementi estranei che si impossessano in questo modo di alcuni suoi gangli di funzionalità, e si auto depredano, paralizzandolo, di un elemento necessario al benessere della civiltà, sostituendosi peraltro ad esso in un ruolo che non sono in grado di espletare, senza potersi altresì rendere conto di questa incapacità. La disorganizzazione non può essere invece causata originariamente dall’insanità, poiché nulla di sano si sarebbe mai corrotto entro un ordine giusto. In un tale ordine, nessun inferiore si ribella al superiore meritevole, sicché questi opera o permane indisturbato. Ma una volta che la disorganizzazione si è inserita nel sistema, essa si sviluppa progressivamente facendo degenerare i singoli, rendendoli dunque insani, contaminati, poiché il volgo dall’alto penetra gli elementi nobili, volgarizzandone alcune funzioni e dunque rendendole inefficienti: il nobile non può espletare la funzione che gli è propria perché costretto dalla maglia gerarchica in una posizione inferiore, ed in questo modo però, egli non espleta nemmeno quella inferiore, che pure è necessaria, dacché ogni suo sforzo è concentrato invece nel riprendere la sua postazione elevata. Dunque, dal momento in cui un individuo è posto fuori ruolo, egli comincia a degenerare, assieme all’interno cosmo, ad assumere quindi le uniche che a buon diritto si chiamano debolezze, quelle contingenti, ossia non proprie, in una parola: le contaminazioni. Le quali, non sottraendogli un ruolo effettivo, hanno come effetto in lui una capacità organizzativa minore e dunque un aumento della disorganizzazione: egli metterà necessariamente qualche nuovo elemento fuori posto, questi cominceranno a degenerare aumentando l’entropia del sistema, e così via di seguito. Viceversa, l’elemento volgare non può fare a meno di espletare il ruolo di comando con gli strumenti di un manovale, dunque volgarizza tale compito, sottraendosi allo stesso tempo al suo dovere naturale, che egli espleterebbe al meglio, in posizione subalterna. Il risultato è che si hanno braccia rubate all’esecuzione e cervelli rubati alla creatività e al comando: il mondo così è destinato a perire nel concetto più buio e terrificante di uguaglianza che possa esistere: la nullità. Il tutto disorganizzato è un niente: un niente senza fine, quando dovrebbe essere un fine senza niente, quello ottenibile grazie all’organizzazione totale o totalitarismo. Allo stesso modo in cui nella gerarchia invertita il volgare volgarizza il nobile, nella gerarchia naturale il nobile nobilita il volgare perché lo perfeziona di tutto ciò che di intrinseco gli manca e che può ricevere solo dall’esterno.


Ecco che l’intuizione fatale si materializza…


Dal momento che gli elementi di questo mondo non sono intrinsecamente disaffini, ma soltanto lo sono in virtù del loro posizionamento, ne risulta che gli elementi perturbatori non possono essere all’interno del mondo.

Il male è soltanto la disorganizzazione ed esso deve avere una origine aliena.
L’intervento di una razza aliena deve aver operato in maniera distruttiva per condurre il mondo all’autodistruzione tramite il conflitto interno. Dei fattori intrinsecamente estranei - poiché noi lo siamo solo in maniera estrinseca - devono averci messo gli uni contro gli altri, modificando a loro arbitrio le nostre posizioni reciproche, ed innescando così il corso del divenire, la ruota della storia, volto a ritrovare l’equilibrio e la pace. Questo intervento è stato fatto una volta per tutte?
In questo caso noi siamo dalla notte dei tempi in corso di assestamento. Ma potrebbe essere invece un intervento reiterato, insistito, o comunque ripetibile, e si tratterebbe allora di una vera e propria guerra tra il nostro mondo, originariamente unitario, e una razza aliena che vuole dissolverlo. Una razza aliena non può essere assimilata, non può trovare il proprio posto, è rigettata ovunque, non attecchisce su alcun terreno, non ha capacità proprie e dunque funzioni ideali, deve essere parassitaria e quindi solo distruttiva per il sistema… Sono forse questa razza aliena…gli Ebrei?


Quando le impurità microscopiche saranno del tutto eliminate lo saranno anche quelle macroscopiche. Il cosmo nel suo insieme si sanifica o degenera ad un tempo per il semplice fatto di essere unitario. I singoli elementi, la cui pluralità costituisce il tempo, invece crescono e decadono in forma di Circolo Virtuoso e Circolo Vizioso: il complessivo miglioramento delle condizioni ambientali e dunque della organizzazione produce un parziale risanamento del singolo, che può usufruirne per migliorare ancora l’organizzazione generale, cosa che gli dà ancora più libertà e risorse per potenziarsi ed agire su quella…


Sia il risanamento che il decadimento hanno pertanto un andamento accelerato perché, nel primo caso, l’individuo in ascesa sale di ruolo approdando di volta in volta ad una posizione dalla quale ha
a disposizione molte più risorse, ed è in grado di organizzarle; nel secondo, l’individuo in discesa è sempre più debole e volta a volta detiene sulla testa una stratificazione di autorità negative sempre più grande: la sua posizione aumenta di subalternità, con essa diminuisce la sua capacità di agire sul mondo nel suo interesse. Quando diciamo che la vita accelera, dovremmo dire che il tempo regredisce ad unità (regressus ad unitam), perché la materia si risana. Dal momento che il grado di egoismo nell’uomo è inversamente proporzionale alla sua intelligenza, e che globalmente il mondo non è investito da alcuna diminuzione né aumento, ne risulta che quella crescita impari che invece vediamo negli individui debba favorire gli elementi più intelligenti: se favorisse la cecità degli stupidi, essi non saprebbero utilizzare in maniera benefica (ossia organizzativa) le risorse acquisite, sicché il mondo conserverebbe la sua incoerenza, la sua pluralità, la sua caducità, in una parola la sua Mondanità che si contrappone a Idealità. Gli individui intelligenti devono disporre di più ricchezze di quelli limitati, perché le sanno utilizzare per tutti i loro sottoposti e non solo per se stessi. Ogni volta che la forza materiale di una persona supera anche solo di una tacca le sue capacità intellettuali, egli crea del danno. Ogni volta che le capacità intellettuali di una persona superano anche solo di una tacca le sue forze materiali, egli subisce danno. E tutti ricevono ripercussioni da qualsivoglia danno in qualsivoglia sito del cosmo. Ogni fazione politica vuole assolutizzare il suo modello perché crede nell’apicalità della propria visione. È convinta di avere sotto di sé l’intero panorama del globo, sicché per essa non resta nulla di incompreso, sul quale dunque non si possa intervenire infallibilmente. Ma solo una visione realmente apicale, che spanda giù ad albero i suoi ministri competenti nelle singole visioni, può vantare tale sicurezza d’azione. Invece, qualsiasi visione parziale che si pone come assoluta trascura di fatto degli elementi presenti in natura e ne ignora il necessario ruolo, li lascia fuori ed essi si vendicheranno facendo vacillare appunto un sistema che non sa di aver bisogno anche di loro.


Gli atteggiamenti dittatoriali sono intrinsecamente connessi ad una grande autostima.
Ogni fierezza nel porsi come leader ha radice nella consapevolezza di essere più intelligente degli altri, la convinzione di un uomo d’essere capace di fare più legna da solo di quanta ne fanno cinquanta incompetenti messi assieme, ed anche in un tempo inferiore, a patto di essere lasciato a lavorare in pace. È possibile lasciare spazio al prossimo solo di fronte alla sensazione di non essere all’altezza di un compito, il quale nella sua singolarità spetta sempre ad un solo soggetto, sicché la dittatorialità è implicita nel concetto di ruolo: ed una postazione duplice o addirittura collegiale è una aberrazione, se all’interno di quel dualismo o pluralismo non ci sia una precisa sottodivisione interna, nella quale ognuno ricopre un ruolo che completa il ruolo rappresentato dall’insieme verso soggetti esterni. Il collettivismo, la centralità del concetto di “sociale” nel pensiero di sinistra non è propriamente inerente né corrispondente al concetto di Socialismo: che invece non è né di destra né di sinistra, ma coincidente con il concetto originario di Politica. Il collettivismo contrapposto al personalismo nasce invece dalla debolezza di chi fosse indebitamente chiamato o indebitamente desideroso di ricoprire un ruolo di cui non è singolarmente all’altezza, e cerca allora ingenuamente di chiamare in causa gli altri come se davvero lo facesse per un bizzarro spirito di fratellanza o generosità il quale, anche qualora sincero, andrebbe giustificato. Mentre la verità è che costui deve fare massa perché da solo si sente insicuro, sia nel prendere una decisione che nell’eseguirla.

L’unione non fa la forza: l’unione organizzata fa la forza, quella disorganizzata - ossia a gerarchia invertita - distrugge il sistema.


La Sinistra si rivela essere, in un modo o nell’altro, l’Invidia della Destra. Predicano l’amore per mascherare l’odio, l’uguaglianza per mascherare l’istinto di autodifesa, la pace per mascherare la pusillanimità, la libertà per mascherare l’incapacità di darsi delle regole, il multiculturalismo per mascherare il bieco desiderio che le culture inferiori si coalizzino contro quella che davvero odiano: la cultura superiore, e la soffochino. Sono antirazzisti non perché amino tutti i popoli della terra,
ma perché hanno bisogno della compagine di quelli inferiori per arrestare l’ascesa di quelli superiori. Sono anarchici per mascherare l’atteggiamento di rassegnazione che hanno dinanzi alla difficoltà del costruire qualcosa e la preoccupazione che qualcun altro invece ci provi. Vogliono che tutti abbiano dei diritti meno quelli che se li meritano davvero poiché con essi fanno il loro dovere. La loro filosofia dei diritti consiste nell’ambizione di tutti gli storti a stroncare le persone diritte: sicché la loro stortura possa essere canone di bellezza e norma di legge.

La Scienza, nella sua interezza, sarebbe l’immagine di un mondo perfetto, cioè ideale, unito nella diversità e dunque privo di contaminazioni e conflitti. I fisici studiano le leggi della meccanica senza poterle vedere nel mondo reale, poiché non vi era in natura un moto rettilineo uniforme, essendo sempre presenti vari attriti. Come possiamo noi concepire dunque un modello teorico di cui non abbiamo esempi pratici? La conoscenza ha origine empirica, anche i principi generali. La risposta è che noi possiamo ottenere questo modello soltanto realizzandolo, perché facciamo parte del processo conoscitivo come soggetti, dacché l’oggettività si realizza nello scambio materico tra due soggetti contaminati. L’ideale (sempre teorico) non è altro che la forma mentis a-priori del nostro essere, la quale ambisce ad essere riempita: è ciò che noi cerchiamo, quello a cui intendiamo ridurre il mondo. Il soggetto esterno si lascerà conoscere solo se anch’esso ha lo stesso scopo. La teoria siamo noi nella nostra perfezione ideale, cui ogni pratica invece tende. La teoria non esiste senza il linguaggio che in se stesso è già un’arma che utilizziamo contro una realtà e che interviene su di essa entro certi limiti. Tutto è azione: la Teoria ne rappresenta l’aspetto verbale, ossia mentale, così come il linguaggio è un aspetto della materia, e la linguistica un sottoinsieme della fisica. La teoria e la pratica non sono dei contrapposti, perché quando si fa teoria si agisce comunque, in un ambito specifico del problema da affrontare. Nella teoria noi possiamo rappresentare anche i soggetti particolari ed i processi di cui sono protagonisti, ma non appena emettiamo un giudizio, ossia sussumiamo un oggetto particolare in una classe di oggetti, noi abbiamo già fatto un ordinamento, cosa che corrisponde all’idealizzazione, e siamo dunque già idealisti, perché solo come idealisti possiamo intervenire su qualcosa, e quando avremo finito di conoscerla potremo combatterla, ma solo quando avremo finito di combatterla l’avremo conosciuta: conoscenza è assimilazione. Ora però verso questo obiettivo la teoria e la pratica sembrano ancora collaborare in una maniera intrecciata, vediamo che all’una spetta temporaneamente il ruolo centrale, per poi passarlo all’altra che farà la sua parte di progressi da consegnare a sua volta alla prima. Infatti un modello teorico non può svilupparsi senza la base di un esempio concreto: è quest’ultimo che si applica al primo, non viceversa. Modello teorico non significa modello generale, ma significa sempre modello ideale: di un oggetto particolare che abbiamo sotto gli occhi, o di un insieme di oggetti che abbiamo sotto gli occhi. Entrambi gli oggetti vanno uniformati all’ideale, dunque perfezionati. Noi non conosciamo mai l’oggetto del nostro desiderio prima di averlo realizzato, benché esso sia presente in noi. Quando un uomo ci pensa prima di fare qualcosa, che cosa sta facendo? La sua è comunque una azione suggerita dalla prudenza, è l’istinto che raggiunge la propria pienezza attraverso percorsi indiretti e su piccola scala, un’immagine mentale che andrà poi proiettata, piena di energia, nel mondo, per poter infine darsi alla pratica ossia attaccare l’oggetto in questione in tutta sicurezza poiché pieno nella bandiera e nella spada. Raggiunta questa pienezza, nessuno si sottrae alla battaglia, perché oltre non si può andare nella forza, e niente altro ci interessa realizzare: si vincerà o si perderà, ma la guerra a questo punto non può essere evitata e noi ci giochiamo il tutto per tutto.


La natura non può essere corretta dall’esperienza. L’esperienza può essere corretta dalla natura. Grazie alla memoria, ossia alla persistenza del male, noi possiamo agire su di esso, grazie alla persistenza del bene, ossia alla condizione di maggior vigore pervenutaci da altre esperienze di segno positivo: giacché solo queste forze collettive possono supplire a quella che originariamente era una debolezza che, scontrandosi con l’ambiente esterno, è stata insufficiente a plasmarlo secondo la nostra esigenza e dunque ha prodotto una esperienza negativa. Noi non possiamo ricordare quello che ci è riuscito perfettamente, poiché esso non è più presente in noi come elemento da eliminare, ma solo come fisicità da utilizzare: possiamo però ripetere quell’azione perché il nostro corpo mantiene lo stesso livello di virtù e dunque è saggio, se non si è indebolito nel frattempo ed è dunque divenuto stolto. Esso ha dimenticato la lezione, ossia ha perso vigore nei confronti di asperità esterne che invece si sono ricomposte nella loro forma ed energia dopo che noi le avevamo precedentemente sconfitte. In questo caso noi non ci ricordiamo di quando eravamo forti: perché non lo siamo più, e non si può sentire quello che non si è, ovvero quello che non si fa. Ma anche il ricordare una esperienza positiva è altrettanto impossibile che ricordarne una negativa. Semplicemente, noi le ripetiamo fin dove l’elemento esterno è ancora il medesimo ed il corrispondente energetico interno che vi contrapponiamo è anch’esso il medesimo. Se vi sono differenze nell’oggetto o nel soggetto, non è la stessa esperienza e noi non la “confrontiamo” con la vecchia, perché un confronto è una terza esperienza, un’immagine che ne contiene due, osservata da un punto di vista che non potrà mai comprendere tutte le peculiarità delle singole immagini ma solo alcuni tratti fondamentali che ne consentano la relazione, e sicuramente non possiamo vivere come due soggetti e quindi assumere contemporaneamente due punti di vista confrontando due immagini l’ultima delle quali stiamo ancora sedimentando, così come è impossibile svolgere operazioni di sistema su un programma ancora in funzione. Ma ci renderemo conto adesso che questa separazione delle esperienze, eventualmente da confrontare in una nuova esperienza che avrà anch’essa una locazione specifica, una sorta di celletta di magazzino dove è possibile in un secondo tempo ritrovare gli archivi, è irreale. Infatti l’esperienza nuova richiama subito la vecchia ancor prima di essere conclusa, ma non si tratta di un confronto, bensì di un ampliamento, una sorta di prosecuzione di qualcosa che era già iniziato: i nuovi dati empirici interni ed esterni agiscono sul materiale che era già presente sicché possiamo dire che la nostra vita costituisce un’unica grande esperienza che non si conclude se non con la purificazione totale. Non si può insegnare quello che si è imparato, si possono togliere ostacoli che altrimenti toccherebbe alla nuova recluta togliere. Noi avremmo potuto compiere una azione vincente sin dalla prima volta che abbiamo avuta di fronte una realtà, perché disponevamo di tutte le forze necessarie. In questo caso, cosa è possibile insegnare al prossimo? Se noi non possediamo la stessa anima, ossia la stessa finalità di un altro individuo, non possiamo comprendere nemmeno la perfezione dei suoi movimenti, poiché non ne possediamo la forma a priori, cui noi in via contingente non abbiamo ancora accesso per mancanza di allenamento: noi non possiamo capire un movimento che non possiamo fare per costituzione, ma possiamo capire un movimento di cui non siamo ancora padroni, perché noi siamo la stessa persona che lo esegue adesso dinanzi ai nostri occhi perché ne ha già le condizioni, o meglio siamo parte di quell’insieme di persone che dovrebbero giungere a fare determinate cose perché queste sono necessarie alla felicità del cosmo, sono cose per cui tali persone sono nate e dunque devono conquistarsene le condizioni: infatti la nostra immedesimazione nel personaggio produce una soddisfazione soltanto parziale, poiché noi siamo lui soltanto in parte: il nostro potenziale collettivo può essere realizzato solo con la collaborazione di tutti. Se noi non disponiamo già delle condizioni ottimali per eseguire una operazione, possiamo però avere la forza intrinseca per acquisirle. In questo caso, che cosa insegniamo al prossimo? Noi facciamo vedere a lui come fruitore la nostra azione di conquista della forma ottimale: egli – affine a noi - ne gode esteticamente perché non agisce, e la sua esperienza estetica verrà completata da quella etica che metterà in atto quando, acquisite autonomamente le nostre stesse energie, sarà in grado di fare le stesse cose. Anche in questo caso il cosiddetto insegnamento è qualcosa di assolutamente inconsistente. Noi non “impariamo” dunque dagli altri, e non “impariamo” da noi stessi: noi agiamo e contempliamo,
noi compiamo esperienze etiche ed estetiche, e non esiste alcuna “conoscenza” svincolata da una azione, un magazzino in cui conservare qualche sorta di silhouette di quello che abbiamo vissuto. Fare cultura vuol dire agire, conoscere vuol dire fare. Ritorniamo per un momento ad un modo di ragionare più grezzo delle precedenti analisi. Qual è il momento migliore per insegnare qualcosa a qualcuno? Non appena si è imparato a farla. Perché, fresco è ancora il ricordo della nostra precedente incapacità e degli ostacoli che abbiamo imparato a superare, mentre una volta consolidate le nostre abilità, non siamo più in grado di comprendere le difficoltà del principiante. Per aver superato quegli ostacoli, noi abbiamo dovuto mettere in moto un’altra abilità innata: quella di cercare una nuova via, la capacità dunque di automigliorarci ma, se noi avessimo dovuto vivere soltanto per noi stessi, questa abilità si sarebbe rivelata superflua dopo il primo utilizzo, se davvero abbiamo perseverato su quella strada, in quanto noi oramai teniamo allenate le nostre capacità primarie, e sarebbe paradossale se, per tenere allenate anche le capacità secondarie, ovvero l’abilità di raggiungere quelle primarie, regredissimo volontariamente e di frequente allo stato di principianti, solo per non ritrovarci ad essere dei principianti qualora tale regresso si presentasse improvviso per cause esterne. Infatti, l’insegnamento blocca la crescita personale. In esso, noi riversiamo parte delle nostre energie nel mantenerci in questo andirivieni tra una virtù acquisita e la sua mancanza, in quanto dobbiamo fare noi lo sforzo che altrimenti toccherebbe al nostro allievo, per trascinarlo al nostro livello con maggiore rapidità: perché nient’altro che questo è la virtù dell’insegnare, anch’essa da tenere allenata e pertanto da affrontare come attività centrale della nostra vita. Chi voglia essere un grande insegnante sappia, che sarà vincolato a non realizzare il suo potenziale autonomo come artista, ma solo una parte di esso. Infatti, secondo me uno dovrebbe dedicarsi all’insegnamento soltanto dopo aver realizzato tutto il suo potenziale. Ma quando non puoi andare oltre, il meglio che ti resta da fare è facilitare chi deve ancora crescere: qui l’insegnamento diventa motivato, e senza riserve per il docente. Propriamente qui l’insegnante si realizza come tale, ma altrimenti resterebbe mortificato. Il modo in cui l’insegnante partecipa delle debolezze dell’allievo è analogo al modo in cui un attore partecipa del carattere e dei moti dell’animo dei personaggi. Egli non può interpretarli correttamente se non è loro affine, o se la vastità eclettica della sua anima non comprende appunto anche quel carattere, e non può evitare del tutto di sentire le emozioni contingenti che competono a quel personaggio secondo la sceneggiatura. Certo per interpretarne l’angoscia non deve sentirsi angosciato come lui: ma parzialmente deve farlo, ed anzi la sua opera di attore dovrebbe essere una sorta di sovrastruttura che gli consente di padroneggiare il personaggio alla cui realtà altrimenti si abbandonerebbe pienamente, in tutta spontaneità. Insomma non può essere del tutto lui, ma nemmeno del tutto se stesso. Ecco, l’insegnante, come l’attore, è un mediatore e come tale, come tutto ciò che è composito, vive in modo stridente.


Tutto quello che subisci per ragioni contingenti, tu non lo meriti. Meriti invece tutto quello che subisci per ragioni intrinseche: nella purezza infatti ognuno può aver solo ciò che merita, in quanto nessuna compagine di soggetti deboli si schiera per sottometterne uno forte, il che rappresenta l’Ingiustizia dominante le società promiscue, e chiunque venga sottomesso raggiunge quindi il suo luogo naturale, nel qual egli stesso non trova nulla di ingiusto.


Talvolta trappole diaboliche in cui si è invischiati rendono difficile deporre in essere le basi dalle quali dipende per ogni uomo, ed anche per ogni artista, un provvidenziale sgravio della coscienza, prima ipertrofica per mancanza di appoggi esterni concreti. Le vittorie non sono altro che questo: un trasformare la realtà da qualcosa che deve essere sostenuta a qualcosa che ci sostiene: metterla dunque dalla nostra parte, assimilarla. Quando si parla della natura di una diabolica trappola, se ne estendono le reti. Conviene lanciare uno dei propri flussi di pensiero a erodere superfici rocciose fastidiose ai propri sensi: che di questo torrente determinano il letto come un sorta di aprioristico destino (pleonasmo) ma che esso si sforza con ogni sua stilla di smussare e rassettare volendo
essere lui il padrone. Tutti possono notare come si ricomponga la nostra forma mentis
dopo che gli interventi esterni sono riusciti a forzarne i contorni in pur vasta dilatazione, dacché un uomo-palla vuole un mondo-palla e cozza con un uomo-piramide che vuole un mondo-piramide, ed entrambi cozzano con un uomo-icosaedro che vuole un mondo-icosaedro. Tutti i solidi possiedono, all’apice della loro forza potenziale, il carattere dell’indeformabilità: non fosse anche questo uno sciocco chiasmo, da restituire alla forma (anch’essa pleonastica) originale. Dunque, se tu mi pallizzi io cercherò di piramidarti perché sono piramide, e solo quando avremo tutti trovato il nostro posto, la nostra poliedricità diverrà monoedrica. La saggezza consiste nell’imparare ad eludere il maggior numero di scontri con persone difformi: perché sono inevitabilmente traumatici e dispendiosi, e scivolarsene via entrambi sulle rispettive superfici in caso di avvicinamento. Altresì, nel mantenersi energici in modo da subire meno deformazioni possibile o da essere rapidi nel riassestamento. È possibile correggere solo un difetto contingente, un difetto per tanto non nostro, qualcosa che noi stessi percepiamo come una debolezza. Ma qualora invece le nostre forze fossero state sufficienti a plasmare la realtà secondo la forma desiderata, quella che interviene dall’esterno non è più una energia beneficamente correttiva, bensì una difforme personalità che, analogamente insoddisfatta delle fattezze presentategli, cerca di imporsi sulla nostra e, parlando adesso di letteratura, vorrebbe dire o sentir dire altro da quel che abbiamo detto, e pertanto vuole altre forme verbali. Quando ci si rivolge ad una persona non ci si può lamentare di come la sua natura reagisce, poiché non la puoi togliere di mezzo e dunque, se le si è dato il diritto di sbizzarrirsi, ella lo utilizzi fino in fondo.
Certamente la nostra forma mentis reagirà come le è proprio e pertanto accetterà, tra i giudizi ricevuti, solo quelli che le calzano, e respingerà gli incalzanti. La parola “confutazione” vorrebbe esprimere la massima efficacia della cosa. È pertanto corretta una critica che sia solamente critica e sia parsimoniosa o addirittura priva di sterili e stucchevoli complimenti. Non è maturo il desiderare che ci si allisci il pelo, e non è istruttivo: un testo deve essere perfetto per una funzione e tanto basti. Dove non ci hanno fatto osservazioni correttive, significava che andava tutto bene e non vedo il motivo di starnazzi plateali, reazioni sensuali da ragazzina allupata, epidittici elogi ed in fondo, quando un fenomeno artistico non richiede una collaborazione tra protagonista e pubblico, trovo che le suddette manifestazioni siano indice di maleducazione in chi le opera, addirittura di fallimento in chi le suscita.


Sulle badilate di astio concettoso da tirare in faccia al lettore ho poche osservazioni.


  1. Talvolta esse sono una lettura forzata da parte sua. Il mio tono poteva essere tutt’altro che provocatorio, sprezzante o autocelebrativo.

  1. Se mi offendo io per quello che scrivono gli altri, loro sono liberi di offendersi per quello che scrivo io

  1. Le accuse di presunzione non mi interessano, sono mosse dalla medesima presunzione e nessuna delle due può essere soppressa. Vivere significa essere presuntuosi, ossia voler assolutizzare il proprio metro: conseguenza del fatto che non ne abbiamo altri.

  1. Se io oggi salgo su una montagna dopo un percorso originale e arrivato in cima, dopo aver guardato il panorama, dico che è rosso venato di giallo e sono lieto di essere arrivato quassù, poi volto la testa verso il basso e trovo una targhetta con scritto “ Nietzsche was here 14 - 07 – 1884 ”, poi vado a leggermi la gaia scienza e trovo un aforisma giallorosso venato di fierezza tracotante, devo denunciare i tifosi della Roma che hanno scritto la stessa cosa dopo aver vinto lo scudetto? Oppure devo prendere un gessetto e scrivere sulla targhetta: I was here too, shame on me, I’m going home”?

  1. Una scrittura che non contenga emozioni è precisamente quella che detesto, non puoi eludere la soggettività, devi solo padroneggiarla con gli strumenti artistici, darle una forma efficace e quindi razionale. Ma non per questo la dobbiamo condannare ogni volta che compare nell’arte…possiamo trovarla utile o meno, affine o meno, reagire insomma con la nostra soggettività.


La cultura non è un corpo unitario che serpeggia lungo i secoli, tale per cui noi non possiamo permetterci di dire una sola parola se non è inserita sull’apposita scaglia nella precisa posizione. Sarebbe così se ci fosse il vincolo dell’applicazione, tale per cui le cose buone vengono utilizzate da tutti, quelle scadenti eliminate dal giro e dimenticate perché non servono più a nulla e non ci sono più le basi concrete perché qualche problema reale richiami alla lettura di quegli studi, mentre la nuova classe intellettuale non potrebbe produrre altro che soluzioni originali, in quanto non potrebbe fare a meno di occuparsi di un problema originale, che nelle epoche precedenti non potevano nemmeno porsi. Ma così non è…gli uomini vivono e usano il linguaggio senza leggere quasi nulla, lo modificano e gli danno i loro significati sbattendosene della serie filologica millenaria di quelli vecchi. Tutta questa indiscriminata tradizione implica che ci portiamo dietro un fardello che nel mentre che ci sostiene con le conoscenze ancora valide e parzialmente materializzate, ci grava con i suoi errori teorici, parzialmente materializzati. Se la gente non creasse continuamente su base empirica i propri concetti ed il proprio linguaggio noi non potremmo vivere con un minimo di autonomia, e l’eteronomia non sarebbe neppure effettiva poiché tutta questa cultura non è accessibile all’uomo d’oggi, non viene affatto trasmessa, nemmeno nelle sfere colte. Nei luoghi bassi sia la tradizione che la personale riconquista delle conoscenze valide sono cosa rapida e semplice. Man mano che si sale diventa arduo perché la prima è in larga misura inaffidabile, gravida di testi lebbrosi d’errore, velenosi e forieri di sconfitta e degenerazione, mentre la conquista personale delle conoscenze, alla luce delle quali tratterai il passato culturale con l’atteggiamento di un medico o di un investigatore volto a trovare un colpevole, è difficilissimo a causa della quantità di elementi da smaltire, da cui difendersi personalmente e molti da tenere lontani giacché non ti è consentito farlo come una professione, tu sei sistemico, devi trovare la tua nicchia e niente più, sicché ogni stinca di questo mondo ha delle pretese dittatoriali e dissennate nei tuoi confronti, la prepotenza esterna è poderosa. Purificare il linguaggio (definire correttamente ogni termine) è il corrispettivo teorico dell’ordinamento del mondo: tuttavia la verità non viene cercata nella storia, ma attraverso la storia.

Pongo ora frammento critico della posizione di Umberto Galimberti in proposito.
Gli domandarono cosa fosse la filosofia della storia.
Egli disse…
E' l'unica filosofia "seria", nel senso che la filosofia ha sempre navigato per i cieli, a partire dall' iperuranio platonico, ponendosi la domanda che cos'è una cosa: che cos'è l'anima, che cos'è la bontà, che cos'è la giustizia, che cos'è la politica. Il problema invece è di vedere come sono venute al mondo queste cose; per esempio se io dico "corpo" non mi interessa sapere che cos'è il corpo, mi interessa sapere che storia ha avuto, e allora è un conto il corpo nella grecità, il corpo nel cristianesimo, il corpo nel rinascimento, il corpo oggi, per cui c'è più verità nella storia delle parole di quanto non ci sia nella designazione della loro essenza.
Trovo che si sbagli…
Già il fatto che metta la parola “seria” tra virgolette mina la sua serietà. Che la filosofia abbia navigato per i cieli significa soltanto che ambiva all’idealità delle cose. La definizione stessa, che vuol cogliere l’idealità, presuppone una scrematura dalle impurità, ossia dalle contaminazioni che un concetto (nel caso dell’analisi linguistica) o la rispettiva realtà (nel caso dell’analisi concreta) hanno subito nel corso della storia, sicché la storicità è implicita nel concetto di definizione e non contrapposta ad esso. Se tu dici “corpo” ti interessa risanarlo, e per farlo devi appunto decostruirne la storia, risalendola invero, dal concetto odierno a tutti i precedenti. Nessuna verità va cercata nella storia, bensì attraverso la storia, la storicità non è altro che un determinato livello di corruzione, dunque di falsità, non di verità, e l’unica verità sta appunto nella designazione dell’essenza. Il termine “verità storica” è in realtà un ossimoro, poiché niente che divenga è vero e dunque reale, per dirla con Platone, mentre ciò che mai diviene e sempre è sono le idee che sottendono ai fenomeni storici e vi resistono incorruttibili. I fenomeni storici non sono altro che le loro apparenze imperfette: sicché l’unico modo di trovare la verità nella storia è appunto individuare questi caratteri originari nella loro purezza e dunque nella loro virtù, scremandoli dalle impurità, perché un essere contaminato od incompleto che dir si voglia sarà sempre un colpevole, portatore della colpa, un malvagio. La storia non è mai un oggetto sino a che non è finita, allora sarà il solo oggetto, il Mondo, la cui volontà sarà appagata e dunque sarà anche rappresentazione.
Non si studia un oggetto, perché non si ha da modificare la perfezione. Si studia invece un soggetto, sul quale si vuole intervenire, per trasformarlo nel proprio ideale. Non è possibile pertanto studiare la storia come oggetto, poiché essa non è, appunto, tale, e la si può invece studiare soltanto come partecipanti che vi individuano elementi materiali già conformi alla propria filosofia ed elementi non conformi da condannare e combattere, poiché rappresentativi, in essa, di un'altra filosofia. Questo mio discorso sulla storia sembrerebbe essere un frammento di Filosofia della Storia, ma queste due istanze non hanno nulla da spartire: sono l’Inimicizia nella sua definizione più generale, poiché ogni filosofia, quale modello ideale della realtà, vuole vincere quella Guerra che è sinonimo di Storia e porre ad essa il suo finale sigillo. La storia è già implicita (dunque è una realtà a priori) nella differenza fattuale tra le filosofie, ossia tra i personaggi. L’incontro tra questi genererà una diffrazione e una contaminazione dalle quali ogni protagonista cercherà di ricomporre la propria identità (sicché la storia diverrà una scienza a posteriori – e scopo della scienza è ricondurre ad unità & pace ciò che era plurimo & discordante). Non si potrebbe, analogamente, fare della Storia della Filosofia se la filosofia stessa, ovvero gli stessi protagonisti, gli intellettuali, non fossero soggetti implicati nella storia, operanti all’interno di essa per combattere gli elementi dottrinari delle avverse fazioni. Ora una filosofia non può essere altro che critica nei confronti del presente, stimolata dallo stridore tra esso ed un modello appunto ideale: solo le idee possono mettere in discussione la realtà. Chi si diparte dal dover essere per guardare l’essere, può essere soltanto due cose: 1) uomo che si è arreso alla realtà oppure 2) uomo pago di essa. Non si può affrontare la storia se non da un punto di vista: ed il punto di vista di chi trova in essa la verità è quello del rappresentante di una filosofia che ha temporaneamente vinto, e pertanto non vuol mettere in discussione l’essere del presente confrontandolo con un alternativo dover essere, ossia con una nuova filosofia che voglia ridefinire la realtà tramite una preventiva ridefinizione dei concetti. Se cerchi la verità nella storia sei vincolato a fermarti, nello studio delle epoche, a quella presente…
non potresti infatti andare oltre, se non animato da un anelito riformistico, fomentato dal confronto tra questa realtà ed un ideale superiore, che tu hai astutamente reciso dal gioco dichiarando che non in esso, bensì nella storia - e conseguentemente nel suo odierno esito, si trova la verità. Gli intellettuali servi del sistema sanno di aver già realizzato il connubio tra Filosofia e Storia:
che il trespolo su cui si è appollaiata la seconda dopo travagliati voli è il Nido ideale della nottola di Minerva. I giudizi della storia sono dunque per essa anche i giudizi della filosofia che, provenendo orbene dalle forme eterne dell’Ideale, divengono perentori ed immodificabili. Essi però sanno bene che i loro avversari, dal braccio del prestatore d’opera alla mente dell’intellettuale, sono ancora vivi. Sanno poi ben che ogni cultura può avere alternativamente solo due funzioni: 1) quella conservativa del sistema 2) quella avversativa ad esso. Ebbene, essi rappresentano la prima, e la cosa più furba da fare è far credere al mondo che non vi è alcuna battaglia in corso, se non contro i mostri del passato che sembrano fare capolino in qualche nuova sembianza del presente come oscure visitazioni oniriche dai tratti diabolici. Quello sterile analizzare il passato con ipocrita interesse, e con l’atteggiamento ozioso e pacato di chi effettivamente non ha nuove mete da raggiungere, serve solo a solleticare il narcisismo e consolidare l’autostima di chi si trastulla davanti al video tagliato e cucito di una partita vinta e ricelebrata e ricommentata con diffusione capillare e periodicità quasi assillante, distogliere l’attenzione dalle disgrazie presenti legati alla filosofia dominante, e da quel futuro, che qualcuno in barba a loro ancora desidera costruire, il che ha come condizione il rifiuto dell’Idealità del presente, di sussumere quest’ultimo invece, pienamente, sotto il concetto di Storicità, che fa rima con discutibilità, ponendolo sì come mero anello della catena, anziché come suo capolinea. Se del resto la storia ha compiuto, per suddette persone, il suo percorso, una domanda sorge spontanea: a che serve mai ancora la cultura? Perché nuovi studiosi? Perché filosofi? Scontata è la risposta. Per presidiare il concetto stesso di cultura, affinché non cada nelle mani del nemico, nonché l’attività culturale e le rispettive istituzioni che devono difendere le concezioni dominanti su cui si è edificata la realtà, dalle quali tali intellettuali traggono pane e nomi autorevoli, mentre gli antisistemici devono cercare altrove il primo, se davvero lo trovano, ed il nome possano farselo solo in negativo allorché vengano denunciati e denigrati perché sono usciti allo scoperto. Problemi esistono ancora, il sistema ha dei difetti, e la gente non sa valutare da sé questioni troppo complesse e cerca allora punti di riferimento, è confortata dal constatare o dal credere che esistano persone che riflettono su queste cose per trovare soluzioni, e questi intellettuali di regime divengono delle guide che possono calmare almeno idealmente il loro scontento, disagio e le preoccupazioni per il futuro. Essi operano talvolta in uno spazio particolare, una sorta di bottega del filosofo, una finestra del pensiero che funge da scacciapensieri, nella quale il maestro, uomo senz’altro colto ed il cui livello di profondità supera di fatto quello del cittadino medio, dispensa le sue teorie ed ottiene da quest’ultimo un atteggiamento umile e tendente all’accondiscendenza, trascurando però attentamente di arrivare in fondo alla questione ed impegnato, invece, nel girare intorno all’albero, denunciare come causa dei problemi elementi che fanno invero ancora parte dei sintomi, oppure pesci piccoli e tuttavia sistemici che davvero non possono ormai evitare di essere additati, oppure capri espiatori belli e buoni racchiusi sotto termini talmente generici e impersonali (“la Tecnica”) che probabilmente snobberanno l’accusa dal momento che è innocua, come innocua è tale entità senza una precisa volontà che la utilizzi per un fine. Questo modo di fare cultura ha la duplice funzione, dunque, di tenere a freno i dissidenti intelligenti ed autoconsapevoli che corrodono le verità istituite, costantemente a contatto con una realtà tutt’altro che felice o giusta, e di plagiare le menti di quanti altri, sebbene senza grandi capacità di creazione alternativa, come nuove reclute nel mondo e non ancora indottrinate, si metterebbero a criticare il presente anziché magnificarlo compiaciuti e studierebbero il passato solo con l’intento di trovare i colpevoli delle ingiustizie odierne.


L’azione umana può essere animata da due istinti che, nella persona sana, sono e restano rigorosamente contraddistinti senza essere mai contrapposti, se non nel fatto che quando l’uno parla l’altro deve tacere. Questi due istinti si chiamano Eros ed Ekatos, amore e violenza, creazione e distruzione. L’ekatos emotivamente si chiama rabbia, si esprime con la violenza ed ha come scopo il distruggere qualcosa che minaccia la nostra sicurezza presente. L’eros emotivamente si chiama eros, si esprime nella congiunzione ed ha lo scopo di creare qualcosa di nuovo. Nell’ambito uomo-donna si tratta di un nuovo individuo, nell’ambito sociale si tratta di progresso, di creazione artistica, filosofica, scientifica. L’ekatos è ideale per distruggere, è la linfa della buona guerra, ma è assolutamente controindicato e fallimentare per qualsiasi forma di creazione. L’eros è ideale per costruire, è la linfa della creazione, ma deve stare assolutamente lontano dalle arene di battaglia, nelle quali rappresenta invece il massimo tratto di debolezza. Purtroppo nella vita l’amore e la guerra si muovono negli stessi luoghi, intralciandosi a vicenda: sembra così che il conflitto sia tra quei due personaggi, illusorio invero come quello tra il cielo e la terra. Il concetto di Competizione ha portato la creazione sotto l’egida della guerra, l’ha portata sul campo di battaglia con i concorsi i premi e le corone d’alloro, ed ha portato la distruzione sotto l’egida della creazione con le arti marziali ed ogni estetizzazione della battaglia, anche nella forma apparentemente pacifica dello sport, dove la violenza, l’affermazione sull’avversario cui non si riesce a rinunciare, è solo limitata ad un livello superficiale e vincolata ad un regolamento. Dunque un artista è necessitato ad assumere anche delle virtù guerriere, per far valere ciò che ha creato o potrebbe creare, ed un soldato a curarsi della bella forma con la quale stende un nemico, sebbene la sua esigenza fondamentale sia quella di liberarsi di lui. In entrambi gli ambiti analogamente competitivi, ecco che le persone scorrette utilizzano le armi belliche provocando od attaccando deliberatamente un uomo impegnato nella creazione di qualcosa che presuppone la pace, e lo vede dunque svantaggiato e brutalmente portato su un altro terreno che non gli compete, oppure al contrario richiedono una prestazione artistica ed intellettuale ad un uomo impegnato nella battaglia che presuppone la concentrazione distruttiva e l’affrancamento da attività creative. Quando siamo animati da una grande rabbia, le nostre facoltà creative regrediscono nella stessa misura in cui vengono eccitate quelle distruttive: i nostri muscoli si fanno più reattivi e turgidi, la soglia di attenzione si alza, il nostro sguardo è rivolto all’essenziale, i nostri pensieri focalizzati all’annientamento del nemico, tutto quello che non vi concorre, ciò che è troppo raffinato, sottile e complesso, viene spazzato via dalla coscienza. Non saremmo mai capaci, in quel momento, di scrivere un aforisma, risolvere un problema di matematica, concepire una teoria scientifica, comporre una canzone, dipingere un quadro, eseguire una delicata riparazione o montaggio, conversare elegantemente, dare spiegazioni a qualcuno, fare l’amore con un partner. Anzi, quest’ultima cosa verrebbe proprio impedita dalla diminuzione degli appetiti sessuali corrispondente all’eccitazione di quelli distruttivi: gli stessi organi adibiti sembrano come ritirarsi nel corpo a scopo di autodifesa, perché non è affatto il loro momento per dirigere la partita: l’altro polo è adesso prioritario alla nostra realizzazione e non sono lecite intromissioni o sprechi di energie. Negli animali l’atto sessuale deve essere il più possibile rapido perché quando copulano essi sono vulnerabili, più facilmente attaccabili. Non è un caso che l’atto sessuale, il quale ha uno scopo creativo, si sia naturalmente cercato un luogo protetto onde potersi svolgere in tutta naturalezza e senza pressioni, ed il pudore che lo contraddistingue è tutt’altra cosa rispetto alla vergogna posta in esso dal Cristianesimo: è invece un istinto di autodifesa che conosce l’importanza dell’evento che si sta svolgendo, laddove ogni interruzione, disturbo o condizione sfavorevole avrebbe conseguenze molto gravi, e deve pertanto essere protetto. Questa è anche la ragion per cui lo scienziato deve poter lavorare al sicuro nel suo laboratorio, il poeta passeggiare senza pressanti preoccupazioni e solo concentrato nel tradurre in rime quello che prova, ed il filosofo riflettere sulle cose del mondo nella famosa Torre D’Avorio. La guerra non può creare, l’amore non può distruggere, ma entrambe sono funzioni vitali cui va garantita la dignità, lo spazio, il momento opportuno, e la necessaria maestria. Vi sono due concetti che debbono andare assolutamente distinti: una cosa è la sublimazione di un istinto violento dall’oggetto originario ad un oggetto surrogato, dovuta al fatto che il primo non è accessibile ma dobbiamo comunque dare sfogo alla nostra passione affinché non si ritorca all’interno in auto distruttività e degenerazione;
ed altresì il suo corrispettivo erotico, ossia la sublimazione di tale istinto verso un oggetto surrogato perché quello originario non è accessibile ed il ripiegamento all’interno avrebbe esiti analoghi. Questa accezione del termine sublimazione rappresenta un procedimento sano del nostro organismo. Ma vi anche il suo perfido fratellastro, di natura perversa e patologica. Il concetto perverso di sublimazione consiste nel trasformare un istinto erotico in un istinto violento: e si chiama stupro; oppure nel trasformare un istinto violento in un istinto erotico: e si chiama necrofilia. L’amore della morte, dunque, e la morte dell’amore. Il cristianesimo è essenzialmente necrofilia divenuta dogma: “ama i tuoi nemici”, per la semplice ragione che non sei forte abbastanza per odiarli, e disprezza la terra, per la semplice ragione che non sei forte abbastanza per vivere felicemente in essa. Due processi analoghi ma patologici e fallimentari che consistono, il primo, nel negare se stessi illudendosi di poter essere altro, ad esempio i nostri nemici, il secondo nel negare il proprio mondo illudendosi di poter essere altrove, ad esempio in paradiso. In questi casi la nostra sorte è segnata, o perlomeno pensiamo che lo sia: la funzione di queste distorsioni mentali è allora solo quella di farci scivolare verso la morte in maniera più piacevole. L’unico atteggiamento più razionale, dunque più sano, che si possa innescare in tali situazioni, è quello di chi si appiglia al pensiero dei suoi simili che sopravvivranno alla sua morte e continueranno a perseguire la sua causa. In tal caso, egli non fa mai il gioco del nemico, facilitandogli la sua umiliazione, e fingendo di amarlo come se stesso quando esso rimane qualcosa di diverso e dunque di ostile. Egli combatte, invece, contro di lui,
fino all’ultimo residuo di energia, per indebolirlo quanto è ancora possibile. Il cristianesimo ha di fatto ucciso i due istinti fondamentali in cui si esprime la vita: esso ha condannato sia la Guerra che l’Amore nelle loro forme sane e naturali, riproponendoli nelle loro forme perverse e mortifere: la guerra (contro se stessi!) e l’amore (verso i nemici!). In questo modo esso impedisce la conservazione del presente (che richiede la battaglia) e la sua conseguenza ovvero la salute e la nascita di spazi creativi protetti, necessari al progresso della civiltà.


Quando si entra in una pagoda, bisogna togliersi le scarpe. Quando si scende in campo, bisogna menare come dei fabbri. Le autorità politiche devono per la precisione far rispettare la sacralità di tutte le attività utili del regno nei loro luoghi, forme e regole. Nella promiscuità sociale, in cui non si sa più qual sia il luogo per cosa, e si crede di rispettare tutto quando non si rispetta più niente, ecco possiamo vedere sorgere mille discussioni e scontri tra persone che hanno tutti torto e tutti ragione, nel senso che la ragione o meglio il torto del conflitto è che dovevano restare ognuno a casa sua, ma i partecipanti hanno anche ragione perché a nessuno di loro è stata garantita una casa… a questo punto, ognuno esprime la sua natura laddove la vita lo abbia condotto, trova delle opposizioni e pensa: forse non è giusto imporsi sugli altri, ma nemmeno è giusto farsi sottomettere da loro, dal ché nasce la disputa. In essa, vediamo l’uomo più gretto che deve la sua prepotenza alla totale mancanza di riflessione circa il prossimo e la società, ed afferma così, animalescamente, la priorità del suo bisogno. A questo tipo di uomo non è accessibile alcuna questione d’onore, poiché essa viene esclusa dall’individualismo e presuppone invece la percezione del rapporto che ci lega ad altri. Ciò implica che, qualora quest’uomo si trovasse all’occasione debole, non sceglierebbe di difendere ugualmente il proprio diritto, non ne farebbe una questione di principio, ma sceglierebbe la rinuncia e la fuga senza dubbi di coscienza, cercando altrove la soddisfazione e sperando una seconda volta di essere di nuovo il più forte e affermarsi con altrettanta naturalezza. Questo tipo umano può ripresentarsi anche nello stadio di un individuo di linguaggio e di cultura: quello che però utilizza qualsivoglia argomento o nozione gli consentano una affermazione momentanea sull’avversario, senza alcun riguardo né alla verità in sé né alla coerenza personale, ed infatti lo vediamo negare oggi quello che aveva affermato ieri senza alcun imbarazzo. Non avendo a cuore costui altri che sé stesso, non ha infatti timore di urtare nessuno, e dunque di ledere alcun principio, che di quest’ultimo è difensore e garante. Vi sono poi quelli che son capitati lì ma sanno di poter andare anche altrove e di non necessitare proprio di quel posto, sicché per evitare spiacevoli complicazioni, e vedendo persone assai più motivate e accalorate, scelgono appunto questa soluzione. Vi sono anche quelli che lottano per la propria affermazione perché si rendono conto, da persone mature, che la priorità spetta a loro per ragioni soggettive (quelle che, basandosi sul principio individualista, pongono sempre la nostra priorità sul prossimo) oppure per ragioni oggettive (quelle che, pur basandosi sul principio organicista ed anzi traendo da esso una seconda ragione, sanciscono ugualmente tale priorità): quelle soggettive sono costituite dal fatto che essi conoscono lo stato generale di disordine in cui verge la società, e valutano che nel complesso della lotta degli egoismi, spesso mascherata da una finta ed ipocrita riflessione etica volta ricevere qualche favoritismo e vantaggio personale, essi hanno avuto quasi sempre la peggio, sono stati mortificati in misura molto maggiore da persone che costituivano la prepotente maggioranza ma non avevano poi ragioni oggettive (ossia socialiste) per rivendicare un ruolo prioritario. Ma oltre al rancore per chi lo abbia molestato e mortificato per suo porco interesse, irragionevolmente e magari appigliandosi a falsi principi giustificativi sul piano sovrapersonale, oltre al desiderio di vendicarsi, e di rifarsi altresì dei bottini perduti, e da allora in poi proteggersi dai finti idealisti fattuali egoisti
e fare anche lui il proprio interesse, può tuttavia comparire in lui anche una rinnovata ottica socialista e dunque organizzatrice. Essa si esprime, nella gestione societaria, sotto forma di una ricerca di criteri di priorità. Sottraendosi di nuovo all’individualismo, quel modo di vivere che, mettendo tutti sullo stesso piano e tutti contro tutti, annulla qualsiasi regola ed invalida ogni pretesa moralistica, quell’uomo che sia mosso da un onesto proposito organicistico può riabilitare invece queste e quelle: muovendo esse dal corretto riconoscimento di ogni differenza ne fanno discendere una scala di priorità che serva a vincere appunto la guerra contro le forze individuali che impediscono l’organizzazione e dunque la realizzazione di un interesse più grande e stabile che coinvolga tutti. Se un tale uomo ha dunque rinnovato e conserva in se stesso questo proposito, può nella fattispecie ritenere anche per ragioni oggettive, e non solo soggettive, che il suo bisogno personale detenga adesso il diritto di essere rispettato e che dunque gli altri debbano declinare le loro pretese ed andarsene, o per lo meno metterle in secondo piano ed attendere il loro turno. Nell’organicista, infatti, non vi è più una differenza reale tra bisogno personale e bisogno generale: egli è, in quel passaggio, divenuto il mondo, e si trova affetto dalla stessa complessità che per essere risolta richiede una precisa sequenza di azioni, una delle quali, che guarda caso deve arrivare proprio adesso e non altrimenti, è scrollarsi di dosso un disagio personale che, oltre a far soffrire lui, gli impediva di proseguire la sua strada verso la pacificazione generale di cui egli, poiché sensibile e dunque fedele, detiene il diritto e la responsabilità di gestione. Vi è poi la persona che, con una decisione altrettanto maturata, sceglie di lasciare campo al prossimo, per ragioni oggettive che sovrastano l’urgenza del suo bisogno personale. Resta da stabilire ora in che cosa consista l’Onore. Esso consiste nel fare la cosa giusta. Ma la cosa giusta è quella che serve alla causa di cui siamo portavoce. Pertanto, nella medesima circostanza, esistono tante azioni giuste quante lo sono i tipi umani che vi possano incorrere, ognuno con i suoi obiettivi da raggiungere. Ed è secondo tale varietà che le nostre azioni verranno giudicate da osservatori esterni, appartenenti alle differenti parrocchie. La scelta che facciamo dipende infatti da quello che vogliamo, che è unitario, e solo apparentemente dalla nostra gerarchia di valori, poiché questa è contenuta implicitamente nel nostro fine, il quale è tanto più ricco quanto più è elevato, potendo ergersi soltanto sopra la china dei mezzi. Ma esso deve sacrificare parte del suo bottino, qualora questo si riveli solo all’apparenza affine, ed in realtà servitore del nemico, qualora indulgessimo nella sua conservazione, e sia allora destinato a ripresentarsi sotto altra veste, a soddisfar quel bisogno che poi alla vetta suprema conduce. Chi ti biasima e ti appiccica bollini infamanti di qualsivoglia tipo ed in una scala ascendente di gravità, lo fa in funzione di quanto tu ti sei dimostrato distante dalla sua bandiera, ossia dal suo interesse, ossia dalla sua volontà. Ma da chiunque, nella medesima circostanza, si sarebbe comportato nello stesso modo, nessuno riceverà mai alcun biasimo. Se noi compiamo degli errori non riconducibili alla volontà, ma solo alla condizione di impurità nella quale ci trovavamo, di debolezza contingente quindi e non intrinseca, abbiamo di fatto servito, senza colpa, volontà estranee e dunque cause altrui. Ma qualora i nostri fratelli riconoscano questo, essi ci giustificano.
È sempre possibile dunque e soltanto giustificare l’errore di un fratello contaminato. Il Rispetto è una cosa che viene data unicamente ai propri fratelli. Esso non è altro che un patto di sangue che li lega spontaneamente per tutta la vita. Tra appartenenti alla stessa fede dunque, a prescindere dal ruolo con cui si serve la bandiera, vige il rispetto: dunque rispetto provano i subalterni verso i loro gerarchi ma anche viceversa, e con la stessa intensità, e rispetto verso i propri commilitoni. L’Ammirazione è una cosa che si può dare invece soltanto a chi serva 1) la nostra stessa causa 2) nel medesimo ruolo 3) con forza superiore alla nostra. Tale è il sentimento che provano gli allievi per i maestri, ed è destinato ad affievolirsi man mano che il livello dei primi sale e scomparire quindi, quando l’allievo raggiunge il maestro. Trattasi dunque di un sentimento di natura sempre temporanea, e che può essere dimostrato soltanto da una visibile emulazione, altrimenti è fasullo e ipocrita. Non si ammira infatti colui, il cui esempio non si segue.
La Commozione, come tutti i sentimenti positivi, è basata sull’affinità. Ci si commuove dinanzi ad un fratello di sangue e di ruolo che vediamo votarsi in nome della causa ad un sacrificio superiore a quello che noi stessi stiamo sopportando. Vediamo quindi come essa sia un sentimento temporaneo, come l’ammirazione, e che abbia, al pari di questa, ben tre condizioni a) affinità di sangue b) identità di ruolo c) una differenza di situazione che ci pone in posizione subalterna nell’espletamento di una virtù. Non è facile, dunque, ammirare. E non è facile commuoversi.
Se la prova dell’ammirazione è l’emulazione, la prova della commozione è la difesa istintiva della scelta del nostro fratello, che noi possiamo definire nobile solo alle condizioni suddette, e dapprima impediamo che qualche agente esterno si intrometta, dopodiché ci impegniamo a fare in modo che il suo sacrificio non sia stato vano. La vera commozione (che è partecipazione) non può prescindere quindi da una parità di livello: come nell’ammirazione è contenuto il fatto che anche noi saremo un giorno capaci di eseguire ciò che il maestro ha fatto, nella commozione noi ci rendiamo conto che anche noi saremmo in grado, nella medesima circostanza, di compiere la stessa scelta.
Constatiamo dunque come l’onore sia una questione legata all’identità, e non sia addirittura altro che l’estrinsecazione di questa nelle arene della vita. L’identità si rivela nell’insieme delle nostre scelte ma, non essendo modificabile, si rivela invero perfettamente e nella sua completezza in ognuna di esse, poiché ogni scelta è la stessa scelta, che ha come condizioni quell’intero mondo, in tutti i suoi fattori, cui noi ci opponiamo per piegarlo alla nostra volontà. Non è pertanto possibile disonorare la propria bandiera perché non è possibile tradire se stessi. Dunque non sarà neppure mai possibile ricevere disprezzo da un proprio fratello che non sia stato ingannato sul nostro conto, ed allo stesso modo non sarà mai possibile essere sinceramente onorati da un nostro naturale avversario che non sia stato analogamente male informato sui fatti. I fratelli hanno sempre la priorità sui nemici: il più piccolo bisogno di un fratello viene prima della più fondamentale necessità di un nemico. Questo tutti lo sanno perché tutti hanno una identità e si sono comportati di conseguenza nella vita. Non è possibile imporre a nessuno l’amore per un dissimile, oppure l’odio per un simile. Tra dissimili vi è una differenza di genere che sovrasta qualsiasi differenza di grado presente all’interno di un genere. In qualsiasi gerarchia sociale di un corpo omogeneo, la priorità di chi sta sopra discende unicamente dal fatto che dal gerarca dipende la sorte di molte persone: nel corpo sociale disomogeneo, la qualità può battere la quantità, perché una massa di incapaci è, in quanto non funzionale alla causa di cui si è rappresentanti, da sacrificare anche ad un sol uomo capace. Sicuramente, dovendo scegliere tra la sopravvivenza di un Re inetto e quella di un eccellente Spazzino, bisogna sacrificare il re. Fatto sta che il re inetto non è altro che un re avversario, che verrebbe invece osannato da tutti i rappresentanti della fazione nemica. Quando invece noi definiamo un gruppo di individui dei fratelli, è già implicita la qualità in ogni loro grado: ognuno di loro rispetta gli altri e non ci sono battaglie interne per un ruolo che tutti sanno spettare solo ad una persona, e si ha una organizzazione spontanea, priva di lotta. Una organizzazione omogenea implica dunque l’efficienza riconosciuta di ciascuna funzione, sicché, in tempi di guerra contro il nemico, l’unico fattore che determina la priorità del gradino superiore è che la sua sopravvivenza può garantire la sopravvivenza di molti più uomini e dunque condurre ad una miglior gestione della guerra ed alla vittoria finale. Quando infatti tutti gli uomini sono di pari valore, qui è ben il numero a fare la differenza e giammai si può considerare conveniente perdere un maggior numero di unità. In tempo di pace, invero, tutti i ruoli sono parificati poiché vedono paralizzate le loro funzioni: non vi è un nemico da cui difendersi e dunque nessun pericolo di morte. In questi casi il concetto stesso di priorità perde di qualsivoglia significato. Esso lo acquista invece, pienamente, nell’ambito bellico, dove le forze esterne impongono scelte e dunque sacrifici. Si deve sempre favorire l’uomo che è ancora in grado di realizzare l’obiettivo finale, e precisamente un delitto contro la propria specie, che merita il nome infame di Egoismo, è pretendere che un uomo che possa oramai servire soltanto se stesso e comunque un giorno morire senza nulla tramandare ai posteri, cosicché possano proseguire la battaglia della specie per il posto che la natura le ha assegnato sulla terra, riceva maggior rispetto e protezione di colui che è ancora in grado di servire la causa. Questa è una abietta morale anti-vitalistica ed anti-eroica. L’eroe merita di vivere e sa quando deve morire. L’anti-eroe non merita di vivere e non è mai disposto a morire. Chi non è più funzionale alla causa è un peso morto, che non merita nemmeno di essere vivo, e di succhiare le sostanze del corpo sociale senza costituirne una valente prole destinata a far grandi cose. Non è assolutamente giustificata dunque l’indignazione con la quale si constatasse che un conflitto armato avesse provocato delle vittime “tra i civili”, come se ciò fosse un delitto mentre i soldati potessero tranquillamente morire come le mosche perché tanto è il loro mestiere. Se un cittadino cura la sua famiglia, si adopra nell’officina, nel campo, nel cantiere, nella guida di un tram, nella costruzione di un oggetto utile, nell’impartire utili insegnamenti, nell’effettuare ricerche, nel curare gli ammalati, nella pulizia dei bagni e delle strade, nell’allietare la gente ed infervorare lo spirito con la sua musica, egli è sempre in qualche modo un soldato che serve la causa nazionale e non vi è allora alcuna differenza di dignità con chi sta al fronte, e quindi la nazione ha il diritto ed il dovere di piangere nello stesso modo un caduto dell’esercito in senso stretto ed un caduto dell’esercito in senso lato. Ma se una persona fosse solo un parassita sul corpo nazionale, se non avesse niente di militaresco nel suo ruolo, questa non potrebbe nemmeno chiamarsi cittadino e dunque non si tratterebbe di un civile, ma di un individuo inutile che non potrebbe nemmeno richiedere di avere dei diritti e di essere difeso dai veri cittadini, operassero questi al fronte, o nelle retrovie con la stessa nobiltà, e la sua eventuale perdita sarebbe forse addirittura un guadagno. L’unica cosa sacra, nella vita, è la causa che questa deve servire: e nessuna vita in sé stessa sarà mai qualcosa di sacro.
Anche il benessere non è sacro, ed anzi i sacrifici, posti in termini di vite umane e di felicità personale sono doverosi ad essere deposti sull’altare di una giusta causa. Per qualcosa si deve vivere, combattere, ed anche morire, non si può restare in panciolle come se fosse nostro diritto e la felicità ci fosse in tale modo garantita e consegnata come un regalo divino e ci tenesse accarezzati come gatti da salotto. È indecoroso indignarsi o lamentarsi delle sofferenze causate e dal sangue versato da idee, concetti e battaglie: se erano idee giuste, giusti concetti e giuste battaglie! Zuccherando invece la propria pigrizia pacifista che lascia i problemi inalterati e la propria laidezza morale che sviluppa i vizi e fa degenerare la civiltà e le capacità umane e miete si molte vittime e produce delle sofferenze, stavolta davvero ingiustificate. È veramente un indignitoso spettacolo vedere un uomo che pone il proprio benessere e la propria serenità come punto di riferimento sommo, come altare dal quale giudicare tutto il resto secondo che li conservi o li metta a repentaglio, senza contare poi com’egli trascuri di considerare tutte quelle battaglie altrui che storicamente hanno contribuito a creare tal benessere, di cui oggi suole compiacersi.

Un fondamentale errore dell’etica è separare l’idealismo dalla felicità personale, per la mera constatazione sociologica o storica del divario che spesso separa una persona dai grandi ideali e sceglie di seguirli, dalla conquista effettiva della felicità. L’uomo dal piccolo animo, ha dei piccoli ideali, dunque facili da realizzare: ma la sua felicità non prescinde comunque dal loro perseguimento, dunque dal suo piccolo idealismo. La vita infatti non può essere davvero felice se non realizza La Causa. Ogni deviazione da essa non fa altro che dilazionare le uniche battaglie davvero utili e gratificanti: sprecando tempo ed energie, logorando spirito e salute, immagine e rapporti sociali, per un uomo che ha provato ad essere normale ma non vi è riuscito e non vi poteva riuscire, ma per ogni uomo in genere che sia stato indotto ad essere altro col risultato di non mai parerlo nemmeno agli occhi degli altri, sicché sarebbe stato più credibile, efficiente e rispettato come avversario puro e semplice, o come distaccato solitario che accetta il suo destino ma almeno lo affronta al massimo delle possibilità, non solo negative ma anche positive, verso le mete che tale percorso può realizzare a patto che non si continui inutilmente a prostituirlo con altri che vi restano incompatibili, allorché ogni compromesso si è rivelato e continuerebbe a rivelarsi non proficuo ed inconcludente, eppur dispendioso e pungente, inquinante e fiaccante, facendoci infine apparire anche degli incoerenti, dei deboli d’animo, dei rinunciatari, delle persone non molto serie, su cui non è lecito investire, riducendo le probabilità di quella sola forma di successo che davvero conta e creando accumuli di lavoro non svolto. Dunque è sempre preferibile anche per il singolo riversare tutte le sue forze nella propria causa connaturata, quale che sia la situazione storica e circostanziale cui la provvidenza ci ha chiamati a combatterla: senza giammai sperare in altro, senza prestare orecchio a seduttori e critici, agli sciocchi e agli egoisti, ai fattuali nemici, evitando ogni illusione di benessere spurio, alienato, rinunciatario, libero arbitrario, modestizzato, mutilato, narcotizzato, con particolare attenzione alla velenifera assurdità secondo la quale sarebbe possibile porsi un obiettivo, che non sia quello che già parla in noi dalla nascita e ci manovra come un demiurgo in ogni scorcio d’esistenza: che si possa dunque zittire la natura e reinventarsi una volontà con una specie di gioco di prestigio. Se accetti fin da subito la prospettiva di morire per la tua causa, il fatto conseguente di vivere solo per essa ti darà invero molti vantaggi. Smetterai di guardare il prossimo facendo indebiti ed insensati confronti, tra persone che seguono obiettivi diversi in territori diversi ed è ovvio che non possano presentare né pretendere un parallelismo ed una somiglianza di acquisizioni. Smetterai di pensare a sviluppare altre virtù che non siano quelle di cui hai bisogno per il tuo obiettivo e la cui base ti è senza dubbio stata donata da madre natura nella cassetta degli attrezzi primari. Non sarà per te un’angustia notare altrui qualità positive dal momento che non sei tenuto ad eguagliarle come a loro non è mai passato per la testa di dover eguagliare le tue: siano esse qualità naturali e che li rendono atti al successo in un campo che non c’entra col tuo e che hanno più diritto di te di conquistare, o siano invece qualità acquisite per via di vantaggio esteriore ed anche di questo non ti devi curare poiché prima o poi la finta roccia si sgretola e rende a Cesare quel che è di Cesare, ed in questo caso l’imperatore usurpato di meriti e possessi non saresti nemmeno tu, ma un milite di quel settore che si era visto danneggiato da un meschino rivale e puoi metterti l’animo in pace, ché sono affari suoi. Questo personaggio il quale a sua volta dovrebbe armarsi di saggezza ed applicare lo sdegno dell’apparenza che non rende il debito onore alla sostanza, pensando che ogni falsa apparenza è temporanea come ogni vera ingiustizia che le sottende, che di tale ingiustizia non siamo noi i responsabili, ma il cui risanamento non può costituire il nostro obiettivo prioritario, di cui tanto sentiremmo il bisogno, dacché le sue basi son troppo profonde per poter essere inquadrate dalla nostra posizione e perché già ora deteniamo la forza di scalzarle. Ciò che dobbiamo fare è invece compiere ugualmente il nostro dovere, fino in fondo con la massima passionalità e perizia anche sotto il giogo di mille stridori e impedimenti di sorta. Non importano adesso oppressioni e mancanze, non importino offese, umiliazioni, guasti: sembrano insostenibili…
Ma sostenibili sono, e lo sono tanto di più, quanto meno tempo perdi a crucciarti delle mancanze presenti e reagisci subito con tutte le armi che hai spianate, su tutto il perimetro del tuo fronte ideale, ignorando la data dell’effettivo riscatto o se questo davvero avverrà, ma conquistando più progressi che puoi, senza fermarti mai, rilanciando sempre, affinando la prudenza del tuo coraggio ed il coraggio della tua prudenza, riducendo ogni volta di più il margine di tempo morto, di spreco, di degenerazione autoinflitta dall’immaturità. Sia chiaro, tu non devi giammai accettare l’ingiustizia… ciò non sarà mai giusto, infatti, né onorevole dunque. Devi invece resisterle e sfidarla con pazienza. Ti vendicherai, infine: ma solo nel contesto della realizzazione di quel progetto più grande cui eri nato al servizio. Sicché non porre il carro innanzi ai buoi: fedele
invece concentrati in tale servizio, senza badare a spese che non danneggino irreparabilmente il protagonista impedendogli di conquistare il risultato finale che poi ammortizzerà queste ed altre,
che avrà conseguenze talmente grandi da farci quasi scordare il peso delle premesse, la cui matassa infettiva può ora ben essere sbrogliata. Agisci grandemente anche senza il companatico di soddisfazioni sociali che ogni uomo considera giustamente associato alla virtù: dacché una vittoria finale avrà in tal caso un onore raddoppiato. Se tu segui dunque la tua via, avrai una vita fiera e almeno parzialmente soddisfacente, la caparbia concentrazione degli sforzi consentirà più quotidiana speranza di successo finale. Ma l’alternativa è una tentazione infida…
essa conduce solo apparentemente a felicità maggiori.
Tu infine, comunque, morrai. Avrai avuto solo le soddisfazioni comuni a tutte le cause, e quasi sempre accessibili, ma quelle propriamente personali le avrai precluse a te stesso per facilitare la vita ai tuoi avversari, scioccamente persuaso di poter essere felice a modo loro, hai lavorato fattualmente per loro senza essere come loro e dunque senza godere di eventuali risultati. Ti accorgerai di non essere mai stato motivato, gioioso, fiero, univoco, sincero, in armonia col prossimo, di essere stato lento e dubbioso, come ogni uomo in cui convivono istinti contrastanti. Pare dunque erroneo affermare che ci si possa davvero sacrificare per la propria causa. Ci sacrifichiamo, invero, solo allontanandoci da essa. La chiave dell’eroismo gioioso sta appunto nell’affrancamento di esso dal concetto del martirio, dalla purificazione della nostra azione dal concetto antivitalistico di morte. Noi ci sentiamo morire perché sopravvalutiamo una vita che non ci appartiene. Non ci appartiene la vita degli altri. Non ci appartengono gli obiettivi e i possessi che non siamo nati per perseguire. Quando moriamo e siamo infelici, è perché non eravamo pronti a morire. Ma se non lo eravamo è perché ci siamo sbattuti nella direzione sbagliata, verso qualcosa che poteva essere raggiunto solo sacrificando il nostro vero spirito: questi si è ribellato e la sua unione con la vita ci ha condotti alla morte anzitempo. Noi non abbiamo dunque realizzato noi stessi e nemmeno le cause degli altri dal cui spirito eravamo fin qui dominati. L’unica cosa che ci può impedire di realizzare noi stessi è quindi cercare di realizzare quello che non siamo. Imitare il prossimo. Voler essere come lui. È il prossimo, quindi, l’influenza del prossimo, che ci fa morire.
Segui solo te stesso, e anticiperai te stesso, col risultato che nessuno ti sta davanti e nessuno ti sta dietro, non sarai dunque in debito, e non sarai in credito, non avrai prestato né preso in prestito niente da nessuno: se ci sei solo tu, sei necessariamente pieno, non approderai alla sensazione terribile di morire incompleto, di abortire il parto del figlio di un Dio, non giunto a maturazione per intrusioni inopportune nelle storie degli altri e delle loro storie nella tua. Se completo morrai, saprai che non servi più, che sulla vita hai vinto tu, che un nuovo Domani vincerà per te, che più non sarà quello Ieri che odiavi. Il segreto per vincere anche quando si perde, è di vivere per se stessi.
Il segreto per perdere anche quando si vince, è di vivere per gli altri.


Ma la vittoria ideale sull’ingiustizia non è su essa vittoria materiale. Non sei giunto ad essere leggero senza essere stato pesante. Però non è giusto, essere pesanti. Un grande spirito abbandonato a se stesso su strade criminose lastricate d’infamie giungerà ad illuminarsi, siccome a guarirsi, a distaccarsi, sarà scrittore e picchiatore e costruttore ed amatore e guidatore e animatore chiasmante e musicante, può essere tanto altro, fatto sta che…quel che allora fu non doveva essere, fu ingiusto allora sarà ingiusto domani, e vano sarebbe tanto acrobatismo, se l’uomo di domani subisse ingiustizie altrettali. No! Esse vanno annientate. Prevenute. Illuminate almeno alla sua giovane mente che se ne sappia un tanto difendere e poi proietti oltre un cambiamento che dalle sue mani già precocemente mature per il nostro influsso forse ancor nella sua vita personale scenderà sul piano concreto. Egli vedrà le pietre del regno, egli vivrà meno postumo di noi, e lo farà per noi che glielo abbiamo consentito. Allora codeste ingiustizie vanno delineate e in degno stile denunciate. Gli stolti di domani non avranno i diritti con cui hanno piagato i nobili di ieri. Alla scorrettezza legheranno le mani. Bruceranno oppur la testa nel catrame.


Ed allora due aspetti di essa siano adesso illustrati…


Una cosa veramente spregevole è l’ipocrita ed ingrato pacifismo di chi, in tempi di pace, sostiene di biasimare ogni sorta di soluzione violenta quando è salito sul carro del vincitore come gli altri, dopo aver sperato con tutto il cuore che quella fazione vincesse pur non partecipando direttamente, oppure colui che, guardando un film storico dal punto di vista di una generazione successiva,
si esalta e tifa per le gesta dei suoi antesignani compari, e ha condiviso a mani basse il bottino di ricchezze, potere, diritti e possibilità conseguenti ad una vittoria militare. Egli deve i suoi attuali possedimenti e sicurezze personali a quello che è stato conquistato da altri con la spada e tuttora protetto dalla forza armata. Se questo spudorato villano si mette a calunniare la violenza, egli insulta i suoi benefattori, e questi dovrebbero a un bel momento essere legittimati, nel prossimo conflitto, a spedirlo al macello per primo intimandogli di essere ben Valente, perché ci tengono anche loro a passare una trentina d’anni di serenità e benessere. La stessa orrenda ingratitudine raccolgono spesso, stavolta sia dai combattenti che dagli ereditieri delle lor battaglie, gli uomini d’intelletto e ricerca: quelli cioè che hanno dato l’abbrivio al tutto, che hanno precedentemente speso una vita di impegno e sofferenza controcorrente per creare delle conoscenze o addirittura un Ideale nuovo che rappresentassero una speranza di riscatto e progresso per l’umanità. Disconosciuti, sovraccarichi, tormentati, infelici ed oltraggiati in vita: senza di loro i soldati stessi, fieri di essere pronti all’azione epperò assai pigri e spesso limitati mentalmente, non avrebbero una causa per la quale combattere ed una valida occasione per mostrare valenza, per non essere dunque una banda di ciechi predoni senza arte né parte, senza una meta probabile ed opportuna. Gli intellettuali tessono le bandiere e forgiano le spade: i soldati poi usano queste in nome di quelle. Chi non ha conquistato una bandiera non ha il diritto di sventolarla con orgoglio, ed il suo onore può essere solo nel servirla. Il suo orgoglio, nell’averla infine portata materialmente al trionfo ed al dominio.

Ma chi non abbia fatto né l’una né l’altra cosa ed ora che i giochi sono fatti, formalmente e sostanzialmente integrato fino in fondo nella società in cui vive, dacché assolutamente nulla di originale sarebbe in grado di creare ed apportare da se stesso, egli se ne vada per il mondo solo impegnato a conservare od aumentare la sua quiete o la sua ricchezza personali, vanificando i grandi idealismi del passato trasformandoli di nuovo in piccoli egoismi, volti alla stasi e dunque necessariamente al regresso, anziché al superamento; oppure si mettesse a vivacchiare indolentemente, procacciarsi il necessario per vivere adeguandosi senza alcuno sforzo mentale o critico alle condizioni ed alle forme che il sistema attuale ed anche le circostanze locali gli impongono per poterlo fare, ed in seguito gozzovigliare, drogarsi, ubriacarsi, stordirsi con musica ripugnante e attendere ad ogni forma di intrattenimento, senza scopo altro che un ridicolo e squallido divertimento anti riflessivo, senza altro Socialismo che non il bisogno di stare sempre in compagnia per non affrontare la propria miseria interiore, e confrontandola con quella analoga degli altri sentirsi meno miseri, senza promuovere intellettualmente né operare concretamente il passaggio ad un nuovo stadio di civiltà, assumendo talvolta un atteggiamento cultureggiante e ribellistico da parte di uno che, di già a guardarlo anche solo esteriormente dà la netta impressione di essersi fatto un concetto positivo e poi addirittura una bandiera della sua incapacità o pigrizia
nel rimettersi in sesto ed elevarsi, talvolta di essere landronesco, sporco, ubriaco, sfatto, strafatto, burbero, inelegante, indisciplinato, mentalmente limitato, naif, ed altresì il suo concetto di libertà non sembra essere altro che la libertà di rimanere tale senza essere messo in discussione o svalutato rispetto ad altri, anzi avere il diritto di criticare questi altri sentendosene eticamente superiori, addirittura impedire loro che esercitino le loro maggiori capacità in maniera più proficua, che si tratti di uomini altrettanto individualisti e però più abili e scintillanti nell’accaparrarsi un maggiore successo, spesso anche più risoluti e audaci, nonché tenaci verso la meta, oppure invece di idealisti dalle capacità intellettuali e caratteriali analogamente ben superiori: perché propriamente chi sostiene principi di uguaglianza rimanendo egoista è solo uno che è consapevole di essere inferiore agli altri sia in un ambito competitivo che in un ambito idealistico, ma come tale non vuol essere considerato e trattato. Un rivoluzionario, dunque, che più conformista e difensore del sistema che gli fa fare quello che vuole bisogna cercarlo, sbruffoncellante di frequente la propria bassezza sentenziosa e quieta, priva di angustie perché priva della serietà di una meta da raggiungere, di ingiustizie da sanare, e saputella, giudicante, sdegnosa, beffarda, derisoria, inetta, egoista, competitiva nel vacuo e nell’inutile, bramosa di ricevere amore per sé, spesso screditante chi amore non tiene, o dei luoghi perduti conosce le rene, mimante un improbabile amore ed una sensibilità per il prossimo, un rispetto per l’umanità intera quando stenta a rispettare i suoi migliori amici, e per lo più verso il prossimo è evitante, prevenuta, chiusa, scarsamente disponibile, generosa, disposta al sobbarco, ad intrusioni, interruzioni, contagi poco allettanti o poco proficue sociazioni, poco considerante le ragioni dell’altro in caso di pur modesto contenzioso, ascendente la sua ipocrisia addirittura ad ideali di fratellanza, o di giustizia universale, quando i fatti parlano chiaro: quanto al primo tema, del suo rigoroso selettivismo che salva solo il radicalmente affine ed il contingentemente compatibile, tollera ciò che di diverso pur non lo tocca di striscio, sopporta quel che non ha la possibilità di allontanare o perché non meglio annientare, ed infine osteggia ferocemente, combattendolo assai spesso con subdola meschinità, tutto ciò che davvero lo contraria nell’idea, nell’ambizioni, nel comportamento, nell’interesse, nel gusto, insomma il Diverso… Quanto al secondo tema, il profondo anelito di giustizia, i fatti illustrano qui prontamente ed in prima battuta il suo fondale menefreghismo, la selettività delle sue preoccupazioni e la superficialità del suo spesso solamente manifestato ma non sentito struggimento per quanto nel mondo non funziona o presenta ingiustizie, anche perché uno struggimento condiviso da milioni e milioni di persone a me sa tanto più di comitiva festaiola politicheggiante più che di angoscia opprimente, appannaggio di chi è controcorrente davvero, sente davvero una risonanza simpatica interiore, sempre assai antipatica, di tutto ciò che stride e pertanto percepisce una sorta di provocazione continua, di rinnovato subbuglio, perdita delle certezze, espansione del campo, di nuovamente tragico quesito, di responsabilità personale legata alla capacità straordinaria e chiaramente insolita di analizzare e connettere tutti questi problemi, ossia una vera speranza di poterli risolvere e non soltanto fare delle considerazioni sparse su di essi senza per lo più dire niente di nuovo oppure anche seriamente occuparsi di un problema specifico sconnettendolo dall’insieme: sicché percepisce tutta la sua gelida solitudine, la mole di lavoro che lo aspetta e le capacità gestionali e caratteriali necessarie vista l’ostilità incomprensiva del mondo esterno. Vediamo invece da parte del soggetto imputato, l’istintivo e magnetico avvicinamento ai nuclei di condensazione del concetto di Ingiustizia, ovverossia quei temi chiave imposti dal sistema stesso, anche tramite i mass media, da tradizionali gruppi di interesse o fazioni politiche consolidate, come le ingiustizie in voga, i problemi centrali dell’attualità moderna, talvolta reali, ma spesso assai incompleti oppure presi come specchi per allodole e capri espiatori volti ad evitare che si parli anche d’altro, che si possano innestare troppe connessioni, addirittura intuire ed un bel giorno arrivare a identificare e denunciare con chiare lettere qualcosa di estremamente losco, malvagio, occulto e di somma locazione sociale che sta dietro tutti questi singoli o non precisamente interconnessi problemi. Il qual fenomeno rivela, oltre alla scarsa autonomia di pensiero e la non diversità di esperienza, anche la mancanza di senso storico, esistenzialista e quindi filosofico, incapace di parlare in termini generali di un problema appunto universale, ma anche la fondamentale simbiosi del soggetto al legno omogeneo della propria epoca e la mancanza di quella difformità che cerca, in quanto sente, le proprie radici altrove e in tutt’altre tinte vede il mondo, che egli vorrebbe ridipingere quasi totalmente. Mai invece che qualcuno proponga una visione sua dell’ingiustizia, magari partendo da una questione poco reclamizzata, considerata o condivisa, per poi generalizzare, espandendosi a tutte le forme di ingiustizia, se davvero tutte le vogliamo sanare, attraverso un percorso ermeneutico che ne ridisegni le forme, le gerarchie e dunque le ipotesi di risoluzione. Infine significativo è il suo assolversi automaticamente da qualsivoglia ipotesi di collusione o anche sol sporadica partecipazione al fenomeno dell’ingiustizia, il suo essere senza alcun processo un cavaliere bianco forse depredato di qualche diritto e interessante prospettiva futura, da difendere tutti insieme appassionatamente e senza mai turbare la nostra serenità di fondo, valore fondante della nostra esistenza e vero oggetto della nostra passione, anche politica, come anche il non rendersi conto, o fingere di non sapere che l’intero nostro mondo con i suoi sistemi politici così evoluti ed ammirevoli è fondato sull’ingiustizia e difende la conservazione e lo sviluppo delle ingiustizie da qualsiasi attacco, e lui che finge nel branco di prendersela col sistema, alla fine ha come nemici reali solo gli autori di codesti attacchi, anche solo verbali, ipotetici o potenziali. Vediamo, in secondo battuta, le scelte di costui testimoniare in maniera convincente la presenza di uno scrupoloso amor proprio, se proprio qualche malalingua volesse ancora insinuare calunniosamente che costui non si voglia bene, coadiuvato da un tenace Semplicismo: di quel tipo che però giammai è riuscito a raggiungere il semplice tramite il periglioso contatto, quindi la disanima teorica ed infine la scrematura del complesso e del conflittuale, e dunque rivela in lui la perfetta ignoranza del significato stesso della parola Giustizia. Un tal soggetto, il più delle volte privo nella sua memoria e dunque nel suo organismo, dell’esperienza di un dolore veramente significativo o insolito, e spesso indignantesi contro gli altri di piccoli screzi del destino o torti ricevuti, mancanze, inaspettate sconfitte, piccole mortificazioni personali, elementi di anche solo superficiale disagio socio ambientale o umiliazione, non essere sullo stesso piano con chi ti circonda o non essere apprezzato, riconosciuto, che dappoi lo rendono astioso, critico, cinico, prepotente, incapace di perdonare la persona in questione, il gruppo, la categoria o quant’altro vi potesse essere connesso, escludente una riconciliazione, manifestante fredda e caustica cattiveria verso chi non gradisce o non stima e disponibilità a tradire anche i suoi pseudo fratelli al sopraggiungere di un conflitto di interessi che sovrasti il difensivismo di classe ossia l’esigenza di fare compagine e caldo terriccio con tutti quelli che amano vivere nello stesso modo e necessitano di giustificarsi a vicenda, peraltro condannando con odio chiunque viva diversamente, sia con un livello maggiore di successo personale e dunque diverso solo nell’abilità dimostrata nel realizzare il proprio individualismo, ma in particolare con uno sdegno sulfureo e pronto all’omicidio verso chi davvero ragiona diversamente, sente diversamente, infine in generale un atteggiamento ingrato ed ipocrita verso chi è stato una persona seria ed ha usato seriamente tutti gli strumenti che possano condurre ad un progresso e di quest’ultimo la vittoria sociale, persino qualora andasse a vantaggio suo…Ecco, non vedo tale razza di uomo, che suole tal più presentarsi come un punto di riferimento per l’etica, una sorta di legittimo tribunale e pietra di paragone, le cui idee pretendono non solo di essere prese in considerazione, ma di essere investite a priori di un’aura di nobile superiorità, di una autorevolezza, e giovanti della loro vastissima diffusione sociale che sostituisce il peso degli argomenti, non vedo questo individuo che razza di motivo possa addurre per richiedere ed anco ricevere una qualsivoglia forma di rispetto.


Ammessa orbene la qualità di tutti gli aderenti ad un movimento, non susciti tuttavia delle sciocche proteste il fatto che, nelle guerre, i soldati siano i primi a morire, e lo facciano in moltitudini: mentre solo per ultimi, a guerra perduta, tocchi la morte ai capi. È vero che senza la completezza dei gradi della scala, nessuna causa giunge a destinazione, che dunque anche il capo dipende dal soldato semplice. Il fatto è che vi dipende in modo non univoco. Perché negli strati subalterni gli elementi validi sono reperibili in numero sempre maggiore, e dunque sono sostituibili, mentre più si sale nella gerarchia, più è difficile trovare dei sostituti all’altezza ed infine, il leader risulta spesso davvero un personaggio unico nel suo genere, tanto che si arriva a dire che un movimento muore con la morte del Leader. Quello che tutti gli aderenti hanno diritto di pretendere dal capo, prima di seguirlo, non è che egli sia pronto a morire per primo - poiché ciò non è utile alla causa - bensì che egli sia pronto, a tempo debito, se sarà necessario, a morire anche lui. La stessa cosa può essere pretesa dai superiori verso i loro sottoposti. Concludiamo che l’unico ed imprescindibile criterio per assoldare un individuo qualsiasi ad una causa qualsiasi è assicurarsi della sua consustanzialità alla causa, dunque la sua affinità a tutti i fratelli, poiché questa caratteristica, che prende poi il nome di Onestà, ha per corollario tutto il resto: un impegno irriducibile di vita e di morte. L’Onestà verso una causa è una cosa che non può essere tolta e non può essere creata. Quelli che ci si trova a dover costringere con la forza e l’inganno sono già dei nemici, e tali atti di forza ed inganno fanno invero già parte della guerra.


Chi non è attento all’estetica non è attento neanche all’etica. Una persona di superiore senso etico detiene anche un superiore senso estetico, perché appaga con finezza e con grandezza maggiori, e di sittale qualità necessita d’essere appagato. Chi è in grado di apprezzare pienamente un’opera di determinato valore, non è detto la sappia produrre a sua volta, ma certamente ne sa produrre un’altra, di pari valore, in un altro settore e quei due artisti si meritano come tutti gli spiriti affini.
Precisamente questo è il rapporto tra buon gusto e creatività.


Se un allievo non è potenzialmente in grado di eguagliare un maestro, egli non merita quel maestro. Se un allievo è in grado di superare un maestro, è qui il maestro a non meritare l’allievo: giacché, un individuo superiore in una disciplina lo è tanto nei colpi eccezionali quanto nei fondamentali.
La sua qualità superiore si esprime infatti nei secondi come nei primi: già si vede nelle prime sessioni di lavoro che costui è destinato ad essere grande ed anzi, la sua futura capacità di fare cose grandiose dipende da quanto già si destreggia in maniera straordinaria in quelle elementari. È giusto quindi che egli debba imparare anche i fondamentali da un maestro che sia alla sua altezza. Perché il maestro medio non esegue invero nemmeno i fondamentali con la classe di un fuoriclasse: il suo esempio sarebbe quindi limitante, soprattutto se egli non abbia accesso ad altri, ma anche qualora ce lo avesse. Non servono ben infatti svariati esempi di cose imperfette: ne basta una perfetta. Le cose mal riuscite non vanno studiate, ed il miglior modo di evitarle eticamente, ossia di non farle, è di cominciare evitandole esteticamente, non entrarvi dunque in contatto, perché noi non possiamo fare mai a meno del tutto di farci contaminare da quel che vediamo, e conseguentemente di imitarlo. La giovane speranza ha bisogno di avere invece davanti agli occhi un esempio chiaro ed integro di ciò che egli sarà, affinché l’estetica possa ben trascinare a sé l’etica, in un passaggio di testimone della miglior virtù, ed il piacere ricevuto dalla prima venga restituito alla seconda con la gratificazione che l’allievo donerà al maestro, tramite risultati e vittorie. Perché l’insegnamento sia efficace, è assolutamente fondamentale che tra allievo e maestro regni una assoluta stima. Questa però non può provenire da altro che dall’affinità. Mentre nei nostri modelli educativi improntati alla promiscuità non si abbia l’ardire di parlare di Selezione, quando vediamo ovunque 1) Insegnanti che insegnano per un magro stipendio anziché per vocazione 2) Allievi che si iscrivono a questa o quella scuola senza sapere precisamente cosa vogliono diventare e se tale scuola effettivamente li condurrà a codesto vago obiettivo 3) Insegnanti senza possibilità di scegliere i propri allievi e vincolati altresì a seguire dei programmi standardizzati 4) Allievi che non possono scegliersi gli insegnanti e che devono, come questi, seguire tali programmi 5) Allievi ed insegnanti che si disprezzano a vicenda e non vedono l’ora che la scuola sia finita, e nel frattempo si sopportano con dei compromessi ed entrambi attuano un compromesso con il sistema che sta sopra di loro.


Risposta adeguata ad una ignobile violenza concettuale…

Vincerò io, capito? Si faccia pestare nel tino dell'ingiustizia, si faccia offendere,
opprimere, avvelenare, guastare, disturbare, turbare, rovinare la vita, deridere, criticare,
ostacolare, spadroneggiare da uomini e donne senza intelligenza e onore, e poi vediamo se guarda ancora di sbieco l'estremismo. Tutti quelli che fanno così vogliono solo sancire lo stato presente come giustizia: ovvero il loro dominio e benessere, ed hanno paura che tutta questa rabbia fluisca contro di loro. Allora scelgono di distorcere la retta filosofia per screditare e incaprettare i loro avversari, vituperando l'uso della forza come il fallimento della filosofia, oppure il fallimento della ragione: eppure loro la forza l'hanno usata quando avevano torto, si sono imposti e mantengono in vigore il loro dominio appunto con la superiorità numerica, il benessere, i diritti usurpati, la legislazione, la strutturazione del mondo materiale a loro immagine e somiglianza, l'impostazione della vita economica e sociale, quindi il monopolio culturale e la spudorata manipolazione, capziosa e interessata, dei concetti dell'etica. Intanto che costoro continuano a dartele, agendo meschinamente sia con le armi fisiche che con quelle verbali, la loro idea è sostanzialmente che tu devi continuare a prenderle e restare domato: e questo è il loro concetto di pace. Ma il vero filosofo invece sa che la forza della ragione non può affermarsi senza la ragione della forza: che dunque il tuo cervello pilota deve assumere le sembianze del gorilla e di ogni altra bestia meglio si adatti all'arena di ogni singola battaglia. Santa è la violenza, infame mostro chi la calunnia.


La dittatura impone le opinioni dall’alto, la democrazia le impone dal basso sottraendo però ad esse il vincolo della responsabilità, ossia il complemento condizionale di ogni autorità. Un buon passaggio potrebbe essere questo: potete dire quel che vi pare ma sappiate che se dite una stronzata pagherete col sangue i danni che ne sono conseguiti. In tal modo i più si renderanno conto di non essere poi tanto sicuri del loro valore intellettuale, e per evitare la responsabilità rinunceranno anche all’autorità, consegnandola ad altri. Se non fosse che, per realizzare ciò una autorità costituita che ha mezzi per imporre la sua verità deve già essere presente, e in tal caso non ammette che essa verità sorga dal basso. La mia proposta quindi decade. Una autorità istituita esiste già e tollera che le spara coerenti con essa, persegue i difformi.


Un mondo in cui anche una sola menzogna sopravvive non merita di essere chiamato civile né di essere rispettato. Una civiltà che conferisce diritti e libero corso alle menzogne non può piangere i propri morti ad opera di rivoluzionari indignati. Un uomo che mente non è un essere umano, e se viene sterminato non può parlare di “crimini contro l’umanità” dopo che lui per primo ne ha violentato il concetto. Vigeat veritas et pereat mundus, hic et semper.


Le ipotesi sono come i sogni: figurazioni di desideri e paure, sono eccezionali accessi al nostro mondo interiore, viaggi intuitivi e come furtivi contatti con i confini della nostra anima, dunque dei nostri ideali. In essi ci si rivelano amici e nemici le cui fattezze non sono molto chiare nell’usuale stato di coscienza. Dobbiamo fidarci delle ipotesi come dei sogni, poiché queste come quelli ci portano più avanti, sono uno squarcio luminoso improvviso verso ciò che dobbiamo realizzare, ed una sensibile avvisaglia contro i grandi pericoli che ci aspettano su quella strada. L’ipotesi è veritiera perché affine. Esistono tante verità quanti sono i tipi umani. In una società disorganica e dunque non gerarchica, queste verità sono in conflitto perché lo sono gli individui: verità è infatti sinonimo di identità. Sino a che il mondo non sarà unitario la verità sarà soggettiva. Oggettiva, invece, quando i mille soggetti saranno divenuti oggetto: un’unica azione a catena dall’alto verso il basso, coerente nella forza, stroncherà le debolezze realizzando l’ultimo stadio della coerenza cosmica. Non esistono ipotesi false, solo uomini deboli. Ma se l’ipotesi è tale, se è dunque sincera, ogni ulteriore indagine non farà che confermarla: ogni dato che troveremo, ovviamente, personalmente interpretato, ossia filtrato, si conformerà a quel dipinto come un tassello di mosaico costruito su misura e la percezione del tutto, rafforzata da ogni tassello che si aggiunge, richiamerà appunto gli altri, a ricomporre una originaria visione unitaria, di cui la nostra persona conservava l’involucro.

La forza della mente lancia fulgida rete ai confini inconquistati del corpo, essa sconfigge i nemici ma il corpo non può seguirla: ma la tensione è creata, sicché uomo d’intelligenza estrema che sia posto in locazione massimamente subalterna conosce estremo il dolore.

Senza l’eroica fiamma argentina dell’ipotesi, la scienza non si evolve.

Una ipotesi è una testa di ponte insinuata in un territorio sconosciuto. Se è una buona ipotesi ci permette di effettuare lo sbarco verso la conquista, se è una ipotesi cattiva veniamo ricacciati in mare dalle forze nemiche, e allora dobbiamo trovare un differente approdo.

Alla base di ogni studio giace una volontà di potenza. Questa volontà si infervora grazie all’improvvisa luce di una ipotesi. Sicché tu devi affrontare qualsiasi studio solo animato dal tentativo di verificare o falsificare quella ipotesi, tutto ciò che non vi concorre va scartato.


Quando leggiamo qualche testo e ci lasciamo guidare da esso, noi reagiamo soltanto alle parole che solleticano un nostro bisogno, conciliandolo oppure contrariandolo, e tale reazione è la nostra comprensione. Quello che altresì accende il nostro interesse è il fatto che alcuni elementi vanno a confortare oppure negare un’ipotesi che avevamo già fatto ma temporaneamente sublimata nell’inconscio. Dietro l’ipotesi stava un bisogno, dietro il bisogno una storia, dietro la storia stavano una personalità ed un mondo. Il nostro percorso conoscitivo, che si compie coincidentemente a quello attivo, è la nemesi del rapporto originariamente infausto tra questa personalità e questo mondo, ovvero la nostra vita.


Due persone uguali non discutono. Se discutono, sono diverse, ma se sono diverse non possono mettersi d’accordo: affinché potessero mettersi d’accordo dovrebbero tutto al più scoprire che il punto di divergenza fosse solo apparente ed in realtà, proprio su quel punto, essi fossero affini.
Dunque il problema, e la discussione, si riducono ad accertarsi che si sta usando lo stesso linguaggio, ossia che si sta parlando delle stesse cose. Una volta accertato questo, se ancora si presenta la divergenza, è di valore inestimabile sapere che essa si trova al di fuori della sfera linguistica per giacere meramente nella sfera fisica e dunque alcuna discussione, ossia alcuna operazione linguistica, può elidere il disaccordo, ma solo appunto una operazione fisica: occorre modificare i soggetti oppure entrare in conflitto armato. Le bandiere non combattono mai se non tramite le spade: queste ultime infatti si possono trovare sullo stesso piano, non invece le prime, che si trovano in piani distinti, in una precisa gerarchia naturale che vede quella superiore comprendere quella inferiore ma non viceversa, senza che però la seconda possa giammai riconoscere la propria inferiorità e non combattere pertanto la prima. L’Essere rifiuta l’Altro, ossia il vero Non-Essere.
Essere sé stessi significa ritenersi i migliori, ovvero gli unici. L’unico è indiscutibile, perché per essere discutibile dovrebbe scindersi in soggetto ed oggetto, ed il primo valutare il secondo, reagire ad esso con un atto benevolo o malevolo. Prima di dimostrare dobbiamo essere, dobbiamo essere per aver qualcosa da dimostrare, ma dobbiamo dimostrare solo quello che non possiamo imporre, se non fosse che quello che non possiamo imporre non lo possiamo nemmeno dimostrare, giacché lo dimostreremmo sempre e soltanto a qualcuno che è diverso da noi e non può dunque aver le stesse percezioni del mondo, dunque ogni tentativo dimostrativo poggia sull’illusione di poter essere il prossimo, di stare spiegando le cose a se stessi: sulla proiezione dunque, di se stessi, nel prossimo, nella quale non si rivela altro che l’invidia del suo ruolo sociale, nel quale vorremmo trovarci onde poter semplicemente imporre la nostra volontà e con essa il nostro intelletto.
Per sentire di fatto la propria inferiorità mentale il nostro avversario dovrebbe fare cosa assai paradossale ossia essere più intelligente di se stesso, in quanto il soggetto che giudica è sempre lui, sicché dovrebbe trovarsi a questo punto sdoppiato e sdegnare quell’altro essere che però guarda caso è sempre lui medesimo e dunque per il principio d’identità è costretto ad apprezzarsi ossia a voler esistere, conservarsi, realizzare i suoi scopi, reagire agli stimoli esterni in un modo ben preciso e naturale. La comparazione presuppone due soggetti che, come tali, non sono un soggetto solo, sicché l’autodisprezzo, qual versione intellettuale del suicidio, è impossibile tanto quanto la suddetta scissione. Tu puoi dire ieri ho sbagliato, non adesso sto sbagliando. Assumere un punto di vista diverso significa già essere diversi. Non a caso la parola convincere significa vincere insieme, ma per vincere insieme bisogna essere simili, e l’avversario non può sopprimere la propria diversità ad opera della stessa: no, sei tu l’unico che può agire su di lui in modo distruttivo, e dove cerchi di farlo invece intellettualmente, ti troverai di fronte all’irriducibilità delle vostre differenti percezioni ad una percezione sola, allorché ti viene la voglia di violentare i suoi sensi ed intelletto, perché diventino più capaci, e rendendoti conto dell’impossibilità della cosa, passi al desiderio della distruzione fisica di questi esseri pericolosi ogniqualvolta tu non possa semplicemente toglierli dal loro ruolo, in modo che non possano nuocere. Tutti i paradossi si basano sull’autoreferenzialità, ossia sull’impossibile identità di soggetto ed oggetto.

Il cosmo è un sistema unitario, nessun elemento è isolato dal resto, per cui, attraverso la mediazione di un determinato numero di fattori, la condizione e l’azione di ogni ente di questo mondo influenzano anche me. Sono ormai decenni che sentiamo discorsi ecologisti seri e preoccupanti, ma che di fronte ad un interesse economico rapido e tangibile non esimono le imprese dal fare quello che vogliono pensando solo ad arraffarsi una fetta di mercato, piazzare nuovi prodotti, stimolare bisogni e desideri superflui o addirittura dannosi. E la gente si lascia trascinare, anche perché, ad esempio nel campo della tecnologia, se non acquisti gli strumenti all’ultimo grido, entro un mese sei tagliato fuori dal mercato; ed un operaio che deve cambiare la macchina anche solo per andare a lavorare non si mette certo a pensare all’impatto ambientale della sua vettura e ai suoi costi di produzione pari all’energia contenuta in x bidoni di petrolio. Solo dalla politica può partire un nuovo condizionamento delle scelte economiche, sociali e private che i singoli mettono in atto, perseguendo un interesse privato, tangibile, a breve termine, ma di cui prima o poi pagherà le conseguenze. Anche se ci fosse la volontà politica di fare questo, la difficoltà più grande non è neppure quella dell’attuazione di nuove regole, quanto quella di stabilire e dimostrare una priorità assoluta, la condizione del socialismo: perché tutti siamo animati soltanto da priorità relative.


La competizione può essere interpretata come la più grave malattia della società moderna e industriale. Il bisogno di superare gli altri nasce dal modello sociale secondo il quale, se non sei un “vincente”, verrai di fatto scartato e calpestato e non potrai soddisfare nemmeno i tuoi reali bisogni, mentre se sei un “vincente” ti attende una “crescita” sempre maggiore che non si sa dove voglia arrivare né se abbia senso arrivarci. Se invece un sistema politico ti garantisce che nessuno ti sottrarrà mai ciò di cui solamente hai bisogno, ecco che scompaiono la mentalità competitiva, la prepotenza, la frode, il furto, l’inganno, l’ipocrisia, la cattiveria, il rancore, la violenza, la malizia e l’invidia. La concorrenza è inoltre concettualmente sbagliata e dannosa perché un medesimo bene, e altresì un medesimo ruolo, sono più adatti nelle mani di una persona che nelle mani di un’altra, e la persona stessa e l’intera civiltà ne traggono più beneficio che nel caso contrario.


Ci viene riportato da Hans Georg Gadamer come i Greci appresero dagli Egiziani innumerevoli conoscenze, ereditarono dai matematici babilonesi tecniche importanti per le equazioni, per la teoria delle equazioni, quindi per l’algebra, come diremmo oggi. Egli aggiunge: Eppure soltanto i Greci raccolsero questi materiali, come nel caso di Talete, in un concetto del sapere e, per così dire, in un ideale di scienza, così formulabile: bisogna dimostrare ciò che si asserisce. Ed è noto a tutti che in effetti il grande, definitivo risultato di questo ideale di dimostrazione (che ha portato alla prima forma di scienza) ha conservato tutto il suo valore fino ai nostri giorni grazie alla logica di Aristotele, conoscendo negli ultimi due secoli un sorprendente processo di affinamento e differenziazione. In ogni caso, grazie a tutto ciò, oggi sappiamo che in quelle città commerciali (con i loro traffici mondiali, con quel miscuglio di conoscenze provenienti da tutto il mondo conosciuto) si è manifestata anche l’audacia dell’indagine scientifica. Il fatto che questa scienza intesa come sforzo per dimostrare quello che si asserisce si fosse costituita proprio in centri di traffico mondiali, dove afferivano conoscenze da tutto il mondo conosciuto, suggerisce invece come la logica sia successiva alla dialettica, intesa come forma verbale di inganno o violenza per imporre al prossimo la propria volontà. In quel contesto non poteva che essere dominante un molteplice disaccordo, e per risolverlo bisognava trovare dei punti di contatto. Eppure il problema non sono le regole della logica, son le premesse: esse hanno un valore di verità (pleonasmo) opposto per persone naturalmente opposte, sicché, per quanto a lungo si possa discutere, non si farà cambiare idea al prossimo senza avergli fatto cambiare identità, cosa impossibile, od al massimo scoterlo dal torpore contingente e fargli comprendere chi esso sia veramente, un nostro simile che gioverebbe anch’egli delle stesse soluzioni e scelte. Ma nello stesso modo in cui è impossibile essere coerenti con il prossimo in un rapporto paritario e non gerarchico, è altrettanto impossibile essere incoerenti con se stessi sino a che non si è cambiati: ma si può cambiare solo nella contingenza non nella sostanza e dunque il cambiamento consiste nell’eliminazione di scorie eteronome (progresso) o nella loro assunzione (regresso). La logica allora non si rivela essere altro che il metodo efficace per scrollarsi di dosso gli altri, un ritrovare la propria identità. Infatti essa vuole eliminare il falso, ossia il diverso. Quando fallisce noi abbiamo subìto un torto, non abbiamo avuto ragione del nemico. Non esistono una ragione e un torto oggettivi: perché quando si realizzerà l’oggettività tutti avranno avuto contemporaneamente ragione, ovvero si saranno purificati e organizzati, mentre nella soggettività tutti hanno torto ed avere ragione non significa altro che oggettivare la soggettività stessa. Un’esortazione a ragionare è un’esortazione a ritrovare se stessi.
Fare invece cose irrazionali significa fare cose incoerenti con la propria natura poiché i nostri strumenti conoscitivi sono stati intaccati dal morbo dell’alterità (pleonasmo). Lo Spirito Scientifico è quello della purezza sul piano individuale, e quello dell’organizzazione sul piano sociale, ossia una purezza, che è sinonimo di unicità, macrologica. Scopo della Scienza è rendere Uno il Molteplice. Non è possibile completare la propria purezza individuale senza che anche l’organizzazione esterna sia completa. I due processi anzi coincidono perché neppure in minima misura tu ti purifichi senza un intervento compiuto anche sull’ambiente esterno, e quando è quest’ultimo a cambiare, esso influisce anche sulla tua situazione interna. La dialettica o arte sofistica è stata chiamata la logica dell’apparenza perché appunto mira ad imprimere in noi il falso cioè il diverso senza che ce ne accorgiamo. Noi diventiamo in questo modo amici dei nostri nemici, che invece ci tengono a distanza grazie alla vera logica che possiedono e che ci ha riconosciuti come avversari, ma che essi tengono celata onde poterci utilizzare come mezzi, temporaneamente, ossia come reali amici che, nell’identità contingente da noi incarnata, servono a distruggere ossia ad espellere un nemico più radicale, più forte, quello da combattere per primo, un diverso da cui dipendono altri diversi che saranno, a tempo debito ovvero dalla debita personalità specifica che sola può sconfiggerli, appunto sconfitti. Un nemico può essere sconfitto soltanto da un altro che gli sia immediatamente superiore, in questo si verifica il principio natura non facit saltus. Non a caso, anche nello sport, surrogato della guerra, un grande campione snobba uno sfidante che gli sia eccessivamente inferiore, e lo usa tutto al più come allenamento, e si realizza veramente soltanto nella vittoria su un degno rivale, di cui sia superiore di un gradino. La scienza non può essere qualcosa di pacifico, ma proprio il contrario, essa è l’Istruttore che forgia (o meglio la scopre, scolpendola) la personalità dei soldati e stabilisce gli schieramenti. Senza esigenze belliche non potrebbe esistere nessuna scienza, mancherebbe la motivazione, se non fosse che la miglior scienza della guerra coinciderebbe con la scienza della pace, poiché la giusta guerra non contamina gli esseri e le civiltà, come fa invece quella cattiva, ma produce solo purificazione ed armonia, realizzando la pace.


L’Autorità si può conquistare con la forza o con il consenso. Il consenso può essere ottenuto solamente da un uomo che presenti la caratteristica di essere un primus inter pares, ovvero possedere un talento superiore che sia però ben riconoscibile dagli altri, da chi è in grado di sentire una meta, dunque di condividerla, nonché di vedere che tale uomo si muove verso di essa con maggiore energia, rapidità, agilità, precisione, dirittura di quanto egli non saprebbe fare autonomamente. Non si può apparire autorevoli a chi non ci è affine, ovvero non possiede il nostro stesso fine. Chi ha assunto un’autorità con la violenza e l’inganno e ci tiene a mantenerla, continuerà ad usare la violenza e l’inganno travestendoli di autorevolezza, estorcendo un consenso che uno spirito differente non sarà mai disposto a dare. Questo fenomeno è assolutamente dominante nel campo degli studi, dove ai giovani ribelli e geniali, che assumono posizioni critiche nei confronti del sistema, viene detto: Prima accetta di essere giudicato, dopo giudicherai. Prima supera le prove ufficiali e diventa qualcuno, poi cambierai le cose. Prima rispettali e lasciati guidare da loro, poi, quando ti avranno detto che hai le carte in regola, avrai il diritto di mandarli al diavolo. Ora questi controsensi riescono talvolta ad apparire persino credibili. Dovrei farmi conferire il diritto di essere intelligente da una persona che non ritengo intelligente? Dovrei far giudicare la mia onestà da un disonesto? Dovrei sentirmi una persona in gamba solo dopo aver superato una prova che per me non significa niente? Devo fare la guerra a qualcuno solo dopo avergliela data vinta? Evidentemente queste persone si sono imposte su di me in maniera violenta e fraudolenta senza essere superiori a me, e dunque senza averne diritto. A questo punto io ho il diritto di fare la rivoluzione come qualsiasi popolo oppresso da un tiranno ingiusto, e non potrei affermare altrimenti la mia retta volontà dacché, come io non posso riconoscere la sua autorità, anche lui non riconoscerà mai la mia, perché esiste una disaffinità caratteriale tra me e lui, che non appena io manifesterò, vedrà la sua radicale opposizione. L’unica alternativa che mi resta è dunque usare a mia volta l’inganno: fingere di rispettare il potere, prendere gli attestati necessari ad assumere delle posizioni più rispettabili in esso, e poi usare la mia autorità contro l’autorità. Se è nelle mie corde fare questo, nessun principio etico me lo impedisce, come nessun principio etico mi impedisce invece di ripudiare questo metodo qualora lo ritenga personalmente oltraggioso, improduttivo, inefficace, ed abbia una intolleranza particolare ad avvoltolarmi in quel viscidume che oltretutto impedisce, guasta e ritarda drammaticamente la mia crescita autonoma, necessaria per realizzare il mio potenziale e nella quale impresa avrei dovuto giovare di veri maestri e nobili istituzioni anziché trovarne di indegni che mi fossero soltanto di intralcio e danno anziché d’aiuto, mentre sento la forza di combattere alternativamente il sistema senza esserne parte e dunque rinunciando alla possibilità di appoggiarmi alle sue piattaforme ed ai suoi titoli, con lo svantaggio di ritrovarmi solo e debole, condannato e privo di consensi, ma tuttavia più libero di gestire il mio lavoro secondo i miei principi, senza tradire me stesso e marcire in un modo che ritengo ignominioso oltre che inconcludente, e scelgo dunque di contrapporre a questo una battaglia che sarà anch’essa tormentatissima e pesante, ma nella quale credo e pertanto sono più lieto di porre in lei i miei sacrifici. In fondo, si tratta di abbattere qualcosa di ingiusto: son loro nel torto, che si credono di avere il diritto di governare, influenzare, opprimere, rubare il tempo, distruggere le giovani anime e deturpare il significato della parola Filosofia ed ogni onestà nei suoi confronti. Questi criminali verranno infine messi dove meritano. Non tediatemi sugli strumenti che uso: potreste aiutarmi invece, visto che non è solo una questione personale. Se infine avrò successo, sarà infatti perché non ho pensato solo a me stesso.


Uomini d’intelletto indegno ti fracassano i coglioni con i loro interventi e la loro aborrenda tenacia nell’affermare il falso e nell’imporre la loro volontà. Spesso noi persone oneste e geniali non ci accorgiamo di conferire loro un rispetto abnormemente superiore a quello che meritano. Noi accettiamo con essi un dialogo e da parte loro un giudizio assolutamente oltraggiosi, perniciosi, sfiancanti. Non ci rendiamo conto che arriviamo a considerarli i nostri confessori e legittimi valutatori, ci preoccupiamo delle loro reazioni emotive e delle parole, ci sentiamo messi in discussione da esse, come se noi e le nostre idee fossimo gli imputati dinanzi al tribunale della loro legge, al quale competono la regolamentazione del processo, la supervisione e l’ultima parola su ogni soggetto: questi sozzoni, dalle idee prese a prestito, conformi in tutto e per tutto all’andazzo del sistema, conformisti nel midollo, allignati sullo stesso tronco alla cui sostanza sono affini e che non possono che far crescere la stessa specie di albero nella sua naturale prosecuzione biologica. Noi confondiamo il potere economico e politico che essi possiedono su di noi, conseguentemente alla loro maggioranza ed al loro dominio, con la loro dignità intellettuale. Quando una cosa è sicura: che qualora le nostre due fazioni si fossero trovate fin dall’inizio ad armi pari, e noi non fossimo stati imbevuti e soffocati fin dall’infanzia dei loro veleni pastosi, plagiati dalle loro menzogne, infiacchiti, logorati e resi estranei a noi stessi, sfiguranti ormai nell’istinto e nella sensazione la nostra innata virtù, che solo una lunga esperienza ed un impegnato pensiero, costante durante tutti quegli anni in cui li abbiamo dovuti sopportare, riesce a specchiarsi fedele nella nostra coscienza, senza queste circostanze svantaggiatissime, noi non avremmo mai concesso loro neppure la nostra attenzione, essi non si sarebbero guadagnati nemmeno quel minimo rispetto umano che avrebbe consentito loro di avere una conversazione con noi. Quando uno di loro mi fa imbestialire con la sua sgradevolezza e barbarie ed io lo copro di insulti sprezzanti e faccio una fatica immane a controllare la mia brama di violenza fisica votata al più cruento massacro, ecco che questo individuo, privo di quell’onore che gli consentirebbe di offendersi per le verità che gli sputo addosso e di sentirsi un fallito per le reazioni pessime che riesce a suscitare in una persona intelligente che adesso lo odia come il cancro, può capitare che costui abbia il coraggio abominevole di affermare che non abbiamo più argomenti. La parola argomenti utilizzata da chi non ha mai utilizzato nella vita un argomento che non fosse ridicolo ancorché onesto oppure sofistico nell’usuale disonestà, contro filosofi estremisti che hanno prodotto tonnellate di pensieri al limite delle capacità umane, che la gente li invita a gran voce ad abbandonare quella strada per le conseguenze tragiche che ha sulla loro vita ma noi siamo quelli senza argomenti, non invece quelle sculture di Bernini che provano ribrezzo ad essere messe vicino ai loro sgorbi dadaisti, e per giunta dinanzi ad un pubblico di critici criminali che dicono che quella è arte superiore e loro non si dovrebbero neppure incazzare. Dio mio quanto odio la parità dei diritti che rende vincente il numero sulla qualità, dio quanto è profondamente giusta la violenza contro chi violenta il diritto e disconosce il vero per la colpa imperdonabile della sua innata grettezza. Quando mai questo branco di cinghiali vigliacchi si è imposto su di noi con le sue ragioni? Se facessimo un faccia a faccia di ogni nostro argomento contro ogni vostro pertinente, la nostra sarebbe una vittoria impeccabile lunga quanto la nostra vita. Mi capitano tra le mani queste pagine Internet, su relativismo e universalismo su storia o pseudo storia dell’etica in stile semi compilativo arbitrario condito con opinioni personali da filosofastro da mezza tacca e mi imbestialisco di nuovo. Scrivono tutti come cani e ragionano con una grossolanità massacrante, non dovrei neppure confrontarmi con loro, studiare quello che dicono innanzitutto traducendolo in una lingua rispettabile e scremandolo di ogni ridondanza, quindi ponendo le mie obiezioni ad ogni loro singola becera affermazione. Questo non mi compete, io devo essere uno spirito affermativo, che altri perdano tempo a rimestare le loro fanghiglie. Io dovrei soltanto contrapporre il mio sistema al loro, agli occhi di un pubblico intelligente e non prevenuto, per vedere che cosa scelgono. Senza che le note del mio supremo concerto sinfonico si debbano sovrapporre alla loro mala musica, insinuarsi in mezzo ai quegli starnazzi da orchestrina di liscio improvvisati sulla base registrata di una storia della filosofia a sua volta impregnata di sciatteria ed errore. Oppure dovremmo mettere semplicemente in pratica i nostri due sistemi in due mondi paralleli, per vedere quale funziona meglio e dunque chi tra noi fosse un Philosophus sapiens e chi una Capra vulgaris. Di questi accessi di rabbia la mia estetica risente, non riesco più a parlare con eleganza e concisione, e ringhio, il mio volto si deforma, il mio corpo perde coordinazione, bramo una violenza assoluta, e dimentico mie vecchie sacrosante consapevolezze della miseria altrui, intellettuale e morale. Sembra dunque che ogni nostro contatto e commercio con spiriti inferiori riesca solamente a guastare il nostro spirito equilibrato e condizionare negativamente le sue autonome prestazioni. Se noi prendiamo le mosse dai fenomeni esteriori, ecco che la nostra mente ordinatrice riesce a comporne un dipinto chiarificatore e al contempo risolutore, e come tale esso viene apprezzato da chi fosse turbato dal caos insoddisfacente di quella realtà ma non avesse la forza personale di razionalizzarla. Allo stesso modo una musica di grande qualità può insinuarsi benefica nelle nostre orecchie a partire da una situazione reale negativa che ha bisogno di una stimolazione adeguata ed in quella circostanza la godiamo massimamente, mentre saremmo disturbati dalla mediazione di musica scadente, che guasterebbe il nostro palato rendendolo restio anche alle cose buone. Testi filosofici scadenti hanno la funzione di farci perdere il contatto con quella realtà viva che soltanto avrebbe giovato dell’opera di un maestoso cervello ordinatore capace di darne ragione e perfetta espressione. La lettura di questi testi disperde le nostre consapevolezze, rende nebuloso, indistinto, sfuggente o sin vacuo ciò che prima era chiaro ancorché frammentato e insoddisfacente, di cui aspettavamo la razionalizzazione da parte di un filosofo serio, oppure ha tale effetto su quest’ultimo filosofo che da sé medesimo intendeva compiere questo sforzo professionale. Purtroppo il malaugurato cavaliere cui abbiamo teso la nostra mano perché conducesse le danze è invece il filosofastro di turno. Il suo passo così claudicante e disarmonico, oppure ancor talmente privo di ritmo e vivacità passionale, quasi che il suo moto fosse svincolato da ogni vera linea musicale percepibile, ci fa passare la voglia di ballare, ci fa disgustare della musica stessa e crediamo quasi che la colpa sia nostra, quasi che fossimo davvero costretti a seguire le sue squallide movenze o a correggerle, e ci sentiamo allor come se la musica stessa ci avesse rifiutati, quando il nostro errore fu solo l’esserci lasciati sedurre e condurre da quel poveraccio. Quando danziamo per i fatti nostri esce quasi sempre fuori una bella cosa, quando invece si intromette uno di questi tizi il livello scade a meno che la cosa non sia completamente gestita in forma di lapidazione intellettuale o parodia sarcastica dal filosofo contro il filosofastro. Ma perché esca un dialogo gradevole, sia esso collaborativo oppure avversativo, i due partecipanti devono essere della stessa categoria, altrimenti la mediocrità dell’uno impedisce il dispiegarsi della tecnica dell’altro, costringendo quest’ultimo ad imbarbarirsi e regredire, con esiti incerti e mai piacevoli. Essi devono giocare inoltre con lo stesso livello di lealtà, altrimenti giocano a due giochi diversi e non si possono guardare due partite contemporaneamente. Inoltre, ci sono testi complessivamente mediocri che contengono singoli frammenti di valore, spesso costituiti anche solo da una citazione autorevole, ma cominciando dall’inizio e procedendo nella lettura l’autore ci ha talmente annoiati, infastiditi, irritati, frustrati, stancati, confusi, guasti nell’animo che, quando questi passi finalmente arrivano, probabilmente non li apprezziamo o nemmeno li capiamo al volo, anche se la nostra attenzione, naturalmente disconnessa nella fase precedente in cui leggevamo solo con gli occhi quelle scribacchiature prive di qualsiasi interesse, si è improvvisamente ridestata alla vista di una fiammella di spirito. Non possiamo in questo caso essere considerati responsabili della nostra contingente incomprensione, giacché la colpa di essa risiede totalmente nell’autore. Ci avesse sparato subito quel pensiero significativo lo avremmo capito al volo. Se poi lo avesse introdotto all’interno di un tessuto raffinato al momento giusto, ci avrebbe addirittura deliziati e riscosso la nostra ammirazione: ci saremmo innamorati di lui. Dai cento cantoni della vita, della scienza e dell’arte sembra giungerci lo stesso monito, lamentoso e sempre più rigido…



Le cose cattive non vanno
mai accompagnate a quelle buone.


La bizzarra scuola sofistica insegna prima i colpi bassi di quelli regolari. Il motivo è semplice: sono gli unici che la possono rendere competitiva. I sofisti sono infatti consapevoli che, se praticassero l’arte della filosofia seriamente, il loro talento naturale li potrebbe condurre al massimo alla cintura arancione. Ma la loro invidia per le cinture nere impone loro di non arrendersi e pertanto ne studiano una più del diavolo per sconfiggere e screditare i maestri agli occhi del pubblico ignaro, prenderne indebitamente il posto oppure sostituirli con fanfaroni da mezza tacca, guadagnare soldi al posto loro, eclissare la loro stella insinuando un piccolo corpo oscuro tra lei ed il pubblico, operazione che deve la sua efficacia solo alla vicinanza del satellite al pianeta che di essa attende i benefici raggi, ma di breve durata ed ignara del fatto che il calore di quel bulbo pulsante si irradia in ogni direzione a fendere l’universo e la sua luce è inarrestabile da tale piccolezza: il meschino astro del filosofastro. Quando poi un professore non avesse l’intenzione di eclissare il genio ma volesse invece illustrarne le idee ad un pubblico di discenti, egli non può comunque evitare di farlo attraverso la propria personalità, di levatura assai inferiore al suddetto, e la sua massa di corpo oscuro riesce al massimo a diventare una palla nera circondata da una corona di fuoco, la luce dell’Astro che si insinua oltre i suoi bordi creando una scena surreale e minacciosa: deve però essere chiaro che i due soggetti che producono il fenomeno sono di natura assai diversa. Il corpo oscuro e filtrante può risultare molto utile a chi non sia all’altezza dell’Astro maggiore e verrebbe accecato dalla sua luce piena, mentre lo spirito affine non aspetta altro che di esserne investito. I professori fanno mostra di stimare soprattutto i massimi esponenti dell’ostruzionismo e della vacuità filosofica, ma tanto per non passare per completi imbecilli anche agli occhi dei profani che pure nella loro maggiore ingenuità hanno raccolto la luce dei maestri nelle sue gamme più visibili devono stimare anche questi ultimi senza nemmeno fare però una particolare gerarchia, o meglio tenendo in segreto le loro preferenze perché dichiararle sarebbe inconveniente, ma sicuramente non parlano della filosofia dei maestri con l’atteggiamento di coloro che devono spanderla nel mondo affinché diventi sostanza. La loro ammirazione dei filosofi non è sincera poiché loro stessi non lo sono ed hanno seguito tutt’altre regole di vita, esperienze ed ambizioni, dunque questa ostentazione di rispetto è tutta interessata al loro fine, quello di apparire competenti in una disciplina e poterne campare. Non potranno infatti dire alla gente che quella falloppa di libracci che si sono quasi studiati a memoria è stata scritta da un branco di intelletti mediocri. Eppure così è.


Una tecnica brillantissima di lor sofisti è quella di complicare le cose semplici e rendere diffratto ciò che era stato facilmente compreso. Essi sanciscono delle fantomatiche differenze concettuali in modo da possedere tre o fin cinque termini dove ne basta uno, o perché gli altri sono effettivamente sinonimi, oppure perché sono concetti infondati cui non corrisponde alcuna realtà percepibile, così da poterli utilizzare alla migliore evenienza per negare quello che dice l’avversario o renderlo sfuggevole in quel marasma di parole oscure. Dove non riescono a moltiplicare i termini ed una varietà concettuale è già presente e giusta, essi si accontentano di invertirne la naturale gerarchia o per lo meno scombussolarla. Il sano mondo del lavoro, quello dove le cose devono funzionare ed i conti tornare, ci vien qui in aiuto. Un buon artigiano riesce a risolvere la maggior parte dei problemi utilizzando i cinque attrezzi fondamentali del suo lavoro. Questi arrivano con due casse piene di ogni diavoleria e non risolvono nulla. Prendi in mano uno dei loro sgorbi costruiti con i piedi e sul momento ti senti stupido perché non ne capisci la funzione. Lo guardi bene anche se ha un aspetto poco raccomandabile e poco gradevole, ma non ricevi particolari illuminazioni. Allora non resta che provarlo. E vedi che non serve a piantare, non serve a scavare, non serve a legare, non serve a stringere, non serve ad allargare, non serve a tagliare, non serve a perforare, non serve a sollevare, non serve…alla fine provi a ficcartelo nel culo e ti rendi conto che quella era la sua unica funzione! Da allora in poi rivolgiti ad una ditta onesta.


Non vedo come un pensatore possa sentirsi un vincente se dopo due righe si è già fatto odiare a morte dal lettore. Se questi prosegue a fatica la lettura in un crescendo di rabbia e disgusto interrotti soltanto dalla noia, litigando mentalmente con estrema irritazione contro un autore che vorrebbe tanto avere davanti per prenderlo a pugni e calci, scardinarlo brutalmente dal suo seggio autorevole usurpato in qualche losca maniera, da parte di una testina che non merita i raggi del sole, e spaccargliela in due, quella cocomera, con una mazza d’acciaio coprendolo d’insulti e sputi, imbracciare un fucile a canne mozze e seccarlo a terra per la sua viscida e prepotente disonestà e per quella forza immeritata e per la sua spudoratezza corrosiva nell’affermare il falso e nel ferire, con ogni sorta di scorrettezza, le persone senza peccato. Pensatori che non saranno mai dei punti di riferimento per chi naviga o annega nel mare della vita ed ha bisogno di illuminazione, e della forza calorifica donata da un pensiero pieno umanità, di nerbo e sensibilità, di disciplina e passioni, di astrazione e materia, espanso in una grande anima avvolgente. Pensatori mediocri che non verranno citati da alcun letterato o politico intelligente, le cui frasi non prenderanno mai il volo e non verranno ricordate da nessuno, non si staglieranno nell’immaginario collettivo per la loro bellezza e la grandezza di un significato che può essere riscoperto in mille circostanze della vita. Pensatori le cui parole non fanno sentire la presenza di un uomo vivo, con una precisa personalità ed una esperienza da raccontare, e che nella storia di questa disciplina non saranno mai dei personaggi. Discutere con loro non è facile, ma mai per la difficoltà intrinseca dei contenuti bensì soltanto per la forma e per l’atteggiamento. I loro testi non contengono niente di profondo: è che scrivono talmente male da rendere faticoso anche il semplice. Il vero scrittore sa fare l’opposto: rende leggero e piacevole anche ciò che è pesante e scabroso.


Prima di criticare devi conoscere? Io dico che spesso prima di conoscere bisogna criticare. Perché non tutto ciò che riceviamo dall’esterno è buono, e di fatto, se lo abbiamo lasciato entrare senza filtri, ci ha infestato l’organismo e potrebbe essere troppo tardi ma comunque dispendioso espellerlo. Pretendere subito lo studio senza credenziali è come imporre all’utente di un computer di aprire un file sospetto per verificare che sia davvero infetto. Un autore se la deve guadagnare l’attenzione. Per non parlare di uno studio approfondito! Oppure dobbiamo stimare a priori come meritevoli tutte le squallerie che ci capitano sottomano? Anche l’autorità o la fama non sono buoni criteri: bisogna infatti vedere come se le siano guadagnate e chi gliele abbia conferite. Fidati del consiglio di uno come te. Quello che gli è piaciuto, piacerà anche a te, e quello che non gli è piaciuto, non c’è bisogno di leggerlo: già lui ardito ha compiuto l’infido esperimento e ne è rimasto guastato. Perché devi farlo anche tu? Invece, un tizio diverso da te disprezza senza mezzi termini il tale artista, il tale uomo, la tale cosa? Fiondati in libreria e compralo senza guardare la copertina. Sappi poi distinguere il vero apprezzamento da quello falso. Accertati che della tale opera gli piacciano davvero le stesse cose che piacerebbero a te, e nella stessa misura, perché sei affine a lui come entrambi siete affini a quell’autore.


Gli spiriti affini sono destinati a dire le stesse cose circa le stesse questioni. Se essi si trovassero nelle acque di un oscuro e periglioso lago, e dovessero trovare un approdo per uscirne, essi, in analoga condizione di forma, tenderebbero ad affrontare gli stessi spostamenti e trovare il medesimo approdo, ossia l’unico che davvero rappresenta la soluzione. Se essi giungessero nel lago dopo differenti viaggi e dunque in diverse condizioni contingenti, vedremmo l’uno maggiormente confuso, arrancante, meno agile dell’altro, e lo vedremmo girovagare in maniera più tortuosa e forse cadendo vittima di gorghi ed immersioni preoccupanti, ma alla fine egli troverebbe lo stesso approdo, annegandosi solo qualora eccessivamente provato dall’esistenza, dunque per debolezza contingente e non intrinseca. Uomini sono potenzialmente in grado di risolvere una questione filosofica. Altri non sono. Due spiriti disaffini sono necessariamente l’uno superiore all’altro, e quello inferiore troverà sempre approdi fittizi cui darà piena fiducia, ma che si sgretolano sotto le nostre mani e ci ripiombano in acqua: non fosse che egli se ne può stare personalmente a galla grazie ad un salvagente o canotto gettatogli dalla provvidenza, mentre l’umanità ancor si dibatte nelle acque torbide per non affondare. Chi pone infatti ad un problema una soluzione falsa credendo che sia vera, è perché non è veramente coinvolto e afflitto da esso. Altrimenti coglierebbe con chiarezza l’inefficacia della soluzione. Iniziare una analisi filosofica a partire dallo studio di altri autori è il metodo più fallimentare. L’analisi deve partire dall’esperienza personale. Il numero di cose che potenzialmente interessano un intellettuale è definito a priori, perché esse rientrano nella sua meta: resta da stabilire quando affrontarle, in quale ordine. L’ordine dipende dalla situazione esistenziale del singolo: la gerarchia dei suoi interessi è quella dei suoi problemi, della stratificazione di insanità presente in lui, e la reazione è sempre adeguata, nell’attaccare per primo un problema la cui soluzione è propedeutica a quella degli altri. Per quanto riguarda la storia della filosofia, non la si deve studiare tutta e tanto meno in ordine cronologico. Lo studioso deve agguantare una percezione chiara dello stato del mondo presente nei rapporti fondamentali, macroscopici, tra le sue istanze. Sin dove persistono problemi, nessuno ha trovato, nella storia culturale, soluzioni. Dove non ci sono problemi, la soluzione è stata trovata da tempo, non importa allora quando e non si devono studiare pensatori sorpassati, che vivevano in un mondo dove nessuno ancora e loro compresi possedeva tale soluzione. Non si deve affrontare alcuna lettura e neppure alcuna riflessione personale senza una energia sufficiente ad enucleare un problema: poiché porre la domanda in termini chiari significa aver già tracciato dei confini e costretto la preda entro il loro steccato. In questo caso, se si è deboli, la si può affrontare in un secondo momento. Il nostro pensiero si sviluppa comunque sotto la spinta degli stimoli esterni, sicché essi non possono mancare al momento del bisogno, a completare il domino. Sia che noi utilizziamo il solo strumento dell’esperienza personale, sia che vi annettiamo letture, la sequenza del materiale deve andare a rispondere a tutte quelle domande che sottendono all’obiettivo generale della nostra vita. Ci potrebbe essere messa di fronte l’intera messe delle conoscenze disponibili, sia le esperienze dirette che quelle di seconda mano reperite sui libri, magari all’interno di una sfera che, intorno al nostro centro, come palla fatta di schermi, le tiene unite: ma esse non sono già disposte nella lineare sequenza ideale per noi. Esse possono essere mescolate o già suddivise in insiemi, per le esigenze di qualcuno. Noi stessi potremmo effettuare queste suddivisioni: separare i libri di filosofia da quelli di matematica, fisica, economia, storia, arte, ma poi non sapremmo a quale disciplina dedicarci per prima. Potremmo allora cominciare con l’economia e renderci conto che per comprendere alcune nozioni ne sono prima necessarie altre filosofiche o matematiche, o che ad un certo punto, per avanzare in uno studio di scienze naturali o di matematica nel quale ci troviamo bloccati con gli strumenti a disposizione, sarebbe benefico vivere qualche differente esperienza personale, studiare la psiche umana, leggersi un paio di romanzi, guardare una partita di tennis e appassionarsi a quello sport, scrivere una poesia, ascoltare dischi e prendere in mano teorie musicali, fare un viaggio, imparare i rudimenti di un’arte marziale e fare per lo meno qualche round, brandire un’arma, accaparrarsi un’improvvisa soddisfazione o invece un’improvvisa delusione, mangiare diversamente, vestirsi diversamente, cambiare abitudini quotidiane. Memore del fatto che la mia analisi filosofica era approdata alle migliori conquiste all’interno di esperienze difficili o comunque di un percorso personale molto vario di elementi, passioni e stati d’animo, dissi ad un mio conoscente, che da anni lavorava ad uno studio matematico e si trovava da tempo ad un punto morto: gli dissi che, probabilmente, con gli strumenti che aveva a disposizione, davvero non si poteva andare oltre, ed avrebbe dovuto allora dedicarsi alla psicologia, oppure che la risposta gli sarebbe venuta in mente durante un’escursione in cima ad una fredda montagna, con il sopraggiungere del buio, la paura di non riuscire a scendere, una serie di conflitti in corso, l’amore per una donna lontana ed in testa la funzione alla quale stava lavorando. Non stupisca che le migliori funzioni ci vengano in mente in questo modo, visto che esse hanno la funzione di risolverci la vita. Se vivi per trovare una funzione, sappi che si tratta della funzione destinata a risolverti la vita. Nelle nostre indagini dobbiamo saltare di palo in frasca quasi continuamente poiché ogni obiettivo culturale necessita di una serie determinata di nozioni la cui locazione è spesso ignota al pari della sequenza ottimale. Questo comporta che prima di tutto bisogna sfrondare e scortecciare l’albero della conoscenza, bisogna escludere tutto il superfluo, dacché un intellettuale è nato per arrivare a dire una cosa e non altro: una volta raccolti tutti e soli gli elementi essenziali, comporre il quadro sarà banale. La difficoltà della ricerca è la ricerca stessa, ben più della produzione personale: è l’abilità di non annegarsi nella promiscuità del sapere e nella dispersione di esso, altresì nella molteplicità delle fonti. Se anche questi fattori non fossero stati avallati allo scopo di mettere più ostacoli possibile tra un uomo e le sue conquiste, questi sono stati fattualmente prodotti. Il motivo per cui occorre saltare di palo in frasca è che la Storia stessa, quella che la Filosofia vuole sbrogliare e redimere, si è inviluppata di pali e di frasche in maniera infelice, allorché si parla di contaminazione e non di armonica simbiosi. Tali contaminazioni il filosofo deve individuare. Non già le zone armoniche, quelle in cui l’incontro tra due teorie felici appartenenti a diverse discipline ha dato origine ad una sistematizzazione, dunque ad un progresso teorico cui ne è conseguito uno pratico. Lo studio storico non deve essere altro che una investigazione volta a trovare i colpevoli. Per effettuarlo occorrono 1) Il corpo del reato 2) una propria teoria della giustizia 3) degli strumenti investigativi. Il punto primo attesta la necessità di sapere di cosa si sta parlando e più precisamente quale sia il problema da risolvere. Il punto secondo attesta che tu devi avere le tue verità prima di poter criticare le falsità altrui. Il punto terzo attesta che devi avere accesso a tutte le informazioni necessarie. Voglio specificare il punto due. Va da sé che se tu non sai nulla non puoi criticare quello che ti viene detto, e la ridicola trappola di chi ti vuole imporre una verità è appunto costringerti a cominciare i tuoi studi filosofici dalle opere altrui, che in questo modo ti si forniscono le basi della disciplina. Se non fosse che queste basi si riveleranno in futuro delle sabbie mobili o delle tagliole, e ti sarà difficile tirartene fuori una volta plagiato, perché appunto penserai sotto l’egida di quei concetti, cui la tua esperienza personale ancor non rappresenta la forza di un solido contraltare, e tale stessa esperienza spesso è stata giudicata in maniera forzata e distorta secondo altrui principi. Queste cosiddette basi sono analoghe al completamento automatico delle parole operato sulla rete dai motori di ricerca, il quale ufficialmente aiuta la ricerca, in realtà la indirizza dove vuole, con o senza il tuo consenso. Se io sto in un lago e so nuotare meglio di un altro, meglio che costui se ne giri al largo ad affogare per conto suo e non mi intralci il percorso. Se già se ne sta al sicuro su di una barca, egli non ha il mio stesso problema e dunque non voglio i consigli di un inesperto. Se è immerso e vuol che io lo salvi, sappia che per fare questo io devo alternativamente 1) essere già uscito dal lago sicché gli sappia indicare come muoversi, oppure 2) se sono in acqua con lui, devo essere talmente forte da sostenere sia lui che me stesso, ed in tal caso io devo già aver avuto il modo di imparare a nuotare, in sostanza devo aver acquisito il mio sistema di pensiero autonomamente, non posso prendere le mosse da uno che sta annegando, giacché col principio che devo rispettarne l’autorità i miei pensieri non possono andare oltre sino a che non ho acquisito la sua dottrina, fallimentare, che mi ha già contaminato e ottuso il cervello, scaricatomi le energie, ed in sostanza predispostomi all’annegamento. Ho parlato dunque della forma che debba avere uno studio storico. Ma esiste forse uno studio che non sia tale? Gli studi teorici esistono davvero? La teoria viene intesa come una cosa statica, prima che le varie teorie si facciano la guerra a seconda degli ambiti in cui i rispettivi seguaci le hanno applicate. Ma già la discussione e l’argomentazione son battaglie, che presuppongono a loro volta una precedente battaglia per acquisire le proprie idee. Queste idee sono difficili da acquisire proprio perché altri aveva posto ostacoli alla conoscenza creando un mondo viscoso e gravido d’ingiustizie, sicché tu, non potendoti affermare istintivamente e direttamente con una azione violenta, hai dovuto innanzitutto difendere il tuo diritto di pensare e assicurarti le condizioni necessarie a farlo: eppoi, una volta riconquistata la tua anima intelligibile, avendo la ragione espulso gli intrusi e dato la possibilità al tuo corpo di percepire secondo la sua specifica sensibilità e possa adunque reagire per se stesso ed in nome di se stesso, ti muovi a persuadere con gli argomenti coloro che avevano posizioni opposte. Non esistono però posizioni che non siano imposizioni. Quindi quando discuti non fai altro che respingere una nuova invasione straniera, per verbale che sia, giacché le parole son significative, hanno dunque consistenza, peso, sapore, colore, odore, suono, poiché contengono oggetti.



Che cosa significa Argomentare?


Significa Bramare, Temere, osservare, studiare, accordarsi, allearsi, promettere, mentire, tastare il terreno, prevedere, programmare, pianificare, spianare, scuotere, insinuare, velare, dubbificare, disorientare, sconnettere, rimandare, riandare, ritardare, lubrificare, agevolare, frenare, accelerare, troncare, sbrigativizzare, raccogliere, distribuire, estromettere, reinserire, svelare, trasformarsi, spersonalizzare, mescolare, contaminare, purificare, definire, annacquare, insabbiare, impolverare, annebbiare, passionare, algidare, irrigidirsi, squagliarsi, sbreccare, slabbrare, leccare, vezzeggiare, ciangottare, puntigliare, aggrinzire, sgrezzare, trasdurre, temperare, sostituire, interporre, interrompere, improvvisare, impedire, occludere, ingubbiare, ingabbiare, incanalare, cementare, scaricare, martellare, scansare, deviare, evadere, svicolare, sviare, mimetizzare, afferrare, impugnare, utilizzare, pestare, esagerare, mollare, gettare via, rendere inutilizzabile, distrarre, soverchiare, sfibrare, indebolire, logorare, banalizzare, screditare, invalidare, declassare, degerarchizzare, equalizzare, confondere, affermare un esempio opposto, evidenziarlo, da qui riclassificare, inserire nuovi esempi, invertire valori e ordini di priorità. Imprimere nella gente un senso di ignoranza, di piccolezza, di non autosufficienza e autonomia mentale, forse di collusione parziale con ciò che prende a delinearsi come Male, alludere ad una possibilità di redenzione tramite adesione alla nuova fede ed ai suoi sostenitori, promettere una sorta di riscatto e vittoria, la possibilità di essere tra i buoni e vincenti, forti ed uniti, che nessuno sia solo, visualizzare una catalizzazione degli eventi contro i loro problemi, purché ricondotti al male che ora assurge alla vetta. Mantenere una linea di tensione e insicurezza che rende docili ad accogliere nuovi punti di riferimento e fissarli come autorità: eccoli di nuovo spaventare, poi rassicurare. Nel clima di onde medie, tranquille, che però ancor temono oscuro il fondale marino, che potrebbe scuotersi o far erompere mostri, che deve essere riassestato, la gente deve scordare soluzioni tradizionali, feticci del sistema che più non serve la causa. Acuire adesso la rottura con il prima, desensibilizzando alle vecchie problematiche. Esse possono essere scavalcate da magica forza imperiosa e nuova: la rivoluzione giunge ora da lontano, daccui librarci possiamo sulle indegne fanghiglie e spinose che ci hanno piagati ed oppressi per decenni per secoli dalla notte dei tempi. Ed ora obliando, ridelineando, semplificare il complesso cui non si vuol prestare attenzione ed in cui si potrebbe o parrebbe aver parte negativa, complicare il semplice che risolverebbe altrimenti e quello che vedrebbe in noi un chiaro colpevole, affinché tutto si annacqui nel promiscuo, che protegge ben il falso innocente quanto il falso colpevole. Sensibilizzare in altro settore, porre enfasi, e di nuovo preoccupare. Fare un piccolo passo indietro che serva da slancio ad un doppio passo in avanti: presentar di nuovo come ipotesi quella che è già una tesi mezza dimostrata ed in linea di approvazione, ed allora nuovamente illustrare, indicare, insospettire, mostrare abrupto un nuovo e se possibile più forte esempio del male. Apertamente, orbene, colpevolizzare, sdegnare, astraendosi da esso, ponendosi come controparte, aggravare la percezione della cosa. Mostrare adesso compiaciuta fiera calma e serena sicurezza, partecipazione ai sentimenti del popolo ma più sovranamente dominati, così nelle ragioni e conoscenze, così più esperti e muniti di qualcosa nel bagaglio innato che ci proietta oltre, in forza ed altitudine: deconvincere la gente dei propri mezzi se non asserviti in convergenza unitaria al nuovo riferimento. Mantenerli ben ancora in uno stato di attesa, fatto di una angoscia sottostante, circospezione, nervosismo, rabbia, discussioni che hanno ormai nuovi denominatori comuni: però cose ormai ben compensate dall’altare di un nuovo concetto, addirittura un’Ideologia, che dona sicurezza per la sua rotondità, la sua aura positiva e la forza dei soggetti personali verso cui sta salendo ormai la marea dei Consensi, dei Sentimenti, delle Volontà… ecco che vampate di calda affrescata speranza giovano ai cuori. Siamo adunque a cavallo, sull’altipiano che precede alla vetta, ormai…
È possibile adesso identificare in nemici in maniera sempre più agevole ed aperta, essere più decisi e netti nelle proprie affermazioni e denunce, diminuire il Relativismo e la Cautela precedentemente indotti soltanto dalla mancanza di una sicurezza essenziale: quella di avere la forza e i consensi che contano dalla propria parte. Iniziare adunque la marcia vera e propria…
Insistere in propaganda e iniziative, usare il successo e l’aumento di consensi per creare nuovi consensi che suppliscano alle ragioni, far nuova leva sull’emotività umana. Lo spazio razionale, così ben curato in fase preparatoria, deve trascrescere adesso in mero sentimento, istinto, reazione diretta, misticismo fideistico: presto tutte le immagini convergeranno a Una, tutti i suoni si adegueranno al sostegno di una Nota che si muove melodica e celestiale verso una Meta a confronto della quale le altre più non contano, non esistono. Rendiamo eccosissia la propaganda Artistica: ecco il teatro, la musica, il cinema, lo sketch, la vignetta, il fumetto, il dipinto, ecco tutte le modulazioni, le forme e i coloriti dell’arte giocare nell’animo umano, a creare una realtà coerente, ricca, ben plasmata, di solida struttura e sì cullante e gradevole. Rendiamo infine la propaganda Fisica: un magico abbrivio fatto di balli, feste, celebrazioni, riti, esibizioni collettive di sempre maggior partecipazione, con la Natura a far da scenario, essere nostra ultima forte alleata, il Dio che si esprime in lei come in noi patrocina la nostra causa verso la Vittoria. La nuova realtà è adesso vissuta, sentita, parlata, oramai pronta per essere fieramente agita fin nelle estreme conseguenze. Quanto al discorso politico proprio, possiamo adesso inasprire i termini, stringare gli slogan. Ormai tutto sembra si possa dire sul nemico, ben presto tutto si potrà fare, quel che era una volta una timida e presuntuosa ipotesi da guardare a priori torvo e di sbieco, che a tutti gemeva pungente nero il petto solo a pensarla, a ben dire una Eresia, è adesso un fatto scontato, si può ben variare nella declinazione dei casi di questo soggetto infame…


Nel creare una nuova Opinione, si usano verbalmente gli stessi strumenti che poi si applicano in un reale conflitto armato, dopo cioè che l’opinione è già abbastanza diffusa e solida da potersi tradurre in operazioni pratiche rivoluzionarie. Ogni conquista significativa nel campo dei Consensi o nei fisici campi di battaglia, comprende cotali azioni …


… aumentare la potenza dei propri mezzi, minacciare, provocare, bluffare, temporeggiare, sorvolare, mimetizzare, fuorviare, proteggere, premeditare, attaccare, sorprendere, stupire, penetrare, invadere, spintonare, combattere, spadaccinare, devastare, saccheggiare, trascurare, ignorare, squassare, scompaginare, confondere, conquistare, prendere, togliere, rimuovere, nascondere, spostarsi, manovrare, liberare, ripulire, spazzare, insistere, osare, spezzare, superare, arrischiare, farsi male, cadere, perdere, ripiegare, attendere, resistere, patteggiare, attenuare, concedere, rallentare, minare, simulare, rilanciare, ingannare, adescare, imboscare, attaccare, stroncare, seviziare, vendicare, sparare, bombardare, sottomettere, insediarsi, stanziarsi, smontare, riadattare, ricostruire, arruolare, addestrare, utilizzare, sfruttare, regolare, organizzare, padroneggiare, sistemare, confinare, presidiare, controllare, difendere, cintare, corazzare, spinare, elettrificare, arroccare, istituire, presentare, comunicare, dichiarare, ufficializzare, denunciare, diffondere, accusare, processare, punire, infierire, umiliare, distorcere, distaccare, negare, silenziare, espandersi, consolidare, estremizzare, sistematizzare, giustificare, glorificare, mantenere, innalzare, perpetuare, intoccabilizzare, indiscutibilizzare, incontrovertibilizzare…


…il fare questo a parole, anziché direttamente coi fatti, ostentando che ci sia qualcosa di diverso nel succo, nella sostanza e non invece nella forma o a dir bene in quelle che sono soltanto due necessarie fasi del medesimo conflitto, è il colmo dell’ipocrisia, la simulazione di una battaglia non violenta, che in realtà serve a prendere tempo tenendo il nemico a distanza…


…distanze dalle quali ci si può tuttavia colpire, allorché il valore simbolico della parola insinuata nel prossimo come onda sonora si dischiuda in lui facendogli sentire il peso di una realtà esteriore corrispondente e fattualmente ostile nei suoi confronti, e dunque provocargli un trauma psichico che solo può corrispondere alla previsione di un trauma fisico, e paralizzando altresì, attraverso i nostri giudizi nemici, la sua capacità mentale di coordinare il corpo a nostra offesa: illudendolo ben che in fondo siamo fratelli e non dobbiamo guerreggiare, laddove appunto questo è vero solamente in chi intavola una discussione fasulla, come al massimo grado avviene in politica, al fine di inscenare una contrapposizione ideologica agli occhi di persone terze dietro la quale essi fanno le loro tresche ed i loro accordi di convenienza ed egoismo. La mente però non può essere coatta senza tornare dopo la deformazione all’ovile di forma originaria, l’esito della discussione è ben spesso solo quello di visualizzare nettamente coloro che prima apparivano come persone da convincere e riportare sulla buona strada, come persone da vincere fisicamente, ineccepibilmente e senza più nulla eccepire discutere, mediare, compromettere, o processare: poiché incorreggibili e nondimeno prepotenti. La stessa attività Teorica, quella meramente personale, mentale, dunque, priva di vero dialogo, racchiude sempre in realtà una discussione interiore del nostro spirito, che nei suoi passaggi più veementi non riesce a fare a meno di muovere la nostra bocca, emettendo suoni e con l’accompagnamento del corpo, contro tutto quello che di estraneo ci si fosse insinuato o cercasse nuovo di insinuarvisi. Essa è uno spogliarsi metodico, gerarchizzato quindi, tramite quello che chiamiamo ragionamento, di idee che abbiamo sentito e registrato ma mai davvero digerito, e uno sbarazzarci delle obiezioni che ancora, sull’onda delle prime, ci sentiamo muovere quando facciamo le nostre affermazioni: dacché qualsiasi opinione o atteggiamento manifestato ci hanno informato della specifica natura dell’oppositore, e se correttamente l’abbiamo percepita, forti i nostri organi di senso, essa ci consente ben di dedurre qualsiasi altra opinione o reazione quel soggetto possa manifestare se lo sottoponiamo a differenti stimoli che siano però coerenti, in quanto consustanziali, con quello che egli ha già raccolto di noi, nel precedente contatto. Nella nostra solitaria meditazione, siamo investiti dagli stessi accaloramento, timore, preoccupazione, fatica, oppressione, irritazione, rabbia, urto, offesa, angoscia, sdegno, astio, che ci investono alla presenza diretta degli interlocutori: tutti i moti dell’animo dibattente si conservano. Poiché invero sempre nella solitudine noi ci portiamo la società, ed ivi dobbiamo tornare con la nostra nuova forza, come il filosofo nella caverna per finalmente piegarla alla sua saggezza illuminata. Ed ogni nostro sollievo e soddisfazione, ogni eccitazione e gioia, analogamente provengono da una idealizzata e ben prevista affermazione sul prossimo: grazie la forza del nostro argomento,
quei che l’abbia smaccato, sbigottito, imbarazzato, ridicolizzato, disorientato, zittito, intimidito, spaventato, offeso, traumatizzato, affondato, schiacciato, demoralizzato, sconfitto.
Oppure, che abbia persuaso del nostro valore soggetti dapprima imparziali od erroneamente a noi contrapposti, che non ci avessero capiti, ed or l’indifferenza e l’inimicizia si trasformino in considerazione, stima, ammirazione, affetto, appoggio, conversione, aggregazione alla causa, addirittura la calda attesa di un debito che quelli vogliano saldare a noi per loro sgravio d’onta. Come vediamo, nessuna società è fuggita con la solitudine, e ad essa ogni Addio è un Tornerò. L’andirivieni può essere anche segmentato, come per tutti lo sono i fronti, tra Sé ed un Mondo che si dee sconfiggere, seconda che siam qui ora più forti o deboli. Ma solo quando la nostra Solitudine sarà anche societaria, noi saremo appagati: la guerra sarà finita, e tutti andranno in pace. Noi siamo le bandiere, fin dalle origini prime, ma di già aggloriate o strapazzate dai venti della storia, laddove siano comparse in nostra veste: distese di imperturbato splendore e stampate ovunque, o financo stracciate, di fango intrise, usate a zerbini, gettate sotto il comò, od avvoltolate in sé stesse che perfino ignorino la propria fattura, esse divengono pria di essere, e la lor volontà è di tornare ad Essere. Quella teorica, volta al rischiaramento interiore, è comunque Azione e dunque qualcosa di storico, una mobilità volta a recidere un nemico, fonte di infelicità, qualcun che ci avea precedentemente oscurati ed occlusi. Sia il reperimento delle nostre idee, la conquista della bandiera, sia la discussione teorica, ed infine la battaglia fisica, hanno un’unica origine: il contatto tra spiriti superiori e spiriti inferiori. Quella che ho chiamato Teoria della giustizia, necessaria a contrapporsi alle visioni del prossimo, non è altro che la superiore giustizia intrinseca al carattere dello spirito superiore: egli deve agire con razionalità e dunque con cautela e pazienza, e con teoria prima che con pratica, solo perché l’ambiente esterno è più forte. Ma il suo istinto coglierebbe sempre nel segno, se davvero è più evoluto di quello del prossimo, ed egli non perderebbe tempo ad argomentare a sostegno della giustizia del proprio comportamento, se non fosse afflitto e preoccupato dai suoi condannatori. La sostanza inutile dell’argomentazione consiste nel dire: se tu fossi al mio livello di percezione della realtà ti comporteresti come me, il che è equivalente a dire tu saresti me ed anche giustificheresti questa azione. Perché giusto significa coerente con la tua natura. Tutto ciò che non ci è affine è rigettato e combattuto dal nostro organismo come sbagliato, come nemico, e questo dal più grande genio fin al più ottuso imbecille. Ho parlato di analogo livello di percezione della realtà perché questo è una determinata intelligenza e due persone differentemente sensibili non si troveranno mai nelle medesime circostanze, perché queste sono filtrate dalle maglie della sensibilità, nei due differenti soggetti, dai due differenti filtri. Quindi non è corretto dire: negli stessi panni si comporterebbe così anche lui, perché i due non vestiranno mai gli stessi panni senza essere la stessa persona. In un contesto in cui prima di agire è opportuno effettuare una ricerca, noi però non dobbiamo farci mancare il lavoro compiuto dai nostri fratelli. Se essi hanno raggiunto dei risultati prima di noi, dobbiamo approfittarne per poi andare oltre a scoprire quella stessa anima che rimane immutata in noi come nei vecchi maestri, solo abbisogna di tanto lavoro per raggiungere la sua pienezza. Un giovane intellettuale ha già le potenzialità per capire tutto il verbo di un vecchio intellettuale suo simile. Questa, e questa soltanto, è una vera Base filosofica su cui egli si può appoggiare con sicurezza. Non appena nota qualche stridore, qualcosa che non lo convince, egli deve passare oltre. C’è un motivo, se non lo convince: e si trova in una disaffinità. Se essa è tale solo a livello contingente, è risolvibile, ed anzi doveroso è risolverla perché altrimenti ci priveremmo del contatto benefico con qualcosa di amico, ed una cosa davvero astringente in un mondo di nemici è perdere anche quelle amicizie che possiamo definire fondate e sincere e dunque realmente positive. Ma nella disaffinità non si ragiona: la conciliazione è impossibile. Ognuno crederà sempre di essere superiore e non inferiore al suddetto pensatore, ma in entrambi i casi quello rappresenta un autore da abbandonare. Concludiamo proprio questo: che dobbiamo leggere soltanto quello che ci piace. Nella nostra formazione non deve comparire nulla di ostico, cioè di ostile, perché lo rigetteremo sempre e neppure lo comprenderemo, dacché si comprende solo ciò che si assimila e si assimila solo ciò che è di fatto simile, scremando tutte le impurità che nuocciono alla nostra economia interna. Le ragioni, ossia le radici, di un disaccordo sono solitamente molto più profonde di quanto non immaginiamo. Quando discutiamo con una persona dobbiamo renderci conto che è stupido stupefarsi della difficoltà riscontrata nel mettersi d’accordo, nel far riconoscere come vera la tal cosa e falsa quell’altra. La verità è che le percezioni sono opposte e dunque potete ragionare quanto volete: il problema non è la logica, che è la stessa per tutti, il problema son le premesse: tutto quello che noi percepiamo come buono per loro è cattivo, e quello che per noi è massimamente buono per loro è ripugnante, ciò che a noi fa sorridere per loro è ammirevole, quello che per noi è prova di forza per loro è prova di debolezza, ed i nostri eroi son i loro zimbelli, ciò che per noi è banale per loro è significativo assai, se per noi è ininfluente per loro è fondamentale, quel che a noi è sacro per loro è carta igienica, quello che per loro è una pecca che sarebbe meglio togliere per noi è la ciliegina sulla torta, ed il nostro interessante è il loro fastidioso, quello che noi giudichiamo il più bravo di tutti per loro è il peggiore, ed il nostro discreto è il loro mediocre. È interessante acquisire la capacità di accorgersi di quando l’interlocutore finge solamente di accettare le nostre premesse: noi crediamo che le abbia accettate sul serio e ci stupiamo che egli non manifesti lo stesso compiaciuto entusiasmo dinanzi alla conclusione, o che non sembri dedurla con la stessa sicurezza. Il consenso apparente è il peggior nemico del consenso. Tutti gli autori differenti da noi, e così anche tutte le azioni che sono state messe in moto nello stesso spirito, non costituiscono un materiale formativo, bensì disformativo. È tutto Veleno. Lo leggiamo, sforzandoci di digerire ciò che infine comunque rigetteremo, e ci sentiamo costantemente urtati, pungolati, offesi, preoccupati, spaventati, avviliti, innervositi, scocciati, e rispondiamo con rabbia anche in assenza del nemico, che in tal caso non ci può sentire ma di cui invece noi stiamo sentendo il dilaniante fiero monologo. Per ascoltar le parole di una persona con interesse, dobbiamo ammettere l’ipotesi che siano vere, ma facendo questo diamo ragione ad un individuo che ci sta sputando addosso ed ammazzando, dunque lo facciamo entrare dentro di noi in libera opera di devastazione, ci siamo alleati al nostro nemico senza essere veramente come lui, in modo da poter sentire le sue parole come benefiche.

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