Islanda

Islanda
arcobaleno sotto la cascata di Skogafoss in Islanda

domenica 10 maggio 2015

Testo integrale del mio primo libro (Seconda parte)

Prima di dichiarare che non hai bisogno dell’approvazione degli altri, aspetta di trovarti davvero nella situazione di non avere quella di nessuno. Se la tua causa riesce a trionfare, solo questo successo è un’efficace medicina a quel disagio, e la speranza che il biasimo si trasformi in invidia.

C’è chi crede di fare fieramente solo di testa sua e non si rende conto che di fatto gode dell’appoggio morale degli altri: sia questo tacito oppure esternato. Egli conta, inconsapevolmente, sul fatto di essere onorato. E non sa che, se comparisse nella sua mente anche solo il sospetto che vi sia un’ampia cerchia di persone che biasima e sprezza la sua persona, le sue intenzioni ed il suo operato, o che non lo comprende e non lo considera, si bloccherebbe e non riuscirebbe a farlo più. Se poi con queste persone ha frequenti contatti reali, se il loro biasimo sprezzante viene esternato con sguardi, gesti e parole, credete davvero che questa persona abbia la sedicente forza interiore per perseverare nei propri comportamenti ed inseguire le sue cause? Naturalmente quello che pesa di più, in positivo come in negativo, sono gli interventi reali delle persone con cui entriamo in contatto; ma contano anche quelli solamente immaginati, che sempre però son figli di quelli reali in cui siamo incappati e vengono da questi alimentati.


Non crediate di poter stabilire la forza della vostra fiducia in voi stessi prima di essere i soli a credere in voi stessi.


Se ti rendi conto che le tue opinioni e tendenze si discostano molto da quelle comuni, non preoccuparti: sei sulla buona strada. Se ti sei messo in testa di fare qualcosa di grande e nessuno ti sostiene, non preoccuparti: sei sulla buona strada. Se tutti si innervosiscono, si incazzano, ti criticano, ti disprezzano, ti guardano male, ti attaccano, ti biasimano, ti osteggiano, si allontanano da te, non preoccuparti: è segno che sei sulla buona strada. Se qualcuno ti dà ragione comincia a pensare che potresti avere torto. Se tutti i settori della tua vita gradualmente peggiorano, si scambiano influssi negativi, se ciò che senti dentro diventa sempre più infernale, non preoccuparti: questa è invero la prova che avevi intrapreso fin da subito la buona strada e l’avevi proseguita con coerenza.


Il filosofo è libero dove gli altri sono schiavi e di conseguenza è schiavo dove gli altri sono liberi.


Gli uomini svolgono i doveri del presente, il filosofo determina quelli del futuro.

Mentre costoro parlano di ideali agendo nel conformismo e non scostandosi di un soffio, nel pensiero e nell’azione, da quello che esiste già e che è stato loro insegnato, c’è qualcuno che gli ideali li costruisce grazie ad un atteggiamento anticonformista.


Fare filosofia significa essere controcorrente. Non esistono una filosofia scadente e una filosofia buona. Semplicemente quella scadente non è filosofia, è il prodotto di un finto atto ribelle. I professori ne sanno qualcosa.


Un uomo rappresenta il suo ideale in ogni giorno e in ogni azione della propria vita, poiché egli stesso è quell’ideale. Ora, prima di pretendere di combattere per un ideale bisognerebbe preoccuparsi di crearlo. Ma crearlo significa invero scoprirlo, poiché esso è già in noi. Dunque prima si lavora per conoscere se stessi, comprendere dove si vuole arrivare e come ci si può arrivare. In realtà non si può conoscere il dove prima di conoscere il come, sicché il nostro ideale diviene consapevole con la stessa gradualità con la quale scopriamo il mondo e ci impadroniamo dei suoi strumenti. La rivoluzione viene dopo, ma già la prima è una rivoluzione, dura, e sconosciuta a tutti coloro che sono pronti all’azione perché non hanno un pensiero e quelli che hanno non son farina del loro sacco. Costoro saranno sempre dei burattini al servizio di ideali di turno, o nuove schiere a rinnovar le file di vecchie contrapposizioni ideologiche. Tutti quelli che non pensano con la loro testa, ma sono pronti all’azione, sono le persone perfette ad essere strumentalizzate. E non sono i servi del futuro, ma i servi del passato. Perché per essere i Servi del Futuro, cioè ricoprire quello che è invero un ruolo necessario, nobile, meritorio, devono seguire uno che ha costruito un’idea innovativa e giusta. Se non è innovativa è sbagliata, in quanto le vecchie idee, se hanno perso e non hanno prodotto la felicità, qualcosa di erroneo dovevano avercelo per forza. Deve essere anche veritiera perché altrimenti, credendo di portarci nel futuro, ci riporta nel passato, aumentando, con le sue conseguenze negative, il peso di un fardello storico che dalle generazioni successive dovrà poi essere smaltito, sanato, corretto. Fare la storia significa invero mozzarla, non aumentare le pagine di libri senza conclusione, poiché ognuno anziché risolvere complica, poiché un mondo che si risana diventa appunto sempre meno storico, così come un uomo che ha davvero risolto i suoi problemi non li ricorda più, mentre il fatto che conserviamo ancora tutto è segno che non si è ancora risolto niente, che ci portiamo ancora dentro le conseguenze di pensieri ed eventi antichissimi. La scienza va a ricercare addirittura l’Origine dell’Universo, perché si sospetta inconsapevolmente che noi possiamo essere vittime di un errore originario. La servitù non è qualcosa di umiliante, è invece un dovere nobile nella misura in cui si serve l’ideale giusto. Giusta servitù fa rima con virtù. Non possiamo mica essere tutti leader. Ed il leader da solo può far ben poco. Ma l’uomo potrebbe essere una sola volta servo e preferisce essere cento volte schiavo. Ovvero servo di chi lo inganna e mortifica.


Quelli che pretendono di definirsi ribelli ed hanno avuto una vita perfetta e priva di problemi significativi fanno ridere il Re dei Polli, tutta la sua corte compresi i pettina penne e i lustra zampe. Siccome poi una dose di anticonformismo è obbligatoria anche per essere un conformista con le carte in regola, ecco che tu verrai in tal caso accettato da una fazione dominante dovendo però gestire ogni tanto degli scontri collaterali con altre categorie e idee secondarie, rispettando le forme in cui ti hanno insegnato che bisogna farlo ed è onorevole ed accettabile farlo. Ogni uomo dovrebbe farsi una seduta riflessiva e cercar di dire onestamente: ma io, quanti avversari ho? In fondo, può rispondere a questa domanda misurando il suo livello di sofferenza. Anche se è chiaro che non tutti i nemici stanno all’esterno. Pertanto possiamo lanciare qualche sentenza riassuntiva del concetto.


Percorso netto, vigliacco perfetto.

Percorso accidentato, eroe patentato.

Percorso infernale, filosofo morale.


Se dobbiamo inoltre contrapporre gli eruditi ai creativi dobbiamo dire anche:

Percorso all’indietro, filosofi di vetro.

Percorso in avanti, filosofi portanti.


Oh beh gli eruditi sono di vetro solo come filosofi, non come uomini.
Dico di vetro perché la loro filosofia è finta, perché la luce ci passa attraverso dal momento che dentro non c’è nulla, sebbene loro cerchino di affumicarsi parlando oscuramente ed allora sembrano più solidi o addirittura minacciosi. Ma privata dei suoi meschini trucchi e della forza personale del loro sostenitore, la loro filosofia è fragile come il cristallo. Loro invece possono essere anche di marmo travertino, perché anziché consumarsi nella ricerca della verità hanno fatto il loro interesse, e in una disputa possono anche umiliarti brutalmente con la loro fiera energia, con la sicurezza che alberga in loro, senza sentire la missione che il filosofo deve portare a termine, con le loro sofisticherie prive di pudore o magari citandoti varie opere assolutamente fondamentali e di qualità insuperata che tu non hai letto oppure non hai letto per intero o ancora ti sei rifiutato di imparare a memoria perché le avevi bollate come scadenti e chi deve raggiungere la verità non può portarsi dietro il fardello degli errori, nemmeno dei suoi, figuriamoci quelli degli altri, così come non può permettersi di lasciarsi inquinare la testa, condizionare, confondere e fuorviare da un pensatore inferiore a lui…fatto sta che in concreto ci fai la figura dell’ignorante. Quando la tua filosofia sarà compiuta, si sarà affermata e avrà prodotto degli evidenti cambiamenti nella società, probabilmente loro non saranno più vivi per rosicarne, ma sarà presente allora una nuova generazione di eruditi che adesso sono costretti da un principio di deontologia professionale a stimarti e studiarti alacremente, poiché se la loro unica arma sono le nozioni è chiaro che non possono trascurare di farsene il più possibile. Adesso avranno un altro autore importante su cui ruminare professionalmente senza saper dire se abbia ragione o torto, senza applicare le sue idee né cercare di confutarle perché all’erudito non interessa che la verità sia trovata, che essa si affermi e che la giustizia regni, sicché la tua filosofia si unirà al suo armamentario concettuale di cui si servirà per gettare fumo negli occhi alla gente parendo brillante e per strapazzare qualcun altro nelle discussioni. Senonché quando la mia filosofia sarà al potere i falsi filosofi saranno a zappare la terra. Quella della loro fossa.


Se vogliamo avere una prova empirica del livello filosofico di una persona, la cosa meglio indicata non è analizzare sistematicamente le sue dottrine, nelle formulazioni più generali. Bensì vedere che tipo di giudizio dà sul caso concreto, si tratti di un episodio di natura etica con parti contrapposte, dell’interpretazione di un fenomeno commerciale o sociale che avete entrambi sotto gli occhi, della sua spiegazione di un problema psichico, del suo giudizio su un’opera d’arte. Infine, bisogna guardare come si comporta. Se in tutte queste cose egli cade miseramente e non lo vedete affatto distante dagli atteggiamenti e dai giudizi dei cialtroni, potete fare a meno di prendere in considerazione il suo pensiero, perché egli non è altro che un cialtrone acculturato. La filosofia è un ammazza luoghi comuni. Se il risultato del percorso filosofico di una persona è di confermare tutti i principali luoghi comuni sulle cose della vita, direi che il suo tentativo è fallito miseramente e poteva fare a meno di partire.


Chi nega il principio di non contraddizione può essere solo due cose: 1) l’apoteosi dell’idiota 2) il più astuto dei ciarlatani, che in questo modo si riserva il diritto di dire tutto e il contrario di tutto senza essere arrestato per oltraggio al pudore. Esso principio, come ha detto il saggio Aristotele, è condizione della significatività, cosa che non interessa affatto al sofista, il quale non vuole che le sue parole vengano comprese, non vuol che si sappia di cosa diavolo stia parlando. Il vero Sofista partecipa di entrambe le categorie: egli è di fatto incapace di dare risposte agli interrogativi filosofici e di comprendere l’importanza di una ricerca onesta, ma è invece brillantissimo nel capire le condizioni del suo successo personale, geniale e pronto nel portare l’acqua al proprio mulino. Il filosofo onesto sa fare entrambe le cose ma spesso cade nella seconda in quanto preferisce la prima e tende ad illudersi, il più delle volte per il bisogno di interlocutori, di trovare lo stesso atteggiamento e la stessa ingenua saggezza nel prossimo. Vuoi tu che il sofista si facesse scappare di mano un’arma così micidiale come la negazione dei principi della logica? Neghiamo il terzo escluso! Così avremo la strada spianata per prendere per il culo la gente. Loro noteranno le nostre contraddizioni e noi risponderemo che le affermazioni non hanno necessariamente solo due valori di verità, quando dovremmo dire più onestamente che per noi la verità non ha alcun valore. Poi faremo le nostre affermazioni in formule talmente oscure e contorte che nessuno ne capirà il senso, così non gli sarà facile dire se sono vere o false, confrontandole subito con la propria esperienza. Infine pronunceremo frasi che non hanno assolutamente alcun senso e di fronte alle proteste diremo che il senso è un’aggiunta superflua ed arbitraria ancorché sensuale. Sarei loro grato se avessero almeno la mia ironia, ma per fare dell’ironia occorre dire cose sensate, ed avere una percezione del vero e del falso talmente chiara da consentire addirittura la sinotticità e lo scambio dei punti di vista. Quindi se vuoi ignorare la logica, spudorato teppista, vile furfante e squallido garbuglione, disonestà incarnata e noioso buffone, tu non solo non dirai la verità, ma le tue baggianate non faranno, perlappunto, nemmeno ridere.


Quando un sofista viene smascherato non abbandona dignitosamente il palco in silenzio:
si nasconde di quattro quinti dietro la quinta e tira fuori un quinto elemento.


Non è possibile pensare controcorrente senza andare controcorrente. Una cosa prima la fai poi la pensi (ovvero la ricordi): è impossibile fare il contrario. Un rivoluzionario del pensiero è un rivoluzionario e basta: non è corretto declassarlo rispetto al personaggio che poi, applicando le sue idee, va a fare la lotta armata, con la scusa che il secondo è concreto mentre il primo è solo un teorizzatore. Non vi è scorcio di mondo, lemma di anima, qual s’apra a visioni maggiori, che non sia stato aperto con la spada. Se voi andaste a scrutare le vite dei filosofi vi accorgereste di quante esperienze, sofferenza e coraggio stiano dietro qualsiasi pensiero originale, e zittireste la vostra arroganza contro gli uomini di scienza, lettera ed arte. Potrebbe sorgere una obiezione: tutti hanno pensato di uccidere qualcuno, ma davvero in pochi lo fanno sul serio. Controbbiezione: quello dell’omicidio non è un pensiero originale.


Avere a che fare con la sincera tendenziosità di un avversario è irritante e financo odioso. Ma peggio è rendersi conto della faziosità celata dietro i trucchi del sofisma. Dopo aver ascoltato parlare un sofista, dopo aver affrontato una discussione con lui, dopo aver letto un suo testo, possiamo riscontrare delle costanti. Ci sentiamo in parte nauseati, in parte confusi e storditi, in parte provocati e minacciati, ma sicuramente presi in giro, ed infine confermiamo come fondato nella realtà quello che avevamo percepito fin dai primi istanti: l’odore della Frode. Il nostro cervello è stato come bombardato e sottoposto all’azione centrifugante di una lavatrice. Lo scopo, chiarissimamente consapevole per quanto astutissimamente celato, del sofista, era esattamente quello di farci perdere orientamento ed il contatto con la terra, affinché ci trovassimo poi alla sua mercede con le interiora in subbuglio e la vista annebbiata, temporaneamente incapaci di coordinazione intellettuale, con la perdita della quale vengono compromesse le nostre capacità di giudizio ed analisi, l’agilità di movimento tra nozioni ora scombussolate e fuggenti e nuovi dati assolutamente poco chiari ed univoci, e non siamo in grado di riconoscere rapidamente i suoi movimenti e le sue intenzioni: proprio qui egli ci tiene in pugno! Approfittando del tempo necessario a ritrovare equilibrio, egli riesce a colpirci, se così vuole, oppure a rubarci il portafogli, renderci incapaci di ribattere efficacemente in tempi rapidi, farci apparire degli stupidi che non afferrano, uomini privi della necessaria perspicacia ed acume, che non sanno quel che dicono, che non possiedono argomenti e nozioni. Egli è riuscito, unicamente grazie al suo modo di esprimersi ed atteggiarsi, non già solo a rendere inutilizzabili anche le nozioni più semplici e meglio padroneggiate, bensì a paralizzare o almeno a rendere fiacca e maldestra l’intera nostra facoltà intellettiva. Importante è sapere con somma chiarezza che queste tecniche sono state studiate come una vera e propria scienza. Esse rappresentano nella loro efficacia una virtù reale conquistata con impegno e fatica e gradualmente perfezionata anche laddove si disponesse di un talento naturale. Sviluppare questa arte è stato ai sofisti necessario come agli animali deboli il mimetismo, l’agguato, l’inganno e l’abilità nella fuga. Ma essi abbisognano di queste tecniche perché le utilizzano, non generalmente nella vita, come invero fanno tutti coloro che hanno la somma premura di conservarla, bensì nel campo della filosofia, riservato per diritto a chi la ama veramente e farebbe volentieri a meno di dover combattere con questi impostori. I quali non potrebbero mai sconfiggere i veri filosofi senza scorrettezze.

La testa comune non ha scrupoli a sacrificare la verità per un qualsiasi personale vantaggio. Il filosofo dimostra spesso di aver pochi scrupoli nel sacrificare il proprio vantaggio alla verità.

Quando si sale nel fine si sale necessariamente nella comprensione dei mezzi. È dalla piccolezza del proprio intorno, cui la bassezza d’animo si adagia, che la grandezza d’animo invece si espande sino ad accogliere tutti i mezzi costituenti le pedine necessarie a riempire il percorso che solo può condurre alla meta elevata. I confini di questa meta non sono altro che i confini del nostro spirito.

Quanto sideralmente sono ridicoli i cosiddetti democratici quando dichiarano che essi concedono la libertà a tutti tranne che ai fascisti, con la ragione che questi vogliono negare la loro libertà? I cosiddetti democratici hanno costruito uno stato che corrisponde ai loro bisogni e tradotta la loro volontà in legge. Solo da questo momento, essi sono democratici, perché la maggioranza è composta da loro simili, e la dittatura di questa, chiamata poi democrazia, si rinnova di generazione in generazione a causa del fattuale predominio numerico, costante nelle epoche, delle teste mediocri e individualiste. Ma la democrazia non si afferma democraticamente, perché invero niente si afferma democraticamente se non ciò che non ha bisogno di essere affermato perché non incontra resistenze in quanto che sono tutti d’accordo. Il concetto di affermazione presuppone il bellicismo. Quando si crea uno Stato si rende dunque legittimo quello che si è originariamente imposto con la forza. Il qual di fatto continua ad essere legittimo solo grazie al monopolio della forza istituita che fa rispettare tale volontà. Con la parola legittimo si tenta di porre un freno psicologico ai dissidenti persuadendoli che compiono un male anche per loro stessi nel momento in cui sfidano la legge, ma senza la minaccia della forza fisica tale plagio psicologico sarebbe una ragnatela impotente a frenare il loro istinto, avverso alle leggi del branco. L’unico uomo libero è colui che ha vinto una guerra. Oppure i figli suoi che ne ereditano i risultati: a patto che siano di spirito affine.
La democrazia è una dittatura che è passata agli uffici dell’anagrafe a farsi cambiare nome perché quello d’origine poteva dargli delle noie. I comunisti, oltre ad essere tra i vincitori della seconda guerra mondiale ed ancora in forze, avevano in Italia partecipato alla Resistenza ed avevano quindi diritto ad una rappresentanza nell’Assemblea Costituente. Chi non lo sappia impari che ogni diritto è conseguenza di una vittoria ed ogni dovere è conseguenza di una sconfitta. Dunque, i comunisti non potevano mettersi fuorilegge da soli come hanno fatto con i fascisti. Tuttavia l’Italia era stata liberata sostanzialmente dagli Angloamericani e ne aveva dunque assunto il sistema politico: la democrazia capitalistica, con misure socialiste che erano già presenti nei paesi occidentali, volte a mitigare i contrasti del libero mercato, sicché, anche se non esplicitamente, la Costituzione metteva fuorilegge anche il Comunismo che, negante di fatto i principi costituzionali, poteva essere imposto solo con la lotta armata e dunque con una nuova rivoluzione. Non vi può essere giammai alcun predominio Ideologico che non corrisponda ad un predominio Fisico. Nell’essere umano e nell’intera natura, le Idee e gli Atti viaggiano di pari passo, perché ogni Atto non è che il tentativo di realizzare quell’Ideale che coincide con la nostra Natura. I nostri ideali non possono cambiare, possono solo rendersi più consapevoli nel corso della vita, ed un progresso ideologico non è altro che un passo avanti nella rivelazione di noi stessi, che però avviene solo parallelamente ad un progresso pratico, ad un aumento dell’esperienza, sia negativa o positiva, poiché entrambe ci illuminano circa le nostre mire. Questa è la ragione per cui è stato detto e notato che le nostre posizioni politiche, già identificabili da molti piccoli segni in giovane età, tendono nel corso della vita non a correggersi bensì ad estremizzarsi. Il nostro carattere ad assumere tratti sempre più solidi e decisi. I nostri giudizi una sempre maggiore sicurezza e nettezza. I nostri difetti una sempre maggiore evidenza. I nostri talenti naturali delle manifestazioni sempre più grandiose, qualora li abbiamo potuti coltivare. E così il piacere di considerare, in età avanzata, che avevamo molta più ragione di quella che pensavamo di avere da giovani. Allo stesso modo vediamo gli anni spogliarci di tutto il fogliame idealistico eterogeneo che l’inesperienza ci aveva appiccicato addosso temporaneamente, ma che non era l’espressione del nostro midollo, proviamo il rammarico di aver inseguito cause ed ambizioni che non ci appartenevano, aver ricevuto una educazione inadeguata, subito influssi ambientali di ogni genere che ci allontanavano dal nostro vero io, combattuto amici e frequentato nemici, esserci fatti odiare per quello che non eravamo, talvolta essere stati amati per quello che era solo un ingannevole involucro.

Appongo qui una lettera inviata parecchi anni or sono da un ragazzo senegalese alla rubrica di Umberto Galimberti su D di Repubblica, intitolata all’occasione Alla ricerca del male.
Seguono il commento di Galimberti e poi il mio.

Alla ricerca del male
Scrive Max Stirner nel suo libro L'Unico: "Perciò dico basta a ogni causa che non sia interamente la mia causa. Voi credete che la mia causa debba essere per lo meno la "buona causa"? Che cos'è bene, che cosa male? Io stesso sono la mia causa, e non sono né buono né cattivo. Queste distinzioni non hanno per me nessun senso".

di Umberto Galimberti
Foto di Maki Galimberti

Io sono senegalese stronzo molto bellissimo geniale e frocio. Vivo con un ragazzo italiano che è un po' come me (Marco ti adoro). Io faccio il cubista nelle discoteche lui fa il fotomodello. Guadagniamo un casino di soldi e siamo felici. I soldi sono la cosa più bella più figa più importante del mondo, tutto il resto non conta se ci sono i soldi perché con i soldi ci compri tutto (l'altro giorno Marco era un po' depresso, io mi sono riempito le tasche di soldi ho preso la mia coupé che ne compro una nuova all'anno e gli ho portato a casa cinque travestiti). Coi soldi ci fai tutto. Chi è che lo dice che tutto ha il suo prezzo? Un genio cazzo quasi come me. Io sono orgoglioso un casino di me e anche del mio ragazzo: siamo belli pieni di soldi e soprattutto senza neanche un po' di morale, siamo stronzi egoisti lo diamo nel culo a tutti. I miei sono tutti giù in quel continente di merda dell'Africa a crepare di fame. Che crepino tutti porca troia! Prima di vedere una lira devono passare sul mio cadavere. Tutto quello che guadagno me lo tengo per me e per Marco (Marco ti adoro). Agli occhi di tutti io sono una merda umana e me ne vanto: soldi piacere bellezza: è questa la mia vita e basta. Quando si dice una persona schifosa si dice uno come me. Io mi ci crogiolo nel male, nel male puro e semplice, nel disastro mi piace cadere in basso che più in basso non si può, solo per il piacere di farmi del male e di fare "il male". Mi piace il sadomaso e si vede. Ecco non ho neanche le palle di dire come mi chiamo. Poi vedete tutti che più schifoso di me non c'è nessuno e me ne vanto perché tutti si vantano se sono migliori e allora io faccio il contrario perché sono uno stronzo. La discoteca, l'ecstasy, il piercing, il culo di Marco: il resto può crepare adesso che me ne frego.

Lettera non firmata, Brescia

Commento di Galimberti.

Lei non è alla ricerca del male. Un lavoro troppo impegnativo per i suoi mezzi culturali. Lei sta esprimendo in modo crudo ed esplicito quella tendenza all'egoismo radicale sempre più diffusa nel nostro tempo, e lo fa come può, saltando da un cubo all'altro delle nostre chiassose discoteche popolate da quelli che il sociologo tedesco Falko Blask definisce i "seguaci del fattore Q come caos" che, a differenza dei loro predecessori della "generazione X", ritengono che sia "meglio essere esagitati e attivi, che sprofondati in un mare di tristezza meditativa, perché se la vita è solo uno stupido scherzo, dovremmo almeno poterci ridere sopra". Lei, caro senegalese, non cerca il male, semplicemente venendo in Europa ha imparato che qui non vigono più regole, né morali, e che l'unica certezza è nel fatto che in questo mondo, in qualche modo, siamo vivi. E non ci sono altre verità assolute. Per quanto riguarda il modo con cui nella sua lettera lei descrive l'amore, le garantisco che non è il caso di attizzare il sesso in una società, quella europea, dove da anni più non domina il pudore. Questa battaglia è già stata vinta o persa da tempo. Non distinguendo più l'amore dal sesso, lei non può più neppure sbagliare, perché è praticamente impossibile fallire quando non ci si aspetta nulla più di quanto ci accade. Comportamenti come il suo sono a prova di delusione perché tutto quello che è accaduto prima e tutto quello che è accaduto dopo è irrilevante: "Negli ultimi giorni non volevo aver più niente a che fare con te, ma questo non è un buon motivo per non divertirci insieme adesso". Con questo atteggiamento astorico centinaia di migliaia di persone come lei, che quindi non è l'"Unico" in questa nostra società europea, per conoscere se stessi altro di meglio non trovano che foggiare il proprio corpo ispirandosi agli attuali prototipi di bellezza, come se questa fosse l'unica perfezione realizzabile senza ostacoli. In fondo il culto del corpo unito al culto per il denaro soddisfa la smania egocentrica al suo livello più elementare e costituisce, in mancanza d'altro, un supporto all'io che si concepisce come il centro del mondo e il fine ultimo di tutti gli sforzi. A chi, come lei e come molti giovani della sua età, non è in grado di influenzare non dico il corso del mondo, ma neppure le sorti del proprio vicino di casa, capisco che non resta altro che prendere in mano le sorti del proprio corpo e scambiarlo per il proprio destino. Ma non si dà destino per chi si è liberato dal sentimento di appartenenza a una comunità, si dà solo una successione di istanti all'apparenza felici, dove l'infelicità finale non è bandita, è solo prorogata.


Commento mio.

La lettera del ragazzo senegalese è bella nella sua sincerità, nella padronanza della sua logica elementare e nell’eroticità che, figlia di un benessere e di una forza vitale, detiene le condizioni del suo sfogo nella realtà dell’autore e si traspone anche, con la stessa forza, nel terreno artistico o letterario. È facile scrivere come il senegalese, come è facile vivere come lui, ma non è sempre corretto, e non lo è in questo caso, leggere il suo atteggiamento come animato dalla premura di non subire delusioni: riferita a molte persone è un’accusa fondata ma, se vogliamo essere sinceri, la maggior parte degli uomini non sono idealisti mancati, arresi e rifugiati nel disfattismo e nel carpe diem, ed il loro livello intellettuale non supera di fatto quello di questo ragazzo, le cui ambizioni realmente non vanno oltre quelle passioni da lui crudamente elencate, un ragazzo che però ha avuto lo strumento, la bellezza del suo corpo, per affermare questo disiato stile di vita senza pudore o compromessi, mentre i tanti altri che sono simili a lui nella mancanza di voglia di tormentarsi con grandi ambizioni, addirittura incaponirsi in valutazioni morali sempre taglienti e fatte di conflitti interiori ed esteriori, si appigliano all’immagine di chi ha avuto la possibilità di vivere così mentre quel surplus di riflessione che sono costretti a gestire col cervello è solo determinato dalle materiali circostanze più avverse in cui essi vivono, lontani dunque da quelle corsie privilegiate in cui il senegalese si crogiola: ma il loro livello mentale intrinseco viene tradito dai loro discorsi che soltanto cercano ma non riescono ad esprimere qualcosa di più complesso, né loro stessi sono capaci di tirarsi fuori dalle sue grinfie. Occorre dire che ogni superficialità sgorga dalle profondità.
Nessuno può avere una bella cera, qualora la sua interiorità non sia davvero sana.
La felicità di questo ragazzo è reale. Ma non è autogena. La sottostruttura che gli consente di vivere in questo modo è creata da altri che si pongono ed affrontano problemi veri, e si organizzano per far arrivare ai privilegiati tutto quello di cui hanno bisogno e di cui si pavoneggiano. Ognuno di questi belloni edonisti e nichilisti è realmente felice perché, paragonando il mondo ad un oceano, ha avuto in dono una tavola da surf che gli consente di cavalcare le creste del mare in tempesta, nell’ammirazione di chi li crede forti, evitando di cadere in acqua ed essere subissato dalle perigliose correnti in cui si dibattono gli altri. Tutto bene dunque, sino a che non si cade in acqua. Del resto è la scommessa dell’egoismo. Sino a che stai bene, sinché la realtà ti sorride, fino a che non cadi in acqua, sei un dio. Ma se cadrai sarai perduto perché non hai imparato
a fare nulla, mentre tutti sanno che prima stavi a galleggiare, nell’arroganza del galletto, perché avevi qualcosa che ti sosteneva, e che non era certo il tuo nerbo interiore. Se sei stato alle stelle senza essertele conquistate, nessuno ti darà una mano quando cadrai. Non ti rispetteranno ed anzi, forse scoprirai che non vedevano l’ora di vederti sprofondare. Tu prima non sprofondavi nemmeno nell’angoscia della vergogna perché quei giudizi sdegnosi che ricevevi dal prossimo non ti ferivano, non avevi mai ambito ad essere migliore di ciò che sei ed è vero che sei fiero di te stesso. Per non esserlo avresti dovuto riflettere, ma si riflette soltanto su ciò che non si ama, su ciò che non ci soddisfa, su ciò che sentiamo l’intima esigenza di cambiare: tu hai chiuso l’accesso a tutto ciò che poteva far soffrire nella mente e nella realtà, e vi hai chiuso gli accessi non perché ti sentivi desideroso di affrontarlo ma troppo debole per uscirne vincente, bensì perché tu davvero nella vita non desideravi altro che ciò che essa ti ha concesso. Galimberti non riesce a dare lo stesso erotismo alla sua risposta, pur dicendo cose più giuste e che presuppongono un animo ben più attivo e profondo che si dibatte in ben altri livelli di problematiche e analisi della realtà. Tale realtà però essa non viene padroneggiata da lui, né realmente e dunque nemmeno artisticamente, come invece lo è la realtà più semplice del senegalese. L’astoricità da condannare non è quella di chi vuol vivere il presente, ma quella di chi vuole curare il mal di testa con la decapitazione, quella di chi pretende di eliminare i problemi senza averli districati ossia risolti, quella di chi vuol scordare il passato senza averlo realmente vinto e con la necessaria gradualità. Il passato è insanità, possiamo essere felici solo nel presente, alleggerendo dunque il suo fardello. Ma chi è trascurato ed egoista è felice solo sulle spalle di chi risolve problemi, magari distribuendogli addosso nuovi danni col suo atteggiamento menefreghista. La maggior parte, ed in senso più profondo la totalità, dei nostri bisogni viene soddisfatta dalla socialità, poiché realizzare se stessi significa estendere il proprio ego in un tessuto unitario a tutto ciò che di necessario sta nel mondo, a tutto ciò che, senza che inizialmente lo sappiamo, anche se istintivamente ci muoviamo verso di esso, fa parte di noi. Pertanto, non è credibile un asociale che sia parassita della società da cui finge di estraniarsi per qualche motivo. Quando si condanna la mentalità antistorica, ce la si prende invero con chi si appropria degli sforzi altrui nella risoluzione dei problemi. La conflittualità e dunque anche la fatica del vivere si basano appunto sull’individualismo, sulla non-collaborazione, poiché se tutti collaborassimo allo stesso grande progetto, non avendo più nemici tutti saremmo felici con un singolo gesto, non imposto ma desiderato. Mentre la conflittualità stessa, dominante eppure suddivisa in gradi, determina che gli idealisti, ossia i socialisti, si sacrifichino di più, con intensità discendente in funzione del livello di individualismo: il coefficiente della tua sofferenza sarebbe infatti identico al coefficiente di individualismo che c’è nel mondo ossia di disorganizzazione, che lascia lo spazio solo ad un tutti-contro-tutti, ad una guerra generale in cui non vince nessuno, se non fosse che in realtà l’individualismo giova dei socialismi parziali operati da altre persone e di quelli più generali operati di fatto dalle strutture politiche degli stati nazionali e delle comunità internazionali, concesse tutte imperfezioni possibili, ma la cui efficienza ed onestà è idealmente necessaria alla realizzazione del concetto di interesse personale, mai svincolato dalle sue condizioni ambientali.


Uomini eccezionali sono fatti in modo da provare un tale fastidio per il mondo presente da prendersi la briga di cambiarlo anche da soli.


Bisogna lavorare alla bandiera ed alla spada. Tutti i fili che trascurerai al panneggio della tua bandiera sono i fili in cui inciamperai nel corso della battaglia, quelli che ti piomberanno nelle mani del nemico. Tutte le tecniche non padroneggiate e le energie carenti ti faranno esitare perché non sei te stesso e solo noi stessi possiamo immolare serenamente, consapevoli che altri non possiamo servire. Facciamo tesoro di quanto ci racconta la saga di Highlander. Egli era un immortale destinato ad affrontare il Kurgan, ma non era ancora pronto, sicché Ramirez lo addestra ed illumina, e lo protegge poi, si batte con Kurgan al posto suo, e perde, perché più debole: era ormai tempo che la sua testa cadesse. Gli immortali sono destinati a battersi con un altro immortale, e la loro lunga vita certo ha dato loro il tempo di diventare saggi e forti. Gli immortali attraversano come spettri le linee frastagliate della storia, vi partecipano ma non sono protagonisti delle singole epoche. Essi non devono rivelarsi perché i mortali li odiano, e cospirerebbero per far cadere la loro testa prima del tempo. Gli immortali non si odiano invece tra loro: essi sanno che devono battersi, per realizzare una meta superiore, e nulla li turba di questo destino, se non l’eventualità che esso non si compia.


Qualsiasi principe viva perduto nel mondo senza la alte mura di un palazzo a cingerne la vita, sappia o saprà che quel mondo non lo ama. Si rivesta dunque da povero, in ogni suo gesto o parola, ogniqualvolta sia aggiri in mezzo agli altri uomini. La natura detta legge e la legge di una natura indiscriminata è quella dello stridore, è quella di ognuno che vuol imporre la sua legge laddove la sorte lo abbia messo. La legge del più forte diviene quindi legge del più numeroso, in una civiltà non gerarchica, sicché il volgo è principe in casa sua, seppure, rimarrebbe volgo anche qualora espugnasse il castello e si ponesse sul trono con rispettive sentinelle di vedetta alle alte torri. Ma questo implica che anche tu sei principe dovunque la sorte meni il tuo cammino. Allora prenderai istintivamente a comportarti da nobile, e ti accorgerai che tutti, inizialmente incuranti, cominciano a guardarti strano… Nelle corsie dei mercati, non resisterai poi alla tentazione di tirare fuori dalla tua tasca delle gemme... Ne estrai una rossa ed una verde… all’improvviso l’atmosfera intorno a te comincia a farsi cupa…ora tutti ti stanno guardando torvo
Deluso, ti illudi che raccontare di come vengano fabbricate e qual funzione abbiano nel regno possa migliorare la tua posizione, ma l’atmosfera, da cupa, si fa adesso tagliente e sulfurea...
Convinto che sia un problema di forma, non ti arrendi e dall’altra tasca estrai adesso altre due gemme: una viola e una gialla, e mostri loro che è possibile anche assemblarle con una cassa metallica e creare una amuleto… Ti rendi conto che adesso il loro sguardo fa davvero paura…
Nei loro occhi brillano lo stesso rosso, lo stesso verde, lo stesso viola, lo stesso giallo, e gli elementi metallici che iniziano a tintinnare nelle loro mani sembrano assai più minacciosi del tuo amuleto che appare ora impotente contro quel drago multicefalo che sta montando nell’ira e raspando il terreno… A questo punto, se vuoi aver salva la vita, rimettiti il cappuccio e corri più lontano che puoi. Ma proprio rapido, che non ti prendano, come il cavallo di Samarcanda…
Da cosa fuggiva il soldato? Non dalla morte. La nera signora era la mediocrità, o se vogliamo l’alienazione, e lui non poteva spendere la sua vita per servire ideali altrui, non doveva morire in quella guerra né trattenersi nelle gozzoviglie di vittoria e pace dei suoi pseudo compagni, egli aveva ricevuto un monito, non poteva sottrarsi al suo destino per ascoltare la banda, e giungere ad esso a Samarcanda era stato per lui una gioia. Aveva attraversato prati poi campi poi un’alba viola, aveva toccato infine bianche torri, e la morte aveva ballato tutta la notte con lui, era diventata una figura amica, addirittura un’amante, capace anche di materni consigli: perché bello e poetico è battersi per i propri ideali, e adesso non lo induce a scappare, ma ad incitare il suo cavallo che corra fiero contro il vento, perché Samarcanda non è poi così lontano, ovvero la vita è breve, verso il compiersi del proprio destino.


Elasticità significa che, per non soccombere a pressioni esterne, gli esseri umani, come le molle, sono capaci a deformarsi, sottinteso, che al venir meno della pressione, tornano alla forma iniziale con una rapidità caratteristica. Se tu hai un’anima di destra e ti fanno leggere quaranta testi di sinistra senza soluzione di continuità, tu avrai una progressiva per quanto restia deformazione in quella direzione: chiaro che appena questa forza trainante svanisce, te ne torni come prima e, se aiutato dall’improvvisa lettura anche di un solo testo di destra, la rapidità fresca ed argentina con cui si ricompone il tuo regno sarà stupefacente e tu ti senti di nuovo a casa: ecco che non vorrai più nemmeno guardare la copertina di un libro di sinistra. Se ti fanno sentire ovunque musica che non si confà alle tue orecchie, finirai per fartela piacere, ma basteranno poche note improvvise di una musica affine alla tua anima perché tu provi un’emozione imparagonabilmente più piacevole e tu non voglia più sentire altro. Se tu stai con un gruppo di gente con cui non ti diverti, finirai, insistendo, per divertirti: ma non appena incroci uno stralcio di dialogo con un fratello di spirito, manderai al diavolo in un istante, con indignazione, la mala compagnia. Se tu stai con una donna che fin dall’inizio non ti convinceva più di tanto, imparerai ad apprezzarla, ma non appena ne vedrai una davvero attraente, te ne innamorerai e non vorrai sentir più parlare dell’altra, ai cui difetti ti eri abituato fino a vederli meno brutti ma che ora, a confronto con i pregi della nuova, ti sembrano ripugnanti nella loro essenza. Se tu sei costretto a portare un paio di scarpe scomode, a furia di camminare, tra un callo del tuo piede e uno stiramento della tela, ci camminerai quasi bene, ma se finalmente puoi togliertele e infilarti quelle che ti calzano a pennello, l’adattamento è immediato di gratitudine e le vecchie le scaraventi fuori dalla finestra. Tutto questo se la molla non è stata deformata oltre il suo limite elastico, da farle perdere dunque la sua natura di molla, trasformandola in un pezzo di ferro piegato. Un trauma, dunque, troppo intenso, ti snatura ed allora non sei più responsabile di come reagisci. Un uomo è veramente responsabile dei suoi atti solo quando è completamente sano, ossia è pienamente se stesso, e dunque l’atto è stato compiuto solamente da lui. Ma ogni fastidio, problema fisico, psichico, alterano la natura temporanea del soggetto, immettendo in esso le contingenze, ossia le impurità, quegli elementi, dunque, che deresponsabilizzano il soggetto e responsabilizzano soltanto la creatura ibrida che vi si era sostituita. In tal caso non esiste la responsabilità parziale, poiché ad ogni causa corrisponde un effetto, ad ogni azione un agente, fosse anche composto, ma unico nella possibilità di produrre quell’evento, giacché se manchevole di anche un sol elemento, esso non si realizza. La bravura di un giudice sta dunque nell’affinare lo scrutinio e cogliere esattamente chi ha commesso che cosa. Il pentimento sincero è un chiaro sintomo d’innocenza: noi non abbiamo voluto il risultato della nostra azione. Non eravamo puri dinanzi ad essa, noi stavamo appunto gettando fuori di noi la colpa, l’elemento estraneo che si era impadronito di noi, condizionando il nostro agire. Ma nemmeno questa colpa, da sola, è imputabile del nostro atto. Invece l’entità che ha consentito la compresenza di questi elementi eterogenei è il vero e solo responsabile di quanto è accaduto. La priorità degli organismi è quella di gettare fuori gli intrusi: quando saremo pieni di noi, quando saremo puri, ecco che potremo volgerci alla battaglia esterna, altrettanto necessaria e però questa volta rivelatrice della nostra natura di cui siamo imputabili, in quanto unici e veri agenti. Quando giuridicamente si dichiara un uomo temporaneamente incapace di intendere e volere, ci si riferisce appunto a quella momentanea perdita della propria identità, che di fatto ci esime dalla responsabilità dell’atto. Ritornati in noi, ecco che il nostro giudizio sull’accaduto rivelerà quello che volevamo veramente, in quanto soggetti pieni di sé. Quando la molla è invece sformata, quando siamo stati privati del nostro carattere in maniera permanente, smettiamo di essere quel preciso uomo che prima eravamo, e non siamo più responsabili di nulla presupponga il nostro carattere umano.
Sentirsi in colpa dopo un atto compiuto è paradossale, perché nello stesso momento in cui lo riteniamo un atto spregevole e dunque estraneo a noi, ecco che siamo tornati in noi stessi ed abbiamo scacciato la colpa: l’intruso che, inquinandoci, ci ha condotto a quell’atto. È chiaro che di fronte a noi stessi non possiamo, senz’altro, sentirci in colpa, ed il sentimento che indichiamo con questo nome è invero la preoccupazione del disonore, ossia che altri ci considerino responsabili, volontari esecutori di un atto dannoso, dunque ci prendono per quelli che non siamo, giacché non è possibile deprecare se stessi, ma appunto solo ciò che non ci appartiene. Quello che si presenta in noi dunque è un senso di colpa nuovamente eterogeno, provocato da chi vuol rimettere in noi, pensando appunto al passato, quelle impurità che hanno armato la nostra mano, dopo che già noi le avevamo espulse: ma loro invece ci scambiano per ciò che non siamo e pertanto non le considerano impurità, ma precise caratteristiche nostre. Tale sentimento si cura soltanto con la correzione del giudizio del prossimo: non dobbiamo lavorare su noi stessi, noi siamo già puri, già liberati, ma un soggetto esterno cerca nuovamente di snaturarci e noi dobbiamo impedirglielo. Noi ci sentiamo in colpa solo tramite la percezione di questo suo pensiero, di come lui ci rappresenta.


La giustizia era unitaria per il semplice fatto di essere giusta. Un intervento esterno ha scompaginato i ranghi e da allora ogni elemento ha reagito istintivamente per ritrovare il suo posto. Dalla riuscita di queste egoistiche azioni dipende la realizzazione del panegoismo e dunque della nuova giustizia, poiché in ogni essere vi è un pezzetto di qualsiasi altro, sicché nessun uomo riesce a purificarsi senza che tutti gli altri anche siano purificati, abbiano preso da noi ciò che loro spettava ed in noi deposto ciò che spettava noi. Non è corretto dir che la bilancia pende sempre più a favore della ingiustizia nella misura in cui un legame si spezza e da un ente se ne compongono due, che dunque il mondo è tanto più infelice quanto maggiormente plurimo: poiché dovunque si abbia una divisione, anche vi è una unificazione in qualche altra parte del cosmo, senza che il morbo originario sia però stato eliminato ed il mondo resti conflittuale in quanto non unitario. Tutte le ingiustizie scaturiscono infatti da quella originaria, ed il conflitto riposa unicamente tra il numero Due ed il numero Uno, con quest’ultimo che si vede dividere per il primo ancora ed ancora, ma invero sempre ed una sola volta nella sua globalità, e nella stessa globalità esso reagisce, mettendo in moto ogni singolo essere. Lo spirito unitario di tutti questi esseri frammentati, ossia la sempiterna presenza in ognuno di loro di una ambasciata d’ogni paese, li porta a comporre sempre nuovi ed insoddisfacenti legami, sino a che soltanto la soluzione dell’enigma non sia trovata e la reazione globale del cosmo non sia quella che annulla la spinta centrifuga originaria. È errato affermare ciò che par ben giusto, ossia che per realizzare la giustizia occorre effettuare a ritroso il percorso stesso dell’ingiustizia, nel preciso ordine inverso con cui siamo stati contaminati. Noi notiamo infatti che, quando le strade son bloccate, siamo naturalmente portati a compiere grandi manovre ed imboccare lunghe deviazioni tortuose, che ci portano anche molto lontano, ma che ci consentono un immediato superiore benessere, prima che arriviamo a risolvere un vecchio problema che appariva prioritario. Ed ecco il Segreto: noi affrontiamo invero sempre per primo il problema realmente prioritario, anche quando trascuriamo un problema che ad altri sapienti parrebbe esserlo senza alcun dubbio, poiché per il cosmo e dunque anche per noi era bene che noi ignorassimo quella visione e trascurassimo tale azione, ci dedicassimo invece a qualcosa d’altro, quello a cui ci siamo effettivamente dedicati, anche se ciò ha avuto conseguenze localmente terribili, che ci fanno tutti gridare all’Errore. Il cosmo non sbaglia, perché non ha alternative, se poi le avesse, non potrebbe sbagliare, poiché esse sono soltanto due e lui è la prima, la seconda è un nemico, quell’intruso alieno, quell’estraneo che vuol imprimere la sua natura duplice a tutto il nostro mondo che invece vuol con tutto il cuore essere uno, ed allora in ogni cuore brama tornare tale dopo che è stato diffranto. Vi deve essere una autorità superiore a questa battaglia, un tribunale celeste adibito a sentenziare questa guerra dei mondi, dal quale il nostro mondo Unitario si vede respingere infiniti appelli, tanto potente è stata l’accusa primigenia. Ogni nostra nuova configurazione quotidiana, modificata rispetto alla precedente, è un’arringa dell’avvocato del nostro mondo per respingere la granitica e crudele richiesta dell’accusa: che il nostro mondo deve essere Duale. Ma noi respingeremo per sempre questa condanna e paradossalmente la sconteremo proprio avversandola. Giacché, il tempo è prerogativa di ciò che è plurale, noi siamo nel carcere cosmico a guerreggiare tra noi, il sigillo dell’Altro Mondo è stato posto anche sul nostro, ma una volta scontata la condanna, una volta trovata l’Arringa Suprema, saremo restituiti alla nostra forma di esistenza ed allora non esisterà più ciò che nel gergo di un mondo soggiogato allo straniero e dunque spurio anche nel linguaggio, che ad esso appartiene, abbiamo chiamato Tempo: dire che noi saremo eterni in tale forma di esistenza, non avrà significato, ed altri mondi anche saranno eterni a modo loro, ossia non saranno altri che sé stessi, ognuno avrà la sua beata eternità, giacché il tempo è relativo, pertanto reale solo laddove esistano relazioni. Come può però esservi una guerra tra due mondi, dei quali il primo abbia come principio la pace ed il secondo appunto la guerra, senza che, per questo stesso fatto, il secondo abbia vinto? Esso ha vinto e perso contemporaneamente, ossia vinto temporaneamente, sul mondo nel quale ha creato il tempo, e perso eternamente, contro ciò che, unitario anche nella sua frammentazione, e vanificata quest’ultima dal fatto che in ogni frammento è conservato l’intero, conserva la sua natura. Ma, viceversa, come può un mondo pacifico rimanere in pace isolandosi nel suo loco cosmico, come separato da una cosmica cesura, ed ammettere quindi l’esistenza di un Altro mondo, dove vigono principi opposti, quando il concetto di alterità deve implicare la guerra e continui ad aver senso solo in un universo ancora non organico? Se ogni cosa trova il suo posto, i Molti divengono Uno. Tuttavia, come lo spirito unitario si conserva anche quando è vittima della frammentazione, lo spirito duale si conserva anche quando è vittima di unificazione, dunque quei frammenti che noi abbiamo cucito in una veste siano destinati a disgregarsi, se la materia di cui sono fatti i due mondi che abbiamo posto è diversa. Essa vuole,
nel primo mondo, incollarsi, nel secondo, scollarsi. Come non si può fare una guerra tra la guerra e la pace, così non si può fare una pace tra la pace e la guerra. Due mondi intrinsecamente dissimili, che interesse hanno ad unificarsi? Perché il mondo duale dovrebbe aver interesse a colonizzare il mondo unitario, ed il mondo unitario a colonizzare il mondo duale? Perché il mondo duale dovrebbe universalizzare la propria bellicosità, ed il mondo pacifico universalizzare la sua pace? Il concetto di universalizzazione presuppone una affinità intrinseca, ed una diversità solo estrinseca e dunque dovuta alla posizione, ma non può essere applicato ad entità intrinsecamente diverse. No, non è possibile vittoria alcuna dell’uno sul due, né del due sull’uno, vittoria nel senso di annientamento del nemico tramite assimilazione dello stesso. Gli elementi estranei vanno dunque soltanto scacciati dai rispettivi mondi, comunque vi siano finiti, perché non potranno creare altro che problemi, non hanno un ruolo positivo in tal mondo come invece hanno tutti gli elementi autoctoni, positivo perché appunto unitario nel fine. Tutti gli autoctoni collaborano, infatti, opponendosi al contrasto che li ha opposti per mano aliena. Forse noi abbiamo tentato di unire in epoche precontaminate ciò che non poteva essere investito dalla nostra pace ordinata, e tale avulso mondo ha reagito cercando di distruggerci, mandato degli emissari a corromperci, come noi dovevamo aver fatto con loro. Dunque vi erano paci o guerre non completamente pacifiche o non completamente conflittuali. Forse che da tempi prima del tempo vi fosse un contingente straniero in ciascun mondo, e che per riagguantarlo a sé si sia arrischiata una battaglia cosmica che ha rischiato di far collassare tutto? Qual mai entità superiore, qual Dio, aveva posto questa incompletezza? Qui le nostre indagini si fermano, come a chiedersi Schopenhauer come si fosse originata la volontà: Egli non poté rispondere, ammise il suo limite e lo vide coincidere con quello della Filosofia.
Egli poté constatare quello che era innegabile, la Volontà, e trarne tutte le conseguenze:
era un filosofo, un luminoso, fedele specchio della realtà, la cui immagine doveva essere riflessa a tutto il mondo che viveva avvolto in tenebre di menzogna, ed accettò con onore questo ruolo.
Ma capì che su questa realtà non ci si poteva interrogare oltre, la natura non può interrogarsi su se stessa, il soggetto è il non plus ultra, non può essere anche oggetto. Ogni volta che nelle manifestazioni riconosciamo l’elemento costante, lo spirito animatore, siam giunti al capolinea.
A tal natura dobbiamo, adesso, solamente adempiere.


Chi si sente in colpa non ha colpa. Ogni colpa è impurità, ogni impurità è incompletezza, è uno stato non totalitario e dunque il senso di appartenere ad un mondo che non combacia completamente con la nostra natura, ora reso ancor più lontano da essa grazie ad un gesto che abbiamo compiuto non per volontà nostra ma per volontà di qualcun altro, dunque sotto l’effetto di un inganno: noi non abbiamo mai voluto quell’azione, ossia l’insieme di effetti che essa ha avuto, ma solo il senso che essa aveva per noi, dunque la nostra intenzione. È giusto fare il processo alle intenzioni, perché se queste differiscono dalle conseguenze materiali, non ne siamo noi i responsabili, ma soggetti esterni. La nostra natura risente di tutte le colpe, ossia di tutte le impurità, ossia di tutte le incompletezze, di tutte le zone del mondo o del proprio corpo che siano ad essa difformi. Il fatto che noi, percependo una zona dolente del cosmo non proviamo lo stesso dolore di essa, ma un dolore diverso, è perché noi non siamo pienamente quel corpo ma esso è solo una nostra componente verso la quale la nostra persona fisica ha per natura un differente ruolo, e soffre in tal caso di non poter intervenire. Nel senso di colpa che solo ci sprona all’azione si manifesta un legame tra elementi disparati, ossia inframmezzati di elementi estranei, ed essi ambiscono ad unirsi, a completarsi, sicché nel senso di colpa tutti gli uguali sentono lo stridore causato da tutti gli ineguali. La nostra natura si realizza infatti solo globalmente, parte di essa è nel mondo, e noi dobbiamo appropriarcene per uniformarla, dobbiamo conquistare il potere di agire su di essa, dovunque la colpa si trovi. Anche le debolezze contingenti non sono le nostre. Gli altri ci hanno reso deboli, ma non lo siamo intrinsecamente. Gli errori che facciamo perché siamo in una situazione o condizione ingiusta non ci appartengono. Noi abbiamo sempre la stessa intenzione: perché abbiamo solo uno scopo, corrispondente con la nostra forma mentis e dunque con la nostra natura. Fare il processo alle intenzioni significa dunque fare il processo alla natura. Le intenzioni contingenti non sono la nostra intenzione, noi siamo stati ingannati, noi siamo deboli contingentemente e dunque la nostra percezione del mondo era impura. La percezione incompleta è impura perché fallace, e proficua invece per il nemico, ed invero voluta e provocata dai nostri nemici. Possiamo usare quando vogliamo i termini impuro e incompleto come sinonimi.


Noi siamo un corpo che deve essere integro nei suoi componenti e dunque perfezionarli per adempiere alla sua natura che è indistruttibile, e che tutto respinge ciò che non le è affine per accogliere invece tutto ciò che le è affine. Quando un uomo muore si rivela il fatto che egli era una natura temporanea che serviva alla natura eterna e quindi onnicomprensiva per ottenere la sua completezza, era un mezzo per il suo fine, cui possiamo togliere l’aggettivo possessivo perché superfluo in un mondo mono soggettivo e dunque oggettivo, come superflua era diventata ormai la sopravvivenza di quell’essere, non più capace di servire la meta e dunque sacrificabile. Ciò che è necessario alla pace non muore mai, quelli che muoiono non sono più necessari, è stupido rimpiangere il ruolo che avevano ricoperto, perché saranno certamente sostituiti da qualcos’altro.


Il nostro corpo è pronto ad accogliere oggetti affini e respingere oggetti estranei. Quando non ne ha la forza sufficiente, esso accoglie od espelle quello che riesce, con l’azione del suo organismo pensante che si rischiara parzialmente nell’atto in cui, espellendo ed assorbendo, ristabilisce equilibri alterati dall’esperienza, e questo avviene quando diciamo di aver trovato un nuovo assetto, quello che ci consentirà di affrontare meglio la prossima arena di battaglia, operando una espulsione più completa o più completa acquisizione. Ogni oggetto con cui siamo entrati in contatto ha generato uno scambio materico la cui positività o negatività è determinata precisamente. Quando un oggetto ci ha fatto del male e noi ne vediamo un altro simile, intanto lo possiamo vedere simile solo nella misura in cui esso è effettivamente simile, e la nostra visione è immediatamente giudiziale e dunque reattiva, poiché il percepire fa parte dell’essere e dunque dell’agire. Inoltre noi reagiamo in maniera anticipata solo perché esso agisce in maniera anticipata, battendo un secondo solco su quello precedentemente inciso dal suo simile, che non era stato colmato, e costituiva una insania gestita ottimamente dal nostro corpo che l’aveva messa in sordina, racchiusa in un’ansa dalla quale essa non estendeva il suo danno, giacché, quando invece le sue capacità espulsive fossero complessivamente aumentate, affinché un soggetto fosse superiore al nemico esterno, esso avrebbe automaticamente effettuato il risanamento della zona. Un oggetto deve essere giudicato ossia combattuto oppure accolto il prima possibile, poiché egli è, senza eccezione, una minaccia o una occasione, un male oppure un bene, un nemico oppure un amico. L’aumento della saggezza corrisponde alla capacità di identificazione dei nemici, ossia alla previsione degli eventi che conseguono necessariamente da un preciso grado di diversità tra soggetti che si incontrano, dunque la capacità di compiere scelte opportune o inopportune, dovuta al fatto che si è sperimentata più profondamente la realtà, e quello che ci era sembrato identitario nella sua parzialità era invece solo una propaggine di qualcosa di molto più grande, molto più benefico oppure molto più malefico, da giudicare poi tale o talaltro nel suo complesso. Il saggio riconosce quello che c’è dietro un volto, un atteggiamento, una parola, un evento, con quanti altri soggetti ed eventi sia questi collegato, e dunque cosa rappresenta davvero per noi accogliere oppure respingere ciò che abbiamo di fronte nella sua superficie. Se conoscere significa assimilare, riconoscere significa riassimilare, dunque reagire di nuovo come si reagisce ad un nemico o ad un amico, però con la nuova forza complessiva che abbiamo acquisito nel percorso esistenziale. Memoria è sinonimo di Frustrazione: essa è il serbatoio apparentemente unitario di tutte le insanie presenti nel nostro organismo. Il dolore è la sensazione di una presenza malefica non completamente espulsa dal nostro corpo, o della presenza incompleta di un oggetto del bisogno. La nostra conoscenza è memoria, perché conoscere significa assimilare, e l’assimilazione si snoda in atti di accoglienza ed atti di espulsione. Le nostre forme a priori di conoscenza sono le forme a priori del nostro spirito, ovvero le forme a priori del nostro corpo, le sue caratteristiche che determinano il destino accogliente od espulsivo che riserveremo a tutto ciò che incontreremo nel nostro cammino. Non si può dunque conoscere senza reagire, ed un appello alla conoscenza oggettiva è soltanto una astuzia di chi vuole sottrarsi alla responsabilità del proprio interesse verso un oggetto, della propria volontà di intervenire su di esso coerentemente con la propria natura, dunque ascondere quest’ultima affinché nature avverse epperò più forti non reagiscano a noi in maniera ostile. Appellarsi alla conoscenza oggettiva significa altresì impedire ad un uomo di essere sé stesso affinché agisca invece per conto di un altro, sottoposto quindi ad una motivazione che non è quella scatenata dal contatto con l’oggetto stesso, ma con qualcosa d’altro di cui egli sia suscettibile, ed il suo ruolo di giudice è dunque soltanto apparente ed il suo giudizio insincero, giacché egli non rappresenta se stesso ma qualcosa di estraneo. Ogni carica rappresentativa illustra il fallimento della civiltà. Un uomo deve rappresentare se stesso, qualora assuma una carica, non un principio estraneo. Se quel principio è giusto, egli stesso deve essere quel principio, altrimenti non avrebbe mai dovuto assurgere a quel ruolo. Ma dacché un principio politico degenere permette che chiunque possa assumere qualunque ruolo, chi in origine ne pose la deontologia ossia né fu l’identitario ha dovuto spersonalizzare i futuri incaricati che, naturalmente avulsi a quella responsabilità, non vi avrebbero mai adempiuto e li ha resi dunque rappresentanti di qualcosa di estraneo, in altre parole di sé stesso, tramite il principio dell’oggettività. Sii oggettivo significa togliti di mezzo, non sei l’uomo giusto ad operare il giusto, non ci possiamo fidare di te. Quest’uomo viene dunque posto in una situazione di alienazione, perché non può svolgere il suo lavoro con piacere, non corrispondendo questo all’affermazione delle sue naturali pulsioni.


Tutto ciò che viene condannato, è perché danneggia un interesse materiale del condannante. Un principio etico astratto è l’espressione verbale di una identità: esso racchiude e prescrive infatti l’essenza di questa identità ossia i comportamenti che questa assumerebbe a contatto con le circostanze della vita: quelli che i nostri nemici temono e dunque condannano.


Andare avanti significa risalire un fiume che non doveva sgorgare, riportare le acque all’immoto lago originario.


Colpa significa impurità. Noi sentiamo tutto ciò che stiamo cercando di espellere.
Cerchiamo di espellere tutto ciò che non ci appartiene ed è dunque inaccettabile. Quando ci sentiamo in colpa gli altri entrano dentro di noi. Ma non è possibile volgere l’aggressività verso se stessi: il soggetto non può essere anche oggetto. Il suicidio è comminato dal mondo esterno e noi non ne siamo che gli esecutori passivi: non c’è una scelta in mezzo. I soggetti esterni hanno individuato in noi, nella nostra essenza quindi e non in qualcosa di contingente, il Male, quello che non collima con la loro natura, che la minaccia dunque ed è da eliminare. Noi non percepiamo noi stessi come male, perché ciò è impossibile: semplicemente siamo troppo deboli per opporci alla mortificazione che avviene ad opera dei soggetti esterni. Possiamo sbagliarci solo sugli altri, non su noi stessi: perché noi percepiamo gli oggetti, non il soggetto. Giudichiamo i primi, non il secondo, che è invero il Giudice. Noi non sappiamo chi siamo, ma agiamo secondo le sue direttive. L’atto suicida non è una decisione, ma la mera conseguenza della nostra reale debolezza nei confronti del mondo esterno. L’uomo aborre la morte, non può desiderarla, nessuno vuol perire, ma ci è costretto quando è malvisto e troppo debole. Noi in realtà cerchiamo di scacciare la morte con tutte le nostre forze. Possiamo sentirci male quanto è possibile, ma quando arriviamo alle strette, quando arriviamo al dunque, quando la macabra uscita di scena si avvicina o magari ne abbiamo gli strumenti a portata di mano, noi ci rendiamo conto che è una cosa inaccettabile, che non vorremmo affatto compierla, che non vi è nulla di attraente. Anche quando le circostanze si aggravano drammaticamente, invero noi ci sforziamo di visualizzare più vie di fuga possibili, elementi di realtà che consentano di nuovo la speranza di vittoria e scaccino la necessità di farla finita.

Gli altri possono entrare dentro di te con la prepotenza o con sottile inganno. Camuffati da amici (verità = affinità) essi entrano nel tuo corpo impossessandosi delle sue interfacce col mondo esterno, oppure riescono a penetrare sino nel cuore, ed allora tutto il resto dell’organismo deve sbattersi: agire o ragionare per espellere l’intruso. In forza della nostra alterità, ossia in forza di ciò che per gli altri è debolezza, essi ci considerano materiali di scarto, escrementi. In noi stessi compare l’elemento fecale solo nell’ambito dell’attività escretoria, ma il nostro stesso essere non può essere fecalizzato: quando ci sentiamo delle merde, e non per contingente degenerazione ovvero già per le influenze contaminanti riversate in noi dal prossimo, ma proprio per la nostra natura che, in posizione subalterna, pretenda di inseguire il suo ruolo naturale rompendo i ranghi, noi in realtà stiamo subendo la pressione esterna di gente che non solo può impedirci di agire come vogliamo, ma addirittura annientarci minando le nostre difese immunitarie, appropriandosi dei nostri gangli vitali, o dei nostri pensieri, sino a che, col suicidio, le zone occupate dagli avversari stroncano gli ultimi baluardi della nostra resistenza identitaria: a questo punto essi non sono diventati noi, si sono invece appropriati delle nostre sostanze dopo aver scompaginato quell’unione caratteristica che ci rappresentava. Ma dicevamo che il nostro pensiero può essere modificato di prepotenza con un giudizio secco: ci viene imposto un giudizio, non argomentato, ossia non sostenuto da altri. Noi possiamo rispondere con un giudizio inverso e altrettanto energico.
Oppure con una argomentazione: ossia con il sostegno di altri. Se uno sostiene che Socrate sia immortale e si limita a gridarci: Socrate è immortale!
Noi possiamo superarlo in forza e rispondere: Socrate è mortale!!
Oppure dire: Tutti gli uomini sono mortali (e ci stiamo arruffianando l’appoggio dell’intera umanità), Socrate è un uomo (seconda spalla d’appoggio), quindi Socrate è mortale. Stiamo letteralmente ammazzando Socrate: cacciandolo a forza all’interno di un insieme di uomini destinati a morire. Oppure, se siamo deboli di argomenti affermativi, possiamo usare la dimostrazione per assurdo. Se Socrate fosse immortale [ la forma condizionale concede l’ingresso del prossimo dentro di noi, ma solo per tendergli una trappola ] non avrebbe insegnato l’immortalità dell’anima…
Se noi siamo più forti per natura, amiamo la verità istintivamente poiché in essa non vediamo altro che la nostra forza ed il suo necessario trionfo. Ma solo il debole che già è subalterno accetta la sua posizione, e la accetta in quanto che il nobile nella sua locazione naturale non gli fa alcun danno ma anzi opera nel suo interesse, mentre nel calderone non gerarchico, tutti sono in battaglia e lo sono per il predominio, il potere politico, l’apicalità, giacché vede tutti i diversi come inferiori.
Supponendo dunque egli che ogni virtù del forte, et sia essa ideale o fisica, venga rivolta contro di lui, egli non può che percepirla come debolezza, ed allora il debole non può che desiderare la sconfitta del forte: per ottenere dunque vittoria, in questa necessaria lotta, egli non può far altro che camuffarsi da forte. Egli deve essere meschino, e trasfigurar se stesso e l’avversario. Può attaccarlo dopo averlo colto in circostanze sfavorevoli e avergli messo contro compagini di elementi che da soli non avrebbero mai potuto sconfiggerlo.

La sopportazione di uno stile di vita imposto dalla volontà del prossimo significa essere temporaneamente deboli ma non aver rinunciato alla vittoria e dunque alla liberazione.
La dimostrazione, però, che la nostra non è rassegnazione, è la linea di tensione che si mantiene attiva nell’arrestare l’avanzata del prossimo volta a spersonalizzarci, alienarci, conquistare le nostre sostanze avendole finalmente sotto il suo controllo in piena disposizione. Parte della nostra azione deve quindi trovare la possibilità di dispiegarsi contro corrente, in qualche corsia protetta o poco visibile: giacché non è possibile pensare controcorrente, e dunque mantenere vivi i propri ideali - laddove non si agisca, anche, controcorrente. Il nostro pensiero e dunque la nostra azione devono pertanto continuare a lottare per respingere quelli estranei, ripetendo anche ossessivamente le proprie argomentazioni con la stessa frequenza con la quale ogni giorno veniamo attaccati dalle loro, che si ripresentano tali e quali nella loro prepotenza, erroneità, nocività: perché altrimenti la avranno vinta: cambieranno il nostro modo di pensare nella precisa misura in cui continuano a determinare il nostro modo di agire. Se noi smettiamo di opporre resistenza, certamente soffriamo meno: ma la conseguenza è di venire assimilati. Ad esempio, quando noi siamo legati ad un dovere che non ci appartiene, ed all’interno di esso ci ritagliamo degli spazi per fare altro, il nostro dovere naturale, noi ci sentiamo in colpa. Cosa significa questo? Che noi percepiamo di aver avuto una negligenza (conseguenza dell’alterità) nei confronti del dovere eteronomo, che ce lo siamo potuti permettere temporaneamente, ma che dovremo recuperare il lavoro negletto in quanto il potere materiale esterno è ancora vigente, anche se non ci ha controllati con rigore, e potrà dunque imporci quella fatica ora aumentata perché concentrata. Esso potrà, inoltre, con la sua azione barbarica, infliggerci una punizione per il nostro affronto: perché non abbiamo rispettato le sue condizioni, la sua autorità, e quando una nazione debole non paga i suoi debiti ecco che quella dominatrice può usare la forza per schiacciarla o per disporre di lei anche priva del consenso.


Il primo segno di una nobiltà che matura è cogliere al volo ciò che è ignobile.
Ma il dominio fattuale dell’ignobiltà confonde il nobile sull’identità propria ed altrui. Anche qualora la chiarezza sia di nuovo giunta, una deviata mentalità martirica spinge il nobile a corrompersi e sforzarsi per nobilitare il prossimo: nulla di più vano. Il volgo non può che essere volgare e volgarizzare ogni cosa che tocca. Il nobile è tale in quanto sa discernere cosa è da preservare e cosa è da combattere. Ma un lungo apprendistato lo attende a questo proposito, anche verso la comprensione della misura in cui deve di fatto preservare sé stesso e i suoi fratelli. Mettere ognuno al proprio posto: questo significa coordinare. Si tentava di nobilitare l’ignobile solo poiché questo aveva assunto un ruolo ed un potere che non meritava.


Questione di chimica. Quando una sostanza nobile entra in contatto con una sostanza volgare, avviene di solito una reazione dagli effetti assai sgradevoli e perniciosi.


Democrazia è la parola più sporca e orrenda del vocabolario italiano. Essa racchiude l’essenza del crimine. Non già come la più blanda anarchia, che può presentarsi anche come il sano istinto radicalmente dissolutivo di un ordine sociale fallimentare: purché essa aneli però ad una più giusta ricostruzione, e non disperi di essa abbandonandosi pigramente ad un individualismo idealizzato, essenzialmente pessimista, il quale contrasta non già solo col buon senso, bensì con gli istinti naturali e con la teleologia insita nell’esistenza. Non esiste invece, nella società, evento più nefasto dell’universalizzazione di un diritto elitario. Essa equivale ad una sua volgarizzazione. Democrazia significa di fatto inversione della gerarchia sociale: potere legislativo, potere esecutivo, potere giudiziario messi in mano al volgo. Tematiche profonde e delicate, per risolvere le quali spesso non bastano le energie, la raffinatezza, il coraggio, la pazienza e il consumato esercizio dei pochi individui che nelle varie epoche possono chiamarsi intellettuali, e che possono spesso interloquire solo attraverso un libro lasciato in eredità al secolo successivo: tali questioni maneggiate brutalmente dagli individui più gretti ed irrispettosi verso di esse. Visibilmente poco amorevoli e devoti, ma sbrigativi, impulsivi, egoisti, talvolta per giunta beffardi e spocchiosi, costoro violentano ciò che dovrebbero curare come la propria amata: esse questioni vengono presto risolte in quella che non può essere altro che uno scempio e un’ingiustizia, una non-soluzione che peggiora i problemi e miete vittime, fiera e inconsapevole. Democrazia significa altresì: spiriti nobili gettati in pasto all’opinione pubblica. Soffocati, condizionati, spaventati, governati, ostacolati, amministrati, giudicati, feriti e puniti da essa. Ma che dico! Ogni evento tramite la stampa e il passaparola diviene soggetto a tale opinione pubblica in nome di un “diritto all’informazione” che nessuno si è mai preso la briga di giustificare adeguatamente. L’opinione pubblica diventa lo spauracchio ed il pericoloso giudice con cui ognuno pensa di dover fare i conti: e così è. Nel mondo moderno vige l’Egemonia del Commento. Se fosse calcolabile il tempo che passiamo, immersi nelle nostre faccende, a preoccuparci dell’impatto che daremo sull’opinione pubblica e della reazione di questa, resteremmo sbigottiti. Solo chi è competente ed amorevole nei confronti di una questione, sicché può intervenire su di essa in maniera massimamente benefica, dovrebbe averne le informazioni ed il diritto di gestione. L’opinione pubblica ha acquisito quindi dei diritti che non meritava. È stata data un’arma terribile nelle mani di un incolto marmocchio pidocchioso e perfido. Il principio gerarchico funziona in questo modo: dal basso verso l’alto per esposizione di fatti e ragioni; dall’alto verso il basso per meditazione e finale imposizione, per verdetto e sentenza. Lo spirito nobile infatti è sensibile alle ragioni, le tratta con ogni riguardo e rispetta tutte quelle vere senza indebite discriminazioni, non trascura il reperimento delle prove, l’analisi precisa di quanto è avvenuto e di ogni circostanza accessoria. Non si può richiedere né permettere che questo faccia invece il volgo: esso non ne è capace né desideroso, esso non sa cosa sia la giustizia. Esso va governato e giudicato senza discussione alcuna, senza alcuna sua partecipazione al dibattito se non nel ruolo subalterno di chi deve fornire informazioni necessarie. Anche le “ragioni” cui ho accennato, che il giudice dovrebbe stare a sentire, non costituiscono affatto un confronto dialettico o dottrinario, ma solo un elemento istruttorio rivolto a comprendere la levatura intellettuale, caratteriale e culturale dell’imputato, e per portare a galla altri fatti che facciano inquadrare davvero in maniera corretta ciò che è successo. Inoltre l’opinione pubblica non è stimolata a sviluppare un processo razionale e approfondito, in quanto è irresponsabile legalmente del suo operato, non ha ufficialmente in mano la questione e vi partecipa come di sfuggita, distratta dalle proprie attività ed in modo molto impulsivo ed umorale, spesso animata da niente altro che una curiosità maliziosa, beffarda e crudele; inoltre, essa si appoggia sulla forza del numero, sulla massa brutale. Dunque, l’opinione pubblica possiede di fatto l’ausilio della forza fisica e psicologica, senza che vi sia a giustificarlo alcuna competenza altresì contornata da una precisa ed ineludibile responsabilità. È inconcepibile che ogni individuo debba quotidianamente preoccuparsi dei danni che può ricevere da una manica o marea di cialtroni che vengono a sapere dei fatti che direttamente o indirettamente lo riguardano. La democrazia, il coinvolgimento delle masse in questioni che dovrebbero avere uno specifico gestore e responsabile, diviene altresì uno strumento di qualche soggetto privato per aizzare una massa informe, rumorosa ed agguerrita, il cosiddetto polverone, contro un suo avversario. Quella massa che, essendo poco riflessiva e molto emotiva è nello stesso tempo così difficile e così facile da manovrare, per chi ne abbia gli strumenti.


Un’opinione è come un ordigno pronto a scoppiare. Vi è mai passato per la testa che avere un’opinione sia un atto di presunzione ed altresì l’assunzione di una precisa responsabilità? Ma il mondo democratico ha deresponsabilizzato le opinioni, sputato sulla dignità della conoscenza ed in tale modo ha scavato la fossa all’umanità.

C’è chi un’opinione se la guadagna attraversando selve oscure, inferi, purgatori, guidato da un’istintiva fede e armato di onestà, coraggio, disposizione a sopportar l’ingiusto per arrivare al giusto, ed essa giunge lui come un ormai inaspettato raggio di luce benedetta. Poi c’è chi vivacchia, sghignazza, arraffa, inganna, inquina, violenta, si adegua, svicola, offusca, insabbia, travisa, risparmia, protegge, deturpa, tarpa, banalizza, anestetizza, vagheggia, vaneggia, scoreggia. Ma il principio democratico afferma che le due categorie vanno messe sullo stesso piano ed anzi, se i secondi sono più dei primi (e lo sono sempre) hanno ragione loro. Questa è la democrazia.


È il sistema democratico (plutocratico n.d.t.) alla base di tutto: universalizzando i diritti elitari, annullando ogni gerarchia basata sul merito (competenza + onestà) si getta tutto in mano alle masse, chiunque può occuparsi di qualsiasi cosa. Risultato: 1) la mediocrizzazione della stessa 2) la moltiplicazione dei soggetti politici ed economici in concorrenza (sleale, poiché non ne esiste d’altro genere) 3) spreco immane di risorse e stridore generalizzato 4) braccia rubate all’esecuzione e i pochi cervelli davvero validi, soffocati 5) élites di cinici affaristi che, non diversi dagli altri e solo più furbi, speculano su ogni cosa e grazie ai soldi sono i soli ad essere liberi. Perché è facile approfittare anche degli idealismi deboli e falsi di chi in realtà è un homo oeconomicus (leggasi: materialista) e in generale di una politica che non funziona ed è solo serva dell’economia (privata).
La democrazia fu inventata e sponsorizzata dagli ebrei per arrivare proprio a questo: volgarizzando le funzioni nobili, volte per natura all’organizzazione e dunque coincidenti con le forze politiche, esse sarebbero divenute inefficaci a contenere le spinte individualistiche che stavano traendo potere appunto dalle idee liberali e dall’accumulo di capitale monetario privato (borghesia) da investire in produzioni massificate, sicché le lobby economiche avrebbero soverchiato le autorità politiche, ormai private del carattere nobiliare che le contraddistingue e che si esprime nella conservazione dell’idea nazionale sopra gli egoismi particolari, favorendo dunque la coesione, la gerarchia meritocratica (giammai meramente plutocratica) ed è pronta ad assumersi responsabilità personali con determinazione, cosa che non fanno le assemblee parlamentari che di fatto non rappresentano mai l’intera nazione e presso le quali non spicca mai alcuna personalità davvero eminente.


Vedo migliaia di adolescenti sfilare per le strade e mi soffermo sulle loro scarpe: noto che tutti hanno le Converse. Ci vanno in giro in gruppo: credo sia una forma di Conversazione. Ne vedo un paio che sembra diverso poi noto che è solo una Converse Nikizzata. Vado su Google immagini: dopo i mille modelli c’è una foto del Che con un paio di Converse al posto delle spalle. Su Wikipedia leggo che la Converse è stata acquisita dalla Nike nel 2003 per 305 milioni di dollari. In teoria il buon Ernesto fece una rivoluzione contro sta roba ma loro sono convinti che la stellina che teneva in fronte sia la stessa delle loro scarpette firmate. Sai te l’importanza di chiamarsi Ernesto... Basta religione oppio dei popoli! Vogliamo solo prodotti chimici doc. Un tempo si faceva politica perché andava di moda, e già questo era ridicolo, oggi si è perso ogni remora e si va di moda credendo di fare politica.


Una società può avere dei nemici all’esterno e dei nemici all’interno. Ma poiché anche l’uomo è una società di persone, ossia ha dei componenti, egli può avere nemici all’esterno o anche all’interno. Quando un soggetto esterno cerca di farti dubitare di te stesso, di farti vergognare, di minacciarti rimorso e pentimento, cerca di crearsi degli alleati interni al proprio nemico.


Un uomo di scienza che si appella a Dio ha tremato dinanzi all’abisso.
Ha detto: non ce la posso fare. Ma se davvero egli non è all’altezza di attraversare tale abisso, dovrebbe compiere un atto di umile correttezza, farsi da parte e lasciare che altri proseguano, spiriti più forti e motivati. Anziché mettere staccionate dinanzi a ciò che teme, con su scritto Limite Invalicabile - Pericolo di Dannazione, e proseguire la propria vita aggrappandosi saldamente alle nuvole, fiducioso che la mano del buon Dio lo sosterrà e lo condurrà alla salvezza. L’onnipotenza e l’onniscienza sono il nostro sogno, ed ogni sogno è realizzabile, se anziché sospirare si combatte. Non bisogna pertanto aver fede in Dio, ma nella possibilità di diventarlo. Il cristianesimo sostiene che la fede e non già l’azione sia salvifica: fa questo per giustificare la propria pigrizia e pusillanimità. Ma non esiste fede che non conduca ad una forma d’azione, e non esiste azione che non sia animata da una fede: esse sono dunque sempre sinergiche poiché identiche. Ma la prassi promossa dalle persone religiose ha come caposaldo la fede in un intervento esterno, e non già la fede in se stessi. La retta Fidactio conduce alla salvezza.

Le persone mentalmente limitate, rendendosi conto della propria miseria fanno come la volpe con l’uva e prendono a disprezzare ogni estremismo.

Le persone ancora più limitate, non rendendosi conto della propria miseria, osteggiano come esagerazione tutto ciò che l’oltrepassa.


Le linee comprendono i segmenti: sono i segmenti che non comprendono le linee.


L’arroganza dell’uomo sta nel porsi a misura delle cose. Nel sottrarsi al relativo per essere assoluto. Tale arroganza è paradossalmente figlia del principio di uguaglianza: solo se fossimo uguali, infatti, le cose potrebbero essere assolute, ossia ugualmente soddisfacenti per ognuno. Ma essendo tutti uguali, ognuno potrebbe imporre il proprio metro come assoluto: non fosse che non ci troviamo mai d’accordo proprio perché siamo tutti diversi col nostro metro personale. L’uomo non è dunque misura delle cose. Semplicemente, certe cose sono fatte su misura per un uomo e quell’uomo è fatto su misura per esse.


Non è giusto che un codardo insegni la prudenza a un coraggioso.
Non è giusto che uno stupido insegni la modestia a un intelligente.
Non è giusto che un conformista insegni l’ortodossia a un creativo.


I forti devono rispettare i deboli soltanto se anche i deboli rispettano i forti.
Ma perché questo avvenga, dove stia la forza e dove stia la debolezza deve essere chiaro come il sole. Il seguito è un corollario: chi deve insegnare e chi deve imparare, chi deve stare in una classe e chi deve stare in un’altra, chi deve rispettare certe regole perché ne ha bisogno ed esse si confanno alla sua condizione, e chi non deve invece averle tra i piedi perché non ne ha bisogno o è addirittura in grado di scolpire regole nuove cui nuove reclute si assoggetteranno. Deve essere chiaro chi è il malato e chi è il dottore, ammesso che sia colui che gareggia in una corsia a dover istruire quelli della corsia inferiore affinché si elevino. Può non fare parte del suo lavoro, può non essere il suo dovere. Nell’intervento sui problemi del prossimo è necessario porre delle regole che minimizzano il danno cosmico delle nostre scelte, nel quale rientra anche il nostro personale. Io devo aiutare qualora 1) Io sia la persona in grado di farlo al meglio 2) Quell’uomo meriti la mia dedizione 3) Il danno che ne ricevo io e tutto ciò che dalla mia salute dipende non sia superiore al giovamento che ne riceve lui e tutto ciò che dalla sua salute dipende. La meritocrazia non esclude la solidarietà, bensì la ingloba, in quanto bisogna essere all’altezza di essere aiutati ed anche all’altezza di aiutare, indi per cui non tutti hanno il diritto-dovere di essere aiutati e non tutti hanno il diritto-dovere di aiutare. Ma se una persona difettosa, anziché chiedermi di correggerla, si mette con arroganza a dire che sono io che sbaglio e mi guasta con la sua sgradevolezza, mi inquina con i suoi pensieri bassi e viscidi, mi logora e appesantisce con la sua mediocrità, mi rallenta e mi tedia con le sue regole, osservazioni, rimproveri e concezioni limitate nelle quali vuol far rientrare le mie che sono più grandi, io, questo, non lo posso accettare.


Sembra che l’etica non abbia ancora saputo risolvere il seguente problema.
Ci sono sei persone in una stanza con una finestra. Tre di loro dicono che hanno caldo, le altre tre dicono che hanno freddo. Bisogna aprire la finestra? Si possono inventare tutte le ragioni del mondo per dire quale dei due gruppi debba essere sacrificato. Ma la risposta è che tre di loro devono lasciare la stanza, in quanto il sacrificio non è cosa buona in nessun caso. Due gruppi di persone con esigenze differenti si erano ritrovate indebitamente nello stesso luogo. A questo punto, se una soluzione immediata non è accessibile, ossia le tre persone che devono andarsene non possono raggiungere la locazione predestinata senza che questa operazione di rimedio non sia una pezza peggiore del male, si dovranno sacrificare coloro, la cui soddisfazione contingente è meno proficua per il cosmo: in sostanza la fazione meno importante, quella, il cui sacrificio ha un costo inferiore. Ma quel sacrificio ormai necessario andrà ripagato dall’intero sistema, e gli elementi della realtà che avevano imposto la compresenza di persone eterogenee nella stessa stanza, che non poteva soddisfare tutti, andranno rimossi dai loro ruoli affinché la cosa non si ripeta.


Le questioni etiche non si sono sviluppate gran che nel corso dei secoli. Puoi parlare del cesso della scuola o delle turche dell’impero romano, ma la merda è la stessa. Un giorno il mio maestro di musica riassunse la mia personalità dicendo che io, se c’era un chiodo su un pianoforte, mi ostinavo a dire che c’era un pianoforte intorno al chiodo. Sarà che il pianoforte era il mio chiodo fisso ma non mi sono mai tirato fuori da queste questioni. Ora un chiodo può dar fastidio, ma un pianoforte ne regge bene il peso. Se tu sei un chiodo e sei riuscito a sostenere il peso di un pianoforte senza spezzarti né arrenderti, la gente vorrà suonare la musica del futuro con corde forgiate nel tuo metallo.





LA SCALA DELL’AMBIZIONE


Il vantaggio di voler essere poco è di poterlo essere subito

Il prezzo di voler essere molto è di essere poco per molto tempo

Il prezzo del voler essere tutto è di non essere niente per un’eternità





Sicché ti dicono: te la sborri con la tua cappella superiore? Vallo a fare sotto la cappella degli inferiori! Così ti taglieranno i testicoli impedendo al tuo genio di propagare la sua genia, o per lo meno te li strizzeranno talmente forte che metterai al mondo solo figli deboli, e non prodi rappresentanti della virilità futura. Essi non concepiscono la solitaria attività intellettuale poiché sono uomini applicativi cui la democrazia ha raccontato che tutti insieme possono anche essere creativi. Attribuiscono, così, grande potere euristico al dialogo, in un residuo di ingenua grecità, illudendosi che un convegno mercanteggiante di piccoli scrigni pieni delle più comuni monete possa ad un bel momento produrre qualche nuova valuta, e dal momento che la solitudine giammai arriderebbe loro altro che il gelo della paralisi, declinantesi in noia e paura, suppongono che così debba essere per chiunque, ed allora bollano l’attività di un pensatore solitario come un ciondolio irresoluto o miserevole giramento di pollici, per giunta accompagnato dalla vera bestia nera di tutti i mediocri, quella cosa assolutamente insopportabile che si chiama presunzione. Dal momento che tra stupidità e intelligenza non colgono la differenza, perché per farlo bisogna appartenere al secondo gruppo, essi danno per scontato che chiunque si presenti come diverso dagli altri lo faccia per avere degli sconti che non merita, sicché quella che deve scontare è innanzitutto una pena per questo affronto. Gli uomini la cui anima non trascende il piano personale non possono infatti che equiparare il concetto di intelligenza a quello di furberia, e qualora notino che qualcuno non è furbo, pensano che non sia nemmeno intelligente, senza poter vedere che i colpi che costui perde nelle angustie dei loro sentieri son dovuti all’infausta intersecazione tra essi ed una strada maestra di cui egli conosce la destinazione ma alla quale deve costruire lo spazio vitale, contro le volontà imperiose di un mondo che verge in altra direzione.

Quando si accorgono che effettivamente costui prende a comportarsi in modo fattualmente insolito e che sembra davvero persistere in quella direzione, cosa fanno?

Dapprima essi rifiutano di pensare che costui abbia davvero accettato la sfida che nessuno di loro avrebbe mai osato avvicinare. Quando cominciano a rendersi conto che le sue intenzioni sono serie, forse sono ancora in tempo a dissuaderlo e non già per il suo bene ma per paura che un individuo determinato a tal punto verso una cosa così insolita debba avere sul serio qualcosa di eccezionale, sicché possa ad un bel momento arrivare a destinazione: allorché non gli resta che la bramosia di fargliela perdere, questa sfida, con tutte le armi del repertorio storico. Ed essi vorrebbero ben inventarne di nuove, se necessario: ma per fare questo dovrebbero aver con lui una parentela geniale che invece non possiedono, sicché la maggior parte di loro non riescono ad essere originali nemmeno nel servire il Male …

Tutti gli inferiori possono dunque avere tre motivi per detestare il filosofo, per considerarlo un nemico

a) che proprio non lo capiscono b) che lo invidiano c) che lo temono


QQuesti stadi esprimono la scala ed il livello massimo di comprensione che egli può sperare di ricevere dal prossimo, se ve ne fosse un quarto, la sua conseguenza sarebbe


d) che lo amano ...


Ma esso non è raggiungibile che da quella posterità cui la sua vita eroica deve spianare la strada.


Del filosofo essi ignorano o disconoscono totalmente, per mancanza di natura e dunque di esperienza analoga, precisamente i tre elementi che lo caratterizzano e che, se non fossero merce così rara, e rifiutando di essere venduta al mercato, lo vedrebbero come una figura rispettata in vita e non solo glorificata dopo la morte.

1) La sua irremovibile onestà verso la ricerca del vero e la dedizione costante che ne consegue, disposta ad affrontarne conseguenze terribili 2) Il vortice di passioni conflittuali che accompagna la vastità intricata dei suoi autonomi pensieri, quelli che sorgono orbene da qualsiasi circostanza, anche la più infausta in cui la vita lo abbia costretto e che stoicamente difendono il loro nucleo, smanioso di svilupparsi, anche in condizioni di estrema oppressione esterna ed ambientale disturbo, ma che prendono appunto il largo, con stupefacente energia e rapidissimi progressi, proprio allorché si disincagliano dai vincoli della vita comune 3) Il significato dei pensieri che costui concretamente sforna, allorché decidono di bollarli sprezzantemente come masturbazioni mentali.

Precisamente essi non sanno che i figli spirituali provengono ben dall’onanismo e non dai rapporti di coppia e tantomeno dall’abbandono orgiastico. Questi ultimi andrebbero invece definiti atti impuri. Per figliare, non deve altro il filosofo che farsi le seghe allo specchio. Nulla infatti lo eccita quanto la sua stessa immagine, e mai potrebbe provare un piacere maggiore da contatti con persone estranee. Ora, solo il piacere genera l’amore, e solo l’amore la fertilità. Essendo egli stesso un concentrato del mondo, riconoscendosi dunque in ogni conflitto che deve trovare in lui, dopo la sua maturazione che si compone di Bandiera e Spada, l’esempio direttivo per risolvere se stesso, e non consistendo il piacere in altro che nella dissoluzione di un conflitto, operato da un personale atto di disgiunzione o congiunzione, egli può in sostanza e per restare in forma masturbarsi ovunque sentenziando ciò che vede poiché sentendone il falso ne possiede anche il vero, senza dunque che la cosa debba suscitare scandalo, biasimo, o riprovazione. Ma tali cose hanno ben una doppia ragione. I) Innanzitutto la massa comprende solo i fatti e non le idee e dunque riconosce il valore del filosofo solo a posteriori e indirettamente, dopo che le sue idee sono diventate rivolgimenti politici ad opera della prossima generazione che, a partire da una cerchia ristretta in grado di comprenderle al cui apice sta comunque un sol uomo (essi non erano in grado di pensarle da soli ma nella forma concretizzata di un testo scritto riescono invece a vederne l’applicazione politica) hanno attuato un cambiamento concreto che (per questo stesso fatto) le ha rese apprezzabili anche da chi era di un secondo gradino inferiore: quest’ultimo a sua volta ne ha tratto un mutamento concreto che renderà quelle idee visibili e (qualora positive) apprezzabili anche dal terzo grado di subalternità spirituale, e così via sino a che tutti, anche colui che non ha la minima capacità volatile e comprende solo la terra che ha sotto il naso, accetterà la nuova filosofia. II) Una seconda ragione è la funzione che assumono i falsi filosofi al potere nel fornire anche al popolo ignorante un simulacro della filosofia (analogamente al caso superiore, apprezzata solo perché divenuta concreta) nell’attività che loro svolgono, il che contribuisce ad aduggiare in un nero d’infamia colui che, da vero filosofo, oltre a svolgere una attività che non viene apprezzata dalla gente nel genere, pretende anche di farla fuori da quel contesto di concretezza (dunque influenza sulla realtà) che le viene assegnato a livello istituzionale.

Questi signori possono essere irritati dal constatare che uno spirito eletto in una passeggiata in collina possa ottenere più conquiste sul terreno della verità che non in dieci anni una intera istituzione ruminante all’infinito testi altrui, tarata dall’obbligo implicito e dall’impossibilità psichica dei suoi aderenti di mettere in discussione il sistema presente e dunque la filosofia dominante, intrinsecamente quindi oppure estrinsecamente incapaci di alcun vero progresso, mimanti per mestiere e per immagine un improbabile interesse a produrre opere innovative che poi si rivelano immancabili nella noiosità, nel conformismo, nella fedeltà alla causa della falsificazione del vero che dalla riconferma del passato si declina poi nella lettura di un presente nel quale i cattivi devono alla fine avere sempre lo stesso nome che hanno avuto dal giorno in cui questo sistema si è affermato, una istituzione peraltro già impegnata nell’insegnamento di conoscenze ancora inesistenti a persone assoldate o comunque ammesse senza criterio selettivo allo studio della più elitaria delle discipline, laddove qualsiasi altra, pur meno aristocratica ma che necessita di produrre dei risultati validi, presenta giustamente progressivi livelli di scrematura degli inadatti.

Una cosa sia chiara una volta per sempre: nel mondo della cultura ed in tutte le culture del mondo, tutti i progressi sono personali e le applicazioni, solamente, collettive. Inoltre, a nessun uomo autosufficiente passa per la testa di cercare alleati, dacché si troverebbe in ultima istanza a spartire più la gloria ed il bottino che non il lavoro utile, sobbarcandosi altresì le inevitabili noie inerenti a qualsiasi sodalizio, nel quale giammai regnerà un perfetto accordo tra le parti. Perché un tale accordo ci fosse, dovrebbe trattarsi di due persone assolutamente identiche, ma in questo caso nessuna potrebbe aiutare l’altra e allora perché fare in due quello che si può fare da soli senza detrimento? Infatti non avrebbe senso clonare un genio – e definiamo Genio la capacità di creare cose nuove – bisogna clonare solo quegli individui destinati ad eseguire un compito che presuppone la quantità oltre che una determinata qualità: e tali non saranno mai compiti creativi, ma sempre e soltanto applicativi.

Da tutti possiamo ricevere nozioni. Unicamente da un fratello maggiore possiamo ricevere Insegnamenti: ossia la personale valutazione di un oggetto, che si esprime in un giudizio nella teoria ed in una azione nella pratica. Da nessun diverso è possibile imparare qualcosa che non sia la sua diversità: epperò anche questa non la impariamo da lui, ma dal conflitto spontaneo, per quanto talvolta mascherato o sottovalutato, che sia crea nel contatto. Dai nostri simili possiamo trarre lezioni di psicologia: giovare quindi della luce portata in noi da esperienze loro, che sarebbero state esattamente le stesse in noi, se ci fossimo trovati nelle medesime circostanze, in quanto è lecito dire che i nostri nervi trasfondano nel corpo del fratello, di modo che, quando egli parla, sentiamo quel che dice, riusciamo ad immaginare ciò che ancor non abbiamo direttamente visto: ma di più,
a commuoverci dei suoi stessi sentimenti, approvare dunque le sue mosse quando fossero state vincenti, angustiarcene quando non lo sono state per quella che sentiamo subito essere una mancata pienezza, una debolezza contingente, dunque, del corpo o della mente, e nessuna diminuzione di stima investe quindi il nostro simile: mentre detesteremmo una reazione non conforme, compiuta da un altro, in maggior misura quanto più essa sia stata energica, e non perdoniamo un suo fallimento poiché non proviene da volontà che rifiuta il danno ma da contingente debolezza che non può perpetrarlo: egli resta, in ogni caso, un malvagio. Se noi siamo in qualsivoglia contatto fisico con il protagonista dell’azione, e sia egli un fratello, le sue parole sono sufficienti a descrivere quel che non possiamo direttamente vedere, in quanto noi viviamo in lui. Mentre se siamo in contatto fisico con un diverso, dobbiamo saper che le parole con cui egli descrive la realtà osservata sono tanto più lontane da essa quanto più lo siamo noi, intrinsecamente, da lui, e qualsiasi cosa egli descriva, l’oggetto che egli denoti, lui invero la coscrive, la connota, ossia vi pone qualcosa di suo, la elogia o la bistratta, la svilisce o l’innalza, la mutila, l’intarsia, la deforma, l’accoglie o l’attacca, insomma essa rappresenta per lui un bene oppure un male di determinata specie e grandezza, il cui reale valore nei nostri confronti noi possiamo calcolare solo tramite il fattore di conversione. Quando la difformità dal non fratello è ben percepibile, tramite contatto diretto, noi dubitiamo immediatamente di qualsiasi cosa egli stia dicendo su una cosa qualsiasi, ed anzi il fattore di conversione, il nostro livello di avversione da lui, ci porta a simmetrizzare ogni suo giudizio e dunque, stia egli elogiando qualcosa, noi ce ne allontaniamo istintivamente come cosa infida, sospetta, negativa, di basso valore, mentre, la stia egli invece vituperando, ci sentiamo attratti da essa nella medesima misura, diventiamo dei simpatizzanti dell’elemento bistrattato, non conosciuto direttamente ma costruito per antinomia al soggetto percepito ed inviso, dacché il bisogno del suo opposto è contenuto nella nostra forma a priori che brama di essere riempita: nasce allora il desiderio, che in ambito conoscitivo si chiama curiosità, di attingere a nuove fonti, questa volta affidabili, poiché affini, o perché no, al contatto diretto. Dai fratelli possiamo avere consigli affidabili su cosa cercare, cosa vivere ed assumere con avida sicurezza, e da cosa invece guardarci con la massima cautela. Mentre i dissimili ci spronano inesorabilmente ad andare incontro alla nostra rovina, e nondimeno a privarci di qualcosa di benefico. I dissimili vedono quel che serve loro e quel che loro nuoce: altro non serve. Nessuno spreca, ordunque, energie inutilmente. Essi consigliano quindi ad amici e nemici sulla base di ciò che a loro è piaciuto o dispiaciuto: per istinto, quell’istinto che vuol uniformare tutto a sé, et pereat mundus, sicché non deve preoccuparsi di adattare le sue ricette al nemico. Già per rendersi consapevole di ciò che questi voglia, egli deve in lui immedesimarsi, dunque farsene invadere almeno le superfici, come vengano intaccate da una colonia di molluschi di cui sentiamo ora le brame contrapposte alle nostre, grazie a questo fastidioso ma lungamente insopportabile contatto: un’esperienza, dunque, l’Immedesimazione, irrazionale per definizione ed ottenuta solo a partire da un attacco fisico, che in questo caso ha indebolito e penetrato le difese mentali. La Ragione infatti non è altro che il nostro sistema immunitario che cerca di scalzare via ed espellere gli intrusi: dunque l’immedesimazione, quale ossimoro degli ossimori, è un procedimento fallace a priori ed impossibilitato quindi a presentare un esito che sia diverso dal finale rifiuto del prossimo, con tutti i giudizi e le reazioni che la sua colonia abbia innescato suggendo temporaneamente le nostre sostanze, ed il corrispondente ritorno alla nostra identità originaria, la quale, di nuovo posta in contatto con l’oggetto esterno, rivendicherà e cercherà di imporre le sue proprie reazioni. Nessun essere, in natura, cerca di immedesimarsi nel prossimo: ciò è una perversione dell’istinto che si innesca solamente tramite una fattuale contaminazione col prossimo, precedentemente avvenuta, e che cessa completamente allorché quella sia terminata. La natura invece sa benissimo, quanto al prossimo, come sia bene ch’egli si avveleni con ciò che invece noi è grato, e che si deprivi di ciò che noi arricchisce e giova. I limiti dell’uomo sono quelli della sua psiche: la vastità, la pervasività, la finezza della sua Sensibilità. Tali sono anche i limiti della psicologia che gli sia comprensibile, in quanto assimilabile. Parlando con un fratello che abbia affrontato il mondo in piena salute noi capiremo il significato di ogni vocabolo e lo gradiremo, e correggeremo il verbo debole di un fratello, degli che è forte per definizione, assolvendo e perdonando lui. Fuor dalla Psicologia, non si studia più l’uomo ma i rapporti tra gli uomini e si entra dunque nel campo della Sociologia, la quale ha regole proprie, cosiccome ne ha la fisica rispetto alla chimica, che studia le relazioni tra i corpi senza entrare nel merito della loro intima natura e composizione. Non mai dai nostri dissimili, ma dal contatto con loro, elaborato dai noi stessi, possiamo trarre lezioni di sociologia, disciplina che nella sua compiutezza diviene l’arte della guerra di Sun Tzu, il cui caposaldo è che si impari a riconoscere, infallibilmente e con la massima rapidità, un nemico da un amico. Se l’autore di un libro è un tuo nemico, non puoi imparare dal testo, e solo invece dal contesto. Il contesto infatti è assimilabile: perché tu puoi imparare a porre l’infame dov’egli possa esistere senza nuocerti, ed anziben farti del bene. Il testo invece, come promanazione e prodotto di un diverso, su di un tema che tu stai affrontando come rappresentante di una specifica identità, non è assimilabile: in definitiva è assolutamente inutile. Quando senti un uomo parlare di un argomento qualsiasi tu devi, senza eccezione, farci la Tara. La tua deve essere una pseudo soggettiva in cui si distingue bene colui che parla ed il modo in cui parla di un oggetto che si trova altresì sotto il nostro diretto sguardo. Noi non dobbiamo in sostanza mai pendere dalle labbra di un nemico che non abbiamo precedentemente riconosciuto come tale ed immobilizzato acciocché possa parlare senza nuocere, e noi possiamo eventualmente evincere in maniera indiretta, dalla sua voce e dal contesto, e pensando infine il contrario di quel che lui dice, una verità che non abbiamo empirica sotto gli occhi.


Una cosa è la testa, un’altra l’esperienza. Ci sono errori che tu puoi evitare perché sei intelligente, altri che puoi evitare solo perché sei esperto. Se li c’è una porta e tu non sai cosa c’è dietro, puoi solamente aprirla e sperare di essere fortunato. Un ragazzo che non sa, non importa quanto sia sveglio, deve fidarsi del consiglio di una persona più matura che sola può distoglierlo da una strada funesta o indirizzarlo verso una fruttifera. Ma questa sarà in grado di valutare ciò solo se affine al ragazzo al quale azzardi donare la responsabilità di un consiglio. Quel che è stato buono per lei, non è detto non sia cattivo per altri. Quanto è stato cattivo per lei, non è detto non sia buono per altri.
E alla differenza di percezione non è saggio addurre la complicazione del ragionamento. Se due persone guardano un oggetto e una dice bianco l’altra dice nero, la seconda può illustrare con estrema chiarezza alla prima cosa abbia intenzione di fare con quell’oggetto nero in virtù della sua negrezza ossia trarne delle conseguenze: la seconda dirà comprendo il tuo ragionamento (ossia percepisco l’insieme delle tue proposizioni come coerentemente contrastante con la mia visione del mondo) ma quell’oggetto è bianco (quindi le conseguenze dovrebbero essere diametralmente opposte, e più precisamente tu le passi in rassegna, più cresce la mia ostilità verso di te). Quando si parla di visione del mondo, si parla delle fattezze della propria anima, della propria identità, della propria razza: ed ogni visione parziale sarà tanto distante da quella del prossimo, quanto distanti sono le visioni globali. Chi non è d’accordo sulle cose grandi non è d’accordo neanche su quelle piccole. Chi non è d’accordo sulle cose piccole non è d’accordo nemmeno su quelle grandi.
È possibile mettersi d’accordo? No…


Gli uomini differiscono per Qualità: ossia per quantità percettiva. La quantità percettiva è il numero di elementi fisici esterni ai quali un uomo è in grado di reagire grazie alla presenza di un recettore interno ossia un rappresentante. Un giudizio oggettivo è dato dalla persona il cui numero di recettori pienamente funzionanti è pari al numero di elementi di cui è composto l’oggetto esterno. Il giudizio oggettivo (ovvero giusto) resta nondimeno soggettivo (e nondimeno giusto laddove vinca) perché attua una reazione personale, positiva o negativa che interviene sull’oggetto. Non devi solo avere ragione su un oggetto, devi anche avere ragione di lui, ovvero intervenire con successo secondo il tuo bisogno, secondo il bene o il male che esso rappresenta per te. Se tu sei nella debita posizione sociale e sei nel pieno delle tue forze, sia la tua percezione che la tua reazione saranno vincenti, perché chi detiene una forza percettiva maggiormente completa ha anche a disposizione una schiera più completa di elementi che organizzandosi accerchiano, combattono e distruggono un oggetto nemico, o che più perfettamente lo accolgono nel proprio essere, lo comprendono, lo assimilano.
Quando si apprende un nuovo concetto utile, ne si esaurisce il potenziale positivo applicandolo a tutti gli altri concetti già positivi che compongono il nostro sistema mentale: questo è ragionare.
Un ragionamento è un aggiornamento del nostro sistema operativo con una sua versione maggiormente evoluta. Quando l’istallazione è completata, la struttura organica dei suoi strumenti reagisce automaticamente, dunque istintivamente, ad un tempo, trattando un nuovo dato empirico che le venisse sottoposto. Quando la reazione è lenta, quando appunto dobbiamo ragionare sul dato empirico anziché giudicarlo (reagire) immediatamente, è perché il nostro sistema nervoso (ovvero immunitario) non era uniforme, non era completamente aggiornato, abbiamo elementi variati che rispondono differentemente: quando i vecchi sono più numerosi, quando dunque il sistema vecchio è quello maggiormente consolidato, l’organismo (gli strati più antichi del nostro cervello…) sceglie di lasciare gli aggiornamenti in attesa, racchiusi in una locazione, una scatola compatibile col vecchio programma e di affrontare il problema con quest’ultimo – mentre, se la sostituzione è già in corso avanzato ed ha investito elementi di basilare gestione, sono adesso questi che operano tenendo a distanza l’oggetto esterno mentre si completa l’istallazione dei pezzi mancanti. Gli uomini più percettivamente deboli, ossia manchevoli di alcuni recettori, non possono rendere giustizia a quell’oggetto, ossia sistematizzarlo con oggetti affini. Essi lo brutalizzeranno, lo frantumeranno pigliando di esso solo gli elementi che loro interessano, diminuendone orbene il potenziale allo stadio di persone grezze, oppure lo annienteranno, non potendone cogliere il valore positivo, ma solo quello a loro negativo. Dunque i vari oggetti sono suddivisi in classi di complessità: e la classe superiore, nel suo complesso, distrugge infallibilmente la classe inferiore in un confronto paritario, perché avente una maggiore organizzazione. Analogamente il singolo appartenente alla classe superiore distrugge l’elemento della classe inferiore in un testa a testa. Chi è dunque più sensibile è anche più forte, e chi percepisce meglio, ragiona (ovvero lotta) anche meglio, e può essere sconfitto solo dalla superiorità numerica, ovverosia un sistema inferiore può sconfiggere un elemento superiore, che gli darà comunque del filo da torcere. Gli uomini di stampo inferiore hanno delle percezioni incomplete, selettive, limitate agli elementi che servono la loro economia interna, i loro bisogni: di conseguenza tagliuzzano ogni oggetto dei suoi elementi maggiormente nobili ossia reggitori di una civiltà, di un livello di organizzazione maggiore. Essi non hanno per loro la minima funzione: sono inutili, dunque spregevoli, dannosi. Sono degli sfruttatori, delle palle al piede, dei fastidi. Questo tipo di uomini hanno parimenti una logica elementare, perché mettono a sistema solo quelle quattro cose che percepiscono, e la capacità difensiva che corrisponde a queste operazioni logiche, lo strumento con cui si traggono d’impaccio, è quella cui ci si riferisce con il termine grossolanità o maniere spicce. Anche i membri di una civiltà primitiva, tuttavia, sono capaci di riconoscere i reciproci ruoli, di agire come corpo unico e dunque di rispettarsi gli uni gli altri per il ben comune: tratterebbero però il membro di una civiltà superiore come un nemico. Egli non li arricchisce: li molesta. Chi può creare una civiltà, procede autonomamente nel farlo: si possono portare ad un popolo nuovi strumenti adattabili al loro sistema di vita, non sistemi di vita superiore, gli si possono fornire oggetti, non sostanze. È la questione della Razza. Le persone, ed i popoli, possono essere completati: giammai elevati. L’inchiostro rosso e quello nero non sono compatibili, ed il rosso ed il nero non molleranno la propria penna di qualsivoglia cosa stiano parlando: il primo tratto urta lo sguardo dei secondi, il secondo quello dei primi, e non vi sarà conciliazione. L’inchiostro nero è più nobile ed i nobili sono sempre stati anche ricchi, sebbene non lo divengano mai oltre la necessità, se davvero nobili sono, e non sottraggano mai il pane di bocca a chi ne abbia bisogno. Il loro inchiostro scintillerà di più infastidendo lo sguardo dei rossi e dirà cose più complesse orbene più grandi, che quelli non vorranno stare a sentire. Non vi sarà accordo…
Ed immaturo è il fascista che sostenga il comunista starebbe molto meglio sotto il fascismo che sotto il comunismo…è falso. Il comunismo è una forma di società effettivamente buona per una determinata razza. L’operaio fascista è felice sotto il fascismo perché ne condivide la razza fondamentale anche se il suo rango non è quello dei capi. Confondere Razza e Rango è un errore fatale. Uomini di diverso rango ma stessa razza non faticano a mettersi d’accordo, orbene a disporsi. Uomini di stesso rango e diversa razza si detestano. Uomini di razza e rango differenti non si possono letteralmente sopportare. In Germania non ci fu la Resistenza perché paese dotato di maggiore uniformità razziale. In Italia molti non vedevano l’ora che si verificasse una invasione per poter voltare la gabbana: non erano felici, non lo erano mai stati, dunque non potevano essere fedeli: erano stranieri in patria. In qualche modo avevano il diritto di fare ciò che hanno fatto perché il Diritto non è altro che l’istinto a difendere la propria razza. La Patria di un uomo è l’insieme degli elementi della stessa razza. Non si può sperare in un successo fino a che si è promiscui.

Ci interessa comprendere solo ciò che vogliamo fare.

Possiamo fare teoria solo della pratica.

Ma al filosofo interessa fare anche la teoria della pratica teorica

dunque egli vuole comprendere più cose, poiché sente il bisogno di fare più cose.

Dunque anche la teoria è una pratica, che però ha significato solo in rapporto alla pratica, ossia al suo livello più basilare, cui a questo punto possiamo annettere innumerevoli altri livelli, il cui quantitativo di concretezza si fa sempre più esiguo per lasciar spazio al linguaggio.

La pratica dunque è sempre il punto di partenza, e dal momento che essa è stata, nelle arene di battaglia della vita, imperfetta, ci ha provocato dei traumi che hanno lasciato in noi delle insanità. Ecco che noi facciamo tesoro di questo residuo scomodo che dovremo rendere al proprietario, in modo che il colpo messo a segno dall’ambiente esterno su di noi rappresenti adesso, grazie alla nostra bravura, il suo punto di debolezza: perché ci ha informati su di sé proprio immettendo in noi un campione delle sue forme, non manchevole di quel che servirà, acquisitone gli strumenti, a sconfiggere l’intero. La forma più forte della conoscenza è l’azione, la forma più debole dell’azione è la conoscenza. Se noi disponiamo della nostra pienezza energetica, ci esprimiamo solo con le azioni, non con le parole. Quando diciamo: non dirlo, fallo! Oppure: non pensarlo, dillo!

La persona destinata ad essere più saggia ed infine più vincente è quella che ha ricevuto la quintessenza di tutte le sconfitte possibili, tralasciando un superfluo che, inutile ad aumentare la teoria, non ci può aiutare nella pratica.

Un uomo che ha sconfitto verbalmente un nemico, egli ha coniato una bella parola.
Un uomo che ha sconfitto materialmente un nemico, egli ha coniato una buona azione.
Ma dacché alla costruzione del linguaggio (codificazione e dunque generalizzazione) contribuiscono persone di ogni risma, ne consegue che ogniqualvolta gli elementi più volgari assumono il potere e divengono legislatori, anche le persone più capaci sono costrette fin da piccole ad imparare a parlare da chi giammai fu abile di lingua, cosiccome ad agire da chi giammai fu abile di spada. Le brutte parole non son altro che parole inefficaci, e niente che non funzioni può esser definito bello, mentre se funziona, sarà anche bello nella medesima misura. Quando una maestrina di scuola rimprovera l’alunno sentenziando che l’espressione è bella ma tuttavia non corretta, non fa altro che manifestare la propria bassezza oppure la propria sudditanza ad una norma che lei per prima non condivide: si è trovata a dover insegnare come si parla e non a parlare.



Filosofia del linguaggio


Funzione del linguaggio nell’ottica individualista. Per dominare gli oggetti pare che abbiamo innanzitutto bisogno di dar loro un nome.

Il significato di quello che stiamo facendo è quello che stiamo facendo.

Cfr. wittgenstein Il linguaggio è la totalità dei fatti

Dal dizionario Treccani:

fonèma s. m. [dal fr. phonème, e questo dal gr. ϕνημα «espressione vocale», der. di ϕωνω «produrre un suono»] (pl. -i). – In linguistica, ogni elemento sonoro, o unità elementare, del linguaggio articolato, considerato sotto l’aspetto fisiologico (cioè della sua formazione per mezzo degli organi vocali) e acustico. Più in partic., nella linguistica strutturale, l’unità fonologica minima di un sistema linguistico, ossia un segmento fonico-acustico non suscettibile di ulteriore segmentazione, dotato di capacità distintiva e oppositiva rispetto alle altre unità, in quanto costituito di coefficienti acustico-articolatorî detti tratti distintivi o pertinenti (per es., in ital., un tratto pertinente è la sonorità in quanto differenzia p e t, «sordi», da b e d «sonori»).


Il linguista parla di capacità distintiva e oppositiva di una unità linguistica rispetto alle altre. Senza queste capacità appare arduo parlare di linguaggio. Il linguaggio è dunque qualcosa di bellico, costituito di ruoli organizzati verso uno scopo. La dispersione linguistica è l’anarchia. La dissoluzione dei ruoli, della gerarchia; l’intercambiabilità o casualità dei ruoli che ogni parola, come ogni oggetto, assumono all’occasione, verso il labile scopo del momento. Ipotesi sulla fine del linguaggio corrispondente alla realizzata stasi del mondo: se tutti hanno un solo scopo non v’è più scopo in quanto esso presuppone la conflittualità. Che le parole abbiano un solo significato significa che abbiano una sola funzione verso uno scopo.


Storia del linguaggio: cosa succede quando diamo ad un oggetto un nome? Quale atto compiamo realmente in quella circostanza?


La discriminazione è insita nel nostro linguaggio ed anzi ne è il principio primo. Dare un nome ad un oggetto significa in primo luogo distinguerlo dagli altri. L’identificazione è un processo di distinzione: non si può impunemente confondere due enti. Sentivo alla televisione la cronaca di un scontro in cui era rimasto ucciso “un cinese”. Pensai che fanno tanta propaganda contro le disuguaglianze e poi identificano preventivamente un individuo dalla sua nazionalità: non potevano semplicemente dire “è morto un ragazzo”, senza specificare se cinese, senegalese o americano? Il dato di fatto su cui ci si basa è la morte: “c’è un morto”, questo il punto di partenza. Ma se anche avessero detto “è morto un ragazzo” avrebbero già fatto una duplice discriminazione, in quanto sarebbe stato diverso dire che era morta una ragazza (discriminazione sessuale) oppure che era morto un uomo di mezza età (discriminazione anagrafica). Allora avrebbero potuto dire “è morto un essere umano”, ma anche in questo caso si avrebbe avuta una discriminazione in quanto si distingue la morte di un uomo da quella di un animale. Allora avrebbero potuto dire che “un essere è morto”, e ci sarebbe stata ancora la discriminazione numerica in quanto l’articolo indeterminativo sancisce che un essere morto è diverso da due esseri morti o da cinque esseri morti o da mille esseri morti. Risalendo lungo il grado di generalità, non si riesce comunque ad eliminare le discriminazioni ed anzi, queste diventano sempre più radicali, sancendo quindi delle differenze sempre più significative: infatti c’è più distanza tra un animale ed una pianta che non fra un cavallo ed una mosca. Ma tornando all’esempio del cinese, il discriminante nazionalistico o etnico non è affatto ininfluente, al contrario ci dà delle preziose informazioni per reagire all’evento della sua morte nella maniera più opportuna. Se sono state correttamente forgiate le parole che indicano la nazionalità, ciò significa che corrispondono a delle differenze reali, che come tali devono essere apprezzate, senza fare alcuna confusione. Essere cinese ha delle conseguenze. E diverse ne ha l’essere americano. Ma non ci basta sapere che si tratta di un cinese. Dobbiamo sapere anche se è maschio o femmina, poiché non è la stessa cosa. Sarebbe quindi opportuno sapere anche quanti anni ha. Poi dove vive, a quale estrazione sociale appartiene. E tutto questo rappresenta solo un’indagine estremamente superficiale per poter sapere come comportarsi nei confronti dell’evento accertato del suo omicidio. Dovremmo conoscere la personalità di questo ragazzo, i suoi precedenti, il suo passato, nonché le abitudini del suo presente. Ma tutte queste ed altre caratteristiche sono implicite nel suo Nome. Se sappiamo il nome dovremmo sapere tutto di lui. La sua identità è fissa o cangiante? Questo è un nodo centrale. La nostra storia, ovvero la contaminazione con altri esseri, ci cambia. Propriamente cambia la struttura di quell’essere collettivo chiamato Mondo, in quanto si intesse una nuova rete di relazioni tra i soggetti che lo compongono. L’indagine che si fa sul ragazzo cinese deve essere fatta anche sulle persone che lo hanno ucciso, per la stessa ragione che non c’è un fattore ininfluente e pertanto trascurabile, e dal ragazzo cinese e dalle persone che lo hanno ucciso si deve invero risalire a tutte le persone ed anzi le entità che hanno avuto con essi una relazione, poiché sappiamo che nessun fenomeno è isolato dagli altri. Si deve conoscere cioè la Storia del Mondo, da qualsiasi evento particolare si voglia partire, al fine di intervenire con Giustizia. Non esiste infatti una giustizia particolaristica, ma solo una giustizia globale. Non faziosa. Per poter essere giusti è necessario scremare da ogni soggetto le bucce che non appartengono al suo Io originario, tutte le contingenze, ovvero le responsabilità d’altri, che lo hanno trasformato. Che lo hanno reso più forte o più debole. Il principio fondamentale dell’etica è dunque quello di non contaminare la propria identità con quella d’altri. Pena l’essere ingiusti. Questa è l’unica enunciazione corretta di un principio di Purezza della Razza. Il linguaggio stesso è stato vittima nella storia di una deprecabile contaminazione, ovvero di una perniciosa promiscuità nei significati dei termini, che distorcono l’unico corretto, ed ogni significato scorretto porta con se un bagaglio di sangue e rancori che rischia di perpetuarsi. La Filologia è nata per ovviare a questo inconveniente. Almeno dovrebbe avere tale scopo. L’ingiustizia che ha determinato l’innescarsi della Storia, consiste appunto in questa contaminazione, che è sinonimo di relazione infausta. Il linguaggio è uno strumento di filogenesi: ed ogni origine come ogni passato la si va a ricercare quando rappresenta un errore cui si deve porre rimedio. Pertanto il linguaggio è uno strumento di eugenetica. È stato creato dall’uomo e nei millenni sviluppato per restituire ad ogni ente la propria identità, per apprezzare ogni differenza, e dunque ristabilire la giustizia ovvero una relazione fausta tra gli enti che compongono questo mondo. È ovvio che questo non può essere fatto senza la conoscenza, e dunque la scarsa cura del linguaggio è il primo sintomo d’inciviltà, e la degenerazione del linguaggio porta ad uno sviluppo ulteriore delle ingiustizie, ad un complicarsi delle contaminazioni, il prodromo di un’epoca di oscurità e barbarie da cui l’umanità faticherà ad uscire, a prezzo di enormi fatiche degli uomini della conoscenza e con il sangue di tutti. Il sacro rispetto della lingua è invece istintivo nel filosofo in quanto suo imprescindibile strumento di lavoro.

Se io dico The cat eats the mouse oppure dico Il gatto mangia il topo che differenza c’è?
Il suono è diverso, la sintassi la stessa. Rimandiamo la questione della sintassi. Prendiamo un Inglese nella sua Inghilterra e un Italiano nella sua Italia i quali vedono un gatto che si mangia un topo. Intanto il gatto visto dall’inglese non è lo stesso gatto che vede l’italiano. Anche i due topi non sono lo stesso topo. Inoltre il contesto è diverso. Anche il soggetto che vede la scena è diverso. Ma noi potremmo trovarci agli albori della lingua, quando è poco plausibile che l’uomo articolasse una frase di questo livello. Forse il nostro inglese, vedendo quella scena esclamò “STRAWL!” e quel verso fu una reazione fisiologica all’emozione suscitatagli da quell’esperienza, ed il significato di quell’espressione è la funzione che ha avuto, in questo caso per lui, ma indirettamente per tutto il mondo esterno sul quale ha avuto un impatto. Ad esempio potrebbe aver fatto scappare il gatto e sicuramente ha agitato l’aria circostante. Il significante è pur sempre un oggetto: un suono, un odore, un sapore, un clima, una immagine, il segno su un foglio, un oggetto con determinate caratteristiche, un gesto, un sentimento. Il significato è tutto quello che vi consegue, nell’individuo che recepisce il segno e fuori di lui tramite le sue reazioni. Ma queste sue reazioni sono, per i soggetti esterni, per l’ambiente circostante, altrettanti segni, e dunque significanti che producono in essi un effetto e dunque assumono un significato. La differenza tra Significante e Significato è dunque quella tra Estetica ed Etica, dunque tra aspetto passivo della vita e aspetto attivo, e per il principio di azione e reazione non v’è mai l’uno senza l’altro. Il Linguaggio dunque non “descrive” il Mondo Fisico, bensì è il mondo fisico stesso: e Wittgenstein ha ragione nel dire che il linguaggio è la totalità dei fatti. Linguistica e Fisica sono a questo punto un’unica scienza che è solamente possibile separare in branche, ovvero in domini di oggetti, in cui ognuno sa cogliere un frammento della catena causale, ossia del mondo che parla in quanto agisce, che è in continuo movimento. Ma adesso siamo alle prese con il nostro english cat che si pappa l’english mouse, e del nostro gentleman che ha reagito dandogli dello STRAWL, il che per lui poteva anche essere un complimento del tipo “Ben fatto! Il topo di merda è stato annientato!”. Ora se ci fosse stato un altro gentleman che avesse visto la stessa scena, essendo una persona diversa essa avrebbe avuto un altro impatto su di lui, e suscitato una differente reazione, forse nemmeno verbale: egli potrebbe essersi portato semplicemente le mani al volto ed aver rallentato la sua respirazione. Già il significante (la scena del gatto che mangia il topo) non è mai esattamente lo stesso poiché i due punti di vista non sono mai sovrapposti, qualcuno vede sempre qualcosa che all’altro manca. Poi c’è la reazione soggettiva ossia il significato. Dunque: il mondo parla ad ognuno di noi in termini giammai identici anche se dalla stessa bocca, e noi lo comprendiamo (ossia reagiamo al messaggio) in maniera del tutto personale. La Comunicazione è l’insieme di una azione e di una reazione, dunque è uno scambio materico, che nella sua componente verbale definiamo giusta quando ha appagato entrambi, ossia ognuno ha detto quello che voleva dire e si è sentito dire quello che voleva sentire. Così come noi ci ricordiamo solo i torti che non sono stati completamente vendicati, la cui reazione dunque non era stata efficace, ecco che noi ci ricordiamo soltanto le parole che ci hanno lasciato un residuo di malessere. Il gentleman inglese, il suo STRAWL non se lo ricorda, si ricorda la scena che ha visto, qualora la sua reazione non sia stata sufficiente ad annullarne l’effetto negativo o insufficientemente positivo, ed in lieve misura si ricorda anche delle parole che ha emesso, come del gesto che ha eventualmente compiuto, del comportamento che ha tenuto, qualora ne abbia ricevuto una rappresentazione esterna, un contraccolpo, le quali cose dunque sono passate da semplici significati ovvero atti compiuti e quindi oggetti etici, a nuovi significanti ovvero atti subiti e quindi oggetti estetici. Ma focalizziamoci invece sul secondo gentleman, il quale abbia visto, dal suo punto di vista, la scena del gatto e la reazione del primo. Non è possibile attuare una reazione plurima, bensì ogni reazione è riferita ad una precisa azione, e qualora più organi sensoriali recepiscano input noi possiamo reagire soltanto ad uno per volta, quello che ci ha impressionato nella maniera più dolorosa ed è dunque prioritario, oppure possiamo avere ricondotto quella pluralità di segnali ad un solo corpo, come un banco di pesci che ci attaccasse ed una visione unitaria della loro compagine provocasse il nostro moto difensivo che prevale sui singoli attacchi, cui tuttavia dovremo porre rimedio se sono stati efficaci e che ricorderemo, anche solo in un secondo tempo, sino a che non saremo guariti. Noi possiamo risalire a tutte le cause del nostro malessere sino a che quest’ultimo è ancora presente. Un altro esempio di questa percezione unitaria di ciò che è plurimo ce lo dà il movimento istintivo di contenimento eseguito da un portiere dinanzi ad una coppia di attaccanti variamente posizionati che si avvicinano alla porta: egli non segue il singolo, segue il baricentro della linea che li unisce ed in tal mondo difende la porta. Dunque, il nostro gentleman percepisce simultaneamente una scena ed uno STRAWL, niente che venga percepito simultaneamente può ottenere una reazione sequenziale, ed anche se parte dello stimolo è percepito con la vista ed altro con l’udito, e possiamo aggiungere altre sensazioni, i sensi possono essere coordinati a produrre una reazione autodifensiva globale contro tutto ciò che è stato percepito come minaccioso, come se il nostro sistema nervoso avesse una certa liquidità interna. La sua reazione non può lasciare solchi in memoria se è stata risolutiva. E di quello che ho percepito, mi ricordo ciò che è rimasto come danno in me, ed un singolo oggetto può restare in me disconnesso dal contesto in cui comparve solo se esso soltanto, di quell’insieme, sia riuscito a scalfire la mia salute, e dunque l’unica cosa che sia stata realmente percepita, poiché la percezione non è altro che un sistema di autodifesa. Se un oggetto una volta mi ha danneggiato, il fatto che la seconda volta che esso si avvicina a me io mi metta preventivamente in allerta si spiega col fatto che esso si era già preparato il terreno la prima volta per penetrare in me, il solco è già scavato e dunque basta una minore quantità della sua sostanza per scatenare in me una reazione profonda che appare anticipata ma tale non è: la nuova percezione infatti ha solo completato la vecchia, e le è bastato di essere parziale. Se io avessi espulso totalmente i residui nocivi della prima, il ripresentarsi dell’oggetto sarebbe qualcosa di totalmente nuovo, non avrei reazioni anticipate, esso dovrebbe insinuarsi dentro di me autonomamente. Si può essere prudenti e coraggiosi, ovvero saggi, solo se ancor danneggiati: la saggezza scompare con la vittoria e noi torniamo nel candore infantile. Se io ho dinanzi una pseudo soggettiva, ossia vedo un oggetto (che di per se stesso avrebbe scatenato in me una determinata reazione) ed anche un altro soggetto che lo guarda, ecco che la mia reazione è relativa a questo insieme, giacché solo tra due oggetti vi può essere una relazione, mai di più, ed una forza si confronta sempre con un’altra forza, anche se quest’ultima fosse in sé composita. Io non posso rendermi conto che la reazione del soggetto che io vedo nella mia immagine è determinata dal suo contatto con l’altro oggetto, senza sostituirmi a lui e trasformare la pseudo soggettiva in soggettiva vera e propria. Ma se mi sostituisco a lui non vedo più lui, vedo solo l’oggetto e dunque come posso fare un confronto tra la mia reazione e la sua, attuando il primo atto di codificazione linguistica che è invero una unione tra simili? Quando questa riesce, ecco che noi abbiamo un linguaggio comune, quell’oggetto esterno ha per noi due lo stesso significato: noi abbiamo infatti avuto la stessa reazione ad esso. La civilizzazione consiste in un processo graduale di assimilazione tra oggetti, ed è una cosa spontanea di cui non possiamo essere consapevoli come di alcuna espansione dell’ego, perché un ego non può percepire se stesso, ogni percezione è il rapporto con un altro oggetto, quando è entrato in noi siamo diventati qualcosa d’altro insieme a lui, non sentiamo la nostra crescita poiché una cosa positiva non lascia residui in memoria, il vecchio ego, più debole, è scomparso come scompare il male ad opera del bene. Che gli oggetti esterni (ed anche le parole udite) abbiano dunque lo stesso significato per due persone non è cosa che queste ultime possano stabilire, se non quando, a posteriori, come terzo soggetto, vedano il filmato dell’esperimento cui hanno entrambi partecipato uno dopo l’altro, in cui dovevano rispondere ad un determinato stimolo.

Un evento magico nella vita è rivedere se stessi nelle vite di antichi fratelli, notare dapprima i pensieri che usano le stesse parole, spesso le stesse immagini, e scoprire da elementi biografici come abbiano visto quasi le stesse cose, trovatisi nelle stesse situazioni. Come siano stati affascinati da quello scorcio di panorama naturale, umano, concettuale, che altri non prendeva in considerazione. Ma sicuramente, sul piano sociologico, come essi abbiano imparato a memoria…


…tutta la declinazione della Colpa, ossia della Diversità, anche il particolarissimo caso accusativo anomalo il qual sostiene che il diverso finga o scelga di essere tale, per convenienza, ma che è pieno il mondo di questi soggetti, dunque possiamo dire che in realtà siano più le mosche bianche di quelle nere. Prima si limitavano ad affermare che siamo tutti uguali, poi si sono spinti ad affermare che siamo tutti diversi, son infine fieri di entrambe le contraddizioni. A quanto pare l’uguaglianza è diventata talmente totalitaria da inglobare anche la diversità. Il tiranno però era Mussolini…
un uomo così uguale nella sua diversità, ma soprattutto così diverso nella sua uguaglianza.
Guarda caso, le mosche bianche sono così tante, che una di loro non ne incrocia mai un’altra sulla sua strada, sebbene se ne svolazzi in lungo e in largo. Delle mosche nere, colei aborre le
sostanziali abitudini: 1) trovarsi a proprio agio ovunque ci sia odore di merda 2) approfittare dei corpi in decomposizione 3) ronzare continuamente senza aver nulla da dire 4) posarsi su qualsiasi cosa senza che si capisca il perché 5) essere dappertutto e non essere gradevoli da nessuna parte 6) vantare una vista stereoscopica e non saper cavare un ragno dal buco 7) aver fatto incazzare anche quel pezzo di pane di Max Pezzali per aver ucciso, con oscura e losca cospirazione, l’Uomo Ragno. Ma fino a che questi diversi sono poche gocce nel mare, ben possiamo dire che sono uguali. A gestirli, penseranno quelle masse d’acqua che hanno la sfortuna di trovarsene uno all’interno o all’intorno. Sostanzialmente queste si vedranno dover far loro delle concessioni contro volontà perché legati giuridicamente ai propri stessi principi, che esse avean posti avventatamente come universali, ma dei quali adesso la lor mente pensante, sotto la spinta dell’istinto perentorio che sa sempre quello che crede in quanto sa quello che vuole, è costretta a dubitare, a seguito del contatto con un soggetto fattualmente diverso: poiché non ha più una sola percezione e si trova a doverla racchiudere sotto un solo concetto. Iniziamo ad essere insofferenti al linguaggio quando lo sentiamo stridente con le nostre percezioni. Quando esso chiude due esseri diversi nello stesso cerchio, oppure due esseri uguali in due distinti cerchi, o ancora non li mette nella debita posizione gerarchica all’interno del legittimo cerchio. Gli istinti non hanno dubbi perché sono tutti unitari.
La ragione non è invece altro che l’arena in cui gli istinti contrapposti si danno battaglia,
la qual potrebbe esser chiamata Arena del Dubbio, unico vero soggetto dubitante, che non può sapere perché non può ancora essere: la sua identità verrà sancita dal vincitore della battaglia conclusa. Durante questa, la ragione dubita in quanto promiscua, nella misura in cui è ancora promiscua, ossia le forze non compongono ancora due distinte compagini, tali che la più forte debba inequivocabilmente schiacciare l’altra, e la forza sia invece frammentata e dunque un istinto con la sua materia si sia insinuato nelle file nemiche ed impadronitosi di alcune sue sostanze, indebolendo appunto il loro istinto. Il nemico però si impadronisce di sostanze che può tenere sì in custodia
e quarantena, ma non potrà giammai utilizzarle a sua volta perché non sono intrinsecamente affini. Egli non le riconosce, dunque non possono essere per la loro schiera o schiatta nemmeno dei mezzi. Giacché ogni mezzo nemico è schierato e finalizzato a farli schiattare. Non esistono invero oggetti neutri, tali che possano essere utilizzati ai fini di entrambe le compagini. Se vediamo che ambedue li utilizzano, questo ci costringe ad ammettere che esse hanno ben qualcosa in comune. Ma è chi è totalmente contrapposto nei fini è anche totalmente contrapposto nei mezzi. Infatti chi si biasima nelle grandi cose prende posizione anche contro tutte quelle piccole che siano coerenti con quello scopo inviso del cui mosaico rappresentano i tasselli.


La natura ci ha conferito un bagaglio di qualità necessario e sufficiente per raggiungere una meta. Questo non implica solamente che noi possiamo raggiungerla: ma che non possiamo raggiungere altro, poiché la nostra volontà, inerente a quel preciso insieme di caratteristiche, è rivolta interamente (poiché di fatto unitaria) verso quel fine. Il carattere è sempre coerente perché unitario.
Esso si esprime in ogni nostra azione, giudizio, opinione, nel modo in cui viviamo ogni settore della nostra vita. Non esiste nulla di noi in cui sia davvero possibile, senza fraintendimenti, riscontrare una nota che stride con quell’accordo, fondamentale, del nostro essere. La nostra sostanza informa di sé ogni cosa con cui entra in contatto, agisce dunque su di essa imprimendole un contingente della propria anima, che non essendo per l’ente esterno un proprio, cercherà, con tutto il suo essere, che analogamente non può essere parziale poiché unitario, di rigettare.




Non
si fa la
storia

coi SE
e coi MA

però
si continua
a subirla
senza di essi



Sei intelligente ma ingenuo? prima o poi ti sveglierai.
Sei furbo ma non intelligente? prima o poi incontrerai uno più furbo di te.
Sei nobile? piglierai mille calci in bocca, ma alla fine sarai ricompensato.
Sei ignobile? darai mille calci in bocca, ma alla fine sarai punito.


Non credo che l’ironia si basi sulla meta-cognizione.
Basta avere cognizione della propria meta e trovarsi degli ostacoli materiali. Il chiasmo è una rivalsa poetica.


Ispirazione…


Non servi te stesso, la patria, nè Dio
Se tutte le strade portano a Sion
Ed ogni casello rallenta il cammino
Ma ad ogni casello lui prende un soldino

Col tempo i caselli divennero tanti
La strada per Sion fruttò ori e diamanti
Ed ogni distanza era stata studiata
A sancire i battiti della tua giornata

Ti eri sbattuto, ti eri ingegnato
Di certo il tuo pane era guadagnato
Peccato però che gli imposti bisogni
Usurparono il posto di tutti i tuoi sogni

Da qui a diciott’anni i tuoi figli devoti
E poi tra cinquanta i tuoi nipoti
Avranno per gradi, ma in sorte sicura
La mente più inerte, e la vita più dura

Scorrendo attraverso l’educazione
Trapassa il dominio dell’ebreo massone
Nessun potrà ammetterlo, ma loro insegnavi
Ad essere sempre, e poi sempre più schiavi

Ringrazia colui che si muove già adesso
Accettando di vivere un poco più oppresso
Lo fa per rispetto di un nobile amico,
non si trovi domani così a mal partito

Tra un secolo o due una rivoluzione
Sarà di capir come gira un bullone
Ma pria di capir come gira l’industria
In quei tempi bui, sarà pena ed angustia

Un uomo comune, lo sguardo ormai perso
Ancor gioverà di un orgoglio perverso
Ho fatto un mattone, levigato e bello
Lo porgo all’Ebreo per il suo castello

Nessun li ha votati a suffragio diretto
Ma tutti sostengono il Popolo Eletto
Nessun li conosce, in faccia e nel cuore
Si presero il verbo di Nostro Signore

E lo sparsero ben, per il mondo, al contrario
Dispianava la strada allo scopo primario
Sradicare da quello la Civiltà antica
Pervertire gli istinti in cui vive la Vita

Non importa descrivere i geniali passaggi
Con cui volse gli umori, le scienze, i coraggi
Il lavoro e le arti di ogni Popolo e Regno
Al servizio del losco e più bieco disegno

E poi vittimeggiando sopra i miti più fausti
Di persecuzioni, calunnie, Olocausti (!)
Lui che dietro le quinte pilotava ormai tutto
Se ne usciva più forte, dal Conflitto e dal Lutto
\
Impegnato ed indomito e finora prevalso
A piegare ogni vero sotto il giogo del falso
Se qualcuno di loro la morte ha incontrata
Siete proprio sicuri non se la sia cercata?

Perché mai un soggetto così pio ed innocente
Pur non osa mostrarsi di mezzo alla gente?
Perché non si dichiara: chi è, cosa vuole
La sua nobile storia, e ci mostra le prove?

Su ogni foglio, ogni schermo, ha influssi sicuri
Non gli manca strumento che attenzione catturi
Di ogni uomo che parla può comprare il parere
Quello che lui decide, può farti vedere

Ma tra tutto nasconde: il pensier, e la sua faccia
Quasi fosse sicuro che al mondo non piaccia
Nonostante lo plasmi, lo plagi, lo storca
Che contro di lui, tutto quanto ritorca

La TV dell’ebreo sempre parla d’altrui
Glorie, pene, misfatti, tutto, basta che abbui
Cosa diavolo faccia questa ignota figura
Quale ruolo mai abbia, che di tutti ha paura

Di qualsiasi processo è sovrintendente
Quando è contro di lui, nessuno può dir niente
Come imperator che prendesse la Dacia
Si difende e lo vince… in contumacia!

Non importa poesia, gergo, lezione
Tu non vinci per legge, ma per Costituzione
Quella che dall’origine fu diversa ed aliena
Corruttrice del mondo, che di esso è la pena.





Il raggio dei soli più caldi
richiede il coraggio più lento
Non salgono mai i codardi
le porte del tempo



Nella storia ci sono sempre state due categorie di persone: quelle che hanno interesse alla verità e quelli che hanno interesse a nasconderla. La Filosofia definitiva prescinde dalla sua storia, e potrebbe avere di fronte, come suo contraltare e mortale avversario, la Sofisticheria definitiva, analogamente priva di storia: in questo caso la filosofia è destinata a vincere perché nella loro purezza il forte annienta il debole. Ma una storia della filosofia, come tutte le storie fatta di forze antagoniste, non può prescindere dalla storia parallela e necessariamente intrecciata della storia del sofisma. Dall’antichità ad oggi, i filosofi e i sofisti, come paladini linguistici del bene e del male, dei giusti e dell’ingiusti, hanno reagito gli uni agli altri, seconda dei nuovi strumenti che questi o quelli disponevano sul campo di gioco. La vita del filosofo non dovrebbe essere altro che una concreta battaglia contro le teorie del sofista. E viceversa. L’attività teorica, fondamentalmente scrittoria, è concretezza, ed ogni altra base materiale attiva o passiva cui egli attingesse o abbisognasse d’attingere nella vita rappresenta appunto un mezzo per giungere a quella meta,
per esaurire il potenziale di un intellettuale, dunque il senso della sua esistenza. Vi sono in tutti i corpi sociali forze aggregatrici e forze disgregatrici. In ogni specifico ruolo i rappresentanti della prima fazione combattono coi rappresentanti della seconda. Ogni uomo volge i suoi sforzi istintivamente verso lo scopo della sua vita ovvero nell’espletamento della sua professione naturale. Egli può essere costretto a fare altro solo dall’eliminazione pregressa dei suoi fratelli sostenitori, e complementari della sua causa, operata della fazione sofistica, colei che possiamo chiamare falsaria, od anche maligna: dal momento che il falso è l’aspetto linguistico del male ed il vero l’aspetto linguistico del bene. Qualunque mente accolga una opinione vera e la porga in essere,
egli compie una buona azione. Qualsiasi opinione falsa, crea invece un danno materiale, una cattiva azione. Un filosofo che non possa nella sua epoca occuparsi solo di filosofare, è stato privato dei suoi fratelli onesti nel’agricoltura, ne l’industria, ne’ commerci, nelle politiche, nell’armi, nei servizi, ne l’educazione, nelle scienze, nell’ arti, dunque del loro contributo positivo alla causa. Un’epoca dominata politicamente da un’etnia e dunque da un’idea avversa è dominatrice necessariamente in ogni aspetto della materia. Tuttavia, la materia nobile si ribella a tale stato imperfetto di aggregazione, spurio, cui venisse costretta. Ma nessun rappresentante di quella fazione agisce invero in maniera intellettuale ossia linguistica, ma solo invece e direttamente con la resistenza fisica: operata nello spirito dell’ultimo livello filosofico raggiunto da essa fazione, ovvero dell’ultimo filosofo onesto. Il quale, però, deve essere superato: perché le sue conquiste intellettuali non hanno ancora rappresentato un beneficio tale da poter ribaltare le sorti della partita tra le sue genti ed i fraudolenti. Quando la fazione giusta è in inferiorità, essa lo è complessivamente.
Dunque in ogni grado: ed è proprio qui che i fratelli devono stringere cerchio, i buoni lavoratori debbono sostenere il filosofo, come tutta l’attività di ricerca nei suoi gradi che sottende la vetta, affinché la sua vista superiore, giovante del loro concreto appoggio, possa portare nuove visioni, la propria scienza ad uno stadio superiore che, una volta messo in atto dai politici di domani, sempre nobili ma che adesso si abbeverano di quelle sistematizzazioni accessibili solo agli intelletti sopraffini dei filosofi e che necessitano di passare attraverso la forma linguistica ogniqualvolta la fazione dei giusti sia più debole e quindi in svantaggio temporale, aumenterà le capacità guerresche complessive di quel popolo e lo farà assurgere ad un nuovo altipiano di dominio e maggior benessere. Qualora tutti questi componenti mancassero, il carattere ario dovrebbe riprendere a filosofare da zero con la clava e la pietra focaia, fino a che la forza sociatrice di quella razza non abbia raggiunto un livello di civiltà, ossia di specializzazione, tale da potersi misurare alla pari con la fazione distruttiva, digià più organizzata e dunque detentrice di più sostanze. Quando siamo condizionati nel pensiero è perché lo siamo nella materia. Un pensiero superiore, inerente niente ad altro che alla capacità percettiva del corpo nobile, respingerebbe immediatamente e con efficacia un crimine linguistico, ossia una menzogna scritta o pronunciata, perché le sue capacità verbali e dunque la forza delle sue parole è superiore a quella delle razze subalterne, i cui rappresentanti filosofici non potrebbero nulla contro i nostri se non fossero supportati da uno strapotere materiale e generale della lor fazione, mossasi in anticipo in quella direzione ed organizzatasi, raccogliendo sempre più forza, in un’epoca in cui era assente un avversario all’altezza. Analogamente un nostro leader politico, in condizioni paritarie iniziali, sarebbe nettamente superiore al loro, e parimenti in tutti i mestieri, tutti i gradini della scala sociale e dunque il popolo nel suo insieme, tale da poter agire immediatamente senza alcuna opera di ricerca preventiva e senza possibilità di sconfitta. Ma la ricerca, il cui strumento è il linguaggio, non è altro che la reazione collettiva della classe intellettuale di un popolo che corrisponde al tentativo di appropriarsi del livello formale di evoluzione del popolo nemico, osservandolo dal debito punto di vista, analogo al nostro potenziale ma che non può essere raggiunto in una posizione fattualmente soggiogata e che necessita allora di una disgiunzione tra la componente esecutiva di un popolo, quella che mantiene il livello presente, e quella creativa che si appoggia e puntella sulla prima per di lassù, sul belvedere dei popoli oppressi di cui però anch’essa sente pienamente la propria parte di peso essendo il proprio destino legato a quello del popolo intero, attualmente umiliato e schiavo, agguantare un progresso. Tale reazione prende corpo solo nella forma simbolica della parola scritta: la qual poi dovrà imprimersi, attraverso la decodificazione, in nuove sostanze energetiche o informazioni nel corpo di tutto il popolo, rendendolo atto a combattere meglio e soverchiare il nemico. La civiltà nemica si trova dunque ad essere presa come modello da imitare formalmente, pur essendo una civiltà inferiore sostanzialmente. Per sconfiggere il nemico possiamo solo assumerne le vesti e riempirle della nostra virtù, della nostra qualità biologica e dunque spirituale, dobbiamo forgiarci attraverso la vista una infrastruttura interna che loro hanno digià raggiunto e che in qualche modo ci aveano rubato: noi gliela sottraiamo attraverso i sensi in una siluetta che però tocca i bordi di quello stadio animistico che è necessario a vincere la guerra e che è sufficiente a richiamare le nostre sostanze interne a riempire lo scheletro di sangue e tessuto. A questo punto possiamo sconfiggerli, perché loro erano solo più evoluti, ma non più forti. Aveano di fatto agito scorrettamente, e solo in questo modo era stato loro possibile sottomettere un popolo superiore. Scopo della ricerca tutta è di costruire il proprio esercito per la battaglia, e la cosa più deleteria è pretendere di forzare la naturale durata del processo, gettandosi in pasto a sicura sconfitta e dunque una dispersione ed una sottomissione ancora più grande delle proprie risorse di popolo, che necessiterà processi ancor più lunghi per riprendere unità e coscienza di sé. Purtroppo sono processi che richiedono una intera epoca… termine definito proprio dalla quantità di elementi, ossia dal tempo, che vanno riguadagnati a sé prima di potersi volgere alla nuova guerra. Dunque ogni epoca storica vede la crescita graduale della fazione materialmente sottomessa e però spiritualmente più forte, dacché solo tale superiorità intrinseca potrebbe contrastare lo schiacciamento operato dalla fazione debole ma più forte a livello contingente perché partita in anticipo, posta sul campo quando era già adulta e l’avversario bambino. La dialettica della storia è data dal contrasto multifasico tra due fazioni che, nel loro complesso, hanno sempre un vantaggio ed uno svantaggio, tali perché originari, alla base d’innesco della ruota dell’essere: un forte partito in ritardo ed un debole partito in anticipo. Naturalmente nella guerra non si può far altro che essere coerenti con la propria natura: sicché solo i forti potranno vincere d’onestà e giustizia, e i deboli dovranno sol potenziare al massimo il livello di mendacità e scorrettezza della lor azione, altrimenti son destinati a certa sconfitta. A subire ingiustizia può essere soltanto un nobile da parte di un ignobile: il contrario è impossibile perché il nobile non è capace di commettere ingiustizia, ossia di tradire un fratello oppure evitare di punire, quando possa farlo, un non fratello. Ma se il nobile si volesse vendicare di un atto ingiusto potrebbe farlo solamente con un atto giusto: quello che all’ignobile fa male, mentre degli atti ingiusti non risente in quanto vive di essi e quando li vede commettere non li sdegna ma gli strizza l’occhio. Egli riconosce un fratello, che possiamo chiamar semplicemente alleato visto che non ne ha vero rispetto, l’individualista incapace di creare civiltà. Quando un’epoca si svolge regolarmente, senza forzature, si conclude sempre con una rivoluzione vittoriosa. Con un trauma, dunque, per la fazione dominante: il cui esito è una inversione delle parti. Un nuovo soggetto che d’oggi domina il campo. Una guerra perduta è senza eccezione una guerra affrettata. Ma anche questo è inevitabile perché interno al divenire, dunque quando si perdono le guerre si è stati forzati a combatterle anzitempo dalla presenza infausta di troppi nemici anche all’interno delle nostre fazioni e contaminanti col linguaggio anche lo sviluppo rigenerante dei nostri propri pensieri. Noteremo il fatto che il corso della storia non ci si mostra come una costante ascesa degli ordinatori, partiti dai bassifondi della società, i quali attraverso una scala li conducono di nuovo alla vetta ristabilendo i ranghi. Noi vediamo invece in essa fasi alterne. L’una in cui l’ordine costituisce la regola ed il caos l’eccezione, poi un’epoca di disordine entro la quale spiccano zone armoniche e piccoli regni, dunque tempi di caos sistematizzato in cui la forza, e con essa la bellezza e la speranza, tentano di estendersi sempre di più. Ciò è dovuto al fatto che le fazioni sono talmente discrasiche da potersi davvero incontrare in una battaglia che sancisca definitivamente la subalternità di una sull’altra forse soltanto in un teatro di guerra molto lontano, mentre gli scontri che avvengono sono solo battaglie erroneamente scambiate per guerre. Questa altalenanza può infatti essere dovuta soltanto alla diaspora di buoni e cattivi, tale per cui le forze del bene stagliantesi sul pianeta non riescono mai ad essere tutte coinvolte nello sforzo sinergico, ma scendono in campo per una battaglia che appare definitiva contro la compagine maligna, per poi scoprire che non lo è, in quanto il proseguimento delle operazioni incorre in azioni e scenari inaspettati dove subiamo degli agguati dal gusto tragico e deludente, nei quali, per avere la meglio sugli avversari, ci rendiamo conto che sarebbe stato necessario il supporto di altri fratelli non pervenuti alle nostre file, siano essi uomini di scienza o combattenti. Analogamente la fazione del male, anche qualora abbia avuto il sopravvento, subisce spesso un riflusso per mancanza di appoggi, e tante configurazioni si possono trovare sul campo a parcellizzare progressi e regressi, con qualche manipolo di uomini che si esaltano per un trionfo locale o si abbattono per una sconfitta, ignorando il fatto che poco più in là li aspetterà una revisione bellica del primo come della seconda, da nuovi scontri con compagini di livello energetico differente. Più grande è lo spazio, più lungo è il tempo, e più noi siamo lontani dalla perfezione e dalla felicità: siamo dunque molto contaminati. Solo un uomo che parte puro finirà puro e nessuno metterà in discussione l’esito della battaglia: questo sarà infatti giusto. Se il filosofo non fosse condizionato nel pensiero da sofisticherie che si sono imposte a livello sociale e dunque sono diventate materia del mondo e prassi condivisa da masse umane, egli non prenderebbe della società altro che ciò che gli serve per ultimare le sue opere sulla base dell’analisi critica del mondo presente. Ma la vittoria intellettuale è sempre costituita da l’influsso cu n’idea rie sciadar su l’mondo materiale. La confutazione del sofista, lo spadaccinare contro di lui è solo una resistenza che si pone alla sua azione ostruttiva, disturbante e fumigante. Il filosofo non avrebbe affatto bisogno di guerreggiare col sofista, in quanto non ha nulla da imparare da lui: questi può essere solamente un sabotatore e come tale agisce, palesemente, ogni volta che apre bocca con uno di noi. Bisogna sempre essere lesti nel riconoscer l’intento, che vien da la natura avversa. Se lo abbiamo notato una volta, quella basti per sempre: bisogna evitare i contatti sino a che la nostra bandiera non sarà forgiata autonomamente, ed in questo lasso di tempo dobbiamo tenere lontani questi calabroni infernali e molesti, poiché siamo svantaggiati in quanto non ancora maturi, e come non potremmo giovare di un dialogo conciliativo, dacché questo potrebbe essere soltanto simulato e fasullo, è probabile che uno scontro si tramuti in una sconfitta oppure in una vittoria eccessivamente logorante e spiacevole. Quando si scende in campo bisogna essere pronti. Non ci sono storie, né eccezioni. Non ci si deve mai permettere di essere sconfitti: la natura vuol affermarsi e non è possibile negarla senza che si riprenda ed insegua la sua realizzazione negli eoni del tempo. Chi forza la natura in qualsivoglia modo otterrà una sconfitta e determinerà un allungamento del proprio percorso di realizzazione. Che il migliore debba prenderle, semplicemente, è ingiusto. Ma quando infine le due compagini materiali del bene e del male saranno disposte in schieramenti paritetici, il male definitivamente soccomberà. La vita è cominciata col vantaggio del male, e dunque del sofista che ne avalla linguisticamente lo sviluppo ed osteggia, ostruendolo e di fatto commettendo atti di violenza psicologica attraverso il linguaggio, il Filosofo, correttore della realtà attraverso lo strumento propedeutico del linguaggio di un animo retto, autore di quel testo sacro, e tale perché per essere scritto necessita di giovare di una posizione privilegiata, distaccata da tutte quelle forme di azione particolare che non giovano allo scopo, ma che il guerriero costruisce comunque, in mezzo a qualsivoglia inferno la sorte lo abbia scaraventato, che dissacrerà gli idoli nemici, nient’altro che i simboli della nostra oppressione, emblemi del mondo schiavizzante, illuminando il nostro popolo sulla vera stella da seguire, schierandolo dunque alla conquista della propria libertà, ora pronto ed entusiasta di partecipare ad una guerra che non può non appartenergli. Guerra sì bella oramai, sol quanto la pace ch’essa può realizzare, ma che abbisogna di questo passaggio violento per vendicare i torti subiti: quelli che restano inelutti in noi sinché non li riversiamo ai nostri feritori. Un’azione che assume ben sol in queste fattezze la propria epicità: appannaggio di una guerra in sintonia con l’ideale. E sol quando la pienezza sia nella spada e la bandiera, essa assume il misticismo: poiché sente ormai la vetta, il superamento, la vittoria, l’approdo ad uno nuovo stadio d’essere della propria stirpe, come una certezza sempre più palpabile, e gode oh quell’idillio di cui l’uomo è grato agli dèi poiché ne partecipa, e che posse chiamare imperturbabilità guerresca, sol erotico preambolo della propria figlia, ossia l’imperturbata pace. La civiltà che potrà crescere su di un tale terreno, essa vedrà cose meravigliose: saranno quivi Amore, Forza, Creazione, saranno i vecchi che parlano i bimbi come un sol uomo gli estremi limbi. Ma non è affidabile un terreno che presenti ancora i grani incombusti del vecchio mondo, guerra lei che non sia stata ben vinta né perduta. Mai si libra un buon salto da un poggio frammisto: esso avrà sempre due direzioni, scinde la gioia, la forza, le intenzioni. L’unico modo di finire uniti è partire uniti. Non vi è passo falso che non possa esser ridotto a falsa partenza. Sacro dal quel momento in poi sarà non ciò che è possibile fare sul nuovo podio conquistato, la nuova vita dei nostri figli, ma per questi invece, gli insegnamenti dei padri, quel che impedisce alla civiltà di tornare indietro, il dovere a difendere quanto acquisito per la vita della loro razza.

Agisci con non calanza, non metterli al centro, ma padroneggiali attraverso la determinazione con la quale prosegui il tuo percorso autonomo che, dalla sua stabilità centrale e dal dinamismo che tiene energici, lucidi e non ristagna, può scagliare via o intervenire in modo concisamente efficace sugli intrusi, senza perdere la sua linea d’azione o troppo farsi braccare da loro. Questa concisione, che ti è concessa spiritualmente dal tuo tenere il passo della tua tabella di marcia senza accumuli, si traspone anche negli interventi esterni che si rendessero necessari per l’arrivo di un personaggio molesto: essendo orgoglioso di te stesso, gli altri vengono respinti con sicurezza perché non hanno precedentemente creato una testa di ponte ed inserito una colonia nemica dentro di te con la quale i nuovi arrivati possano comunicare ed operare manovre, pertanto la completa indignazione che si innesca da contatti anche solo superficiali, può subito esternarsi con un gran buon colpo che spaventa il nemico o quant’altri volessero imitarlo. Esso proviene infatti dalla fierezza, ossia dalla pienezza di sé, e dunque dalla massima forza che possiede un uomo, sicché tutti i più deboli verranno dissuasi da un confronto, e ti lasceranno in pace. Talvolta questo metodo può consentirti addirittura l’incuranza, qualora anche un intervento stringatamente ponderato risultasse troppo impegnativo: senza per ciò danneggiare la tua partita esponendoti a pericoli futuri, giacché rimani tu il più forte. Mentre se tu invece ti fissi sugli avversari senza che sia necessario, il tuo percorso globale è deviato e più angusto, e rischia il ristagno. Questa deviazione ed angustia sono causate originariamente da una situazione materiale di svantaggio ineluttabile, e che magari si mantiene od aggrava nel tempo. Essendo noi ben lungi dal tenere il passo delle nostre tabelle di marcia, sempre più acceleranti, sempre più pretenziose, accumuliamo oppressione e non siamo liberi. Di conseguenza ci muoviamo più lentamente, e movimenti eccessivamente bruschi, oltre a scaricarci le energie, possono essere pericolosi per il fisico, come un tennista che giocasse con un pesante zaino sulle spalle - e per liberarci di un problema che altrimenti sarebbe semplice, spesso dobbiamo fare un lavoro assai macchinoso perché esso si è inserito improvvidamente in un contesto decisamente non pronto ad accoglierlo: di modo che a volte l’annegarci in quello che sembra esternamente un bicchier d’acqua ci fa sfigurare ed affossa l’autostima, perché attraverso il giudizio del prossimo, che assorbiamo, nemmeno noi ci rendiamo conto che sotto il bicchier d’acqua c’era la collina del purgatorio. L’oppressione non diventa mai depressione sino a quando non vince, sino a quando le nostre difese non cedono: ma da questo momento la zona attaccata è inerte, ha perso la sua forza vitale, è degenerata e non collabora più alla battaglia, e dovrebbe essere amputata.
Non è detto ch’essa morirebbe per sempre, in quanto la congregazione organica che detiene un desiderio, ossia un potenziale di sviluppo cui è necessitata ad adempiere, può ricrearsi in futuro.
E quella mortificazione che rende necessario uno sfaldamento ed una espulsione dall’organismo, affinché quest’ultimo non danneggi tutto, favorendo il cancro divoratore del nemico, può ritrovare il suo composto, dopo altre navigazioni ed ottenimenti, e quel desiderio divampare di nuovo in tutta la sua focosità, e senza essersi trascinato dietro scorie marcescenti, dunque nuovo nel vero senso della parola: esso è un ritorno senza ricordo, ma giova adesso di una energia maggiore e di una posizione dalla quale gli è possibile appagarsi, ed annettersi a quella complessiva affermazione della nostra volontà cui non deve mancare un solo elemento e che non lascia terminare la vita sino a che non è completa. Di fatto la volontà non muore perché non muore il corpo. Il corpo si trasforma e sembra trasformare appunto la volontà, che riconoscerà se stessa nella propria forma originaria allorché avrà conquistato se stessa, ovvero il suo oggetto, la sua oggettività. Lo scopo dei nostri nemici è quello di mortificarci totalmente, disgregare il nostro organismo, ucciderlo. Essi lo fanno attraverso armi di spinta ed armi da taglio. La pressione e la lacerazione, quando vincono, diventano depressione. Spesso il nostro organismo nella sua rotondità esercita una resistenza troppo forte al tentativo di schiacciamento globale. Premere non è dunque sufficiente al nemico per sconfiggerci, ed egli può utilizzare la costanza della pressione a scopo di sfiancamento solo se le sue energie si consumano, in tal modo, più lentamente delle nostre. Ma quando questa condizione non si verifica, si rendono necessarie delle penetrazioni che creino delle fratture interne, che debilitino l’unità difensiva, scompaginino i ranghi, alcuni dei quali vengono poi circondati, isolati in un’ansa dell’organismo ed attaccati da sinergiche fronde nemiche. Quando tu lasci degli accessi al prossimo, esso si comporta in questo modo. Perché la tua forza difensiva risulta più debole della sua forza oppressiva. Anche le tue possibilità di movimento sono ridotte, e le comunicazioni disturbate. Se non vuoi soccombere, e vuoi che i tuoi attacchi siano vincenti senza essere controproducenti, la priorità è quella di tenere il nemico alla debita distanza. Se lo lasci aprirsi mille sentieri, come una ragnatela corrosiva, ed all’interno d’essi lui è sempre in superiorità numerica, sempre bene armato contro bastioni sempre meno sani ed efficienti, farà di te ciò che vuole. Un esercito che avesse lasciato penetrare le forze nemiche fin nel suo quartier generale, quasi che a capo supremo ci fosse ad un certo punto un ufficiale avversario, non avrebbe ciò nondimeno perso definitivamente le sue unità. La nostra fazione può essere stata sottoposta a priori della guerra, ma senza perdere la sua intima natura e dunque il suo obiettivo, ad un’opera di plagio talmente forte da aver disposto le singole forze ampiamente al servizio del nemico, che le disistruisce, le avvelena, le fiacca anziché temprarle, le disorganizza al massimo, e poi le manda al macello, mette le une contro le altre, e l’unico vantaggio a lungo termine di questa situazione è che i nostri soldati semplici, di già eroici ed abili di natura, essendo stati sottoposti ad un livello di bellicosità allucinante e avendo dimostrato una tenacia fuori dal comune, hanno acquisito una tale maestria, una tale esperienza nel combattimento ravvicinato e in inferiorità numerica, da far paura, nel corpo a corpo, a chiunque. Quando poi sarà svelato l’arcano, quando le armate si saranno riorganizzate dal basso, inizialmente incontrandosi inaspettatamente e rivedendosi amici, senza che sapessero di avere dei compagni, ed orbene la gerarchia militare sarà stata riguadagnata al contrario, sorta direttamente dalla guerra, dai più intelligenti e valorosi tra i soldati che ora hanno riacciuffato la vetta e sono divenuti dei generali: ebbene essi saranno adesso i generali più in gamba di tutti i tempi, assurti alla cima attraverso i guadi spinosi. Sino a che però la nostra saggezza non è in grado di espellere gli oggetti morti della frustrazione essi si decompongono in noi come pesanti carcasse, siamo spesso bloccati nel fango, feriti, confusi, annebbiati, traumatizzati e stanchi, e continuiamo a guardare un paesaggio ostile nelle sue ulteriori minacce cui una perversione dell’istinto ad opera di pensieri nemici incastonati nel nostro centro direttivo, ci porta ad esporci, ad attirare ed assaporare cento mille volte, amplificandoli, gli infami colpi da questi perpetrati, a guardare i loro possedimenti come fossero nostri, prendere dunque esempio da un’estetica ingiusta in quanto eteronoma e che dunque non può favorevolmente influenzare l’etica, e le ingiustizie che ancora siamo in grado di riconoscere suscitano in noi una rabbia che non può essere scaricata, per via della nostra posizione subalterna e debole, e si ferma come pulsione sanguigna ad ingrossare le propaggini del nostro corpo, le nostre interfacce col mondo a cui questo rinfaccia la sua intoccabilità, il suo compiaciuto rifiuto, ed allora delusi gli istinti ripiegano all’interno, alla gonna puttana che di noi chiede dazio, piegata dal tempo per ragioni di spazio, e la cui stiratura chiede arte e stipendi, non chiama ricordi che non fossero orrendi. Nella debolezza invece, e sia lapidaria sentenza, i contatti col mondo esterno, sia quelli minacciosi e quelli allettanti, devono essere sempre più selettivi. Altrimenti il nostro percorso si immette in uno scenario d’incubi: palude mefitica in cui prolificano bestiacce mostruose, spietate, aggressive, con te che non puoi scacciarle se non con uno sforzo mentale notevole e parzialmente bonificante, che è necessario per riavere se stessi e poter infine ucciderle esteriormente, con una azione ora solamente fisica e non più psichica, che nella pienezza delle tue risorse le convoglia verso lo sgradevole intruso che si aggira alle superfici del tuo regno o ti fa sentire la sua pressione ed il desiderio di entrare senza però riuscirci perché riceve una resistenza forte e anche controffensiva. Non lasciare dunque che il nemico ti circondi ed entri in te così facilmente, ed in misura esagerata. Più esperienza acquisterai e più concluderai che fin dall’inizio la politica migliore fosse quella dell’isolazionismo: ogniqualvolta tu sia debole. E dell’ermetismo completo: quando ti presenti in pubblico. Necessariamente, s’intende, a guerreggiare. Poiché questa sentenza, di tardivo rimpianto, non è altro che la voce corale di tutte le esperienze negative che parlano attraverso i lor residui organici ancor presenti nel tuo organismo, che ancora adesso e forse mai più avrai la forza di espellere: sicché non si può tornarne indietro. Lascia dunque che debbano conquistarsi tale ingresso, non consegnar loro la coppa col bollino di posta prioritaria, che se la vengano a prendere e che debbano rischiare di essere sbranati, disprezzati, odiati, o di perdersi nel cammino, esaurire le forze, morir di fame e sete, torcersi a nausea e sgomento, fa che debbano esser tenaci, e coraggiosi come non sono, essere intelligenti, decché non sono, per poterti uccidere: non spalancar dunque loro le porte, e non dissipare indizi. Loro non lasciano ingressi a te, e se questi si presentano inaspettatamente per una situazione delicata e inaspettata che si crea intorno a loro, tale per cui si ritrovino scoperti e vulnerabili, loro scappano subito, si dileguano, accucciano, bruciano le prove, o turan le falle con tutto quel che trovano. Legni, piastrelle, cementi, stucchi, parole oscure e menzogne a mucchi, e poi ti depistano senza rammento, senza rammarico, a cuore spento, non si accollano e non arrischiano mai un combattimento ravvicinato ed intimo, se non quando possono solamente attaccare ed il loro nucleo è protetto ermeticamente.


Sentiam cosa dice Laplace nel 1814 nella sua
Introduzione ai Saggi filosofici sulle probabilità…

dice…

Un’intelligenza che in un certo istante conoscesse tutte le forze che mettono la natura in moto e tutte le posizioni di tutti gli oggetti la quale natura è conosciuta, se questo intelletto fosse anche abbastanza vasto per analizzare questi dati, raccoglierebbe in una singola formula i movimenti dei più grandi corpi dell’universo a quelli del più piccolo atomo, per una tale intelligenza, niente sarebbe incerto e il futuro, come il passato, sarebbe il presente ai suoi occhi.


Questa affermazione presuppone 1) che si sappia per certo che sia una intelligenza a possedere questa capacità e ad assumere questo ruolo 2) che si sappia che cosa sia un istante 3) che si sappia cosa significhi conoscere 4) che si sappia che cosa sia una forza 5) che si sappia cosa voglia dire natura 6) che si sappia che cosa sia il moto 7) che si sappia che cosa sia la posizione 8) che si sappia se tali forze agiscano indipendentemente oppure organicamente 9) che si sappia che cosa significa analizzare 10) che si sappia che cosa siano i dati 11) che si sappia quale sia il ruolo di una formula 12) che si sia sicuri che il suo ruolo sia la previsione 13) che si sappia che cosa significhino grande e piccolo 14) che si sappia cosa siano la certezza e l’incertezza e perché muoviamo verso la prima 15) che si sappia cosa sono passato presente e futuro 16) che si sappia cosa significa la parola sarebbe e dunque cosa siano le condizioni, la possibilità, il fatto, la realtà e la potenza.

In Minority Report vediamo come un metodo per prevedere il futuro consenta alla polizia di intervenire per evitare un delitto. Chi viene fermato in tempo viene tuttavia condannato come se lo avesse commesso. Alcuni pongono l’obiezione che se tu prevedi il futuro e lo fermi, non è più il futuro. Le autorità rispondono che se tu prendi una palla da biliardo, la fai rotolare sul tavolo e la fermi prima che cada, questo non nega il fatto che sarebbe caduta.

Essi usano dunque il condizionale, il quale implica che per la realizzazione di un evento occorre la sinergia di più soggetti, ma che se alcuni di questi mancano, la responsabilità e punibilità dei singoli elementi non ne vengono diminuite. Ma invero nessuno vorrebbe premunirsi verso una cosa impossibile - come lo è una azione solitaria – e dunque noi andiamo a bloccare tutti gli elementi che, presi nel loro insieme, producono il male, e chi contribuisce con la sua presenza a produrre un male qualsiasi deve essere eliminato. Per il mondo nel suo insieme esiste solo il presente ed è dunque sano, ma per i singoli soggetti esistono anche il passato (una stratificazione di elementi fuori posto dentro di noi) ed il futuro (la fantasia su sfondo empirico del loro riposizionamento).

L’ultima parte della sentenza di Laplace
per una tale intelligenza onnisciente il passato e il futuro sarebbero il presente

significa che noi risolveremmo tutti i problemi, ma non aggiunge l’avverbio istantaneamente contemporaneamente in quanto sarebbe improprio. Non avverrebbe questo contemporaneamente perché gli altri elementi del mondo non possiedono questa capacità, sono pertanto ciechi e dunque solo per gradi una tua mossa tattica di spostamento determinerebbe tutti gli spostamenti necessari a risolvere la totalità dei problemi. Ad esempio, se la legge spagnola proibisse ai figli dei proletari di frequentare l’università, sebbene alcuni di essi ne avessero il talento e dunque le potenzialità, e tu invece avresti le potenzialità, entrando in politica, di cambiare questa legge, ma un’altra legge ti impedisse di entrare in politica perché sei italiano, ecco che un terzo personaggio, spagnolo, che abbia il tuo stesso obiettivo di consentire l’accesso all’università ai figli dei proletari ma una differente capacità d’azione, si metterebbe in moto per darti il diritto di entrare in politica, ovvero ti metterebbe nelle condizioni di porre le condizioni che realizzino il vostro scopo. Ogni condizione prepara un’altra condizione, UN oggetto ne sposta un altro, rispettando le posizioni in cui stanno, l’uno adiacente all’altro. Ma possiamo affermare che tutti sono alleati, scompaginati e inframmezzati di soggetti nemici, alleati nel male, che fanno tutto il possibile per realizzare la totalizzazione del male, poiché il falso è affine al falso, e tutti i nostri obiettivi buoni sono invece compatibili perché posti in un unico organismo.



Tutte le affermazioni contenute in questo libro sono estremamente presuntuose.
Ebbene: devono esserlo. Perché lo scopo della filosofia è promuovere una svolta epocale e conseguentemente le sue affermazioni devono andare a smuovere i pilastri della civiltà presente. Se non ti senti all’altezza di una simile responsabilità, va pure a scrivere innocui trafiletti sul gazzettino provinciale e lascia stare la filosofia. Se guidi come un cittadino modello, avrai il plauso del tuo paese e vivrai tranquillo. Tuttavia non vincerai alcun mondiale di Formula 1. Ma allora non metterti sulla strada di Senna e Schumacher agitando le braccia, o avranno tutto il diritto di stirarti. Che Senna se la veda con Prost, non con l’inetto tassista che gli suona dietro. Tutti quelli con cui ho dovuto discutere nella vita hanno avuto il sostanziale ruolo di rompermi le palle. Ti mettono davanti degli ostacoli, fastidiose segnaletiche, ti infangano la visiera, ti depistano, ti attaccano sacchi di sabbia agli alettoni, dispongono chiodi sull’asfalto, vi praticano buchi talvolta voraginosi, ti versano zucchero nel serbatoio. Oh se invece avessi avuto un Team!
Che prima mi mette a punto una vettura perfetta, poi comunica con me via radio per dirmi quello che devo sapere, se poi ci sono problemi tecnici mi aspetta ai box con tutto l’essenziale e la rapidità necessaria a chi deve vincere una gara contro il tempo. Il problema è che alla Filosofia nessuno ha costruito un circuito apposito. Sicché devi girare con la tua monoposto fiammante nelle strade comuni, imbottigliato e surriscaldato, e non si sa se sian più le imprecazioni che rivolgi tu al prossimo o quelle che ti rivolge lui quando decidi di rompere le regole e usare la strada come fosse una pista a tua disposizione.


« Il regno dei cieli si può paragonare a un granellino di senape, che un uomo prende e semina nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami »   (Matteo 13,31-32)


Significato: il pensatore solitario che possiede talento e voglia di lavorare alla fine fonderà un nuovo regno sotto il quale tutti troveranno rifugio e rispetteranno le sue leggi


La dimenticanza alleggerisce la coscienza e spegne il rancore ma con esso spegne anche le sue ragioni e la loro forza. Quando ritornerai in battaglia, laddove c’erano determinazione e rabbia ci saranno ora vacuità e spaesamento, se non addirittura un sentore di colpa, stimolata dall’ostilità del nemico cui non hai più gli elementi per contrapporti. Attenzione a dimenticare ciò che non era stato risolto…


“I filosofi non sanno nemmeno dire se è caldo quando è caldo, se è freddo quando è freddo, non hanno mai sentito l’odore di merda, non sono né soldati né operai, non sono un cazzo, filosofeggiano ma…ah io preferisco il soldato rude con il suo fucile alzato sulla testa!”

Un operaio a tutta birra


Allora il soldato lo comanda il suo diretto superiore sino a che non si arriva al generale che piglia ordini dal capo di stato maggiore il quale prende ordini dal presidente il quale prende ordini dal suo partito di riferimento il quale è basato su di una ideologia la quale è creata da un fottuto filosofo. Il filosofo non è dunque un cazzo ma determina la vita delle prossime generazioni, dei tuoi figli e dei tuoi nipoti. Tu lavori in una fabbrica che non te ne frega nemmeno un cazzo di che cosa produce “basta che paghino” e se nessuno ci avesse messo l’iniziativa imprenditoriale e la gestione tecnica tu al massimo zapperesti la terra sempre che qualche intellettuale preistorico abbia capito come si estraggono i metalli e si costruisce una zappa. Lo sai perché questo nuovo materiale per tubature che tu innesti è di qualità superiore a quello che si usava quindici anni fa? Se lo chiedi a un ingegnere idraulico te lo sa dire, e nella tua azienda sicuramente ce n‘è uno, che naturalmente sarà un coglione ed uno sfruttatore che fa i suoi banali progettini ma non si sporca le mani come invece fai tu. Del resto se le sporcasse rischierebbe di macchiare il progetto e prova tu a presentare un progetto macchiato ad una commissione senza che te lo tirino in faccia. Il vero uomo è concreto ed è sporco! Nemmeno il tuo amico Stalin metteva direttamente la gente nei Gulag, eppure glieli mandava lui: dunque nemmeno lui era nessuno? A cosa serve studiare undici anni di medicina per fare due taglietti, ci vai tu, con la tua chiave inglese, rigorosamente sporca così scivola meglio. Tu fai tutto con il martello, anche filosofare. Lo faceva anche Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli, ma era una cosa diversa. Il suo era un martello metaforico, ed un martello di precisione perché doveva smontare dei concetti capitali che avevano plasmato la creta del mondo per millenni. Tu invece i concetti li prendi barbaramente a mazzate e li schiacci. Ma non li ammazzi, te lo assicuro. Non li ammazzi. Spesso non li colpisci nemmeno, e dopo di te resta tutto come prima. Il compagno Marx ragionava poco meglio di te, ed era dunque meglio che restasse un operaio. Invece, ha deciso di fare il filosofo, e sono stati cazzi amari per milioni di persone. Dovremmo fare una rivoluzione per questo, dovremmo imporre una Fabbricatura dell’Intellettualato come misura temporanea per la creazione di una società più giusta.


Per selezionare i bambini a seconda delle rispettive inclinazioni, li si ponga di fronte ad un oggetto composto di molti stimoli eterogenei e si registri quali tra questi egli scarta immediatamente, quelli che prende in considerazione ma alla fine scarta, quelli che prende in considerazione ed alla fine accoglie, e quelli cui si aggrappa invece subito e saldamente il suo interesse.


L’educazione consiste nel portare un bambino nella direzione
che prenderebbe da solo se fosse già vecchio.


Non esistono visioni incomplete, percezioni incomplete, reazioni incomplete, scelte incomplete. Quello che vediamo è completo per noi nella sua incompletezza oggettiva, ed abbiamo una piena reazione ad esso, con tutto il nostro essere.


Non esiste alcun metalinguaggio, perché il linguaggio stesso è un oggetto fisico sottoinsieme dello stesso universo di oggetti fisici. Un termine di metalinguaggio è un segno che corregge un altro segno, reagisce ad esso in questo modo, opera su di esso proprio come il primo segno linguistico era intervenuto sul primo dato empirico, era un gesto autodifensivo attuato verso una realtà percepita come non completamente piacevole e non perfettamente conciliante i nostri bisogni.


La soddisfazione dei letterati non è quella di aver espresso bene qualcosa, poiché questo ha un potere irrisorio nei confronti della realtà esterna che è la vera fonte del male sulla quale intervenire. La soddisfazione dei letterati è quella di poter portare, tramite il linguaggio, le energie di molti uomini dalla propria parte ed agire collettivamente su quella stessa realtà che li affliggeva.


Il termine espressione è usato con molta sciatteria. Dunque: se una realtà ha impresso in me un sentimento, io posso scoprire che lo stesso sentimento può essere impresso, in un’altra persona, tramite una combinazione di parole. Ma tali parole, se fossero solo serie di macchiette su un foglio oppure sequenze di suoni, difficilmente potrebbero davvero avere lo stesso effetto di una realtà empirica maggiormente potente. Queste parole sono dunque efficaci tramite l’associazione, ossia tramite il loro significato, che empiricamente sta nella contiguità percettiva tra il segno e l’oggetto avvenuto contemporaneamente in due persone. Due persone non possono affatto comunicare se non hanno avuto una esperienza in comune a contatto della quale è comparso un termine. Una completa comunicazione è una completa assimilazione: se non fosse questo un ossimoro in un mondo ancor plurale, in quanto completa assimilazione significa identificazione. Se due persone hanno avuto la medesima esperienza associata alla medesima stimolazione verbale, si può dire che essi abbiano un linguaggio comune. Infatti, quando sentiranno di nuovo quella parola, ammesso che esista un sostrato umano, una condizione generale che riceva da quella parola un effetto simile, ecco che rievocheranno entrambi quell’esperienza vissuta. È ovvio che, se quell’esperienza fu negativa, quei due avranno reagito come alleati contro di lei, e sono diventati dunque fratelli di sangue e di bandiera, e quella parola diventa la loro parola d’ordine qualora siano stati loro ad emetterla come grido di battaglia, all’unisono, o invece una parola sinistra e presaga di sventura qualora l’abbiano sentita dall’esterno associata ad una perdita. Il linguaggio è dunque un’arma, ed è un’arma comune qualora sia stata utilizzata nello stesso modo contro la stessa realtà. Il modo in cui parliamo è uno dei primi elementi di riconoscimento tra persone simili e di discriminazione istintiva delle persone diverse. Se noi infatti parliamo nello stesso modo delle stesse cose significa che siamo uguali.


Hannah Arendt osserva come Arché significasse sia inizio che comando.

Platone, nel III Libro delle Leggi, fa un censimento dei principi che permettono di governare. Quattro di essi si presentano come differenze che derivano dalla nascita: comandano coloro che sono nati prima o meglio.

Genitori Figli
Anziani Giovani
Padroni Servi
Nobili Plebei

Si tratta di un VEL o di un AUT ?

Possiamo stabilirlo solo prendendo in considerazione il significato dei due termini disgiunti: solo così potremo stabilire se sono compatibili o meno. Vediamo che sono compatibili: infatti uno può essere nato prima ed anche meglio. Egli non ha posto una gerarchia di valore tra i due termini, ed uno da solo è sufficiente a determinare il diritto di governare, ma i due termini hanno dunque, in ogni caso, un valore, nella fattispecie un valore uguale, quindi averli entrambi significa essere doppiamente legittimati. Tra due individui nati meglio vincerebbe quello nato prima, e tra due individui nati nello stesso tempo vincerebbe il migliore. Non essendo fornita però una gerarchia tra i due termini, non siamo in grado di evincere chi dovrebbe avere la meglio in caso di contrasto. Ai due termini contrapposti vedremmo sostituiti due binomi contrapposti, ognuno formato da una virtù e da un vizio di pari valore, con il risultato di una neutralizzazione che rende impossibile la scelta in quanto la differenza tra due termini uguali è sempre zero. Ma le uguaglianze esistono solo nella teoria, in pratica esiste sempre una differenza che determina la scelta, e quando due fattori sono effettivamente equivalenti, non è che non si sceglie, si trova un criterio che lo consenta. Se una scelta è infine infattibile perché entrambe le conseguenze sono inaccettabili [per quanto in certa misura sempre differenti] ecco che il soggetto ritiene ingiusto compiere quella scelta e dunque sceglie di rompere gli schemi in cui lo avevano costretto, ampliare ed innalzare il punto di vista spostando la scelta tra quella invisa dicotomia e la sua negazione, ossia una terza opzione.


Nietzsche [La Volontà di Potenza]: la logica si basa sul presupposto che esistano due cose uguali.


Rettifica: La logica si basa sull’istinto dei molti a diventare uno, il che è possibile soltanto ponendo ogni ente nella sua posizione gerarchica all’interno di una sfera concettuale. La discriminazione in sé è sinonimo di vita, perché le cose sono fattualmente diverse, e non è possibile reagire ugualmente a due stimoli diversi. All’identità di un essere corrisponde la funzione, la guerra è il mezzo per realizzare questa uguaglianza, processo implicito nella teleologia dell’essere vivente.
La logica come disciplina è una teoria della guerra, è una guerra teorica in grado di prevedere conseguenze di collocazioni erronee senza rischiarle direttamente.
I concetti generali non sono che una prima scrematura dei soggetti particolari:
li si iscrive in un insieme, già di per sé sottoposto o sovrapposto ad un altro insieme. Poi gli si attribuisce un preciso ruolo nella gerarchia interna di quell’insieme. Imparare a parlare significa imparare ad agire e cioè a collocare, a togliere da un oggetto tutti gli attributi che non gli competono (dunque dissolvere le relazioni infauste) ed annettergli tutti gli attributi che gli competono (instaurare relazioni fauste). Le parole ci colpiscono e ci smuovono perché non sono altro che proponimenti, presagi di azioni. Nessuna azione è innocua, dunque nessuno lo è.
Chi mette ordine nei concetti metterà ordine nella realtà e questo è la Filosofia.

Contro gli studiosi di biologia che si arrampicano sugli specchi per negare l’evidenza nonostante abbiano anche le intime nozioni tecniche con cui confermare quello che è comunque evidente ad un uomo che voglia essere onesto…

Se non sono i geni cosa è che determina un livello intellettivo, la sensibilità, cui conseguono le inclinazioni comportamentali e una determinata cultura che, in assenza di interventi esterni, si conserva anche per millenni? Alla scienza voglio ricordare due cose: 1) Lo scienziato è un uomo
e tutto ciò che indaga è sottoposto ai suoi limiti di razza e alla necessità di difenderla 2) I soldi alla ricerca li dà o li nega la politica, dunque ne è la padrona e commissiona le teorie da “dimostrare scientificamente”, e se un dato empirico contraddice gli interessi del potere, non è difficile farlo sparire o “interpretarlo”.


Parti dai bassifondi di una società a gerarchia invertita, non sai chi sei, sei abituato ad ingiustizie che non conosci come tali perché il linguaggio violenta e plagia la reazione naturale dell’istinto che le rigetta, anch’esso inefficacemente per la debolezza fisica contro un mondo nemico che in fitte e stratificate compagini grida ed opera il Male come Bene. Un direttore istintuale che dagli apogei coordinerebbe in un sol gesto la massa insana del paese, districandola magistralmente e senza pene indebite, si diffrange in piccole azioni che trovano ognuna una specifica opposizione materiale e giudiziale, poiché in ogni ansa di realtà i nemici percepiscono e vogliono diversamente. Tu puoi ragionar con loro, ossia: ad un giudizio singolo che si contrappone al loro, chiami in aiuto altri giudizi che portino la tua bandiera e questa è una argomentazione, che pesa psicologicamente per il peso della schiera delle parole udite dal tuo nemico che non lo convincono ma lo vincono (temporaneamente). Forzano il suo pensiero e dunque il suo cervello ad operare contro le altre parti del suo corpo. Allora anche lui usa una contro argomentazione, ovvero i sensi gli vengono in aiuto liberatorio ponendo ogni sua percezione a contraddire rispettivamente ognuna di quelle che tu abbia chiamato in causa. E non ci si può trovare d’accordo, perché la difformità di spirito e dunque di percezione si ripresenta quale che sia il tema toccato, con la massima coerenza in ogni partecipante alla disputa, e dunque discutere, ragionare, non serve ad altro che a complicare le cose, ad estendere quell’ostilità naturale che già era evidente al primo confronto, sino ad assolutizzarla addirittura e dunque scatenare uno scontro che, disponendo delle armi sufficienti, decreterebbe la morte di uno dei contendenti. Perché renderebbe chiaro ad entrambi che rappresentano uno per l’altro un nemico mortale, che qualsiasi spazio lasciassimo a questo essere difforme, sarebbe fecondo di sventure per noi, anche se molto indirettamente, e dunque quando scegliamo, di fronte ad un dissenso, di andarcene semplicemente ognuno per la sua strada siamo solo dei pigri, degli imprudenti, degli stolti, dei disfattisti, degli ingenui, e nella nostra tolleranza non vi è alcun valore etico. Spesso cerchiamo di portare il nostro avversario alla contraddizione. Se però cogliamo l’avversario in contraddizione non lo abbiamo veramente sconfitto: o meglio abbiamo sconfitto la sua apparenza, la sua montatura, dunque la sua prestabilità per un gioco che presuppone certamente una identità ben precisa, che la contraddizione esclude come conseguenza linguistica dell’impurezza, la quale si esprime nell’insicurezza e dunque nella conflittualità d’azione, rivela una non completa fedeltà, cosa che non lo rende giammai affidabile e dunque tollerabile a chi debba assegnare lui un compito. Infatti in un avversario che si contraddice spesso il nostro disappunto è rivolto alla mancanza di serietà o di onestà, un individuo che non sembra capace oppure non vuole rivelarsi per quello che è, ossia un elemento a noi avverso oppure favorevole, un amico o un nemico. Cogliere un uomo in contraddizione è dunque un espediente utile al mero scopo di smascherarlo, dunque rivelare in lui una identità che non è conforme a quella richiesta per ricoprire un ruolo. Ma l’uomo può anche essere indotto alla contraddizione con la sofisticheria che cerca di confondere percezioni che per lui erano invece chiare, di modo che le esprima ora in maniera maldestra e contorta perché non sa esattamente di cosa si sta parlando, ovvero alle sue parole non corrispondono precise percezioni, e nemmeno a quelle che il sofista gli comunica, in maniera volutamente fumosa e contorta per fargli perdere l’orientamento e renderlo inetto a qualsivoglia reazione determinata ed efficace. Si tratta ovviamente di una scorrettezza, mirata nelle persone disoneste ad evitare che il confronto paritario abbia luogo, mentre nel caso precedente si cercava di portare alla contraddizione un uomo che aveva percezioni chiare ma le celava opportunisticamente per travisare la propria identità ed ottenere un ruolo che non meritava. Nel primo caso dunque si volevano stabilire delle precise identità: precondizione di ogni sensato confronto. Nel secondo si voleva evitare il confronto sottraendogli la sua precondizione ossia la percezione di determinate identità. Anche questo conferma come non si debba mai discutere con un sofista: perché manca in lui l’onestà, ossia la comunanza di obiettivo, condizione primaria di ogni confronto. Quando invece discutono due persone oneste, è fondamentale dire che ogni uomo, posto puramente dinanzi ad una realtà chiara, non può non avere una reazione ben precisa e piena che lo identifica, e che tale reazione non può essere incoerente con tutte le altre reazioni pure che egli abbia avute dinanzi ad altrettanto pure realtà. Giudicata una cosa, noi le abbiamo potenzialmente giudicate tutte, anche se non è prevedibile a priori il fatto che gradiremo una musica se abbiamo precedentemente gradito una bevanda. Ma lo statuto di affinità con altre persone rende invece tale cosa anche prevedibile. La maggior parte delle esperienze sono state già vissute da un carattere umano, in una delle sue incarnazioni in esseri singoli: ossia, un oggetto ha ottenuto una reazione fisica o linguistica, da parte di altre persone simili a noi, e dunque tali contatti hanno generato un sistema linguistico, un codice, i cui termini sono naturalmente coerenti poiché provenienti dal medesimo carattere, la qual cosa rende possibile la previsione tramite deduzione, ossia evincere un giudizio da un altro senza porsi direttamente di fronte all’esperienza, solo perché un altro ha emesso quel giudizio, ha avuto quella reazione, che dunque saremmo necessitati ad avere anche noi, poiché suoi simili. Naturalmente questo non potrebbe avvenire senza la presenza di molti esseri affini e dunque senza una esperienza collettiva, spartita per settori, che esime ognuno dal vivere tutto in prima persona e consente un rapporto di fiducia, possibile solo tra persone di identico carattere. Tuttavia, come prima abbiamo invalidato la sensatezza di discutere con persone disoneste e dunque false, ora dobbiamo invalidare anche la discussione tra persone oneste: perché l’olio non è riducibile all’aceto, sia che si discuta sopra l’insalata o sopra qualsiasi altra pietanza che si tirasse in ballo allo scopo di sostenere la giustezza della reazione oleosa contro quella acetica oppure viceversa: si può trovare una pietanza sulla quale l’olio e l’aceto, ognuno, sia ben chiaro, con una specifica e naturale funzione, possono conciliarsi per uno scopo comune, ed in tal caso la troveranno entrambi gradevole e cesseranno le opposizioni: sino a questo punto le due sostanze si ritrovano affini, ed invero solo il loro ibrido ossia una terza sostanza risulta affine ad un fine ossia mezzo per quel fine. Anche se bisognerebbe osservare che un oggetto ibrido può essere utile solo ad un altro oggetto ibrido precisamente per disibridarsi, ed ogni Utilità è temporanea, dovendo dissolvere le impurità e dunque annullando una identità temporanea in quanto spuria.
Ma nel momento in cui l’aceto si posasse su un qualsiasi oggetto alternativo, ritroverebbe l’olio che lo rimprovera di aver barbaramente acetato quell’oggetto, anziché olearlo come avrebbe fatto lui. Per quanto discutano i due condimenti, contendentesi il diritto di agire su una sostanza, non possono giungere ad un accordo, possono solo scontrarsi fisicamente e prendersi tale diritto con la forza. Il diritto, tuttavia, non ce l’hanno entrambi, perché uno dei due può avere un effetto devastante sull’oggetto sul quale interviene, che indirettamente diviene l’intero sistema, che nel suo insieme non può meritare mai di essere danneggiato. Quindi la guerra è inevitabile e giusta, ed il più intelligente deve essere anche il più forte e non farsi scrupolo di ammazzare l’avversario.


Ogni vero scienziato è un uomo che possiede una capacità percettiva superiore agli altri in un determinato settore, e secondariamente relativa al suo livello più macroscopico oppure ad un livello maggiormente subalterno. Costoro sono destinati ad essere degli innovatori, perché la loro passione li conduce a smontare tutto ciò che stride, nella realtà e dentro il loro petto percettore, nel livello scientifico odiernamente raggiunto ed istituito. Se costoro sono spiriti dello stesso livello quanto a coefficiente di risoluzione della loro vista, eppure differenziati nell’ampiezza del campo visivo e dunque nell’interesse, vediamo che, se operassero ognuno la ricerca relativa, criticamente rispetto alla scienza di oggi, i loro risultati, posti a confronto, sarebbero coerenti, e sistematizzando appunto tutte queste singole ricerche potrebbe operarsi una grande rivoluzione scientifica. Un progresso può e deve tirarsi dietro tutti gli altri: ogni singolo vero progresso, per quanto settoriale e piccolo, è un pinnacolo di scoglio che si erge sul mare degli errori odierni, che deve essere preso a vessillo di un cambiamento generale, perché esso rappresenta il pensiero più evoluto del sistema concettuale dell’epoca, quello che già appartiene alla prossima epoca, il cui piano deve essere raggiunto da tutti gli elementi affinché quella possa essere chiamata tale: un frammento di cambiamento non è una rivoluzione come una rondine non fa primavera, è solo un segnale di lieto augurio, ma tutte le gemme devono fiorire e le acque disciogliersi, il clima temperarsi ed il paesaggio assumere una veste uniforme perché si possa dire che è cambiata le stagione. Ma ogni reale innovazione, veritiera, è un segno dalla provvidenza che la civiltà tutta ha ancora una speranza di redenzione.
Quel raggio di luce è in grado di rincuorare spiriti anche molto distanti, appartenenti a tutt’altri ambiti disciplinari ma affini nel livello intellettivo di quel ricercatore al quale tributano immensa gratitudine non appena scorgessero, d’improvviso e casualmente tra le righe di articoli scientifici di altra e pessima matrice, due singole righe di quella musica così diversa e di qualità, si trattasse anche solo di una ardita ipotesi e non di una tesi comprovata: perché l’ipotesi di un cervello superiore è necessariamente vera e per le prove non v’è che da attendere. Questo contatto,
per colui che ne giovi, rappresenta sempre una conferma ed un punto di appoggio di valore inestimabile, soprattutto se questi di già fosse privo di molti appigli nella sua zona d’origine e spesso si fosse trovato a dover lanciare il suo pensiero ad innestare basi mancanti nelle lande oscure di settori scientifici di cui non è competente né molto partecipe. Dovunque un frammento di materia nobile, o di pensiero nobile, giunga in contatto con spiriti affini, stia sicuro di suscitare un effetto vitale come altri non ne potrebbero questi trovare sul loro cammino, che nei momenti più drammatici delle anime perdute raggiunge addirittura la commozione. Sappia dunque un linguista controcorrente che esiste da qualche parte un fisico controcorrente che si è scontrato contro lo stesso livello di bassezza sistemica e ne ha sofferto quanto quel musicista controcorrente che se incontrasse quel pittore controcorrente gli chiederebbe di illustrare i suoi dischi ed andrebbero a cenare a casa di quel cuoco pieno di originalità e di buon gusto al quale piacerebbe guidare una macchina progettata dagli ingegneri che applicano le teorie di quel fisico raccontate con lo stile di quel linguista. Se questo cenacolo di personaggi affini potesse creare il proprio sistema, non basterebbe cotale affinità a dare avvio ad una organizzazione spontanea, perché non ci sono organizzazioni spontanee laddove manchi anche solo un elemento: per la visione d’insieme
occorre ebbene la vista del filosofo.


La filosofia migliora le singole scienze ponendone in correlazione i principi, che esse prendono singolarmente come postulati per poi dedurne delle conseguenze: se tali scienze fossero davvero perfette ossia integrate in un sistema che applicato alla realtà si traduce nell’innesco di un progresso continuo ed unitario, esse sarebbero già un sistema filosofico e politico, che non stimolerebbe alcuna riflessione sistemica di tipo necessariamente critico. In questo caso nemmeno singoli innovatori nelle singole scienze sarebbero richiesti e la creatività in generale trasvolgerebbe in mera esecuzione. Invece la filosofia è in ogni epoca tanto imperfetta quanto lo sono le singole scienze, poiché la sua inefficienza, dunque l’inefficienza del sistema politico fondamentale, è basata sulla impossibilità di farle combaciare. Il singolo scienziato di livello è uno specialista che però ha la vista migliore e fin dall’inizio mette in discussione grossolani ed ingannevoli principi fondamentali, ed egli è capace di operare una rivoluzione scientifica, che però può diventare una rivoluzione sistemica solo se parallelamente altri specialisti del medesimo livello hanno fatto la stessa cosa nel loro campo, ed infine un filosofo dello stesso livello connetta il tutto creando una ideologia politica pronta ad essere applicata da un grande personaggio. Se mancassero singoli grandi geni, e ce ne fosse uno filosofo, egli potrebbe nondimeno spianare la strada a future innovazioni tramite uno strumento che è accessibile solo a chi si interessi del tutto e possieda un punto di vista generale: il suo confronto tra i principi delle discipline rivela delle incoerenze, ed egli sa che dovunque ci sia incoerenza sono presenti degli errori, cosiccome nella vita quotidiana ha sentito vari stridori laddove tutte queste anime hanno preso corpo e moto. Si tratta appunto di errori che non possono essere individuati da singoli scienziati non creativi, vincolati al dogmatismo della scienza istituita. Se c’è un errore alla base, l’unico modo in cui può aversi un progresso più settoriale è che un piccolo innovatore si sia messo ad osservare un fenomeno privo della sua gabbia concettuale colla quale sarebbe stato tenuto ad interpretarlo, e vi abbia visto più giusto di chi lo aveva osservato precedentemente essendo altrettanto grezzo di chi si è invece occupato di problemi più fondamentali sparando generali minchiate, ed abbia imposto ai subalterni di sviluppare ad albero quello schema concettuale entro il quale sarebbero dovuti collimare tutti i futuri esperimenti. Se gli esecutori di queste ricerche applicative sono altrettanto grezzi del maestro, se non erano in grado nemmeno di percepire come non convincente la formulazione generica del principio, essi non potranno neanche notare che gli esperimenti specifici lo invalidano: la loro sensibilità personale difettiva troverà in essi invece le conferme di quell’idea, come un figliolo figlio proprio di suo padre non trova nulla da ridire nei suoi insegnamenti, anche laddove li stagli nel suo piccolo mondo infantile e non in quello del genitore adulto.


Il filosofo è un individuo che per assumere una decisione serena circa l’imbrattamento dei monumenti ad opera dei piccioni di un comune di provincia dovrebbe scomodare i massimi sistemi.
Il conflitto tra architettura e regno animale non è cosa che si possa dirimere dal basso. L’ufficio comunale che si occupa della questione probabilmente non la prende nemmeno in considerazione meno di sei mesi dopo l’esposizione formale delle proteste dei cittadini e quando poi finalmente lo fa, la deliberazione non richiede più di una ventina di minuti di gestazione piuttosto agevole e priva di turbamenti: tutto al più i dilungamenti sono di ordine burocratico ma non morale, ed anzi dettati per lo più dal disinteresse generale verso questioni non personali. Va da sé che il comune non risolverà il problema alla radice: ma per la gente comune questo non rappresenta un problema. Essa più che radicarsi si appoggia, e si vuol libera di scivolare. Il popolo vive o si illude di vivere in un panta rei, dove tutto diviene e nulla è, tutte le zolle sono mobili e non necessitano di comporsi in una gerarchia che trascenda l’istinto egoistico delle singole a sopraffare l’elemento che con loro qui ed ora si scontrasse. Tolto il necessario e lasciato il contingente, la contingenza diviene per loro la unica necessità, e qualsivoglia intrusione di questioni generali necessita innanzitutto di essere scagliata via per prima come scomodo problema contingente. Il Conflitto, che per loro è sempre particolare per quanto duale, non può generalizzarsi, dunque aumentare di complessità e doversi allora necessariamente disporre in ordine verticale e non più orizzontale, stabilendo in tal modo un ordine di priorità nella risoluzione dei conflitti. Questa è una cosa che interessa invece sancire ai boss della filosofia e della politica. Nella singolarità di un soggetto non è possibile sancire una gerarchia e dunque un ordine verticale. La priorità che resta effettiva per lui, ovvero l’ordine unitario con cui affronta i problemi, non è altro che la sequenza naturale in cui questi gli si presentano uno dopo l’altro: logico dunque che non la scelga lui, egli ci si imbatte. Ma egli può essere dissuaso e deviato da questa istintiva scelta solo per l’intervento di un gerarca che dallo snodo superiore decida che quel suo conflitto va posticipato, poiché prima ne viene un altro. La gerarchia verticale è quella degli intelletti, che analogamente ragiona in orizzontale come linea perpendicolare alla larghezza, dall’alto verso il basso, e si è creata appunto dal confronto naturale tra soggetti dei quali il primo, il più forte, abbia sottomesso il secondo, e dunque un ordine che provenga da lui, una sua disposizione, sarà sempre più forte degli altri che vi entrassero in conflitto e nessuno che davvero abbia trovato la sua locazione gerarchica per scontro diretto tenterebbe una insubordinazione, perché sente di aver bisogno di un punto di riferimento superiore per rendere vincente la sua azione, laddove il suo snodo non sia l’apice dell’algoritmo.
Ma per chi abbia perso ogni orientamento e sia in balìa di ciò che la vita gli porta, i problemi non son mai radicati né radicabili: si tratta di piante erranti, galleggianti, roteanti, serpeggianti, forse rampicanti, ma nulla di ciò viene letta provenire dal profondo di qualche landa da scandagliare. Questa percezione delle cose motiva la scarsa attenzione che l’uomo comune dedica allo studio.
Egli non lo ritiene necessario: le sue decisioni sono sempre piuttosto rapide ed egli ha fretta di concretizzarle, perché una pulsione non va in effetti trattenuta nel corpo una volta che abbia fissato il suo obiettivo e le forze fisiche la sostengano. Dunque egli biasima e sprona con una certa sgarbatezza chi invece se ne resta assorto in ponderazioni e studi complessi come una persona poco risoluta. Ignorando che ella possa avere un problema assai più grande da risolvere di quello che lui è convinto di aver risolto. Certamente colui che volesse risolvere in maniera radicale e definitiva il problema dell’urbanesimo piccionesco merdabondo dovrebbe inserirlo in un piano coerente di reimpostazione sistemica. Il filosofo è uno che applica istintivamente il principio kantiano del trattare qualsiasi cosa come fine e non come mezzo: tale è la ragione della sua lentezza decisionale sulle questioni singole e spesso del suo infastidito rifiuto di occuparsene adesso, ossia con gli strumenti limitati del particolarista che asservirebbero uno scopo più grande al suo scopo personale. Pertanto egli mostra di frequente il suo disfattismo riguardo ad esse, soprattutto quando esse non siano nemmeno ed anche per lui delle fastidiose scaglie contingenti ed egli abbia l’energia per scagliarle via, bensì problemi di già più complessi che altre persone, quelle che propriamente sarebbero tenute ad occuparsene subito, vedono come completi in tale visione e sono determinati senza remore ad una soluzione che appare altrettanto completa ed appagante, ma di cui il filosofo percepisce subito invece la relazione con altri problemi e dunque i confini di quel problema più grande, che egli è tenuto al contrario di altri a riempire di ogni panneggio, e per risolvere il quale ha già individuato un altro ordine di priorità, un altro piano di lavoro, anzi vi stava già lavorando da sempre poiché costituiva la sua vera causa, mentre se gli viene richiesto di focalizzarsi sulla soluzione singola, egli sa che per lui non è affatto singola, come gli altri la vedono avallandone l’egoismo e partecipandovi a cuor sereno, ed invece è una propaggine di un problema più complesso al quale costoro pretendono di anteporre la parte, lasciando il quadro al suo destino, guastandone le pianificazione risanatrici, e dunque mortificarlo in onore di quell’arrogante e barbarella particola. Queste prepotenze sono davvero molto sgradevoli e financo odiose per chi abbia visioni superiori: esse sono infatti ingiustificate ed ingiuste come ogni insubordinazione gerarchica. Il filosofo merita un ruolo dirigenziale proprio perché è l’unico che è similmente infastidito e mortalmente inappagato dalle angustie della particolarità, che invece rende le soluzioni altrui fiere e serene sebbene siano temporanee e personali e non invece costanti in quanto universali. Se queste soluzioni sono state pur valide nella loro temporaneità, sicuramente anche il filosofo ne giova, egli che gravo del tutto in ogni momento avrebbe diritto di esser sgravato del tessuto massivo del singolo per conservare di questo solo la siluetta strutturale che ne consenta la correlazione con gli altri elementi, in un insieme sinottico che è il vero oggetto del suo lavoro e di cui detiene giusto diritto di gestione e responsabilità. Mentre lo specialista si deve addossare pienamente la massa del singolo problema, con la controparte dell’essere sgravato da preoccupazioni relative ad altri problemi e precisamente il come quelli siano interconnessi, e parlassimo noi dei problemi pratici del mondo del lavoro o di quelli teorici del mondo della ricerca. Il corretto equilibrio sociale, dato dall’impegno costante di tutti in analogo livello di sforzo, è espresso appunto da questa spartizione del lavoro, ed è anche ciò che consegue in una soluzione organica, la più rapida possibile ed unitamente quella meno passibile di regressione, dei disagi di una civiltà e che tutta la porta verso uno stadio di sviluppo superiore. Quando vi è una collaborazione reale, quando orbene tutti stanno lavorando allo stesso problema e lo stanno facendo bene, la conseguenza logica è che tutti stiano facendo la stessa fatica. Allorché cesserebbero anche le dispute sul concetto di ingiustizia sociale che maggiormente si riferisce, appunto, al peso della vita distribuito in maniera così poco equa tra i diversi cittadini o classi sociali, laddove ognuno pensi solo al suo interesse e però alcuni lo perseguano da posizione avvantaggiata. Qui invece ogni teorico sentirebbe quotidianamente lo stesso peso di ogni pratico. Ed ogni astratto lo stesso peso del concreto, dacché l’astrattezza non è che una concretezza disposta diversamente, quella di chi si occupa di un corpo che è la stilizzazione, dunque l’impoverimento dell’inessenziale al suo scopo, di una serie di oggetti i quali, nel loro complesso strutturato, hanno lo stesso peso specifico dell’oggetto singolo di cui si occupa un altro studioso e che viene appunto definito per questo un oggetto concreto. Ma in senso lato son concreti tutti: anche il concetto di Essere che, ben lungi dall’essere vuoto, è l’insieme delle relazioni organiche, oppure il concetto di Divenire, che è l’insieme delle relazioni contingenti, ossia delle contaminazioni. Quandunque un filosofo ragioni di essere e divenire, non si abbia l’insipienza di affermare che egli stia vaneggiando o facendo discorsi campati in aria. I suoi discorsi sono campati in terra e su tutto quello che la restante massa lavoratrice mantiene ed opera su questa terra, ma egli stesso sta armeggiando niente meno che con i Pilastri della Terra che, sebbene stilizzati, sono talmente alti da essere assai ponderosi. La caratteristica fondamentale del vero filosofo e del vero politico, redentore della scienza il primo e redentore della società il secondo, è che appunto essi non si sentono estranei e dunque disinteressati ad alcun aspetto della realtà, sebbene non siano mai interessati fino in fondo ad alcun suo frammento, almeno non nella composizione imperfetta che questi abbia assunto nel qui ed ora, che per altri invece è interessante in se stessa e non la considera qualcosa da rimettere globalmente in discussione e scompaginare. Adunque tutto il mondo è paese, con i suoi monumenti ed i suoi ospiti, sicché la Piccionaggine e la Monumentalità non escludono l’Umanità, e diventano per chi le gestisce questioni estetiche e morali. Essendo il filosofo coinvolto in questi processi con tutta la sua anima, la sua indagine non rappresenta mai una distaccata e distensiva contemplazione, ma una guerra dei mondi trasferita dentro sé, della quale egli sente ogni moto, emozione, contrasto, colpo, contraccolpo, tradimento, astio, vendetta, biasimo, e poi certamente anche brama di realizzazione in ogni sua parte che gioisce, che viene parzialmente appagata ogniddove le sue componenti si affermino. Il filosofo è biologicamente un corpo sistemico, ed anche laddove abbracci temporaneamente una filosofia individualista, egli lo fa ingannevolmente, giacché un vero individualista non ne fa una questione filosofica e dunque sistemica, mentre lui ancor la spande a riflessione generalista e general principio, e ciò significa che quella visione del mondo non corrispondeva al carattere della sua anima, ma era solo uno dei tanti elementi, in questo caso ideologici, che egli istintivamente passa in rassegna, definisce, classifica, infine pone a confronto per evincerne quello migliore, il solo accettabile in generale oppure ne stabilisce la gerarchia e dunque ne accetta il pluralismo da sussumere sotto una guida generale che unifica di nuovo il tutto, con buona pace degli svaniti tutti. La mentalità organicistica non può dunque essere negata in lui, e discussa solo in maniera impropria, con una contaminazione, come una illusione di poter mutilare se stessi e vivere a modo degli individualisti: essa che sarà infine espulsa come ogni impurità. Ma essendo gli elementi ideologici altrettanto difficili da sbrogliare e togliere definitivamente di mezzo quanto gli elementi materiali, non ancora definitivamente organizzati, la guerra dei mondi si mantiene viva anche tra le correnti di pensiero, sicché in questo senso, prendendo la seguente frase come emblema dell’infinità dubbiosa del filosofo, possiamo dire che egli continui a chiedersi ad ogni occasione se dobbiamo avere il cielo stellato sopra di noi e la legge morale dentro di noi, oppure il cielo stellato sopra di noi e la morale sotto i nostri piedi. E solo uno sciocco potrebbe pensare che in questo binomio il Cielo Stellato rappresenti un elemento positivo. Esso è una bega astronomica. E gli astri non devono aver di malocchio gli uccelli né viceversa, sicché non possiamo fare a meno di conoscerne il punto di vista, le intenzioni e lo stato di salute, in quanto essi hanno di certo un influsso sul mondo. Il filosofo non fa pace con nulla che non abbia trovato definitivamente il suo posto: e dunque sino a che non lo trovano tutti, tutto è in subbuglio, tutto è in frantumi e danza, tutto frantuma e ricompone in una danza erotica e violenta che a volte stupra gli amanti e fotte i cadaveri, ed è allora una danza macabra, lei che vuole dismettere questa maschera oscena, riprender la mossa che conduce all’estasi, nell’agir la più etica estetica azione. Tale turbinio universale avviene dunque nel mondo come dentro questo personaggio che ne detiene un campione in se stesso. Se nella questione della sua vita sono ad un bel momento comparsi dei piccioni, e la bega tutta non abbia ancora dato il suo esito risolutivo, avendo egli iscritta nell’animo una sorta di responsabilità eterna verso le specie aviarie, rievocherà questa guerra dei mondi anche mentre si trova sul cacatoio di casa sua, allorché abbia visto un piccione appollaiato sulla grondaia dell’edificio latistante. Quando magari, quella volta il piccione non ti caga nemmeno. Passava di lì tranquillo ed aveva già scordato tutto. Poi tu insisti, riemergi la questione, complicandola sino ai confini che essa ha per te ma non per lui: lo talloni da presso, e lui ti manda a cagare. Ovviamente tu non ci vai anche se ci fossi andato per cause di forza maggiore. Potresti una sera essere andato a teatro e guardare una bella rappresentazione, e svariarti, ma…
Che in essa non compaia alcuna penna! E neppure un battibecco! Altrimenti, se tu vai in bagno, e pure che il bagno stia al piano terra, il conflitto piumato prontamente rievocatosi, or nella tua mente sublimante si vede estendersi turbineo ad ogni ordine di palchi sinché tra nulla ti ritrovi in piccionaia. Se un’anima possiede maestose ali, non importa di dove tragga decollo: essa vuol toccare gli apogei. Di lassù non si vede un cazzo, naturalmente, se non le sagome degli attori in proiezione ortogonale e qualche battuta attutita nelle sue gamme più impressive: sicch’ei si perde l’opera. Tuttavia la cosa non risulta sempre di svantaggio: se egli avesse guardato l’opera, ed non ci fossero mica piccioni né suggestivi volatili, nessun mi convincerà che i barboncini delle nobildonne inglesi seicentesche sono amici suoi. Quand’è che egli possa esser felice? Laddove nei ranghi egli sia spettro quieto, e sol dalle cime divino aceto.



Sociopsicologia del dolore


Se tu sei stato all’Inferno e te ne esci con il muso lungo e l’aria da vittima, non ti baderà nessuno. Ma se tu sei stato all’Inferno e te ne esci con il portafogli di Satana, ti porteranno rispetto.

La dimenticanza alleggerisce la coscienza e spegne il rancore ma con esso spegne anche le sue ragioni e la loro forza. Quando ritornerai in battaglia, laddove c’erano determinazione e rabbia ci saranno ora vacuità e spaesamento, se non addirittura un sentore di colpa, stimolata dall’ostilità del nemico cui non hai più gli elementi per contrapporti. Attenzione a dimenticare ciò che non era stato risolto…

Ad ogni uomo in pena…

Dio non ti può aiutare, perché devi ancora diventarlo
E prima c’è la croce.

Ogni divinità è l’incoronazione di un uomo che ha fatto per primo qualcosa di straordinario, grazie al suo coraggio.


Frammenti di filosofia della civiltà


Non è conveniente scrivere niente di personale, per la semplice ragione che l’autobiografismo tradisce la sfiducia nella vittoria finale, o per lo meno la constatazione che ci sono state delle imperfezioni e dunque delle sconfitte nel percorso, e noi ci teniamo a documentare quello che è successo per scagionarci da accuse ingiuste, in quanto pensiamo che la colpa stia all’esterno. Implicitamente ci proiettiamo già dinanzi al tribunale dei nostri nemici, a rispondere dei nostri misfatti, quando invece potremmo anche vincere ed essere loro seduti al banco degli imputati, alla mercé dei nostri inquisitori. Scrivere la storia prima che la battaglia sia conclusa toglie di fatto alcune nostre energie in servizio al fronte per metterle a lavorare nelle retrovie già conquistate: quando la cura del territorio va invece sempre sottoposta alla conquista di esso e al mantenimento del nostro dominio. Se vinceremo, avremo le mani libere ed allora potremo scrivere tutte le narrazioni che vogliamo, siccome plasmare quel territorio secondo i nostri canoni estetici e regolarlo secondo i nostri canoni etici. Ma il vincitore non ha invero bisogno di scrivere alcuna storia, salvo il caso in cui i suoi avversari siano ancora vivi o possano comunque ripresentarsi in nuove compagini, sicchegli deve attingere al corpo della prossima generazione, portando più persone possibile dalla propria parte, tramite la propaganda. Ma se tu scrivi la storia e perdi la guerra, essa non varrà nulla: sarà infatti cancellata, distorta, negata, respinta, occultata, rigirata, tagliuzzata, trasvalutata. Non vi è santo che tenga su questo punto e nessuna eccezione. I nemici sono difformi a te e piegheranno ogni cosa alla lor volontà. La vittoria non è dunque una cosa dalla quale si possa prescindere: senza di essa tutto il resto è niente.


Perdere le guerre è l’evento più significativo in assoluto: la prima lezione che dobbiamo apprendere dalla storia. Si suole contestare questa opinione citando esempi di nazioni che, uscite sconfitte da una guerra e sottoposte ad un altro sistema politico, hanno visto una rapida crescita economica, e di altre che, pur vittoriose, sono andate incontro ad una grave crisi. Quella crescita, e questa crisi, sono nondimeno temporanee, in quanto spurie. La materia è nulla senza l’integrità dello spirito, nel singolo come nel corpo di un popolo che, coerentemente con quello spirito, muova verso una meta comune. Se vi è questa circostanza, la vita di quel popolo può assumere davvero il tratto patriottico ed il misticismo, ossia la gioia di lottare per andare oltre nel proprio destino. Ma la ricchezza economica da sola non è indice della forza di una nazione, e nemmeno lo è la potenza dei suoi mezzi militari. Vi sono nella storia esempi di piccole nazioni, povere e male armate, che hanno respinto, grazie alla fede comune e ad una forte determinazione a conservarsi, il tentativo di invasione da parte di un impero. Le capacità di un popolo non si misurano dal prodotto interno lordo, ed una floridità che non sia giustamente distribuita contiene il germe della disgregazione sociale, della sua identità di popolo e dunque compromette il suo futuro. È meglio vivere con poco da mangiare ma nella propria integrità e nel proprio orgoglio, che maggiormente ricchi sotto dominazione straniera. La forza morale del popolo, data dalla coerenza interna, è destinata a produrre nel tempo anche la ricchezza e la potenza, mentre non è vero il contrario, dal momento che i cittadini di quel paese tenderanno ad usare quello che possiedono gli uni contro gli altri, poiché non costituiscono un popolo di fratelli ma un’aggregazione non spontanea, ed anzi imposta proprio da tirannidi esterne. Qualsiasi sistema politico materialista, che trascura deliberatamente l’aspetto spirituale della vita e dunque il carattere di un popolo, è destinato a perdere la fiducia dei suoi stessi cittadini, anche qualora una serie di circostanze favorevoli avessero consentito uno sviluppo complessivo e un miglioramento delle condizioni di vita medie. Il concetto di sviluppo perde infatti di significato senza quello di identità. Ed un aggregato di specie che non sono riuscite a creare un ecosistema, in quanto possiedono qualcosa di più profondo che li accomuna e consente quindi una loro convivenza organizzata, non può realmente svilupparsi come organismo, ed invece le singole differenti specie al suo interno lottano per trarre il massimo per se stesse, circondate da molesti stranieri anche in patria, e possono essere indotte a rispettare le regole solo con la forza dei tutori della legge, poiché si tratta di regole scomode ed eteronome, che essi non si sono scelti. La quantità di mezzi che un sistema politico deve dispiegare a difesa della propria conservazione è indice di quanto quel sistema sia spurio al suo interno nei suoi elementi umani, sia di fatto percepito come un nemico da molti cittadini, e quindi abbia trascurato l’elemento base, razziale, e quindi spirituale, su cui soltanto è possibile edificare una civiltà che stia in piedi, sia fiorente, e duri nel tempo. Nell’unità spirituale di un popolo, invece, la legge diventa nulla più che una formalità, una serie di principi generali in cui tutti si riconoscono e che rispettano spontaneamente, poiché quando già una è la sostanza, essa sa quale forma deve assumere, perché non potrebbe assumerne altre. Le leggi, siano esse laiche o religiose, non sono altro che espedienti per ingabbiare e tenere unito ciò che in natura sceglierebbe invece la libertà e la separazione. Quando un cittadino non è disposto autonomamente a rispettare una legge, lo stato deve chiedersi se egli sia veramente un cittadino di quello stato, o se esso sia davvero lo stato di quel cittadino. Se tra i due enti non c’è stima, uno dei due deve andarsene. Il loro sodalizio è infatti dannoso per entrambi. Un popolo può davvero trovare la sua realizzazione solo sotto un sistema politico che sia coerente con il suo carattere di popolo. Questo è precisamente il popolo unito che sarà valente anche sul piano internazionale, poiché sia nelle azioni di difesa che in quelle di attacco è fiero di se stesso, non essendo altri che se stesso, e sa di combattere per la sua essenza. Questa è la sola vera forma di democrazia. Naturalmente, ogni paese sarebbe democratico a modo suo, ossia coerente con lo specifico carattere del proprio popolo. Esso avrebbe allora la propria cultura da rispettare, a patto che non pretenda di esportarla, imponendola anche solo esteticamente a chi non potrà mai accoglierla sinceramente poiché non può trarne beneficio, né arricchimento alcuno, ma solo fastidio, inquinamento, corruzione. L’inserimento di un elemento oggettivamente estraneo provoca nella società una destabilizzazione ingiustificata… In quanto non si tratta di un trauma temporaneo motivato dal fondo dagli interessi vitali di una comunità: come lo sono invece le guerre, le sommosse, le rivoluzioni, cosiccome le innovazioni scientifiche ed artistiche, tutti processi rivolti invero ad una successiva stabilizzazione della civiltà su di uno stadio superiore. Si tratta invece di attentati all’Integrità di una Nazione, base inalienabile di ogni benessere e progresso della stessa. Quando tali atti hanno successo, ciò che si innesca e sviluppa nel corpo ospite può essere soltanto un processo degenerativo. Una sorta di colpa originaria da redimere: analogamente ad un virus che si fosse insinuato in un organismo, destinato addirittura ad ucciderlo qualora la sua opera, procedente sicura, cinica, crudele, istintivamente e razionalmente graduale, spontaneamente inarrestabile in quanto unitaria e di natura avversa, non venisse appunto arrestata, energicamente e metodicamente, dall’organismo invaso, ed infine da questo completamente espulsa.

In tal caso una autorità sovranazionale non dovrebbe fare altro che garantire la reciproca indipendenza e non ingerenza dei paesi, qualora se ne conservassero la possibilità ed il pericolo: ossia qualora i rispettivi popoli non fossero completamente integri e solidamente radicati su di un territorio connaturale e che disponga delle risorse sufficienti a nutrirli e sostenere l’intrinseco potenziale di sviluppo della loro civiltà. Ma parlare di democrazia in un paese che è solo un’accozzaglia di elementi eterogenei in naturale conflitto ed artificiale associazione, tenuto in piedi solo grazie alla necessità del compromesso tra cittadini e all’efficienza delle forze dell’ordine, è addirittura ridicolo. Il compromesso stesso, elogiato come virtù dianoetica somma allo scopo di far accettare e consolidare il volgarissimo vizio etico consistente nel sopportare la frustrazione inflittaci dal prossimo come condizione naturale e giusta della vita sulla terra, anziché discernere risolutamente tra chi merita un posto, un diritto, e chi non li merita ed ha il dovere di andare altrove ad esprimere la sua volontà e la sua natura, ed in un contesto già multi stratificato di conflitti merita la priorità completa in quanto la soluzione di tal primario conflitto avalla ed inanella anche tutte le altre. Questo concetto etico, dunque, tanto ricoperto d’oro da chi ha interesse a che i problemi non si risolvano, che la conflittualità permanga ed anzi si moltiplichi, che la frustrazione e l’infiacchimento progressivo portino le masse umane alla mansuetudine, alla rassegnazione, alla piccolezza, all’ebetismo, all’asservimento spirituale oltre che fisico; questo concetto che viene come controparte accettato e da questa umanità auto parodistica per giustificare la propria pigrizia, viltà, e magari una stoltezza precedentemente dimostrata ma al cui errore si potrebbe ancor porre rimedio se un orgoglio popolare più sciocco ancora non ne pretendesse l’assoluzione obliosa.
Il compromesso, dico, è invero un concetto che contiene sempre quello di necessità contingente e dunque si traduce in termini di una compromissione con tirannidi altrui, con nature avverse, e mai invece una necessità intrinseca e dunque una Volontà. Non vi può essere alcuna volontà di compromesso, giacché esso nasce solamente dalla contrapposizione di volontà le cui forze materiali siano in equilibrio e dunque non consentano l’affermazione completa sul nemico. L’Ipocrisia è per l’appunto la necessità orgogliosa o debole di mistificare un compromesso, accettato per debolezza, spacciandolo per una cosa buona in sé. Per una virtù originaria, quindi, buona in quanto unitaria e non promiscua. Sottacendo che si tratta di una cosa buona solo per l’evenienza, una cosa conveniente orbene, non buona, che quindi può essere tale solo temporaneamente, precisamente sino a che dura quello stato di promiscuità e dunque di dipendenza dal nemico, che soltanto può sottendervi, che ne è la condizione di partenza, qual mai nessuno può desiderare ma solo subire. Quando da una parte non si è capaci di risolvere il Caos, oppure dall’altra si ha consapevole premura di favorirlo, si sostiene allora che il Caos sia la forma suprema di Ordine, che insomma il Male sia il Bene, ragion per cui dobbiamo abbandonarci al corso delle cose, sinché reato e onta divenga l’opporvisi - rivolto appunto alla disorganizzazione, per chi agisca in ottica individualistica. Per il demonio tentatore è assai facile persuadere i peccatori a coltivare liberamente i propri piacevoli vizi senza dover rendere conto a nessuno, reinterpretandoli come virtù e vere fonti di beatitudine, di piacere terreno senza conseguenze ultramondane, quelle che in ottica laica possiamo chiamare semplicemente future. Il Maligno deve solo far leva sulle parti più ignobili dell’essere umano, dunque le più deboli, quelle già contaminate, già corrotte. Il maligno non può dunque, originariamente, indurre in tentazione chi era scevro dal peccato in quanto pieno della sua virtù, o meglio virtuoso della sua pienezza: ma può ben approfittare di ogni perdita della retta via, di ogni logoramento, di ogni diminuzione di sanità, che abbiano investito un uomo, nientemeno che incoraggiandolo a proseguire su quella strada anziché reagire con tutta la forza della sua nobiltà, ossia con tutte le risorse ancora presenti in lui e schierate coerentemente alla difesa ed alla ricostituzione del suo carattere originario. Il demonio dunque non induce a cadere, ma spinge verso la china colui che già sta cadendo. Mentre il saggio, il mentore, il redentore, non può analogamente persuadere al bene, perché non può mutare la natura degli uomini, che nella sua purezza è sempre benigna e solo diviene maligna allorché si corrompe col diverso: ma egli può invece inserirsi come buon consiglio presso le corrotte genti, facendo appello alle loro forze residue, le forze risanatrici e ordinatrici, quelle che ancora li fanno stare in piedi e credere nella realizzabilità del proprio destino terreno e conseguentemente celeste. Il Cielo va infatti conquistato sulla Terra: lunga ed impervia è la strada verso la giustizia. Di questo venivamo ammoniti in tempi ormai talmente corrotti, nei quali credere ancora di poter raddrizzare la barca era divenuto appannaggio di poche persone eroiche. Non sembrava più cosa accessibile all’uomo comune. Sicché tutti erano portati ad accettare il vizio come condizione naturale, rinunciare ad una Elevazione che presupponeva un impegno ed una coerenza nel seguire giusti precetti, di cui non si sentivano più la forza né la lucidità necessarie. È necessario, dunque, quanto più ci si trovi in epoche buie, che un predicatore sia un esempio integerrimo. Che egli tenga duro nella mente, e nell’agire come la sua mente ancor lucida dice, affinché da qualche parte riemerga la civiltà pura. Grazie al suo abbrivio, che uomini più deboli, ma ancor potenzialmente desiderosi di servire il Signore e di nuovo mangiare alla sua mensa, salgano sulla barca dei giusti, ritrovino la speranza e la forza di remare, e grazie ai loro progressi trascineranno a se, allo stesso modo, persone ancor più perdute, più indebolite, e sfiduciate. Non vi è altro modo, né vi sarà mai, perché il Bene trionfi sul Male: che il sommo rappresentante del primo conservi e completi la sua forza ed assuma un ruolo sempre più elevato nella società, dal quale possa influenzare un numero sempre più grande di persone. In modo necessariamente analogo vincerà, invece, il Male. Quelli che parlano del Compromesso come della strada maestra della propria crescita etica, invitano la gente ad imboccare, invece, la strada che conduce gradualmente alla mortificazione assoluta. Il compromesso non elide infatti l’ostilità, ma solo la sua concreta manifestazione: noi non siamo mai diventati amici, solo che non possiamo comportarci come nemici, dobbiamo, dunque, essere contrapposti senza combattere. Paradossalmente però, con la politica della promiscuità e della democrazia che si sostituiscono alla purezza ed alla meritocrazia, ci costringono a combattere senza essere contrapposti, dacché i diversi lasciati al loro posto non si mettono a guerreggiare, e non desiderano farlo. La strada della crescita personale e della perfezione etica è invece quella di ridurre gradualmente la necessità dei compromessi, ossia il meccanico verificarsi di quei comportamenti che discendono dalla presenza di nature ibride. Le autorità politiche devono dunque elidere tutte quelle rinunce che ogni cittadino deve solamente alla promiscuità personale e sociale, quella che impone un Prezzo ad ogni bene, che tanto più alto sarà, quanti più soggetti devono essere mortificati per produrlo, e richiedono quindi un rimborso. Scopo dell’economia e più in generale dell’etica è di portare a zero il prezzo di ogni bene. Ossia di realizzare lo scambio equo tra domanda e offerta, tramite un sistema che presenti la nuda complementarità (dunque anche la contemporaneità – biunivocità dello scambio) tra le attività umane.

I principi sono semplici:

1) Nessuno deve produrre cose inutili
2) Nessuno ne deve produrre quantità non vendibili - dunque necessariamente invendute
3) Ognuno deve vendere uno specifico prodotto ad uno specifico cittadino e a nessun altro.

Imponendo questi criteri, il prezzo di un bene non subisce già un mero livellamento
ed una stabilizzazione su di esso: ma il concetto stesso viene addirittura annullato,
dacché ogni produzione non comporta alcun danno, o spesa che dir si voglia.

La Democrazia è la società del disordine, è la realtà in cui si esprime il concetto altrimenti del tutto insensato di Anarchia, è lo pseudo governo e la pseudo politica che avallano e traducono in legge la naturale competizione tra elementi eterogenei aggruppati sotto un territorio chiamato erroneamente Stato, se inteso come sostantivo, in quanto ciò che continuamente diviene non può essere, presentandosi come un composto di diverse sostanze. Mentre se inteso come forma verbale, quel termine è corretto, in quanto una configurazione qualsiasi che si stagli sotto il sole del Paese quest’oggi, avesse anche l’aspetto di un miglioramento, sarà già messa in discussione domani e ben presto finita. Sarà un aggiustamento parziale sbandierato a principio di progresso generale, ma in quanto tale instabile: sarà dunque un participio passato. Non esiste dunque alcuno Stato in Luogo, e non avendo coscienza di dove si proviene il suo non può essere neppure un Moto per Luogo: ed arduo è parlare di complementi quando manca un soggetto che dia senso complessivo alla frase, ossia la propria ricostituzione tramite azione, il cui contenuto non può avere nemmeno una struttura sintattica, alcuna gerarchia d’elementi, alcuna collaborazione rolistica, non può essere un’azione risolutiva che dal disagio produce una nuova unitarietà e dunque un Soggetto politico. Al contrario il territorio nazionale di uno stato democratico non sarà altro che il terreno di sconclusionata battaglia di innumerevoli esseri diversi ognuno movente verso i suoi scopi: ed una tal Democrazia non condurrà mai ad una felicitazione maggiore delle proprie genti, non diminuirà mai il suo quantitativo intrinseco di disordine e dunque di infelicità complessiva. Le forze interne si sballotteranno le sofferenze gli uni sugli altri, questi attaccheranno e se saranno abili otterranno un miglioramento, che però non sarà stabile perché quelli reagiranno. Le fazioni avverse degli umiliati e offesi non accettano il torto subito e la nuova oppressione in cui si ritrovano, in quanto non è effettivamente giusta. Sicché agiranno per rimettere in discussione le cose. Le cosiddette forze dell’ordine, operanti sotto le democrazie, non sono invero garanti in alcun modo della pace e della concordia: cose possibili solo in quella Omogeneità che viene negata di principio e di fatto da tale sistema politico. Esse sono invece impegnate soltanto ad evitare la degenerazione bellicosa o financo eversiva, ed avallando il libero gioco delle forze economiche e sociali, ma non di quelle militari di cui sono monopoliste, queste ultime si ritrovano ad essere fattualmente difensori dei privilegi di chi riesce ad assumere maggior potere economico oppure faccia parte della fazione più numerosa, che di fatto detta ed impone la sua volontà dovunque si presenti contro una minoranza. Ecco che la democrazia si traduce in Plutocrazia e Mediocrazia: ossia tirannide del più ricco, anche se cinico farabutto, oppure del più numeroso, anche se mediocre imbecille. E la loro unione consegue precisamente nel fatto che una massa internazionale di idioti siano pilotati e presi per il culo da una cricca di affaristi antinazionali senza scrupoli: precisamente a questo scopo fu inventata la democrazia. In un tale stato, non vi è nessuno, assolutamente nessuno, il quale possa essere eletto, od eventualmente prendere il potere con la forza, e pretendere di farsi interprete e simbolo della volontà nazionale: poiché non vi è una volontà nazionale, non essendovi un popolo, e dunque una nazione. Una dittatura popolare è una struttura volta alla difesa e al corretto sviluppo di una razza, nella civiltà in cui si esprime il suo potenziale vitale. Una democrazia multirazziale è una struttura volta all’accrescimento di conflitti naturali vietati ad essere risolti bellicosamente e pertanto non risolvibili, e che relega il concetto di sviluppo soltanto nel piccolo e nell’individuale, senza che il livello di promiscuità possa essere diminuito e pertanto l’insieme crescere di organicità. Un corpo sociale promiscuo, al quale si lasci accesso a nuove sostanze, senza mutare i rapporti di forza e vietando l’espressione fisica della propria ostilità, non è un organismo e dunque non può avere alcuno sviluppo organico: esso può portare soltanto la propria infelicità a livelli sempre maggiori. Ma non vi è sistema tanto irrazionale da non difendere realmente l’interesse di qualcuno: ciò che sta in piedi, per qualcuno necessariamente funziona: percicchebbene l’istinto può essere forzato contro il proprio interesse, ma non agire contro se stesso quando abbia le mani libere. Senz’altro perciò, se uno ha le mani più libere degli altri, toglierà di mezzo tutto ciò che impedisce la propria realizzazione. L’interesse ebbene difeso da cotale sistema politico è quello delle élites finanziarie: che possono asservire le forze sviluppate dalle diverse fazioni, volontariamente poste da quelle in contrapposizione, senza che però mai possano liberare la propria potenza ed ottenere la propria libertà. La loro vita libidica e realizzativa, necessaria alla conservazione della speranza, dunque del lavoro e della creatività, nel rispetto delle regole del gioco, viene a questo scopo trasferita su vie traverse e micrologiche. Quelle avallate e supervisionate dal sistema a scopo di contentino, fusibile o panacea del malcontento popolare…

1) Una morigerata ostilità verbale cui si danno gli strumenti ed i diritti di espressione, e qualche atto concreto distruttivo, legalizzato oppure tollerato perché salutare ma mai compromettente per le basi del sistema ed i poteri forti che quelle sostengono imperturbati 2) L’affermazione economica e commerciale sui rivali, cui si aggiunge quella sportiva che, estetizzata e trasmessa dai mass media, trascina a sé anche le pulsioni delle masse che trovano in essa nuove soddisfazioni: entrambe le forme di competizione sono sostitutive della guerra vera: ella chell’ascia infine spazio, avvolta vinta, assoli amici, quali colloro ci sarà invece collaborazione e non alcuna interminata competizione 3) La gestione dell’Edonismo, una supervisione dei piaceri più o meno viziosi che possono essere prodotti dall’apparato capitalistico stesso, per affogare in variegate nicchie di piacere fisico e in distensivi mentali divertenti la frustrazione di non poter cambiare la costituzione fisica del mondo che ci circonda e la gente che lo abita 4) Un apparato sanitario fatto di psicoterapie e farmacoterapie che fanno girare altri soldi e danno ad altre persone la possibilità di realizzarsi servendo il sistema che crea e non risolve problemi: tutte rivolte a calmare il soggetto, nevrotico in quanto infelice e giustamente critico nei confronti di una società ingiusta, tramite un ibrido di comprensione simulata e falsamente affettiva, falsa attribuzione di un’importanza, insinuazione di false speranze di felicità che non siano conformi alla propria natura e alla conseguente ambizione da realizzare, falsa autogenazione di problemi di vera origine sociopolitica, dissuasione dalla rettitudine delle sue idee il più delle volte fondate ed ancor lucide nonostante tutto, soprattutto però dalle sue brame più vendicative e distruttive, dalle sue critiche più radicali, astuta vanificazione ed intervento regressista, simulato adiuvante, sulla crescita personale che il soggetto sia riuscito a conquistarsi anche privo di supporti esteriori, in direzione appunto anti sistemica e coerente con il proprio spirito, verepprino fiacchintontaggio per bieche pasticche, che stabilizzano l’umore: non dico come, non dico dove…


Il sistema sanitario è alleato al sistema politico, e la sua funzione medica principale consiste nel patologizzare, ascrivendole al soggetto incriminato o paziente, le naturali e sane reazioni alle problematiche ed alle frustrazioni causate dall’ingiustizia del sistema. Tutti ci stressano e noi siamo conseguentemente nervosi: il sistema dice che noi abbiamo delle nevrosi.
Essendo legalmente o materialmente impossibilitati a scaricare le nostre pulsioni nei gesti, la maggior parte delle nostre battaglie si spostano nella psiche: sicché noi abbiamo delle psicosi.
Innumerevoli fattori ci disturbano, ci mortificano ed impediscono di realizzare la nostra personalità: sicché noi abbiamo dei disturbi della personalità.
Ovvio che uno psicoterapeuta o uno psichiatra non potranno mai dire che il paziente ha ragione, e che non deve cambiare lui, ma i fattori esterni che lo rendono infelice, altrimenti dovrebbero mettersi contro il sistema che invece consente loro lauti guadagni e serenità personale:
e dovrebbero mettere sul banco degli imputati anche se stessi e le loro scelte di vita.


Sul terreno di battaglia, non la volontà di forza, ma la forza di volontà è l’elemento decisivo.
È quella che può consentire ad un nanerottolo di intimidire o anche malmenare un armadio. A una madre di salvare il figlio che sta per essere schiacciato da un carro, nientedimeno che sollevandolo. È quella che rende le piccole squadre di provincia temibili quando giocano in casa, benché siano deboli in trasferta o comunque non possano ambire ad un titolo nazionale. Chi voglia muovere guerra, a chicchessia dunque, se intelligente vuol esser stimato, si preoccupi innanzitutto di apprendere non già quanto egli sia forte: ma quanto egli sia motivato a conservare ciò che
si tenti di sottrargli.


Ciò che differenzia la competizione dalla guerra è che nella prima vi è una parziale affinità tra quelli che si chiamano orbene avversari e non nemici: dacché questi ultimi sono invece completamente divergenti nel fine e desiderano allora la distruzione completa dell’avversario. Tra contendenti vi è rivalità, e dunque una basilare stima purché si osservi la correttezza. Tra nemici vi è odio, e non vi sono regole poiché queste ultime presuppongono il riconoscimento di uno scopo comune, il che costringe a conferire un ruolo, e sempre quindi un valore positivo all’avversario, del quale giammai si arriva a desiderare il completo annientamento. Sino a che si rispetta la deontologia, dunque lo scopo, di uno sport, quel che si dice il suo spirito, si potrà sempre essere certi di non perdere il rispetto degli avversari che nutrano la stessa fede, per quanto completa possa essere la sconfitta che ci venisse inflitta e dunque la debolezza dimostrata sul campo. Ma qualora nella competizione un contendente violi le regole, e commetta dunque delle scorrettezze, egli si trasforma immediatamente da avversario in nemico, e verso di lui la rivalità travolge in odio, la sete di riscatto in sete di vendetta. Si può sempre sostenere che un avversario è un nemico superficiale, la rivalità un odio superficiale, ed il riscatto una superficiale vendetta. Se si conserva infatti in noi un qualsivoglia desiderio di rimettere in discussione qualcosa, di riconfigurarlo, è segno che non lo riteniamo giusto e dunque è per noi intollerabile, come ogni mancata realizzazione della nostra natura, anche minima. Quando rispettiamo un avversario che ci ha sconfitti meritatamente, significa dunque che gli non ci ha veramente sconfitti, che non ci ha orbene mortificati, ma al contrario per mano sua è stata annientata o fugata in noi una pecca di cui noi stessi soffrivamo e della quale ci volevamo liberare. Siam allora grati all’uomo che ci ha dato una lezione. Solo per questo motivo: che egli lo ha fatto per noi, anche allorché lo avesse fatto per se stesso, e l’effetto della lezione è proprio l’averci restituiti alla nostra pienezza, alla nostra identità e dunque anche rettitudine e rinnovata fierezza. Noi ci rendiamo conto che non avevamo mai voluto essere quello che siamo stati fino a poco prima, e dunque non lo eravamo: eravamo stati condizionati, influenzati, contaminati. Quando due uomini nobili (ma a dire il vero anche due uomini ignobili purché di natura affine) si incontrano, ed uno dei due sia impuro, quello puro è in realtà dispiaciuto della necessità di dare al primo una lezione, ossia di procurare alla sua parte nobile un trauma allo scopo di liberarlo da quella parte ignobile che lo ha colonizzato come un batterio: propriamente solo quest’ultima parte è nemica di entrambi. Ma quello che ne è ancora invaso, soffre in essa dell’umiliazione impostagli dall’avversario amico, e sino a che il distacco del male dal bene non è avvenuto, la creatura ibrida che si era biformata in quanto bisostanziata si vede reagire in maniera duplice: propriamente la parte ignobile, quella che non si è mai fusa in lui ma posizionata nelle zone adiacenti senza mai cessare di essere separata e sia soltanto e sempre un organismo ospite, si sente umiliata e vuol vendicarsi: ma per farlo, essendo lei un intruso, un accidente e non un proprio, essa non può fare a meno di appoggiarsi all’elemento base, essa deve dunque sfruttare il corpo estraneo, come nei fenomeni di possessione descritti da innumerevoli opere e aneddoti, contro i suoi stessi fratelli. Questo, precisamente, è il meccanismo dell’Ibridazione. Dobbiamo intenderla come una associazione tra elementi eterogenei, che pertanto non potrà essere giammai Fusione. Scopo dell’ibridazione è proprio quello di impedire l’associazione tra esseri omogenei: quella che invece è necessariamente un fondersi, un completarsi. È quell’unione, dunque, che fa la forza, mentre l’altra la paralizza e degenera. Non può darsi nessun caso in natura di esseri diversi che provino una qualsivoglia forma di attrazione reciproca e un interesse ad operare uno scambio di sostanze che non arricchirebbe né depurerebbe alcuno. Al contrario, la differente natura impone la più intransigente repulsione reciproca: infatti nell’unitarietà e dunque nel concetto stesso di natura non trovano spazio alcuna gradazione o misura, dunque alcuna quantità, e le qualità differenti non sono commensurabili e non possono quindi avere rapporti. I rapporti che hanno possono essere soltanto parassitari e quindi negativi, poiché la vita dell’uno non può favorire, e solo invece soffocare, frenare, depredare, la vita dell’altro. Noi possiamo dunque concedere al prossimo solo quello che il prossimo si è già preso di noi. Quando troviamo un dialogo, un contatto gradevole, con un essere diverso, può essere solamente perché siamo entrambi colonizzati di elementi reciproci. Precisamente quel che succede è che lui parla con il se stesso che è in me (ed il piacere non è altro che la sensazione di una alleanza tra madrepatria e colonia che aumenta la potenza), ed io parlo con la componente di me stesso che è in lui. Fatto sta che tutto il resto è solamente un fastidio, è quella base eterogenea che non può produrre mai alcuna conciliazione perché è già completa: mentre quella fattuale comunione che si crea è una alleanza ingannevole. Solo che ad essere stati ingannati son precisamente gli alleati, non certo due soggetti che si mettessero d’accordo per fingere una ostilità reciproca per meglio danneggiare un terzo soggetto che si dimostrerebbe quindi il vero nemico di entrambi e confermerebbe la fattuale alleanza e quindi affinità tra quei due. Quest’ultima sarebbe dunque una alleanza reale che si dissimula. Ma nel caso presentato siamo di fronte ad una ostilità insanabile in quanto naturale che viene travestita da amicizia, come due divise militari di colore diverso su ognuna delle quali spicca anche un piccolo stendardo dell’esercito nemico, che già è scomodo da portare per chi lo indossa e stride alla vista di un osservatore esterno, ma quando poi i due ufficiali si trovano l’uno di fronte all’altro, si possono far abbindolare solo dal luccichio fraterno di quella mostrina e nel parlamentare col nemico possono captar di esso solo i messaggi che contengono i termini indicanti i componenti di quel feticcio, il resto non sono che pistolettate annacquate d’ipocrisia. Una falsa amicizia – ovvero una commistione con qualcosa di eterogeneo - è la definizione più calzante del concetto di Malattia: uno stato dal quale si deve pertanto guarire col solo mezzo della separazione. Questa alleanza è dunque totalmente illusoria, e tanto più dannosa quanto più si stringe. Può infatti essere poggiata soltanto sull’impurità ed aumentare di dimensioni solo in proporzione all’ingrossamento reciproco delle colonie all’estero, senza però mai poter corrompere la natura intrinseca del popolo e dunque della nazione straniera. Essendo orbene le colonie, sostanzialmente e formalmente, dei furti sul territorio straniero, giammai veramente radicate su di un terreno che le rigetta e solo, per così dire, appoggiate su di esso, dovendo la loro forza solamente al supporto ed al legame con la madrepatria e non sussistendo autonomamente, essendo accettate dal territorio straniero ed autoctono solo per costrizione oppure per abitudine, ne consegue che la colonia stessa non sarà mai parificata al territorio nazionale che la accoglie poiché poggia su un terreno diverso ed è dunque sempre fondamentalmente a disagio su di esso, ed il territorio che finge di accoglierla in realtà la detesta ed aspetta soltanto di poter scacciare di nuovo l’elemento estraneo e riassimilare il fazzoletto di territorio liberato. La colonia cresce suggendo nuove sostanze dal territorio che occupa indebitamente, ma aspetta solo di poterle usare contro quel territorio, verso il quale personalmente ha rancore perché esso la nutre per esigenze di scambio e non per amore parentale e che fa sentire il suo sottofondo ostile. Quello che la colonia farà, in ogni suo eventuale sviluppo, sarà minacciare sempre di più la zona autoctona, fingendosene amica e magari accolta da quest’ultima come un arricchimento. Ma non si diventa mai più ricchi dello stretto necessario, e necessario può essere solamente annettere alla realizzazione del nostro carattere un altro stadio o elemento impervenuto: altre cose ci abbagliano e poi inquinano. Uno stesso prodotto alimentare, artistico, artigianale, industriale, letterario, musicale, capo di abbigliamento, dottrina religiosa, filosofica o giuridica, un concetto, un costume sociale, un modo di esprimersi, tutte queste cose possono sperare di affascinare lo straniero solo tramite un astuto mascheramento e dunque a patto che siano presentate e si insinuino negli spazi e nelle coscienze come prodotti già precedentemente ibridati e resi maggiormente somiglianti a quelli autoctoni cui la gente è abituata ed affezionata, e che non rigetta in quanto le sono conformi: ma i non conformi sono destinati, dopo la catalisi dell’assunzione, a essere rigettati. Questa finta amicizia reclamizzata politicamente e dalla politica avallata e incoraggiata nei suoi aspetti concreti, talvolta addirittura creati tramite il peggioramento studiato delle condizioni di vita di un popolo all’interno del proprio paese che spingono molti suoi componenti ad emigrare, ed un complementare peggioramento delle condizioni socioeconomiche del paese accogliente, nonché la sua degradazione morale, che spingono quest’ultimo ad abbassare le difese e a trovare comunque un motivo per accettare lo straniero e sostenerne gli insediamenti con tanto di specifiche esigenze, questa prassi porta i due popoli ad avvicinarsi sempre più l’uno all’altro, a fondersi sociologicamente senza mai potersi fondere psicologicamente, e dunque senza perdere la loro naturale avversità che genera stridore e guerra. Le due compagini, originariamente uniformi in quanto unisostanziali, generalizzando una politica d’interscambio possono raggiungere una composizione materiale praticamente equilibrata nel numero di elementi. Il risultato è che il conflitto si trasmette ad ogni aspetto della società. La presidia, la pervade, irrigidendola nella tensione, spargendola di tafferugli o gruppi dichiaratamente in conflitto, vittime della propria stessa ignoranza o disinformazione in larga parte causate dal sistema stesso, o risvegliati dal proprio buonsenso e dalla propria vitalità in cerca di affermazione che sentono la realtà e l’istinto stridere con le balle assorbite dall’esterno e che reagiscono a quella patina di apatia disinteressata o fiduciosa nel meglio, o rassegnata e ripiegata nella mentalità piccolo individualista, la popolazione in generale investita da un clima di incertezza, spaesatezza, paura, rabbia, sospetto, acidità. Anche la nostra vita materiale perde di vigore, scioltezza, mano ferma, determinazione, armonia col prossimo, fluidità, continuità, di quei rapidi progressi che una volta significavano gratificazione e speranza, privi di un rischio continuo di riflusso o ripercussioni negative, le ansie del confronto e della competizione si alzano di livello, il pericolo è potenzialmente ovunque, non abbiamo idea di quale sia il problema da affrontare per primo, o se qualcuno lo sappia veramente, il nostro pensiero perde in levità e perspicacia, essenzialità, focalizzazione, dunque capacità risolutiva, la nostra emotività si fa più complessa, contrastata e contorta, molte pulsioni non possono essere soddisfatte e questo aumenta lo stress, il rischio di nevrosi e crisi depressive, siamo frequentemente lunatici ed intrattabili, fastidiosi, difficili da comprendere, spiegare le nostre ragioni diviene assai complicato, considerando poi che pochi hanno il tempo la voglia o la capacità di starle a sentire, assumiamo quindi un pudore rancoroso di stampo autodifensivo che si spaccia per autosufficienza intellettuale ed emotiva, maturità nella comprensione della vita, autocompiaciuta e serena furbizia, la nostra storia diventa una brutta gatta da pelare, siamo già molto impegnati ed in maniera per lo più non piacevole, ma non esserlo potrebbe essere persino peggio, perché il vomere del nostro pensiero sarebbe allora costretto, innescatosi istintivamente laddove il corpo sia tolto all’aratro, ad imbattersi in zolle dolenti e falle del terreno, oppure in territori la cui desolazione e drammaticità ci angosciano troppo, la cui vastità da indagare ci scoraggia, la cui vegetazione spinosa non rassicura, né alletta, ed anzi raggela, la cui incertezza di arrivare in fondo o di poter tornare indietro è sfidata solo dai più intrepidi e cervelluti, e bisogna essere a dir bene dei pazzi. Talvolta la lentezza della soddisfazione di bisogni anche basilari e che parrebbe invece banale in una società sana diventa esasperante, le assurdità dei paradossi che vediamo ovunque ci fanno inferocire e poi non ci vogliamo credere, poi ridiamo per non piangere, sottovalutiamo per non valutare, sentenziamo per non studiare, agiamo per non riflettere, assumiamo i capri espiatori presentati dagli opinion makers oppure ne confezioniamo di nostri che aggradino qualche personal bisogno, correggiamo stupidità altrui colla nostra, egoismo altrui col nostro, poi ci sentiamo impotenti a farci qualcosa, tendiamo ad accettare di partecipare a ciò che non ha senso e ci giustifichiamo perché sembra impossibile cambiare, perché comunque siamo in buona compagnia negli atteggiamenti principali, perché in fondo siamo persone normali e facciamo quello che possiamo, le nostre giornate sono già piene di impegni, fatiche, responsabilità, fastidi, del resto poca gente ci ha aiutati ed invero, molti ci hanno delusi, ingannati, feriti, usati, lasciati, danneggiati, ben su pochi abbiamo potuto contare, alla fine ce la siamo cavata, forse fin troppo bene, non è colpa nostra se non siamo il messia, o se questo mondo ha preso una pessima piega, pensiamo di aver diritto alla nostra vita e di ritagliarcela anche con maggiore impeto ed amor proprio di quanto non fatto sino ad oggi, in un mondo che dall’infanzia ci ha nutriti d’illusioni e gettati agli sconforti, all’interno di un sistema che non sa più organizzare le cose e non è più affidabile né idealmente né materialmente. Diviene poi necessario mentire al prossimo ed a se stessi, determinando una posticipata ma poi necessaria opera di riaquisizione delle consapevolezze perdute, della diffusione e rimessa in vigore delle concezioni corrette. Perdiamo fiducia nelle istituzioni, che essendo complici se non artefici di tutto questo non ce ne offrono poi una interpretazione affidabile, una valida risposta e reazione di rimedio: questo aumenta la perdita del legame sociale con gli altri cittadini e con l’idea stessa di Nazione che già era stata minata alle fondamenta e rende i cittadini stessi incapaci di fare le veci di uno Stato che non difende più la propria nazionalità e dunque il proprio popolo. Ma ancora i nostri rapporti sociali, anche quelli positivi, si frammentano, e diventa più difficile contare su percorsi abbastanza affini da poter giovare di lunghi sodalizi pieni di contemporaneità e complementarità esigenziale. Noi siamo costretti a repentine rotture, indeterminate sospensioni, cali di intensità, improvvise, frustranti attese, accelerazioni, sbandamenti, sostituzioni, scomodi riallacciamenti, cambi di programma, schiacciamenti emotivi, sovrapposizioni, parcellizzazione di azioni che nella libertà sarebbero state unitarie e pienamente risolutive, interruzioni di percorsi sprovvedutamente impostati per inadeguatezza cognitiva imposta dalle circostanze, spreco energetico e temporale, virtù resa necessaria di ben reagire alla cosa rilanciandosi senza demoralizzarsi o peggiorare la situazione all’interno e verso l’esterno: ed inutile dire che non tutti possiedono questa forza o maturità, e nessuno la possiede mai pienamente, in un mondo discrasico che consente a deboli di agire su persone forti ma già precedentemente indebolite da analoghi deboli posti in posizione sociale indebita, rendendo lenta e tortuosa la loro reazione ordinatrice, che nelle mani della forza intrinseca e indomita sola può giacere, unica speranza in un Futuro migliore: la basilare impostazione sociale della nostra civiltà impone insomma che i danni in qualche modo si verifichino e si sviluppino: e chissà quanta forza e buona volontà dovranno comparire allora, in nobili soggetti e locazioni future, per riparare tutte le brecce ed attuare le modifiche necessarie. Spessissimo siamo protagonisti di sfoghi deviati e nondimeno irrefrenabili sopra oggetti in sé stessi innocenti e che reagiranno all’ingiustizia a modo loro, non potendo veramente accettarla ed originando nuovi dissapori, complicazioni, cattivi rapporti, guerre, accuse, domande, questioni, discussioni, ed altri sfoghi su gente che non c’entra, mancando la forza di stroncare subito la fonte del dispiacere: è così che vittime creano altre vittime, ed essendo la discrasia sociale ormai generalizzata, nemmeno si dà il caso che gli ultimi danneggiati della catena si ritorcano a un bel punto contro i loro diretti carnefici sicché il percorso si inverta e procedendo a ritroso il torto si stampi infine ben in fronte all’originario malfattore. Invece, i rancori vengono ormai distribuiti con la stessa irresponsabilità con cui sono state distribuite le colpe, ossia le impurità che hanno generato i problemi. Gente contaminata deve scagliare fuori di sé quanto ha ingurgitato di molesto, senza poter sapere donde provenisse: diveniamo l’un per l’altro in primis un’occasione per scaricare le nostre tossine, ed in secundis qualcosa da valutare nel livello di intesa, dunque nell’opportunità o meno di un’alleanza, e nel livello di potenzialità nociva contingente, dato dal prodotto del dislivello intellettivo per la forza personale detenuta dal soggetto nemico. Quando siamo tutti puri, queste valutazioni sono semplici: sono istintive come ogni confronto paritario, costituito dal contatto tra un soggetto e un oggetto. Ma nella promiscuità i giudizi son difficili: perché la superficie non esprime l’anima, o meglio non è detto che l’esprima. La persona in questione potrebbe avere infatti un rivestimento contingente, ed anche tutto all’interno essere disseminata di insanità, ossia di elementi impuri, che spezzano l’unità ebbene l’efficienza del suo carattere: essi fanno apparire quest’ultimo incoerente nella fattiva varietà degli atteggiamenti mostrati, dinanzi alla quale non sappiamo distinguere direttamente qual sia il suo carattere naturale e qual invece l’acquisito, che pertanto sarebbe modificabile nella misura in cui i suoi problemi siano risolvibili. In questo contesto l’Ignoranza Filosofica, invero figlia spirituale di quella stessa ed originaria diffrazione e perversione degli istinti che quivi ha trasvolto il Regno delle Certezze nel Regno dei Dubbi, reagisce sostenendo, alternativamente, due castronerie di pari livello: che una persona sia priva di carattere, obbien che il carattere stesso sia qualcosa di modificabile. Quandi le cose st’anno, concisamente, nel modo seguente. Passero lecito affermare che uom sia privo di personalità. Sia manchevole cioè di una forza contingente che lo renda carismatico nel bene o nel male, ossia per amici e nemici, per affini e disaffini, i quali sian dunque obbligati a prestargli attenzione, in mezzo a tanti altri elementi insulsi ossia non promettenti né minacciosi, per gli amici quale opportunità di gioia, di vittoria, ed elevazione, mentre i nemici se ne devono guardare qual pericolo di sconforto, sconfitta, umiliazione. La forza contingente, ossia la personalità, la buona sorte, è ciò che rende gli uomini carismatici per chiunque graviti loro attorno: ma solo gli affini per carattere li troveranno interessanti in modo sempiterno, anche cioè, nella disgrazia più abissale, e faranno lega con loro a prescindere dallo stato di vigore e salute. Poiché è lecito affermare, che essendo la loro causa la nostra causa, essendo noi complementari nella realizzazione dello scopo, essendo noi parti distaccate della stessa persona, noi cogliamo in queste una personalità che va oltre lo stato di debolezza, ovvero di ibridazione con persone nemiche, qual possa averle investite: dei nosfratelli condividiam’ossia gioie e dolori. Vero è dunque che le sue vittorie son vittorie nostre, ed alle sue conquiste egli è lieto che noi ci appoggiamo più di quanto un padre sia lieto di riversare il suo patrimonio fruttilavorodecennico, nell’investire sul futuro di un figlio di cui vada fiero e che ami come prosecuzione della sua stirpe sulla terra. In entrambi i casi l’eredità del ricevente non è una appropriazione, pertanto necessariamente indebita, ma una acquisizione, termine che la rende debita e doverosa da ambo le parti, dacché solo i progressi del primo uniti ai progressi del secondo possono condurre alla meta finale. I fratelli si prendono cura gli uni degli altri e si vengono incontro, rallentando il più forte a sostenere il più debole, sino al momento in cui quest’ultimo non abbia concluso la sua parte, necessaria, nella battaglia cosmica di quella specie umana, e dunque non possa ancora permettersi di perire senza consegnare ai compagni l’ultimo scrigno della sua eredità. Ma quando il fratello non può più servire la causa, quando la sua decadenza è irreversibile, è lui medesimo, nella nobiltà ossia purezza del suo sangue, a compiere l’ultimo e finale atto coraggiodenico che gli resta. Il farsi da parte, sacrificarsi, con quieta e totale fermezza. Dignità e coraggio non sono che la mera conseguenza della propria natura affine alla causa della specie: giammai possono essere misurati altrimenti e senza questo riferimento, e non vi è misura nella dignità e nel coraggio che per la misura di purezza, sicché nel completamente affine decade il concetto di misura, ed esiste solo l’accettabile o l’inaccettabile, l’amico o il nemico, ed ogni nemico è indegno e vigliacco: egli volge infatti ogni sua risorsa alla nostra mortificazione, sicché ogni sua forza è debolezza. Esistono dunque una Forza e una Debolezza contingenti: quelle che possono essere misurate, ma che non sono reali e pertanto sono destinate a perire, a separarsi come tutte le qualità ibride, dunque apparenti e non essenti. Ed esistono orbene una Forza e una Debolezza intrinseche. I due elementi in cui si conferma la ancor temporale duplicità di un soggetto che adesso per via di strutturazione gerarchica, e non già più per disgiunzione, deve ultimare il suo completamento, orbene la sua oggettivazione. L’elemento Forte in questo contesto è dato dall’Omogeneità profonda di tutte le righe del testo, declinazione dello spirito della Natura: l’elemento Debole sta invece nelle differenze Speciali che ancora necessitano la strutturazione gerarchica in base ai casi, completamente invertiti nel calderone di massima promiscuità, dal quale nulla era più prevedibile dai più nobili, affossati e con la vista obnubilata sotto congerie di masse inferiori, sicché ogni evento fausto di cui erano portavoce, ed ogni infausto da cui proteggersi vennero chiamati casuali, aleatori, termini che esprimono il predominio della quantità sulla qualità, ossia le epoche buie e democratizzate in cui gli inferiori governano il mondo. Ma più la scienza progredisce, più i nobili hanno recuperato posizioni nella gerarchia sociale e da un belvedere gradualmente più elevato la lor vista può spaziare sino ai contorni e nelle precise profondità che le sono connaturate e adibite, sicché ora riesce ad operare più magnifica organizzazione: ecco che l’indigesto minestrone linguistico, cosiccome la poltiglia sociale, ritrovano una chiarezza, un ordine, dei ruoli, e mano a mano convergeranno ad unità, riferendosi i casi inferiori, via via men probabili nel loro presentarsi in locazione infausta, ma prevedibili dunque e controllati per tempo, invece, nei movimenti, sicché la loro stoltezza ruspante non possa affermarsi col numero sulla qualità, ad un soggetto. La rigorosa causalità di ciò che in una natura ancora retrograda sembra essere casuale, ossia il verificarsi di un progresso, evidentemente avvenuto per la sinergia inconsapevole e la collaborazione istintiva dei nobili sparsi per il pianeta dopo la dissoluzione, uomini che ancora non avevano raggiunto la forza per entusiasmarsi nella previsione, ad un certo punto invece possibile, di una finale comprensione e ordinamento del mondo, ed erano dunque rassegnati e scettici nei confronti dell’inoppugnabile teleologia del cosmo: tale Causalità ebbene, non è altro che una profonda affinità che vuol infine assimilare anche gli strati più superficiali, sicché in ogni caso lo spirito della Materia vuol ridursi ad un solo caso, ogni rapporto all’unità, ogni complemento al mero soggetto. Di già i casi sono ordinati, in epoche buie, secondo la frequenza… poiché in esse il numero conferisce la forza e dunque l’importanza, ed i singoli hanno senso e speranza solo se si riferiscono alla massa dominante, al popolo sovrano, agiscono in funzione di essa, funzionalmente ad essa, sono attributi di essa, brillano di luce riflessa, non possiedono autonomia senza dessa, essendo perduti e ad alto rischio di essere soverchiati dalla sua potenza numerica hanno poca personalità e dunque vengono indicati come senza carattere, non sono dunque nessuno senza il padre popolo che li conforma ed istruisce, mentre possono avere un’esistenza e conservarla futura, se si conformano ai suoi pareri, alla sua guida, ai suoi dettami, alle sue abitudini, alle sue ambizioni, ai suoi limiti mentali. Mano a mano invece che i forti resistono e conquistano terreno, scalano le gerarchie sociali, ecco che gli elementi maggiormente densi di materia, che ben potevano soccombere solo se attorniati di compagini formate da singoli deboli ognuno in sé stesso, e la cui moltiplicazione numerica non potrà supplire alla sua povertà interiore, che sola può connettersi intimamente e ricoprire un seggio il cui detentore deve aver ben lo spazio al suo interno, mantenendosi invece singolo nel corpo, mentre gli altri occupano spazio esterno in forma di branco ma ognuno di loro mantiene inalterate sostanze e dunque possibilità di connessioni interne e capacità organizzative verso l’esterno, allorché quindi il loro numero ed il dispiego di energie fisiche risultano addirittura d’intralcio al ruolo di comando, e di spreco verso le attività applicative che invece necessitano ben di tanti corpi a riempir levaste piazze e gli operosi campi: allor ben si ricompongono adunque i ranghi, in base alla densità di materia dei soggetti, ecco che i frammenti secondari vengon riferiti, sempre, in progressiva opera di aggregazione, al Soggetto, come suoi complementi. Egli diverrà infine unico e supremo: ogni singolo elemento in natura desidera ridursi ad uno, essere inglobato nel tissuto, realizzando una tappa maggiormente avanzata dell’unificazione cosmica. Quando i tratti più fondamentali sono stati liberati dal giogo di materia non ancora organizzata perché incapace di farlo, e soltanto impegnata invece in dissennata opera di soffocamento e spostamento a vanvera dei nuclei di condensazione, da questi corpi assemblati in strumenti utilizzabili nel bene come nel male, oggetti di notevole peso e volume, incollati anche spiritualmente alla grossolana fisica con le sue macroscopiche leggi di aggregazione che non possono penetrare i segreti del microcosmo esplorati dalla raffinata chimica, benché ne siano dipendenti e debbano ad un certo punto cederle il passo, ignoranti delle più intime tensioni e adesioni che possano determinare durevolmente l’unità o la disgregazione del nostro mondo: quando questi affidabili nuclei ottengono il rispetto che meritano, una aggregazione più sicura e stabile può avvenire sotto il loro comando, e tutto il mondo materiale migliorare la sua efficienza, la sua estetica e la sua etica dunque, data dal maggior grado di purezza dei corpi, che orbene si organizzano con più facilità, con meno impedimenti, sono più forti perché possono evitare ai deboli di attuare relazioni infauste, che cospirano contro la vera forza e contro l’unificazione del mondo, e mettono invece ognuno al loro posto, uniti nel bene e separati invece, laddove potrebbero solo far danni… ecco che la massa debole in quanto intrinsecamente poco densa si pone al servizio e dunque in relazione alla massa densa e ne aumenta le dimensioni. Una volta appurati i soggetti, essi si trovano adesso ad armi pari, ovvero in numero esteriore pari, e qui prevale necessariamente il più denso, il più forte, il più intrinsecamente numeroso: forze che, pariteticamente, per via della loro unitarietà non possono essere misurate, vengono adesso invece confrontate in una battaglia che vedrà, necessariamente, il più forte sottomettere, e non dunque uccidere quel che non può essere scalfito in quanto non ha parti, il più debole, finendo di espellere lontano da se ciò che ancora lo conservava impuro, non completo, irrealizzato. È quindi giusto affermare che nessun essere potrà mai essere puro sino a che tutti gli altri anche non lo saranno e che dunque uno scontro, un conflitto tra diversi si avrà solamente sino a che essi saranno ancora diversi, e dunque più deboli o forti in quanto incompleti o completi, ed ogni confronto rimane scontro fino alla fine, nessun processo mai privo di attrito, nessuno spostamento non traumatico, nessuna guerra incruenta, nessun divorzio consensuale e nessuna alleanza: ma quando esso sarà ultimato, i partecipanti avranno pariteticamente eliso ogni loro diversità, non avendo più sostanze difformi, non avranno nemmeno più forme dissostanziate: qual espressione coincide col termine Gerarchia, che appunto presuppone ancora una diversità tra la parti, una volta eliminata la quale, non vi saranno più Gradi, più Moto, più Numeri. Ma come abbiamo detto, la priorità è di dissolvere la macro contaminazioni: adalfine che il forte possa agire in maniera vincente deve essere libero, dee conquistare se stesso, empire la sua forma fondamentale, agguantare a se tutti gli elementi necessari, illuminarsi dunque, disperdendo le ragnatele e le nubi entro cui la massa incolta e sterile lo costringe. Dissi che quando un fratello di sangue subisce un danno irreparabile s’incanala in un degrado irreversibile, non può avere altri scopi nella vita e dunque ragioni di sopravvivenza: quando non puoi servire una causa, puoi solo danneggiarla, ed altre non ti sarebbero di soddisfazione, poiché non ti appartengono. Egli allora si premura di sgravare i fratelli ancor sani ed efficienti dal peso inutile e pertanto ingiustificabile della sua cura e conservazione. Intima loro di essere uomini, di onorare il padre nostro, la vita che Egli ha creato, ed i comandamenti che sono corollario dei suoi principi di funzionamento: le sue leggi di conservazione e sviluppo. Che essi non abbiano dunque pietà per colui, carcassa transeunte che più non merita di vivere, che non gli recano onore piangendolo, bensì lo offendono e lo fanno morire più dolorosamente, lo fanno sentire in colpa del preciso terreno che stanno, con la loro mancanza di freddezza e continuità d’azione, consentendo agli avversari di riguadagnare, quando dovrebbero invece arrampicarsi schiacciandole alle sue ultime forze, come gradino umano anche gli consenta o faciliti un ultimo passo oltre prima dell’autonomia, di già innalzati tutti dall’edificio che lui aveva contribuito a costruire, e si ergano dunque questi soldati, a piedi uniti su tutto quello che di passato era destinato a passare, avendo rispetto solo per ciò che non può, non deve, e non potrà perire, abbiano essi verso le scorie della battaglia l’unico scrupolo di disprezzarle, spazzarle via dove questa non danneggino, dacché esse si rivelano adora ben parte, di quel fogliame nemico e impuro che soffoca e marcisce, che non proietta oltre, ma nel passato invece, colui che cresce dolente di memoria, gravo dei suoi cadaveri ambulanti incapaci a morire, gravo della sua promiscuità imbellicosa, morbosamente compromissoria, ignobilmente sopportatrice, suppurata, fermentata, liquefatta, riadattata a bacino di prolificazione degli insetti, fuori luogo cauta come altrove era irruenta, temporeggiante sul nulla quando era stata invece affrettata su ciò che andava pazientemente costruito, rispettosa degli inutili a scapito gli utili, conservante la vita contro la vita, respingente la morte che serve alla vita. Il futuro che le forze giovani sono in grado di costruire è il solo elemento per cui il morente fratello è dignitosamente vissuto ed ora vuol dignitosamente morire, il solo elemento in cui egli vive ancora ed è ancora con loro, la stele di bellezza incorrotta in cui egli desidera ancora essere riconosciuto ed amato, sostanzialmente superiore alla congerie devastata e avvizzita dei suoi mortali difetti, di quella logora spoglia che già la sorte avea deciso di umiliare e vispazzare dal gioco: e qual presunzione antieroica, antiprometeica, è questo discutere il giudizio degli dei, innalzar quel coso che loro han condannato apper farlo tornare dall’Ade… tant’è, egli non tornerà: ma rammentarlo, ahimè, brutto della sua brutta fine, sarebbe solo un soffrire, un trascinare alla vita un frammento di morte che par si voglia imperitura con lei, capace però, solo a d’avvelenarla. Ma chi sia vissuto e morto per una causa ha riversato in essa ciò che solo importava di se stesso, ciò che solo era davvero se stesso, ed egli tutto vivrà in eterno, senza alcuna diminuzione, se tutto converge senza esitazione al podio supremo di luce ghiacciata. Dacché si perde per sempre solo ciò che non ci appartiene, e di quel che si perde temporaneamente non è il caso preoccuparsi: sevvero un bel giorno ritornerà, giaccosì è scritto. Concentrati adunque su quello che hai, godilo e spacca la prossima pietra, ignora ciò che ti fa soffrire, issati bene sul solido ad impostare la prossima mossa, non affidarti a fanghiglie, non invitare alla pugna cuore che gioia non provi, braccio che nerbo non tiene, non contemplare la forza con occhio debole, lasciale stare sgretolate tegole, languidi impeti, improvvide scelte, intemperati climi, traumatici incontri, incomplete immagini, inafferrate vette, ritardate tappe, inesaurite seti… Perché sì legarsi a ciò che non ti ha meritato, forse che meriti il suo disagio eterno? Ripenserai al mancante quando sarà di nuovo tra le tue mani, in gratalamica s’orpresa, romantico abbraccio, conciso fremito, rapido appago, eppoi oltre…
E oltre si vada, che la perfezione realizza sai, il quelsi futuro che non è il passato, se solo
smettiamo di idealizzare il presente come non plus ultra della vita essente, qualcosa che a noi non doveva morire sicché non potrà mai farlo: ello teniamo in vita a forza, dobbiamo fissarcelo in casa nel suo mortalli vore, ravvolgere a listroli sordide bende, e contemplarne l’orrore in necrofilo amplesso, così dogni giorno, e di notte sognarlo, figliare col lui sol piccoli zombi che perseguan le cause all’adorato padre. Non invece abbracciare, di gusto cristallino e nordico ardore, ciò che si slancia eterno dalla vita etri bellissimo, pacistò che nessun si fermi, a raccogliere ciò che non ha più alcuna importanza, e meditabbondo e piagnucolloso. Attraverso il rimpianto della sua spoglia mortale, il fratello priva i compagni di una parte dilloro forza, dillor fierezza ell’ibertà d’azione: egli che vive in loro ancor muore in loro, essendo sopravvissuto in forma zomboide, con il sentore di tornassi indietro, arrestar la causa, effrenare la corsa, di gravare le spalle di chi ancora è capace d’iccorrere insino ad il dover compiuto: quandillicui vebb’efferito lasciasill’ui al suod’estino, sen zalacrime indignitose, che non lasciano morire i morti e ne avvelenano le eternità viventi.


La nostra impurezza rende dunque ambiguo il nostro carattere, che potrebbe presentare una apparenza molto sgradevole e minacciosa, oppure una amabilità temporanea di cui non è pertanto responsabile, la quale occulti affatto un brutto carattere, qualcosa di nocivo per noi. Dobbiamo quindi distinguere la crusca dal grano, giacché il libro e la sua copertina potrebbero non aver lo stesso autore. Da un uomo pieno di se stesso e dunque sano si può invece scorgere, sentire anzi, da un superficiale contatto il suo potenziale positivo, quello che invita ad una associazione e ne prescrive i limiti, nonché la durata, qualora si inserisca in un percorso sociale convergente alla risoluzione complessiva e che lascia intuire dunque un ordine di priorità nelle operazioni: quella
che migliorandosi gradualmente vede sempre più persone, anche, collaborare ed ostacolarsi sempre meno dal momento che sempre più chiare e univoche divengon le visioni, conseguenza del fatto che sempre meno promiscue son le persone di diversa levatura intellettuale. Quanto entriamo in contatto con una persona inquinata, egli è sempre primariamente una minaccia, non già di sconfitta ma di ulteriore inquinamento, essendo ella prioritariamente necessitata a ricomporre se stessa, scaricando l’estraneità, cui potremmo talvolta anche giovare se ci risulta affine, a patto che ci rendiamo conto non provenga dal cuore. Tale operazione di purificazione personale è necessaria perché ognuno si volga a quella battaglia posizionatrice che compete alla teleologia dell’essere, e nessuna posizione sarebbe stabile, può pretendere di essere occupata felicemente da un impuro, da un ibrido. Anche il nostro contatto col prossimo non è razionale, nella promiscuità con cui è stato concepito, per cui i nostri scarichi di alterità raramente sono positivi, e la socialità non rappresenta dunque un naturale rimedio all’insanità personale: alla vita sociale, per quanto possibile, bisogna volgersi quando si sta bene, e si sta bene quando si è pienamente se stessi. Mettersi in relazione da malaticci corrotti, non è solitamente un buon affare, in primo luogo perché ci si scambiano scorie, e poi perché queste ultime nascondono il nostro vero carattere e rendono il rapporto rischioso.
La nostra quotidianità vede infatti continue intrusioni, contatti improvvisi e non desiderati: e poi macchinosità, difficoltà, ipocrisia e compromesso nel districarsene. Vittime di ingiustizia, diveniamo noi stessi più ingiusti, perché non pienamente padroni di noi stessi, e con la vista annebbiata dal fastidio e dalla mancanza del suo seggio ideale. Vediamo la scena sociale e conseguentemente psichica pervadersi di un nuovo strato temporalesco fatto di indesiderati confronti col comportamento tenuto del prossimo, in cotali situazioni, senza che nessuno sia completamente scevro da errori di giudizio nel valutar dei soggetti implicati la forza, debolezza, egoismo, altruismo, nobiltà, bassezza: nessun che abbia il tempo l’intelligenza l’impegno o le nozioni sufficienti a determinare in linea teorica quali siano i propri diritti e doveri in tali situazioni, visto che il relativismo filosofico adesca con una apparente libertà e nega poi il vero conforto ed l’affidabile guida, dacché la Dea Filosofia, assunte le vesti dogni donna di malaffare, può essere dolce e venale sportello, ma a tempo determinato, e privo di amore e fedeltà, sempre qualora onesta…perché vi son Filosofesse che prendono i soldi e scappano, lasciandoti povero ed umiliato.
L’uomo di oggi, nel regno di contrasti e pretese e minacce, se le trova di fronte a svellere un equilibrio precario precedentemente ottenuto e non senza fortuna, di qualche semplificazione, affrancamento e certezza, ma questo nuovo incontro l’accorge che non poggiava sul solido ed allora lui non sa più come debba comportarsi, se possa proseguire tranquillo il cammino con l’impostazione di prima, volge lo sguardo intorno e vede disorganizzazione, insicurezza, che l’elemento perturbante sia singolare o altrimenti ben diffuso, egli non sa cosa chiedere a se stesso, sino a che punto compromettersi, nella sostanza e nel sistema di pensiero, chiede che ruolo hanno gli altri, e se lo han se lo fanno, le istituzioni, infin non si definisce chi e quando si debba occupare di che cosa, sacrificare, sobbarcare, chi possa orbene declinare, chi possa affermarsi con la forza o rivendicare comunque una priorità… né si trovano persone che nei casi specifici siano sempre in grado di distinguere il torto dalla ragione, che non accusino dunque o vengano accusati ingiustamente: e tutto questo genera nuovi turbamenti spirituali, rancori, ostilità e discussioni, analogamente difficili a dirimersi causa la mancanza di un’autorità di riferimento affidabile, sia intellettuale oppure politicamente coercitiva, oppure odio verso la presenza effettiva di un’autorità di questo tipo, ma con la quale non siamo per nulla d’accordo, senza tuttavia possedere la forza di sovvertirla: da qui la nostra vita si può incanalare in un percorso di ribellismo logorato ed indomito oppure in un alveo di rassegnazione finto adattata che peggiora la qualità della nostra vita e necessariamente anche il servigio che diamo alla società, ed a chi si relaziona con noi, e lascia di fatto tutto il peso e la responsabilità di un’eventuale lotta per il cambiamento ad altri od alle generazioni future. Oppure i due percorsi si intrecciano: moltiplicando i processi che facciamo a noi stessi e quelli che ci vengono mossi dal prossimo circa coerenza e forza personali… poi si compete analogamente tra soggetti processati con tali nuovi parametri di valutazione, si contestano le procedure o la loro non equa applicazione. Essendo fattualmente contaminati siamo più deboli di quello che siamo, senza che altri se ne possa accorgere, sicché qualora il loro giudizio sia più potente del nostro, ci costringe a conservare in noi l’elemento estraneo che, continuando a presenziare in noi, fa sentire la propria debolezza come nostra, quando è solo passeggera ed inerente appunto a tale promiscuità indesiderata, ma la nostra essenza spirituale la rigetta per riavere se stessa e solo se stessa conseguentemente sentire: ma sino a che è presente una pluralità fisica è presente anche una molteplice sofferenza ed una inquietudine e bellicosità mentale dei punti di vista che non sono altro che le percezioni reciproche delle parti in causa sostanzialmente difformi, e questo bellicismo interiore rallenta una azione esteriore risolutiva…
In quanto contaminati siamo tutti più deboli, e dunque lo siamo verso i nemici esterni, che ne approfittano per affossarci elevando lo spicco della lor posizione, che grazie all’asservimento conflittuale delle forze estranee può dominarle pur essendo, eventualmente, la più debole in assoluto, quella che ad armi pari verrebbe spazzata via da chiunque e senza contraccolpi. A questo scopo, noi veniamo quotidianamente forzati ad affrontare esperienze ed imprese che non abbiamo avuto il modo di preparare, ed il cui esito sarà un fallimento oppure un successo spiacevole e denso di effetti collaterali. Nella gabbia sociale, ci imbattiamo in moderazioni forzate dell’espressione e dell’azione, rimbecchi, resistenze, rimproveri, critiche, raddrizzamenti, riadattamenti all’esigenza del prossimo, influssi o riflussi della sua prepotenza egoistica, che poi si pretendono correzioni o aggiustamenti. Poi ecco comparire il carro dinanzi ai buoi, ecco là il tetto prima della base, poi ragioniamo prima della corretta definizione dei concetti, mettiamo a sistema equazioni ipotetiche, assembliamo ciò che non funzionava singolarmente, ecco modifiche in corso d’opera senza poter ricominciare o disporre di uno spazio costruttivo maggiore o di maggiori risorse ora che il preventivo si è rivelato difettivo nei costi e nei tempi. Poi alleanze improvvisate o forzate con uomini d’estrazione e situazione altra, poi divisione in parti di problemi che potevano essere risolti in monoblocco senza tutta questa discrasia strutturale nel seno del sistema e poi passare alla fase successiva senza cantieri aperti di indeterminata terminazione. Ecco qui smontamenti e poi ricostruzioni, qui e laggiù viaggi inutili, ovunque terapie forzate, terapie mancate, barriere psichiche permeate, scelte processate, tempismi forzati nella rapidità o nella lentezza. Viviamo rapporti di cui non c’è il tempo, rapporti in cui si perde il tempo, rapporti inquinanti, disturbanti, frenanti, logoranti, devianti. Rinnoviamo caute esposizioni verso nuove persone ad alto rischio di delusione. La diversità sociale suscita incidenti e scontri che turbano gli animi. Viene convogliato in essi un coacervo di dubbi, pregiudizi, distorsioni, fraintendimenti, questioni ancora aperte poi dibattute presso tutto il corpo dei vari paesi, nell’irresolutezza tipica dei sistemi politici democratici che non possono certo porre un freno a questa confusione concettuale e dottrinaria. I sistemi politici non autoritari e già improntati al lassismo irresponsabile si premurano invece di rallentare la società nei naturali movimenti e nello sviluppo che questa avrebbe se non fosse promiscua e non dovesse dunque combattere se stessa. L’origine di tutto questo interminato dramma sta nel fatto che siamo stati tutti quanti messi gli uni contro gli altri come giammai ci saremmo schierati in natura, dal momento che era preferibile restare distaccati nella propria integrità. Coloro che parlano di integrazione hanno per scopo la disintegrazione.


Svegliati Dorian, hai ricevuto un dono che, a patto che tu lo utilizzi senza scrupolo alcuno, può farti avere tutto quello che desideri... Tutto, Dorian, e senza perdere nulla. Sai quante persone sarebbero pronte a uccidere il padre per avere un decimo di quello che puoi avere tu? Guarda il tuo volto…
Guarda il tuo corpo… Dorian. Cosa ti manca? Un’anima bella, forse? Hai mai sentito parlare di un’anima bella che si sia goduta la vita? O che ne abbia avuto qualche speciale ricompensa? Esiste dunque davvero, l’anima, Dorian? O è solo l’invenzione di chi non aveva un corpo? I moralismi sono le invidie dei perdenti, i limiti ciò che la gente non ha il coraggio di oltrepassare. Non esiste altro inferno che quello di colui che non ha ciò che vuole su questa terra, Dorian... non esiste altro peccato che perdere un’occasione. Non esiste altro male se non l’incapacità di prendersi il proprio bene.

Dinanzi al fulgore lapidario di queste argomentazioni, che cosa poteva mai ancor trattenere il giovane dal prendere la strada indicata? Le preoccupazioni di un patetico pittore?


Una cosa è dissuadere un uomo da un comportamento che sarà effettivamente accessibile solo tra
lungo tempo e dopo impegnative battaglie, dissuaderlo, dunque, dall’utilizzare cinicamente qualcosa che ancora non è stata conquistata e chissà se mai lo sarà. Ma distogliere un uomo da un piacere che questi ha a portata di mano, per la potenza delle sue armi, ed una posizione privilegiata rispetto ad eventuali concorrenti o avversari fustigatori, è veramente un’impresa. Nel caso poi le argomentazioni addotte dal proprio mentore siano oggettivamente più forti di quelle rivali… veniamo all’impossibile.

È più facile persuadere alla resa colui che già aveva cominciato a cedere. È più facile persuadere alla guerra colui che già è adirato. È più facile spingere all’espansione un uomo che già si sta espandendo con successo. È facile spingere alla prudenza un fifone. Rabbonire un docile. Dire ad un pigro che bisogna prendersela comoda. Convincere un ladro che il furto è un peccato veniale e perdonabile. Sostenere dinanzi ad un fisico che la scienza è superiore alla filosofia. Credere che una persona che ci ha feriti è assolutamente priva di valore. Che una persona che per noi ha avuto dei vantaggi, ne abbia avuti invero molti di più. Che chi ci ha ingannati lo abbia fatto in maniera molto più radicale di quanto pensiamo. Convincersi che l’entità delle nostre ragioni possa essere approfondita. Che sia giusto che la legislazione civile debba evolversi in senso favorevole all’espansione dei nostri diritti, o nelle misure prese per la sicurezza della classe di cui facciamo parte. Che la materia o l’abilità in cui siamo maggiormente proficui è quella che maggiormente rivela l’intelligenza umana. Che le qualità dimostrate dal nostro atleta preferito siano le più importanti al fine della valutazione globale, e quelle degli atleti rivali vengano prese in considerazione solamente in maniera impropria. È più facile credere al tizio che sta argomentando contro una tesi la cui verità non potremmo mai accettare, o dinanzi alla quale saremmo completamente destabilizzati.

Non è possibile non essere razzisti perché non è possibile non appartenere ad una razza e rappresentarne gli ideali operandone istintivamente la realizzazione. Intendo per razza l’insieme delle caratteristiche innate, e pertanto non modificabili, di un individuo. Nella razza bianca esistono svariate sottorazze o sottospecie con cui uno di noi non vorrebbe aver nulla a che fare: e nulla dovrebbe averci a che fare senza mettere a repentaglio il proprio benessere e infine la propria sopravvivenza. I propri stessi genitori possono appartenere ad un’altra razza, estremamente nociva e nemica. Non si può dunque condannare il razzismo come concetto allo stesso modo in cui non si può condannare la guerra: ogni condanna è infatti un atto di guerra su base razziale. I nemici del razzismo sono dunque semplicemente dei razzisti al contrario che però, consapevoli di essere inferiori intrinsecamente oppure per quanto riguarda la posizione di forza contingente, non hanno interesse a manifestare la propria volontà di sottomettere, e se necessario annientare, le altre razze. Nessuno ti odia perché sei razzista: ti odiano perché sei di un’altra razza, e come ogni razza anche la tua non tollera commistioni e necessita di un determinato spazio fisico per realizzarsi pienamente. Questi due principi: la completa intolleranza del diverso e la necessità di realizzare totalmente se stessi, invero l’uno la parafrasi dell’altro, sono le due fondamentali leggi, ed in realtà l’unica legge, in cui si esprime il concetto di Natura. E andare contro natura è innaturale e pertanto impossibile. Allo stesso modo che l’odio e l’amore sono una cosa sola: giacché si odia per amor di se stessi e si ama per odio del diverso. Non esiste un essere che non odi tutti gli altri esseri, i quali non gli siano affini e dunque parti dello stesso essere che deve collettivamente ritrovare la sua pienezza originaria. Quello che vien tollerato non è amato ma sopportato e quindi usato: ed il chiasmo è lecito.

Ora detengo ancora un ampio margine d’incertezza circa quale fosse lo scopo finale dell’hitlerismo in ambito razziale. La mia ultima idea era che egli non avesse intenzione di sterminare alcun popolo ma solo di purificare il sangue originario dei fondamentali ceppi etnici e restituire ad ognuno uno spazio idoneo sulla terra in cui costruire e reggere la propria civiltà, nella coerenza della natura omogenea, e sviluppare sino ai suoi limiti intrinseci la sua capacità civilizzatrice, una volta raggiunti i quali tale civiltà dovesse solo conservarsi. Il problema è che ciò che ad un certo punto si ferma, necessariamente regredisce perché non ha esaurito la sua vitalità ma non le pone altre mete. Conseguentemente mi appare chiaro come non sia possibile che una razza esaurisca il suo potenziale di sviluppo senza impadronirsi, prima o poi, delle intere risorse del globo e utilizzarle per il suo scopo: ossia il perfezionamento della propria civiltà, ottenendo così la felicità. Quindi nessun popolo abbandonato a se stesso se ne sarebbe mai rimasto per sempre entro i suoi confini naturali, poiché questi non possono essere altro che i confini del mondo intero, ed è una aberrazione o comunque un atto di semplicismo dire che un popolo sia nato per stanziarsi e rimanere stanziato in un determinato clima e ambiente naturale e addirittura con dei precisi limiti territoriali. Questo implicherebbe anche che la sua popolazione non debba superare un preciso limite anagrafico: una volta che la civiltà razziale fosse giunta al suo apice intrinseco di organizzazione e tutti i ruoli fossero occupati, un aumento di popolazione che non si limitasse alla sostituzione degli elementi che invecchiano o che muoiono vedrebbe una impossibilità di occupazione e costoro sarebbero solo un fardello impossibilitato a migliorare la civiltà nel solo modo possibile: ossia ingrandendola tramite l’espansione territoriale ed operando sul rinnovato tabellone un superiore livello di specializzazione del lavoro e la completa occupazione. Ma se una società fosse davvero perfetta, se avesse raggiunto il suo scopo ultimo, non sarebbe più neppure attaccabile: nemmeno dalla vecchiaia dei suoi componenti, dalla malattia, dalla guerra o dalla morte. Se una società è vincolata a lavorare, lottare, e riprodursi per mantenere, tramite il rinnovamento ed il ricambio energetico, il suo livello attuale di benessere, può essere solo perché ciò che un popolo ha acquisito nella storia non gli spetta mai per diritto di nascita ma solo per diritto di conquista, e dunque chiunque può cercare, ed anzi cerca con la medesima necessità naturale che porta ogni vita ad espandersi, di sottrarglielo per annetterlo a sé: e solo una sconfitta totale del nemico e dunque l’uniformazione
del mondo può eliminare per sempre il pericolo di regressione ed essere quindi definitiva.
Le guerre conoscono degli armistizi e dei periodi di pace solo perché le energie ad un certo punto scarseggiano e bisogna riguadagnarle prima della prosecuzione: giacché nessuna vittoria mutilata felicita davvero il paese e l’annessione dell’ultimo fazzoletto può solo attendere tempi migliori ma non essere una rinuncia definitiva. Quando una civiltà si trova stanziata in un territorio sul quale abbia stabilizzato uno stile di vita e dunque un sistema creativo della ricchezza, e la vita nazionale abbia assunto dunque un carattere abitudinario, quello che basta mantenere per due generazioni allorché si possa parlare di tradizione popolare, essa sembra essersi realizzata come
tale e quindi adagiata in tale forma e livello di organizzazione.
Il fatto è che non bisogna mai adagiarsi, e sentirsi invece costantemente a proprio agio.
L’agio non è mai dato dalla pace: bensì dalla vittoria costante, dal tenere il passo delle proprie pulsione espansive, dall’avere sempre la forza di affermare l’istinto.

In questo caso la durata della battaglia non è nemmeno percepibile, in quanto unitaria, e quindi irreale, e noi siamo sempre ugualmente giovani anche se sempre più anziani ovvero sempre più grandi, più maturi, più vicini allo stadio finale che ci completa. Ogni agio finisce nel momento in cui la vita regredisce, ed essa lo fa nello stesso momento in cui cessa di estendersi. Non esiste dunque una fase di stallo che non racchiuda una regressione interna dovuta ad un blocco energetico imposto dalle circostanze, oppure un accrescimento energetico interiore imposto dal possesso di un territorio ricco di sostanze benefiche cui si contrappone un analogo blocco nemico ai suoi confini abbastanza forte da non consentire un nuovo scontro prima che noi ci siamo irrobustiti di queste nuove sostanze. Se la pressione esercitata da questo blocco è inferiore alla pressione espansiva interna consentitaci dal diritto di attingere a queste sostanze benefiche, il nostro è un equilibrio piacevole perché espansivo, è un’attesa piacevole, una cattività piena di speranze, figlie dirette delle gratificazioni che ci donano i progressi quotidiani, la sensazione di aumento energetico, che la rende ben sopportabile, dunque quasi un rifugio, molto più confortante del pensiero di uno scontro immediato a scopo espansivo contro un nemico di cui non siamo ancora all’altezza.
Nessuna abitudine può essere costante perché implica la ripetizione di un movimento bellico contro un nemico che si ripresenta in maniera periodica con forza identica a quella che abbiamo sconfitto una volta e dunque, rigenerando lo stesso quantitativo di energie, vinceremo senza ulteriori sforzi creativi: la creazione infatti non è che conquista, espansione, e dunque costa fatica perché implica la sconfitta di nuovi nemici ai quali non eravamo abituati perché non li avevamo mai sconfitti prima. Se le espansioni fossero tutte metodiche non esisterebbe il concetto di fatica, perché nessuno avrebbe il ricordo di una resistenza tramite la quale, sebbene noi abbiamo vinto, l’avversario ci ha logorati od inquinati che dir si voglia: e solo con una ulteriore espansione noi potremmo scacciare queste scorie e dunque ogni ricordo sgradevole. La conclusione è che la guerra col diverso non sia solo posizionatrice, ma eliminatrice, e dunque non si uccide per arrivare a sottomettere, ma si sottomette per uccidere, e ultimata la sottomissione militare degli inferiori, essi rappresentano comunque un fastidio perché alcun ruolo produttivo nel seno della nostra civiltà può essere assegnato loro, che un rappresentante subalterno ma omogeneo della nostra specie non possa svolgere meglio, ovvero in maniera coerente con quello di tutti gli altri professionisti: egli dovrebbe essere dunque necessariamente eliminato come elemento intrinsecamente inutile, ineducabile, non integrabile. Un popolo è dunque destinato, prima o poi, ad intraprendere guerra con gli altri popoli. La guerra è una cosa inevitabile quale necessità biologica irrefrenabile: se non ad opera di una necessità biologica avversa e più forte. Quindi i casi sono due: Hitler non aveva considerato questo, oppure lo aveva considerato ed il suo obiettivo finale era davvero lo sterminio di tutte le razze inferiori per lasciare l’intero pianeta a disposizione della sola razza ariana che, potendosi adesso moltiplicare numericamente senza opposizioni e crescere rapidamente di livello per le sue intrinseche capacità civilizzatrici superiori, avrebbe saputo sfruttare le risorse della Terra tutta e forse raggiungere la meta finale che la Provvidenza aveva assegnato al genere umano nella storia dell’universo. Pare che il Fuhrer, legato al concetto di Nazione, osservando come esso fosse mortalmente minacciato dalle idee moderne e fattualmente messo in crisi dalla loro preoccupante realizzazione storica in rapida accelerazione, volesse solo fermare il folle cosmopolitismo che contamina in ambito primariamente biologico e poi culturale tutte le specificità dei popoli, con esse la loro civiltà e dunque le sue difese naturali e materiali e la loro capacità di completare il loro sviluppo, asservendo questa magmatica umanità sempre più informe e promiscua, indebolita dai conflitti interni e premuta nella frustrazione, ad una élite internazionalista senza scrupoli, identificata nel popolo ebraico, il cui internazionalismo era ben lungi dal perorare la causa dell’unificazione tra i popoli, affinché collaborassero pacificamente verso uno scopo imprecedentemente comune: ed intendesse invero distruggerli uno ad uno tramite la vera conseguenza della contaminazione tra diversi ossia la conflittualità. Attaccando una nazione che si reggesse nella sua purezza etnica e nel suo uniforme sviluppo civile, questa avrebbe avuto una coesione interna troppo forte per lasciarsi penetrare e corrompere dalla minaccia ebraica, priva di una propria civiltà che avesse sviluppato le risorse materiali e militari per conquistare altri imperi direttamente con la guerra. L’ebreo dovette sviluppare dunque una astuzia politica senza precedenti e di grande precisione per poter volgere, lui che era privo di forze, l’una contro l’altra le forze altrui: ed infine poter comandare queste e quelle grazie ad un dominio intellettuale posto in locazione sopraelevata, anche se privo personalmente di energia fisica e concrete abilità. Togliendo alla produzione e distribuzione della ricchezza economica sempre maggiore autonomia nei confronti del suo rappresentante astratto ossia il Denaro, quest’ultimo da mero strumento volto a facilitare gli scambi, divenne padrone degli scambi alterando arbitrariamente i rapporti di valore delle merci prodotte e, nel momento in cui non era neppure più possibile produrre nuove cose senza l’ausilio di capitale finanziario, questo diveniva padrone anche della produzione: chi avesse avuto in mano dunque non la ricchezza materiale e la capacità di produrla bensì la gestione del capitale astratto, avrebbe senza fatica soggiogato e dominato il mondo, facendo lavorare e se necessario combattere gli altri, visto che anche gli eserciti vanno finanziati. Ogni forza militare ha bisogno di risorse economiche per funzionare, ma se queste gli vengono fornite dalla classe politica imperiale, che ancora difende gli interessi nazionali poiché non può esserne svincolata, questa potrà schierarle immediatamente a difesa di tutti i nemici dello Stato, e dunque anche contro questi sinistri arrampicatori sociali. La chiave per abbattere una nazione era dunque liberarsi della sua classe dirigente che ne garantisce l’unità e sostituirla con la loro che promuove la disunità di cui avevano bisogno perché potessero piegarla senza più significative resistenze. Gli strumenti politici con cui realizzare ciò erano stati preparati, e l’ebreo li aveva messi in moto uno dopo l’altro a comporre la sua oscura e losca trama. Tali strumenti erano, innanzitutto, la Democrazia che avrebbe eliso il principio di autorità e responsabilità personale su base meritocratica, esemplificato al suo apice dalla classe nobile e da questa imposta come criterio generale di comportamento in ogni strato sociale. Il trionfo della democrazia sull’aristocrazia avrebbe di fatto sottratto alla civiltà il suo elemento civilizzatore, ossia politico, quello che garantisce l’unità nazionale, uno sviluppo complessivo e dunque coerente e reale. Il campo sarebbe infatti stato lasciato, nella nuova sede politica parlamentare, agli egoismi conflittuali delle classi economiche: portando il conflitto di classe direttamente nell’arena intellettuale che avrebbe avuto il compito di dirimerlo in favore dell’idea nazionale che non tollera conflitti interni. La politica è diventata in questo modo materialista perché privata del misticismo di popolo che si esprime nell’idea di patria e si esalta nei suoi trionfi materiali verso la conquista di un futuro più grande. Sono stati creati dei finti idealismi per lusingare le fazioni di possedere ancora personalmente quell’elemento di cui uno Stato era stato fattualmente deprivato, e tali idealismi sono stati utilizzati per adescare gli entusiasmi delle due fazioni e pilotarli verso le mire materialistiche delle élites che adesso, tramite il potere economico che aveva sostituito ed inglobato quello politico, potevano muovere tutte le pedine verso quella disgregazione che è insita nella materia privata del proprio spirito. Gli ebrei erano spirito senza materia, erano infelici e decisero che per conquistare la materia dovevano toglierla a chi in un altro spirito l’aveva dominata e plasmata. Per corrompere la materia, tenuta insieme dallo spirito, e dalle élites intellettuali che ne sono sempre anche i garanti sociali, essi dovevano dunque corrompere la spiritualità di un popolo. Bisognava agire minando preminentemente le loro certezze, ossia l’unità degli istinti tramite la ragione: ossia una moltiplicazione conflittuale degli istinti. Un popolo che non aveva supporti materialistici ha cercato dunque di minare l’anima che quel corpo materiale teneva unito e vitale: ha dunque creato ideologie contro l’ideologia, che una volta non poteva essere discinta dalla fisiologia, egli produsse dunque il concetto perverso di ideologia ossia una struttura concettuale fatta di negazioni degli istinti fondamentali in cui si esprime la vita: tramite la critica concettuale essa ha distaccato, dunque ha astratto, i concetti dalle intuizioni, sicché privati del loro peso essi potessero essere meglio maneggiati e capovolti nel loro contrario: imponendo poi questo messaggio in tinte forti, assumendo ogni termine un nuovo significato che si contrapponeva adesso, massiccio, estremamente minaccioso, contro il vecchio e soverchiando quest’ultimo, l’uomo avrebbe di fatto contenuto e mortificato nell’organismo ogni pulsione vitale, tramite il senso di colpa, ossia l’ossimoro di una attribuzione a se stessi di un male ovvero di una contaminazione nemica che invece, una volta che è riuscita a penetrare, adempie alla sua natura ed agisce in maniera distruttiva senza il nostro consenso, ammesso che sia più forte, nel nostro apparato psichico, delle nostre forze difensive. Quando il livello di contaminazione supera la parità di elementi e dunque il nemico è diventato più forte, esso può agire indisturbato nella devastazione dell’organismo. La prima sublime arma dell’ebreo fu dunque il Cristianesimo, ed il suo colpo apripista fu la scissione dell’unità di materia e spirito: che sola garantisce salute, forza, fierezza, serenità, prosperità, sopravvivenza, sviluppo e futuro. La prima arma ebraica ebbe un impatto talmente efficace sul nerbo dell’Impero, che la civiltà non si è mai veramente ripresa da quell’evento, e le successive forme in cui l’ebreo ha riproposto la sua anima disgregatrice hanno richiesto sforzi minori, sia concettuali che materiali. Come si suol dire: chi ben comincia è a metà dell’opera.


All’interno delle classi economiche, i loro singoli elementi operano a loro volta per fini individualistici, aumentando il conflitto, lo stridore, la discrasia sociale, il degrado ambientale ed estetico del territorio, soprattutto urbano dove si concentrano le masse umane, dove non esiste più un disegno complessivo ma che anche ci fosse non potrebbe essere rispettato perché tutto è subordinato ad esigenze economiche e chi ha i soldi può fare quello che vuole, non importa se è deturpante: nessuna autorità politica è più garante della salute nazionale. L’atteggiamento solidale mostrato tra gli appartenenti ad una classe non è vero cameratismo ma difensivismo di classe di necessità contingente: i singoli sono quindi solamente associati, ma non consociati con gli altri elementi della propria classe. Il materialismo è anche necessariamente individualismo, che sottomette ogni parte del mondo a strumento del suo benessere personale, del tutto incurante della finalità dei soggetti con cui si relaziona, ascrivendo ad essi solo una medialità: e dunque usandoli.
Il misticismo può appartenere solo a chi abbia una idealità sociale, e sino a che costui non è giunto al potere strutturando gli individui e le classi del popolo in Nazione, tale stato non nazionale non può assumere alcun misticismo. Non esiste una mistica dell’unico: solo invece dei molti che diventano uno, e poi sono in grado di lottare contro i nemici per la propria esistenza e sviluppo vitale. Non esiste una mistica del denaro: perché l’arricchimento non muove in altezza, e solo invece in larghezza. Esso non cambia la struttura del sistema, ne dimagra elementi per ingrossarne altri. Ma una vittoria che presuppone una sconfitta per un elemento che continua a far parte dello stesso sistema è una vittoria apparente in quanto temporanea: è una affermazione che contiene il germe della disgregazione, e di fatto lo innesca, e lo sviluppo del mercato in questa inalterata direzione sfocerà in una crisi economica generale. Un sistema non si può davvero sviluppare in maniera individualistica: al contrario, esso può solamente regredire, disgregarsi. Non esiste una mistica del proletariato: perché la sovversione del sistema non lo porta da nessuna parte. L’aggregazione con i suoi compagni dapprima lo può far sentire più forte contro un sopruso che gli sia stato effettivamente inflitto dal capitalista: e quella di punire gli sfruttatori e conquistare condizioni di lavoro e di profitto migliori è una prospettiva di riscatto davvero inebbriante ed anche assolutamente giusta. Ma i reali desideri del proletario non vanno oltre questo: se tali condizioni gli fossero state garantite, lui non avrebbe mai desiderato modificare il suo stato sociale ovvero appartenere ad un'altra classe, tantomeno alla classe politica. Egli non vuole veramente prendere il potere perché non essendo in grado di gestirlo non può ambire ad un ruolo dirigenziale. Istintivamente egli non si muove verso di esso, non è mai stato il suo sogno d’infanzia, e se gli venissero mostrati davvero tutti i problemi di cui si deve occupare un uomo di governo, cosiccome un uomo di scienza, un insegnante oppure un artista, egli si renderebbe conto che non fanno per lui, e declinerebbe l’offerta perché non se la sente e tali cose non gli interessano nemmeno: egli è un uomo della mano ed è infastidito da tutti i discorsi che si astraggano più di un certo tanto dalla concretezza ed anzi quasi sempre da una concretezza molto settoriale. Quando un operaio discute di politica, parla essenzialmente delle condizioni in cui lavora, del contratto, di quanto lo pagano, di quanto è a repentaglio il mantenimento del lavoro, di una operazione scorretta dell’azienda o del politico legiferante, della pressione fiscale e di altre spese a cui è soggetto, cosa gli costa questo, cosa gli costa quello, ma non perde affatto tempo con sociologia, psicologia, pedagogia, teoria economica, storia dei popoli, filosofia, scienza, arte, matematica. È giusto che sia così, perché se davvero si interessasse di queste cose impazzirebbe, sia non riuscendo a gestire la giornata in fabbrica, e rifiutando anche, spesso, di doversene stare lì col daffare che terrebbe in un’altra debita sede con la sua capacità di risolvere grossi problemi, e poi dovendo passare per questa vastità di spazi la sua concentrazione risolutiva sul problema particolare e che la vita impone come preminente e prioritario, ne verrebbe minata e lui in questo binomio di ruoli dato dall’essere fuori ruolo fallirebbe in entrambi. Se in una discussione qualcuno lo portasse insistentemente su queste tematiche in un modo che vada oltre l’accenno direttamente applicabile alla questione che interessa a lui, verrebbe immediatamente giudicato pesante, noioso e fuorviante sul punto della questione, un seccatore, un saccentone cultureggiante che vuol fare il figo ma quel che dice lui è lontano dalle reali esigenze della vita (le sue – di cui non vede la connessione con quelle discipline) e forse è anche uno smidollato ed uno che vuol campare di queste menate. Ma in ogni caso, anche qualora tale pontificatore fosse un personaggio dall’aria onesta e rispettosa, palesemente intelligente ma anche simpatico e tutt’altro che arrogante, che parla non per dare sfoggio di sé ma per arricchire la discussione di elementi necessari a risolverla, comunque la difficoltà di questi argomenti che oltre alla testa richiedono la cultura, scoraggia presto l’uomo della semplicità e della manualità. Anche gli svaghi che sceglie hanno un carattere simile alla professione che ha scelto e ne sono un giusto companatico: la vita deve essere varia di tutti gli elementi necessari ma coerente in ogni elemento con il carattere del protagonista, e questi aspetti vanno coltivati parallelamente in modo che tengano sempre, nel loro incontro lungo gli anni, dell’identico livello di sviluppo, affinché non si creino delle insufficienze da un lato che poi si traducono in cali di forma dall’altro. I tuoi passatempi devono avere la stessa forza del tuo lavoro: in entrambi ti dovresti realizzare, ma laddove invece il primo sia logorante, i secondi devono essere davvero lenitivi e distensivi e come tali devono essere efficienti e pertanto curati nella forma, nella quantità, nelle tempistiche. Ogni squilibrio ne genera altri, ogni ferita non curata prepara il solco alla prossima, ogni vizio non prontamente contrastato e corretto genera un circolo vizioso. Anche chi svolge un lavoro intellettuale tende ad avere passatempi intellettuali. Chi vive nel mondo degli affari e per gli affari, difficilmente va a teatro, ma si trova attratto da un film che parla di queste cose. L’egualitarismo democratico ha creato un danno psichico e sociologico di proporzioni impressionati perché, con il mito degli uomini completi ed eguali, pare che nessun uomo abbia più il diritto di essere serenamente parziale o meglio completo nella sua singolarità e giusto nella sua diversità, che nessuno sia padrone a casa sua, possa essere riconosciuto esperto di quello che fa nella vita e qualunque presuntuoso rompicoglioni possa contestarlo, ottenere il rispetto che merita purché non esca dai ranghi a fare il vandalo spaccone a sua volta, senza essere poi di frequente tenuto o improvvisamente necessitato ad occuparsi anche di altro, intendersi di altro, discutere di altro, partecipare ad una votazione, dare consigli, prendere posizione e sostenere una persona oppure l’altra che sono implicate in una questione personale inerente ad una tematica di cui egli ha assai poche nozioni, trovare lui le soluzioni a cose che hanno impegnato intere tradizioni di professionisti, magari per correggere un errore o punire una frode di cui è stato vittima o per sventare una minaccia creati dagli specifici professionisti che non hanno fatto il loro dovere, e poi sentenziare ciò che non conosce, che non ha il tempo di conoscere e che spesso non capisce e non gli interessa neppure. La democrazia ha negato la fattuale meritocrazia, la qual cosa ha guastato l’efficienza dell’economia creando incompetenti in ogni ruolo, impossibili da sostituire se non con un dibattito infinito tra non esperti oppure con sforzi personali di alcuni volti ad ovviare alle manchevolezze dei professionisti oppure guardarsi dalla loro disonestà per non esserne malamente fregati. Anche il fenomeno della corruzione è conseguenza dell’abolizione meritocratica: se uno fa un lavoro per vocazione innata, non è facile da corrompere, perché in un conflitto di interessi che gli venisse posto, il piatto più pesante è quello del suo lavoro che in questo caso possiamo chiamare missione. Allo stesso modo in cui in ambito bellico il tradimento, la diserzione e la facilità della resa sono tutti fenomeni legati ad un cattivo arruolamento, che ha accolto nelle proprie file gente che non credeva fortemente nella causa, che sono state in qualche modo coscritte al tesseramento e poi alle armi. Il fantasma dell’uomo universale di fatto condiziona però non modifica la particolarità dell’uomo reale: coerentemente con la quale egli è portato a scelte e declinazioni. Però la schiera dei principi morali e dei giudizi morali, contrastanti quanto la rete di interessi con persone diverse con le quali ci ritroviamo relazionati in un modo che risulta contrattuale anche se non è scritto, costituiscono una fitta gabbia di spini che rende perigliosa ogni nostra scelta e mancanza e di fatto le pone un prezzo assai difficile da scucire, e che spesso è alto abbastanza da indurci a gesti contro volontà, pur di non deludere qualcuno che aveva riposto speranze in noi oppure che ci apprezzerebbe soltanto qualora agissimo in quella direzione: di fatto azioni per noi dannose, e qualora per amor proprio le evitiamo, non possiamo evitare però gli strali del giudizio e l’ingiallimento rancido della nostra immagine. Le istanze della morale sono schierate a difesa dei mille interessi che ormai legano le persone che non avendo punti stabili e certi di riferimento tendono a legarsi sprovvedutamente con persone che non conoscono, e sittante relazioni se ne possono nuovamente creare, taciti contratti e richieste non esplicite ma spesso reali, tutte le cose che ci si aspetta dagli altri illudendosi della loro disponibilità e capacità che può essere richiesta a tutti e davvero pretesa da nessuno: eppure quando il bisogno ci ha spinti alla richiesta e la fiducia si è improvvidamente creata e la delusione arriva, il disagio provato travolge in rancore di cui vogliamo incolpare qualcuno, sicché tutti veniamo in qualche modo messi in discussione perché chiunque ha deluso speranze che erano state riposte in lui. Da un lato pretendiamo che l’investimento che abbiamo fatto su una persona e l’attesa della soddisfazione vengano ripagati anche qualora egli non fosse stata la persona giusta e ne avessimo ricevuto una sorta di consenso apparente o forzato: se la soddisfazione non arriva piovono le accuse nei suoi confronti, e questa è semplice prepotenza egoistica. Poi vi è anche la trascuratezza nel valutare quel che significano le cose per gli altri, quanto davvero gli costino, se davvero egli non ne sia all’altezza, se la sua giustificazione sia legittima o sia un alibi, e tendenzialmente propendiamo per l’ipotesi negativa: è un principio di presunzione di colpevolezza, l’accusa da smentire e non da dimostrare. Se un uomo è giustamente umile lo prendono per uno che non ha il coraggio di esprimersi o di prendere posizione. Se declina per disinteresse diventa un egoista. Se lo fa perché è impegnato in altri problemi oppure stanco diventa un pigro. O magari uno che dà delle delusioni agli amici. Da un lato il mito democratico ha effettivamente convinto molte persone di essere abbastanza intelligenti ed avere anche la cultura e l’esperienza di vita sufficienti per poter trinciare giudizi su qualsiasi cosa e partecipare a qualsiasi attività o processo. Se anche molti non si sentissero affatto all’altezza, comunque la legislazione libertaria che non punisce gli errori avalla la naturale trascuratezza, faziosità e malizia con cui tutti sentenziano e vengono sentenziati, oppure considerano un problema, facendo dei danni che non sono nemmeno tenuti a riparare e che al massimo possono vedersi vendicare a propria volta con la stessa moneta: sicché alla fine tutti parlano per irresponsabilità istituita, per bassezza elevata, per faziosità legalizzata, per egoismo mascherato, per ignoranza assolta, per incompetenza tollerata, ed allora i rapporti sociali diventano tutti fasulli e privi del fondamento della Fiducia, cui l’affidabilità dell’uno incoraggia la sincerità dell’altro. Le asperità dei dibattiti sono dovute proprio alla sinergia di siddue fattori: tutto è opinabile da tutti, perché nessuno più è una autorità, ma tutti sono potenzialmente tenuti ad esserlo, quindi devono stare all’erta perché potrebbe esser loro richiesta un’opinione, e quando la esprimessero spontaneamente, potrebbero essere criticati ed attaccati da chiunque, senza che nessuno sappia con certezza di chi ci si può fidare, chi sia in sostanza il soggetto autorevole che possa fare da arbitro e sentenziatore. Oltre allo stridore sociologico e al disagio psichico questo sistema produce di fatto una diffrazione energetica spirituale di tutti quanti, delle continue deviazioni e disturbi dalle proprie competenze, reali ambiti di interesse e attività, una sospettosità circa qualsiasi cosa ci venga detta in quanto non conosciamo bene l’autore e potrebbe essere facilmente un idiota o un impostore, un malintenzionato, altrimenti aver preso la notizia di seconda o terza mano e questa essere stata più volte interpretata e distorta. Dal lato pratico il fenomeno sociale si esprime in ipertrofia verbale inconcludente ed una grande viscosità operativa. Con l’instaurazione del regime democratico, nessuna personalità eminente poteva accedere al ruolo direttivo che le sarebbe spettato: solo i mediocri potevano farlo, in quanto eletti dal popolo e rappresentanti di un’ampia porzione di esso che potremmo chiamare classe, sicché non era più possibile un’azione politica animata dalla premura per l’ordine sociale e dunque l’organizzazione che consente ad un popolo di strutturarsi in Nazione, garantendo a se stesso la sopravvivenza a lungo termine, fatta di grande capacità di autodifesa, autoterapia e creatività innovatrice. Questo non sarebbe stato più possibile per la fattuale decapitazione delle teste migliori, quelle maggiormente capaci di governare grazie alla sensibilità di discernere le affinità e le differenze tra gli elementi di una società, e di regolare allora i rapporti, fattualmente non perfetti, tra questi elementi, tramite opere di congiunzione e disgiunzione, in un determinato ordine di priorità, all’interno del paese, di coordinare operazioni di attacco e difesa verso un paese straniero, qualora necessario, ed altresì di riconoscere al volo e trovare il modo ottimale di espellere un elemento intruso e dunque molesto che si trovasse annidato nel paese. Questi individui hanno nella loro magnanima infatti la forma a priori della propria civiltà, nella quale compare una rappresentanza di ogni elemento necessario, che essi sono dunque in grado di riconoscere quando lo vedono e mettere al posto giusto. Se tu sottrai ad una razza la sua casta nobiliare, ancor non l’hai uccisa ma hai tolto ad essa il nerbo maggiormente capace ad opporsi alla disgregazione per opera di colonizzatori stranieri, attirati da loschi ed abili politicanti che si fossero a quella sostituiti. Il parlamentarismo è stato opportunamente chiamato tale perché ha la funzione di sostituire l’azione politica animata dalla volontà di cambiamento con la chiacchiera politica volta a celare la volontà di mantenimento. I rappresentanti dei partiti classisti e dunque degli interessi classisti saranno stati eletti a maggioranza all’interno della lor fazione, ma anche qualora il democratismo non si fosse affermato sino ad invadere anche le fazioni medesime, in modo da sfavorire ancora di più, stavolta anche nel piccolo, l’elezione dei migliori o comunque rallentarla, e queste fossero ancora strutturate secondo una meritocrazia naturale per cui il migliore viene tutt’al più eletto all’unanimità da quelli che saranno i suoi ministri poiché già fattualmente componenti del collegio umano di teste immediatamente inferiori al leader nella gerarchia intellettuale: tale rappresentante di classe, dunque, e fosse pure il migliore della compagnia, non potrebbe mai assumere un punto di vista differente da quello classista e dunque operare, qualora eletto, nell’interesse dell’intera nazione. Tale cosa sarebbe comunque difficile perché il parlamentarismo esclude la dittatorialità di classe ed impone invece che ogni vittoria sia fittizia ed essendo le classi fondamentali che vedono i loro interessi rappresentati in parlamento composte da un numero pressoché analogo di sostenitori, il bipolarismo partitico è una conseguenza scontata della vita politica che caratterizzerà una nazione democratica, con alcuni partiti complementari che non vinceranno mai ma parteciperanno al trebbo, e le cui politiche sono tanto maggiormente vicine a quella dei partiti maggiori quanto più è elevato il numero di voti che possono sperare di prendere. Il partito che infine vince, non potrà però mettere in discussione il sistema democratico imponendo una dittatura di classe, ed invece dovrà accettare una mera leadership di maggioranza la cui opposizione ha il diritto di continuare ad operare contro le sue decisioni con la propaganda e l’ostruzionismo numerico che determina anche il rifiuto dell’appoggio economico, ma che non può mai diventare esplicitamente violento perché il monopolio della forza spetta invece alla polizia e all’esercito che devono proteggere appunto la forma dello stato che in tal caso è costituzionale, e dunque impostata al servizio di un’entità che sta al di sopra della Nazione e a maggior ragione di qualsiasi sua fazione interna: sicché entrambe devono restarsene a cuccia, prendere il loro biscottino e non chiedere troppo. Ma le decisioni del partito al potere, per quanto rallentate dai diritti democratici ovvero la libertà di tutti di far pesare la propria volontà su processi che non gli competono, di relativizzare e indebolire e in fin dei conti non obbedire e quindi vanificare l’autorità ad un certo punto assegnata o conquistata da un altro soggetto, secondo regole che sembravano fatte per impedirlo quasi del tutto, senza per questo essere arrestati o subire gravi conseguenze: tali decisioni, tuttavia, verranno infine prese ed eseguite. Esse lo faranno in ragione del fattuale e temporaneo predominio numerico, ed avranno certamente un carattere fazioso. La durata esigua della legislatura, considerando poi i rallentamenti redazionali, deliberativi ed operativi delle riforme, inerenti al sistema democratico, impone che nessun partito al potere abbia il tempo materiale per correggere gli errori, veri o presunti, della precedente legislatura o di tutte quelle precedenti, e mostrare così il potenziale risolutivo della propria nuova linea di governo. Questa si limiterà, invece, a manifestarsi come eccessivamente favorevole ad una fascia della popolazione, ma soprattutto per la casta al potere, ed aumentando così i dissensi popolari quel tanto che basterà, nelle prossime elezioni, a far pendere l’ago della bilancia verso il partito di opposizione. Il quale farà la stessa cosa durante il suo mandato. Infatti la volontà riformistica di chi si presenta in politica in simili paesi già è molto ridotta e per lo più falsa, inoltre viene ostacolata nella sua realizzazione e in questo binomio sta il nocciolo della democrazia ossia della falsa politica rivolta da tergo a mantenere il più a lungo possibile le cose come stanno illudendo costosamente i cittadini che qualcuno si stia invece sbattendo per cambiarle, prendere tempo e pilotare le cose in modo da poter portare il piano retrostante dei veri signori del sistema al suo stadio successivo. Se consideriamo poi che il sistema democratico nega la possibilità che una persona seria, onesta, molto capace e davvero credibile, ed il cui carisma vada oltre il materiale per gossip, possa assumere il potere, è piuttosto normale che il leader popolare che invece si afferma rovini autonomamente la sua immagine, imbrattata fra l’altro dalla libera stampa avversaria, entro pochi mesi dall’inizio della legislatura, e la gente voglia quindi toglierlo di mezzo e sostituirlo: perché se non è un delinquente o un ladro, e non è neppure un opportunista e un parolaio, resta per lo meno un noioso incapace. Le persone in gamba e i governi democratici si snobbano a vicenda: si respingono, in quanto opposti.
Dobbiamo renderci conto che la democrazia è uno strumento ingannevole rivolto a servire una tirannide retrostante. La democrazia universalizza il diritto di discutere, non quello di decidere. Quel soggetto politico retrostante ha già impresso il moto iniziale del sistema in una determinata direzione, ed affinché nessuna forza interna al paese possa modificarla, pone questa maschera politica falsamente liberale, che sorprendentemente si interessa all’opinione di tutti e addirittura le conferisce un peso esecutivo, quale che sia l’argomento di discussione, fosse anche il più difficile ed apparentemente elitario. È banale osservare come nessuno individuo singolo, in ciò che concerne la propria vita, sarebbe disposto a fare altrettanto: sarebbe incline cioè a chiamare in causa il giudizio di chiunque sulle questioni che lo riguardano, attribuire dei diritti inalienabili agli umori della gente, alle loro volontà e sentimenti, ché abbiano un peso legittimo e possano far di lui quel che come risultato ne esca, rimettere dunque al trebbo popolare ed al pubblico voto una sentenza da esprimere su un soggetto, se stesso compreso, eppoi una decisione da prendere ed infine un atto da compiere, e mi appare ozioso affermare che nessuno desidererebbe di essere processato e giudicato dal popolo intero ad ogni pensiero, gesto, parola, di doversi sbattere a persuadere il mondo delle proprie ragioni, per subire in fondo comunque la sua autorità sentenziatrice, la cui competenza risulta insindacabile e che si afferma con la forza del numero, avallata dalla Legge in questo preciso senso. Un uomo ha infatti i propri interessi da perseguire, un determinato livello di autostima intellettuale e certezza nelle proprie conoscenze circa la questione nella quale è implicato, e non sarebbe certamente democratico in essa, e per estensione in tutte le questioni delle quali si sente all’altezza, ed anche qualora l’autostima si abbassasse di livello, egli preferirebbe qui affidarsi al giudizio autorevole di una persona esperta e scelta, non alla piazza urlante con i suoi pescivendoli e le sue vecchie comari. Dunque, nessuno è democratico circa gli affari propri, ma gradisce scioccamente di essere chiamato in causa circa gli affari degli altri e si sente lusingato che una teoria politica gli conferisca la dignità intellettuale di occuparsi ben delle questioni della cosa pubblica: di sapere dunque quali provvedimenti realizzino l’interesse generale. Egli soprassiede al fatto che il padrone però non sia lui, essendo milioni i cittadini suoi pari cui la legge attribuisce lo stesso diritto decisionale, che spesso hanno idee diverse dalle sue e che possono imporle col diritto di maggioranza. Inoltre, volendo escludere le poche forme di democrazia diretta che la legge gli mette a disposizione, principalmente la proposta di legge e il referendum popolare, egli sarà tenuto fondamentalmente a designare un partito o un cittadino che una volta eletti esprimono le proprie politiche senza nessun obbligo di attenersi ai programmi elettorali o alle dichiarazioni fatte, con il diritto di trascurare altresì una serie di questioni che il cittadino potrebbe considerare essenziali alla realizzazione del proprio benessere, e che necessitano di essere risolte ai piani alti della politica. Le questioni sulle quali il cittadino è “chiamato a decidere” sono dunque 1) mediate da un soggetto politico privo di vincoli legali alla volontà del votante 2) ridotte ad un numero preciso che ne trascuri altre di inconsiderata importanza 3) condivise da milioni di altri cittadini che possono invalidare il peso della sua opinione col semplice peso numerico di un’opinione diversa. Anche gli effettivi governanti di un paese democratico non possono inoltre attuare dei cambiamenti radicali, tali che mettano in discussione anche la forma base dello stato, fatta per conseguire un interesse che necessita appunto di tale forma, durevolmente mantenuta. La democrazia risulta fatta quindi di dibattiti a suffragio universale su questioni che sono già state decise a monte e sulle quali proprio la compensazione reciproca delle opinioni contrastanti, sia presso il popolo che in sede politica, impedisce un intervento efficacemente deviante. Ma tutti sono invece convinti di aver avuto il loro peso, che il demos abbia avuto la sua crazia, mentre è stato solamente usato come contrappeso ad altri soggetti che nella loro singolarità avrebbero potuto analogamente dar fastidio ai poteri forti.
Ma con questa provvida lusinga ed illusione, nel tempo tutti i movimenti nazionalisti sono stati gradualmente corrosi e stroncati da quelli democratici, plutocratici, ed internazionalisti.

Il fenomeno del Fascismo fu interpretato dai bolscevichi come uno strumento creato dal capitalismo per opporre resistenza alla marea rossa rivoluzionaria che stava espandendosi in Europa: una dittatura che si presentava come corpo sociale irreggimentato e più compatto, capace di fare barriera, con inserite nell’ideologia alcune misure già invero introdotte dal socialismo, da quest’ultimo mutuate al fine di riassimilarle al Capitale. Questa interpretazione è coerente nella sua logica classista e dunque perfettamente convincente per chi non sia in grado di trascenderla in quanto uomo limitato ed incapace di un pensiero sistematico, al quale è dunque inaccessibile anche il concetto di Nazione, e pertanto inadatto ed inetto alla politica cosiccome alla filosofia. Se uno concepisce il mondo sulla base del materialismo storico, unito al dogmatismo egualitario nato dall’orgoglio degli intelletti mediocri che non vogliono nessuno al di sopra di loro, e si trovi ad analizzare una realtà storica in cui compaiono ricchi e poveri, noti che ci sono sempre stati, anche nelle altre epoche, ed egli faccia parte dei poveri, non è difficile per lui concludere che il senso della storia intera debba essere una lotta del povero per liberarsi dal giogo del ricco, e la storia si presenta ai suoi occhi come un’evoluzione del medesimo conflitto di classe, nella veste dell’epoca. Solo che questa volta era ora di smetterla con le interpretazioni del mondo: era tempo di cambiarlo! E con la rivoluzione bolscevica, era stato detto all’operaio, che loro avrebbero potuto spaccare tutto, uccidere i padroni delle fabbriche, assumere loro stessi la proprietà dei mezzi di lavoro, gestire la produzione, e poi assaltare il governo per tagliare altre teste di quelli che con le loro leggi e i loro eserciti proteggevano gli sfruttatori capitalisti, così avrebbero preso loro il potere, e poi i preti che servivano a dare delle giustificazioni a tutti gli sfruttatori del proletariato, usando dei concetti fantasiosi per distogliere dallo stato della materia che parlava chiaro circa il suo non essere equamente distribuita. Ma come i capitalisti stessi, i governanti, poi i preti, poi gli scrittori, poi i pittori e i musicisti, poi gli scienziati, poi i professori, poi i medici, poi gli avvocati, poi dannazione assolutamente nessuno che non facesse l’operaio o il contadino poteva dirsi affatto possessore di talenti differenti o in qualsivoglia modo superiori a quelli delle due figure suddette: le uniche attività serie sono quelle proletarie. Senza i proletari il mondo non esiste: quelli che pretendevano di stare più in alto a fare altro erano degli sporchi privilegiati che avevano solo intenzione di far lavorare gli altri e sfruttarli per il proprio benessere, ma invero non esisteva altra gerarchia tra gli uomini che quella che si riduce al proletariato che assorbe tutte le altre e così si riscatta, assume anche tutte le altre cariche, che invero gli spettano di diritto perché lui è l’operatore della materia e dunque ne deve essere anche il padrone. Anzi, a dire il vero doveva averla inventata lui, la materia, e deteneva dunque il diritto di amministrarla, avendo subìto tale usurpazione e furto dalla notte dei tempi. Se gli fosse stato raccontato che la scienza era un modo per studiare quello che l’operaio sapeva fin dall’inizio perché lo aveva creato lui, ma che poi essendo stato asservito al lavoro schiavistico aveva perduto, sicché gli scienziati servi degli sfruttatori si erano messi a teorizzare una natura che in qualche modo giustificasse questo sopruso e dunque la scienza doveva essere riconquistata tramite una rivoluzione e bolscevizzarsi a dovere, lui ci avrebbe creduto. Dio non ha creato il mondo, l’operaio lo ha creato, e qualche losco arrampicatore sociale amico per interesse degli sfruttatori si è inventato un Dio che li giustifica con delle visioni del mondo favolistiche che non corrispondono alla dura realtà, sottolineo resa dura non per colpa dell’operaio che ha creato il mondo ma per chi ha inventato lo sfruttamento: il mondo doveva essere stato comunista, il peccato originale era l’invenzione diabolica della proprietà privata, onta dell’umanità da estirpare per prima. La cultura tutta è figlia dello sfruttamento: ed è nata per giustificarlo, consolidarlo, espanderlo. La vera cultura è quella della falce e del martello, l’arte anche, noi siamo degli intellettuali e degli artisti, gli altri producono beni voluttuari perché se lo possono permettere in quanto che noi li manteniamo: ma la vita determina la coscienza e dunque la nostra coscienza che è limitata a quello che sappiamo fare nella vita e dunque non vorremo mai fare altro diverrà la coscienza universale nel momento in cui noi ammazzeremo tutti, diventeremo l’unica classe sociale, ci impadroniremo del mondo che allora sarà un paradiso perché sarà realizzata la società comunista. Ora, tu prendi una massa di gente ignorante e che di fatto vive in condizioni stentate e realmente ingiuste dal punto di vista economico sanitario, perché il capitalismo è davvero ingiusto, masse lavoratrici a favore delle quali davvero qualcuno doveva operare una rivoluzione dei diritti del lavoratore e abolire una serie di privilegi che erano davvero ingiustificati in quanto non produttivi, nel mantenimento della società presente né nel suo progresso tramite la ricerca: prendi questi infelici e dagli in pasto questa ideologia…come possono non farsi attrarre fatalmente ed entusiasmarsi sino al misticismo materialistico (e non azzardare la parola ossimoro perché ti rompono le ossa) e seguirti ovunque per smantellare il mondo senza naturalmente chiedersi chi tu sia, se tu sia un proletario venuto dalla preistoria pre-capitalistica e pertanto con la scienza infusa a ridonarla a noi dopo che ci era stata sottratta, perché risulterebbe strano come tu abbia potuto acquisire tutta questa sapienza senza far parte di una élite e dunque tu non possa essere onesto per definizione...ma francamente, non ci interessa! Il fine giustifica i mezzi! E questo lo aveva detto un pensatore che non era comunista per nulla anzi credeva nel principe, nel tiranno, ma non importa! Non conta il pensiero, conta l’azione! Quest’uomo ci dà il diritto di spaccare tutto promettendoci che avremo tutto…non vogliamo sapere altro! Sarà eletto dal popolo perché ha la ragione del popolo! Sarà il nostro leader! Poi questo agitatore naturalmente non ti dice che dopo averti usato per spaccare tutto, al potere ci andrà lui, senza aver mai preso in mano una chiave inglese né potato un melo, e dei proletari non gliene può fregare di meno visto che ne spedirà 30 milioni nei Gulag, dopo aver consolidato il suo dominio con il terrore, la repressione e il lavaggio del cervello, a dirigere le fabbriche ci metterà gente della sua cerchia, avrà tolto di mezzo l’aristocrazia, la borghesia, il clero, tutti i tuoi vecchi padroni solo perché voleva essere l’unico grande padrone, che lo sfruttamento sarebbe rimasto anzi si sarebbe intensificato senza aumentare la ricchezza di nessuno anzi impoverendo tutti tranne se stesso, che tu sotto il capitalismo eri povero ma se avevi un campo era tuo e se avevi una mucca da mungere era la tua e potevi vendere i tuoi prodotti, avendo una proprietà ed una autonomia, per quanto ridotte, possedevi una identità ed una dignità, per quanto ridotte ed ingiustamente oppresse nella miseria, figlia inevitabile, per moltissime persone, del sistema plutocratico che consente solo una crescita asimmetrica, competitiva ed alla fine per forza di cose elitaria, con tante più possibilità di arricchirsi quanto più già sei ricco, con buona pace della Nazione, della Giustizia, e altrettali quisquilie che annoiano gli uomini d’affari, i quali non vedono l’ora che gli Stati smollino queste scomode briglie che gli possono far passare dei guai e limitare la sua espansione mercatistica, liberalizzando l’economia quanto più è possibile che dovrebbe essere invero il solo soggetto della vita nazionale, e per quanto riguarda gli altri aspetti, devono esserle asserviti, quindi anche la legislazione civile è bene che sia improntata alla libertà del consumatore di cadere in tutti i tranelli del marketing pilotati dall’industria, al diritto di inserire la pubblicità dentro qualsiasi cosa, a sottomettere le attività culturali, sportive, ed ad un certo punto le stesse istituzioni politiche alla necessità di ricevere fondi privati per poter stare in piedi e dunque dover rispettare la volontà dei finanziatori, e poi la ricerca stessa, la scienza, devono essere privatizzate e vendute alla gente alle nostre condizioni solo quando si saranno tradotte in prodotti brevettati con il nostro marchio…questo è il capitalismo, mentre l’alternativa che il comunista prometteva all’operaio era che succedesse la stessa cosa, con una efficienza assai minore grazie all’oppressione di ogni creatività personale che doveva adattarsi ai dettami del regime, eppure con una maggior uniformità e quindi coesione sul territorio nazionale, sotto la guida di un solo grande capitalista che si chiamava Stato, sicché ora quello che doveva toglierti l’alienazione te ne ha data una peggiore dicendo che nulla è tuo, ma ti è solo dato in gestione dallo stato con tanto di istruzioni da eseguire alla lettera, senza quindi la minima autogestione, che dopo averti tolto la tua individualità ti può trattare come un oggetto e privarti di altri diritti come la libertà, sia d’azione, che di pensiero, che di movimento, che di contare qualcosa nella politica o nell’industria o nella cultura come ti aveva promesso, ed ha tolto la proprietà privata per sublimarla concettualmente in una proprietà pubblica che poi non è altro che la sua divenuta nazionale, e che ambisce a diventare internazionale e lo sarebbe stata subito se fosse davvero stato possibile stroncare gli stati nazionali parallelamente senza invece sfruttarne in parte le strutture residue e le potenzialità produttive, con tutte le sue maestranze specifiche e gerarchiche all’interno senza le quali si torna all’età della pietra, per schiacciare altre nazioni più resistenti alla rivoluzione e alla bolscevizzazione interna, e quindi il bolscevismo dovesse essere prima nazional-comunismo e poi internazionale, per uno che non ha nessuna intenzione di servire la nazione visto che l’ha smantellata nella sua struttura vitale e portante, prima teorica e culturale (coscienza che determina la vita) quindi poi materiale, ed allora più facilmente di nuovo teorica e culturale (vita che determina la coscienza)…svelando come fosse consapevole fin dall’inizio che i processi storici avvengono secondo circoli ermeneutici tra materia e spirito ma sapendo che tu hai poco spirito ti ha lusingato che conta solo la materia e ti ha usato per i suoi scopi, una proprietà che però è concreta e non astratta perché lo stato continua ad avere un palazzo, delle casseforti, dei funzionari, un esercito che lo difende, e delle persone che prendono arbitrariamente le decisioni che ti riguardano senza porsi il problema del tuo consenso e neppure, sia infine ben chiaro, del tuo interesse…perché l’unica classe politica che può avere a cuore i cittadini è quella nazionalista che vive con il suo popolo, trionfa con il suo popolo, con esso deperisce e con esso muore. La filosofia non deve essere classista come non deve esserlo la politica. E tantomeno può essere democratica senza contraddire se stessa, l’idea di ideologia come l’idea di Stato. Mussolini venne appunto dagli ambienti socialisti ed il suo fascismo ne rappresentò un’evoluzione in senso restauratore della civiltà gerarchica antica. Posso definire il fascismo come il socialismo che ha aperto gli occhi. Nulla a che vedere con una reazione capitalista maggiormente violenta e rigida, avendo il capitale aperto gli occhi sulla minaccia bolscevica: come a questi piacerebbe pensare. Mussolini capì semplicemente i limiti dell’ideale socialista e la sua conseguente impraticabilità senza che vi si apportassero profonde innovazioni: fondamentalmente un ritorno all’ordine, la creazione di una struttura gerarchica dello stato su base meritocratica e autoritaria, dunque la creazione di un socialismo di destra, di una destra sociale, uno stato organico. Il fascismo, insomma. Il cui motto potrebbe essere: uno per tutti e tutti per uno, ma ognuno al suo posto e ognuno al suo turno. Senza questa innovazione, il socialismo, poi fattualmente dittatura comunista e capitalismo di stato, era un rimedio peggiore del male. Ma esso infine si sarebbe tolto la maschera e rivelato nella sua più vera e perversa natura: si trattava di un diabolico e tremendo inganno che fingeva solamente di voler essere un rimedio e una alternativa al capitalismo, ma ne rappresentava la controparte necessaria, dal momento che il capitalismo da solo non sarebbe bastato a stroncare uno ad uno gli stati nazionali che ancora nell’ottocento resistevano sotto le spinte della privatizzazione internazionalista ebraica, soprattutto considerando gli elementi nazionalisti che vi si sarebbero contrapposti dinanzi al suo effetto disgregante, e necessitava dunque di un alleato che avesse un metodo operativo diverso: più violento, più rapido nel prendere il potere, stavolta direttamente politico ed economico, senza scomode mediazioni. Un alleato, dunque, latente in tempi di pace ma poi chiaramente rivelatosi nella guerra, in una coalizione internazionale fin dall’inizio intenzionata a schiacciare il Vero Nemico di entrambi i sistemi, le due facce dell’ebraismo internazionale: il Fascismo, ultimo difensore dell’idea di Nazione che si indentifica col Popolo, questa terza via che aveva sbaragliato entrambe le funeste illusioni, quei miti che avevano tratto in inganno tutti i popoli con false speranze di progresso e libertà, di felicità, giustizia, amore, pace, tramite opere e discorsi zeppe di concetti vaghi, ingenui, mal definiti oppure definiti in maniera opposta alla realtà, cosicché i mezzi che concretamente dovevano essere utilizzati per i fini dell’Oscuro Demiurgo paressero coerenti con la vera essenza di quei concetti, e capaci dunque a realizzarla. Quelle opere, tutte ipocrisia e buone intenzioni, avrebbero soltanto demolito, confuso, mutilato, inquinato, invertito, degerarchizzato la struttura psichica naturale degli uomini, in sintonia con la quale era stata strutturata la società nelle epoche antiche, sicché la struttura materiale e con essa la vita delle nazioni non potesse che seguirla a ruota, precludendo ai loro popoli le uniche vere condizioni in cui potessero realizzare la propria felicità. Il capitalismo è più lento nel realizzare il dominio ebraico perché è libertario anche se plutocratico: per cui, anche se il maggiore detentore di capitali è comunque l’ebreo, questi possono poi essere utilizzati dal singolo industriale per i suoi scopi personali con cui l’ebreo è tenuto per lo meno a patteggiare, perché, come è vero che lui non avrebbe abbastanza mercato senza le grandi finanze, anche il grande finanziere non farebbe nulla senza le sue capacità imprenditoriali che non sono solo marketing o comunicazione ma anche invenzione, progettazione, produzione, con tutte le personalità e le capacità specifiche del suo staff di ricerca, tecnica, gestione. Quella capitalista, per il fatto di essere politicamente libertaria sebbene condizionata fondamentalmente dal denaro che sovrasta qualsiasi altro valore, è una società che, nel contesto di disordine generalizzato, competitività, spreco, insicurezza, disuguaglianza, inefficienza istituzionale tipica della democrazia, ottiene il maggior consenso popolare perché nel privato il progresso è comunque presente e può essere anche stupefacente, talvolta rapido e molte persone riescono ad appropriarsi dei suoi prodotti e se ne appagano nella misura in cui il loro spazio di tranquillità riescono a trovarlo, senza che debbano crucciarsi, non avendo dentro sé l’organicità e dunque l’istinto politico, ma giovando fieramente della miopia di tutti gli egoisti, dei destini del mondo o anche solo di quanto stride poco lontano da casa propria, e molti parlano del tutto perché i mass media fanno fare alle notizie il giro del mondo e con un clic puoi essere dovunque, però alla fine si parla per parlare e si mostra per lasciar parlare, per influenzare, perché di altro non si parli, ma alla gente di solito interessa solo mantenere la propria quiete e sino a che il problemi non gli strisciano minacciosi sotto casa, egli li considera con un certo distacco: perché pensa che i soldi lo salveranno sempre. La principale esigenza, dunque, è quella di mantenere un buon reddito: sino a che questo non è sensibilmente minacciato, il resto può andare per la sua strada, risanatrice o degenerativa che sia. Infatti anche tutto questo boom boom di mobilitazione e dibattito sulla crisi economica in corso, è motivato dal fatto che non ci sono più i soldi e la disoccupazione è alle stelle, ma se tornassero i soldi gli uccelli smetterebbero di cantare: ed infatti molti rimpiangono il periodo tra gli anni ottanta e novanta in cui dicono, si stava bene, il nostro sistema era un gioiellino, e alludono principalmente al settore imprenditoriale, perché non gli interessa altro, e in realtà le precondizioni perché il sistema degenerasse nell’attuale crisi, di cui la trascuratezza di ogni principio non sia meramente economico è quella centrale, c’erano anche allora ed anzi c’erano fin dall’instaurazione, ed erano anche ben prevedibili, ma tra chi non ci pensa perché non gliene importa nulla e chi invece ci ha pensato e voleva portarci precisamente qui e poi oltre altrimenti avrebbe architettato un altro sistema, non è pensabile che la gente si svegli. Adesso si lagnano e si allarmano solo perché la crisi insita nel meccanismo degenerativo caratteristico del sistema ha toccato anche loro e minaccia i loro figli, ma fino a che loro stavano bene, niente da dire. Tanto è vero che ancora adesso, le proteste sono sempre settoriali e moderate, superficiali, ed anche le dichiarazioni generalistiche di sfiducia e sdegno della classe politica, del sistema capitalista, della finanza, delle banche, sono solo ipocrisia di facciata: la gente non ha la volontà, più che ancora il coraggio, di dire le cose come stanno, perché dovrebbero ammettere di esserci coinvolti, e colpevolmente, anche loro, perché tutto ciò in cui hanno creduto, per cui hanno ucciso, che hanno insegnato ai loro figli come lo avevano appreso dai loro genitori, in base al quale hanno fatto le proprie scelte, scritto la storia, giudicato chiunque, porta a questo schifo che abbiamo sotto gli occhi, che essi tuttavia continuano e continueranno a ritenere preferibile a una svolta dittatoriale e davvero socialista che spazzerebbe via dal tabellone (quale origine del male) la principale conquista storica della loro fazione: i diritti della maggioranza e così la supremazia della mediocrità. Il patto d’acciaio, la santa alleanza, il doppio filo che lega l’ebraismo alle masse, è che hanno un nemico comune e la loro collaborazione è assolutamente perfetta per sottometterlo. Il loro nemico è l’Eccellenza: sono gli Aristoi, sono i Nobili, sono le persone di intelligenza superiore. Per questo gli ebrei muovono tutti i popoli e, sebbene non li amino ed invero li schiavizzano lentamente al loro gioco, tutti i popoli ricambiano sostenendo il popolo eletto da qualsiasi attacco: e dicono che tutti sono attaccabili tranne loro, e li difendono a spada tratta e lingua biforcuta. Li hanno chiamati il popolo eletto perché sono di fatto l’élite più popolare e populista che i popoli potessero sognare: per cui i popoli, eleggendo gli ebrei governatori del mondo, hanno eletto se stessi. Ecco che sono talmente imbecilli che riusciranno in tal modo a fottersi anche da soli: perché resta il fatto, e dimmi tu se potrebbe mai essere diversamente, che una alleanza tra un disonesto ed un incapace possa portare una barca da qualche parte se non nel baratro. Alla fine affonderanno tutti, il popolo eletto, e gli eletti tra i popoli: dunque la criminalità internazionale organizzata (ebraismo) e la mediocrità internazionale organizzata, ossia quelli che le pagano il pizzo in cambio di protezione e vantaggi personali. Ma questo sacrificio era la cosa migliore per entrambi: non fosse perché prima di morire loro facendo finire il mondo avrebbero potuto schiacciare, ridurre a nulla, tutti i grandi spiriti del pianeta. Pare che la ruota della storia abbia come unico movente l’invidia del successo da un lato e l’indignazione verso il successo dell’invidia dall’altro, gli altri fattori tutti non ne sono che elementi strumentali. È proprio così dunque…è una questione di sangue: di razza. Tutti i mediocri hanno sentito discorsi antisemiti e hanno la possibilità di capire la fondatezza delle accuse e l’attuale posizione dell’ebraismo sullo scacchiere mondiale: ma non ne vogliono sapere, per il semplice motivo che loro dagli ebrei hanno ricevuto un beneficio inestimabile, per cui saranno loro sempre riconoscenti. Un beneficio per cui perdonano anche i massacri di Stalin e Pol Pot, anche la distruzione delle città italiane, la strage dei civili e lo stupro delle loro donne, anche i conflitti etnici (non crediate che gli piacciano gli immigrati, visto che manifestano ostilità anche verso il loro compagno di stanza, sono tutti addirittura campanilisti e divisi tra regioni o zone del proprio stesso paese: è che servono ad aumentare l’humus sociale promiscuo in cui i problemi aumentano ed i migliori non possono emergere, ed un principio risolutivo essere generalizzato anziché relegato nel piccolo-frammentario), un sistema che più inefficiente e gonfio di paradossi non si può, anche di restare senza lavoro, anche di sbattersi a prendere una laurea inutile, ammazzarsi con gli affitti e le spese, fare un lavoro part-time ancora più inutile per poter proseguire gli studi, vivere in città rumorose e sporche, impararsi a memoria libri vacui e difenderli da chi dice che sono vacui, ascoltare professori noiosi e dire la lezione interessante, anche di perdere due ore a fotocopiare un libro che bisogna essere criminali solo a stamparlo ed ora impiega altre risorse materiali, ambientali ed umane, anche di perdere metà della propria vita in una scuola che non insegna nulla e l’altra metà in un lavoro che li affatica e non fa progredire le cose, anche di avere dei figli drogati e ignoranti (viva l’ignoranza! Che non si sappia il vero! Informazione sistemica per tutti – bando a quella vera fascistona! La cultura è per tutti. Che non cada nelle mani dei soli che la hanno creata, che meritano di gestirla e che potrebbero farla progredire), poi perdonano una guerra in Vietnam coi suoi milioni di morti, dove c’erano enti che finanziavano entrambi gli eserciti, tutte le guerre del mondo scatenate dagli ebrei e poi fumigate in castelli di menzogne, se il loro figlio primogenito fosse andato a morire in una di quelle guerre lo avrebbero accettato perché combatteva per Israele, tollerano anche le istituzioni ladre e servili, incapaci, costosissime, fintodibattistiche, chiacchierafondistiche, fingono di lamentarsene, anche i paradossi delle buche, ogni sorta di spreco, di ridondanza burocratica, di nuova tassa, di attese sfiancanti, di procedure macchinose, di corruzione, anche l’inflazione e la superproduzione di cose inutili, lo sbattimento insano di milioni di persone per produrle, l’onnipresenza del mercato, i vizi messi in giro dallo stato per lucro, i corsi antifumo e antigioco di rimedio, la produzione sistematica di fattori di stress e poi i corsi per gestire lo stress senza metterne in discussione le origini, i corsi per la memorizzazione rapida di cose inutili, l’invivibilità delle nostre città, il metterci 35 minuti per uscire dal centro ammesso che non ti abbiano fatto anche una multa, quella bellezza crescente trasferita nei singoli oggetti di consumo e circostanza nella cui contemplazione piacevole ci perdiamo per perdere contatto con un insieme disarmonico destinato a disgregarsi, ed ancora il rifugio di bellissimi appartamenti cui si accede tramite un portone che sembra quasi la porta di Alice, in cui ci ritagliamo la nostra privacy fino alla prossima ardita uscita, su di una strada in cui potrebbe capitare di tutto, poi le disuguaglianze di reddito ai massimi storici, la speculazione sulle malattie, sui farmaci…non importa, niente può far condannare gli ebrei perché il loro beneficio è stato imparagonabilmente superiore: essi li hanno liberati dell’Aristocrazia… e così del loro naturale complesso d’inferiorità. E tuttora con il loro sistema pluto-democratico sono i veri garanti di questo ordine sociale invertito, gli unici che possono davvero impedire una rivolta ed una restaurazione in senso Civile. Perché se tu togli la finanza ebraica da dietro, il resto crolla perché le nazioni si ribellano e dal seno dei popoli riemergono i leader carismatici (dio quanto odiano questo concetto, e che poi non si azzardi la parola mistico) e le persone capaci intorno alle quali gli altri si raccolgono perché hanno giustamente fiducia in loro. Sicché questi pidocchiosi invidiosi della testa altrui, che tanto si sono divertiti ad umiliarci impunemente per decenni, paralizzarci in ogni modo, strapazzarci, sputarci, insultarci, mortificarci, non perdere occasione per dare la milionesima vigliacchissima coltellata al cadavere del Duce, anche quando il discorso non c’entra veramente nulla, dare la colpa a noi dei problemi che non riescono a risolvere nonostante siano totalmente privi di opposizioni sul campo, ridurre la politica ad una manifestazione antifascista e non esser capaci di fare altro, che devono dannarsi tanto per tenere nascoste le nostre idee ed il nostro passato perché sembra essere più forte del loro presente anche sepolto sotto una congerie di infamie e di ignoranza, sembra che abbiano paura di noi anche se non contiamo nulla, sembra che siamo più forti di loro anche da morti, anche da dispersi, anche da derelitti senza patria, anche uno contro un milione, persino quello che deve ancora capire come stanno le cose perché purtroppo è difficile, con tutti gli ostacoli che hanno messo tra lui e le conoscenze che contano, sicché lui non è nemmeno abbastanza fiero e non è manco padrone di se stesso, perché il plagio esterno e la pressione logorante sono talmente costanti da farlo sentire in colpa dei suoi meriti, tenere in alta considerazione le vostre non-ragioni, quasi ammirare il vostro scempio umano e la vostra pseudo forza che riesce a perdere anche quando non ha avversari, infelici e zombeschi perché ci hanno rubato la vita, perché siamo nati morti, nutriti di veleno, di polvere irritante, di suoni fastidiosi, non solo piagati con la falsa cultura ma impediti nel tentativo di farcela da soli dopo averci privati dell’accesso alla nostra tradizione, persino libresca, dopo averci privati della nostra Patria, deturpata da voi che la trovate un bel posto dove vivere e non mi stupisce perché i turpi nell’etica sono turpi anche nell’estetica, privati di esempi credibili, maestri e punti di riferimento in carne ed ossa, degli insegnamenti che contano, quelli che se ci sono ti fanno diventare un uomo a tutti gli effetti già da ragazzino e da lì spacchi la vita come ceppi all’alba per il fuoco di domani, fiaccati ad ogni mossa con ogni sorta di attrito e impedimento, perché ci hanno asfissiati per vivere al nostro posto, indegnamente, visto quello che hanno saputo creare, spadroneggiare su di noi con arroganza e brutalità, beffardi e sofisti senza scrupoli, immuni da qualsiasi sanzione da colpo basso perché le regole le fanno loro ed i colpi bassi sono regolari ed anzi danno più punti, hanno il bollino Prestige, soggiogati ad attività indegne, regole assurde per ogni essere dotato di ragione, ridendoci in faccia mentre deturpavano ogni cosa col loro stile di vita e la loro stupidità e noi non potevamo farci nulla, solo rodere di rabbia e diventare aggressivi verbalmente, deliranti nella nostra condizione insopportabile, sicché potevano deriderci ulteriormente come dei malati di mente o dei frustrati e dei perdenti: quando è evidente che noi 1) siamo malati solo della contaminazione con il morbo della vostra bassezza planetaria, verso il quale non vi è altra terapia che la vittoria mentre voi ci volete dare la vostra merda di pasticche al litio prescritte da quei vigliacchi gaudenti milionari pseudo-medici farabutti servi del sistema soffocatori chimici del dissenso e spegnitori della buona coscienza che non si vuole arrendere 2) se siamo frustrati è per colpa vostra e 3) se perdiamo è solo perché siamo nati che avevamo già perso la guerra sicché nulla più ci apparteneva e poteva darci speranze: e siete bravi voi a pigliarvela in sette miliardi di persone già adulte e che hanno conformato il mondo a loro piacimento, inclinazione e regola, contro pochi bambini indifesi e senza patria, nati in territorio straniero e spersi nella massa ignobile, già plagiati da piccoli come gli altri solo che gli altri erano d’accordo, noi no, ma non avevamo gli strumenti per difenderci, se non la purezza dell’animo che con eroica forza si sarebbe fatta strada negli anni a ritrovare se stessa e la verità. Avete ridotto la nostra cultura a un culto insensato della violenza fine a se stessa…
poi non avete nemmeno le palle di tirarla fuori, la nostra cultura, ammesso che molte opere si siano effettivamente salvate dal fuoco iconoclasta della damnatio memoriae, che la mettiate vicino a quelle vergogne che pubblicate voi da sempre, che le potete affermare senza pudore solo perché nessuno vi può rispondere, e a questo punto anche se potesse, non vi sarebbe abbastanza gente decente ed onorevole tra il pubblico da mettersi dalla parte giusta, e lo prenderebbero a sassate, quel sant’uomo che ne ha passate tante che ormai è distrutto, voi invece forti della vita che gli avete rubato perché non si esprimesse nelle sue potenzialità, lui che di ragioni ne ha talmente tante che se avesse potuto sbatterle fuori gradualmente incontro dopo incontro, in diretta risposta alle vostre senza che vi avvantaggiaste 3000 gol a zero senza l’avversario, in questo modo e in ogni incontro non avere un intero sistema che veglia sul vostro interesse, la vostra voce non è mai solo la vostra ma quella del mondo intero ebraicizzato, non è nemmeno mai farina del vostro sacco, né nuova iniziativa responsabile, non dite nulla che non sia già stato detto, previsto, approvato, pianificato, ufficializzato, propagandato, chi può darvi torto? E scredita l’avversario a priori sul gradino dell’imputato e la vostra idea puzzoncella cacatuccola nella luce più celestiale, e minaccia i contestatori, i quali devono dimostrare, ammesso che gliene lasci il tempo e l’animo senza soffocarlo, mentre tu ti puoi limitare ad affermare, e tutti gli spettatori sono dei Giuda che hanno venduto Cristo agli ebrei per i loro trenta denari e per una sedia che un mediocre non merita, per una mancanza di umiltà che vi poneva a prendere ordini dai saggi anziché darli voi. Ma poi questo confronto non lo fareste comunque: andate a intervistare gli imbecilli che purtroppo ci sono in ogni fazione, che sono ignoranti e grezzi, ed indossano simboli di cui manco sanno il significato e probabilmente non verrebbero nemmeno accettati in un movimento serio, ma tantomeno ne potrebbero essere i portavoce ideologici: per fare documentari umilianti sugli estremisti da vendere alla gente, agendo come dei biechi e sporchi vigliacchi senza dignità che si dovrebbero vergognare anche di fronte ad una pisciata di gatto fritta nel tostapane e spansa nell’aria… dio mio dominate il mondo intero, siete in un vantaggio di proporzioni incalcolabili, di già la gente è prevenuta e schierata con la vostra propaganda pluridecennale, e quel che davvero resta del fascismo nei documenti d’epoca non travisati voi lo occultate, e quel che resta di esso nel sangue di persone di livello voi gli date forse opportunità di un confronto equo, punto per punto, esaustivo, delle vostre idee con le loro? Mai al mondo! Cosa fate, voi, eroi della resistenza contro il male? Intervistate una banda di trogloditi e li filmate per sputtanare una cosa che - di ben altra levatura come voi sapete benissimo – non avreste mai il coraggio di confrontarvi sul serio, alla pari, ma con la gente in gamba che gli argomenti ce li ha e ve li fionderebbe su per quel culo che avete per faccia spalmato sui giornali come su tutte le sedie della vergogna da cui prendete le vostre decisioni ignobili…e da quella sedia vi farebbe saltare con un grido di dolore unito ad una piroetta che poi non vi conviene scendere, ma appendervi al soffitto e scappare per il condotto dell’aria condizionata (che avendola condizionata voi forse avrà la temperatura che gradite e concilierà la vostra fuga). Contrapponete uno solo dei nostri testi capitali, anche solo un aforisma, ai discorsi dei vostri politicanti, a quegli ammirevoli articoli di giornale che talvolta vincono dei premi, le vostre inchieste, le vostre riviste, le vostre ricerche, i vostri studi, le vostre tesi, rigorosamente commentate solo da gente come voi, criticate da gente che sono sempre anche loro dei vostri, pubblicate una versione fasulla e snaturata e degenerata del Mein Kampf perché se leggete quello vero vi andate ad infilare in una camera a gas da soli per l’imbarazzo di essere assai peggio di come vi descriveva Hitler, che ha perso la guerra per eccesso di pietà e di lealtà verso nemici sleali e spietati che combattevano per una causa di livello imparagonabilmente inferiore a quella che voi avete demonizzato senza avere il coraggio di mostrarla per quella che era, dite che Hitler era un pittore assolutamente mediocre, e poi nascondete i suoi quadri per settant’anni che alla fine li ho visti lo stesso e non mi sono affatto stupito che siano di una bellezza commovente e di una perizia tecnica impressionante, non avevo mai visto niente di simile, e quelli che lo hanno scartato dall’accademia di Vienna erano, non a caso, Ebrei, come sempre campioni del cattivo gusto e distruttori dell’arte nobile…
A questa patetica pagliacciata che non fa ridere nemmeno se ti ci impegni come quando un bambinozzo di cui hai tenerezza balbetta una battuta stupidissima che avete già capito come va a finire ma lui ci mette mezz’ora a raccontarla, voi sapete che gli provocate un trauma a non ridere…
ma dio ma quando la vostra mamma vi vede cosa pensa?
Che voi siete quelli che avete ucciso il duce e la sua nulla ideologia? Ma come è stato possibile?
Quando l’unica cosa in cui vi siete dimostrati superiori a noi storicamente è proprio nell’uso spietato della violenza distruttiva (e quanto agli inganni ed alle menzogne penso che possiate sapere soltanto voi sino a che punto parossistico siate arrivati, perché credo che non sarà mai possibile arrivare al fondo senza imparare che c’è un altro grande magazzino sotto) che vi ha fatto vincere la guerra, senza contare che anche lì eravate in netta superiorità numerica, territoriale, economica, di mezzi militari, ed in vantaggio epocale perché il fascismo e il nazismo erano fenomeni giovani, reattivi, creativi, avanguardistici, e quindi nati già come opposizioni alle forze esistenti, estremamente ostili alla cosa fin dall’inizio, e comunque nell’intorno degli squassi di una guerra mondiale, dalla quale addirittura la Germania era uscita cadaverica, e l’Italia, pur vincitrice, era da ricostruire da cima a fondo in forme nuove: hanno assunto il potere in maniera rapidissima, quasi che fossero un intervento in buona misura estemporaneo ma necessario per arginare una minaccia terribile che avrebbe distrutto per sempre la civiltà europea sicché doveva dispianare subito tutto quello che aveva, tant’è che hanno dovuto affrontare una guerra anzitempo con nazioni e sistemi politici che avevano avuto modo di consolidarsi per tempi assai più lunghi, soprattutto il capitalismo di cui il comunismo ha comunque giovato anche nella sua genesi ideologica ed affermazione materiale perché è un aspetto dello stesso piano politico, ed anche sul piano militare la Russia bolscevizzata non avrebbe saputo fare molto contro la Germania senza le immense forniture di armamenti da parte degli Usa (vero motivo del miracolo di Stalingrado – grande svolta della guerra). E se la vostra violenza fosse stata fine a se stessa, come dite della nostra che invece è scientifica e pertanto finalizzata alla difesa della giustizia che si compone di purezza e ordine, dell’integrità nazionale da cui solo possono discendere la forza, il benessere, il progresso, avrebbe avuto ancora un senso quasi carismatico…bello in fondo un tizio che in barba a qualsiasi cosa se ne va in giro in distruzione universale: sarei curioso di vedere cosa lo muove sul serio, da dove viene…ma la vostra violenza invece era sistematicamente ed intenzionalmente rivolta a distruggere tutto quel che di nobile esistesse sulla terra per poi, grazie al potere acquisito, poter deturpare anche il resto e soggiogarlo alla conservazione della vostra vita senza senso, senza onore, senza spirito correttivo e sanificante, senza ambizioni di perfezionamento, superamento, solo auto conservativa, semovente in espansione e restrizione competitiva (pure scorretta – ché infine non può essere altro) ma mai in altezza, ossia gerarchizzante, che vuole dire il suo opposto, dissolutrice della conflittualità, ordinatrice dunque e ricercante la coerenza sul solo piano possibile, ovvero quello verticale e non orizzontale su cui avete dispianato supine le umane genti senza criterio e distinzione, se non quello per cui all’innesco dei giochi, la quantità sudaticcia e ruspante avrebbe sicuramente travolto la qualità elegante e di lucido sguardo, senza tensione escatologica verso il futuro…senza idealismo! Perché nessun egoismo è tale, nessun ristagno ed intento degenerativo, nessun materialismo, arricchimento fine a se stesso, insensato ben oltre il necessario per la vita, e nessuna menzogna, mentre voi potete difendere la vostra posizione solo ingrossando il volume delle menzogne, e tanto più spudorate quanto più improbabile diventa la possibilità concreta che qualcuno vi muova un tentativo di obbiezione che arrivi dove la gente lo legga, sempre che qualcuno ancora riesca a districarsi nel quotidiano dalla giungla di attriti fisici, da quelle barbariche, spudorate, prepotenti intrusioni prive di una giustificazione al mondo, le più spregevoli quisquilie senza significato e valore si permettono di interrompere i processi più delicati ed importanti, la causa più miserabile di essere anteposta a quella più grande, l’esigenza di uno che rischia di crepare sottomessa alle pretese di un placido stronzo che se continua a stare al mondo è intrinsecamente incapace di fare del bene e adesso deve prendersi il suo pezzetto di nuovo terreno personale, in un giro di continui guastamenti, blocchi, contrattempi, rimandi immotivati, passaggi non necessari, dilungamenti ridicoli, contropiedi, multe, lettere, buste, pacchi, imballi, incarti, carta, fatture, contratti, etichette, bollini, comunicazioni, telefonate, proposte, discussioni, provocazioni, spot, mail, messaggi, avvisi, gridi, frastuoni, schiamazzi, manifestazioni, giornali, riviste, dibattiti, commenti, richieste, modifiche, offerte, cataloghi, fototessere, fotocopie, tre copie, una rilegata, relazioni, curriculum versione inutile 1, curriculum versione inutile 2 europea, portfolio dell’idiozia burocratica declinata, questionari, documenti da compilare, la settecentomilionesima volta che hai scritto tutti i tuoi dati come se non ce li avessero nel computer da quando sei nato, che se trovi ancora il tempo di processare l’elemento incriminato lo giudichi senza eccezione una boiata allucinante, sbagliata alla base, proprio concettualmente, una puzzomerdata, una atrocità che non meriterebbe neppure di esistere sulla faccia del pianeta perché non ha alcuna funzione sociale costruttiva ma ne ha invece una orrendamente distruttiva e noi invece dobbiamo vivere in funzione di queste cose e nel più religioso rispetto di queste cose: cioè nel rispetto del dio ebraico che odia l’umanità e ne vuole veder affondato il cadavere, fastidi che se vai ad indagare da dove derivano non ti conviene farlo perché il livello di indignazione verso il motivo per cui ti è stato inflitto anche quel colpo, quale esigenza estranea sia stata servita da quel colpo, dalla presenza in quel preciso punto della tua vita di quell’oggetto insidioso, potresti crollare a terra in un ultimo spasmo mortale per l’impossibilità di contestare anche questa cosa anche solo ormai verbalmente, perché sei esaurito, e su di essa, su quei cani e suini che vogliono e quelli che permettono con la loro collusione bassamente interessata queste cose tu non hai la minima possibilità di vendetta e nemmeno di denunciare la verità sperando che qualcuno ti dia credito e tu non finisca invece ancora più in basso per questo tentativo, e che tu da questo nugolo di negatività agghindato di impressioni antiestetiche e di commenti ottimistici e distorcenti, che per tutti loro deve andar bene così, riesca in tempo utile e conservando decenti energie a raggiungere una zona ancora non inquinata, dalla quale la visuale sia abbastanza ampia da poter consentirti una sana riflessione: tutto in funzione di quanto schifosamente gettate in basso giorno dopo giorno questo mondo, e di quanto siate proverbialmente incapaci di assumervi una responsabilità personale. Perché gli egoisti non hanno senso civico, e non dovrebbero parlare di cittadinanza, ma di volgare predonaggio aggregativo garantito dall’alto dalla polizia serva di una politica che serve la più onnibassa organizzazione criminale contro la civiltà che la storia abbia visto, cui nemmeno gli dei dell’Olimpo avrebbero saputo trovare un ruolo. Le menzogne saranno pertanto destinate ad ingrandirsi, perché dovranno dissimulare il sempre peggio, giustificarlo, dire che i nemici già sconfitti erano ancora più brutti e cattivi di come li aveste finora dipinti perché altrimenti, anche nelle tinte luciferine dell’ultima puntata, confrontati con il nuovo presente allo stadio nove di devastazione pluto-democratica, molta gente desidererà tornare indietro, perché il sistema non si può raddrizzare senza mutar le sue basi, e quindi scardinarvi dal vostro seggio usurpato con tutta la legislazione incivile che vi avete impostato sopra e di cui vi siete approfittati barbaramente e squallidamente sperando nel progresso e vivendo per il regresso. Vale a dire: egoisticamente.
Le loro critiche al presente, nonostante essi stessi denuncino, nei vari settori, e anche nelle questioni personali che in essi li investano, le stesse assurdità che vediamo anche noi, sebbene non in tinte altrettanto nette e radicali (guai ad usare queste due parole in democrazia se non riferite alla netta e radicale intollerabilità del fascismo) ma si guardano bene dall’ammettere che hanno tutte la stessa forma in quanto vengono dalla forma del sistema che tutti li informa, dunque di arrivare a riferire la critica al sistema di fondo: proprio la frammentarietà impedisce la risoluzione dei problemi, ma meglio i problemi del fascismo, quindi cercano misure comunque democratiche che li riportino alla sicurezza economica personale, come se le persone adibite a toglierci dai guai potessero essere le stesse che ce li hanno creati, come se si potesse spegnere il fuoco con la benzina, senza poter arrestare la crisi intrinsecamente determinata a priori da un sistema politico studiato e rivolto a creare una degenerazione progressiva dell’economia, del tessuto sociale e delle nazioni tutte, e si guarda ai revisionisti anti-democratici (a dir bene gli unici che possono trovare una soluzione) quasi con la stessa cinica ostilità con cui si ricorda di averli lasciati morti sul campo. Le idee umanitarie illuministe che fecero da viatico a questo passaggio epocale furono architettate e tutt’oggi propagandate ed assunte come bandiera da tutti i fautori interessati del sistema ebraico-massonico, solo perché sono un’ottima maschera che li fa passare per persone buone e rispettose di tutti, e che in realtà si traduce politicamente in un sistema che lascia i problemi sociali inalterati ed anzi destinati ad aggravarsi drammaticamente, con la possibilità per i singoli di farsi gli affari propri e tenersi stretto il proprio benessere con la coscienza serena, perché così oltre che dei vincenti sono anche i detentori dei retti principi e i paladini della giustizia: concetto di cui i loro sistemi negano la possibilità stessa di realizzazione. Questi vili principi consentono dunque di far passare una cosa cattiva per una cosa buona, e ai loro adepti di vincere due volte: nella competizione personale (vera, ma spesso sleale) e in quella idealistica (falsa, e altrettanto sleale perché con il monopolio culturale e il potere materiale ha potuto zittire i suoi avversari che facilmente avrebbero potuto confutarla in maniera imbarazzante, rivoltare la frittella e parlare di ideologia criminale con conseguenti atti criminali disseminati lungo secoli di storia, guerre mondiali ed altre, e tuttora a spasso per il mondo in allegria auto assolutiva ed ipermendacità incallita). Del resto una mentalità in cui la salute è innanzitutto un business, le tecnologie ambientali sono innanzitutto un business, l’arte è un business, la politica è un business, la guerra è un business, la formazione è un business, l’informazione è un business e la prima domanda che sorge dinanzi all’apparizione di qualsivoglia cosa nuova è : quanti soldi è possibile farci? E di fronte ad un fenomeno negativo di tipo sociale, ambientale, culturale: che percentuale di incassi farà perdere alla nostra azienda? Oppure: in che modo è possibile lucrare sulla cosa?
Non ci si può aspettare che un senso civico induca la gente ad entusiasmarsi solo per un reale progresso che dalla scienza non diventa un affare commerciale ma diventa una nuova prassi assunta politicamente per tutti, che risani il sistema e non promuova nuovi conflitti, e ad allarmarsi per le cose serie, non solo per una circostanza che si volge contro di noi e fa pericolosamente colare verso il basso il nostro volume d’affari, ma quelle che minacciano tutti quanti, la società nel suo insieme e quindi a lungo termine anche il riccone che non se ne farà nulla dei suoi soldi quando gli crollerà il mondo intorno: ma non ci si può aspettare questo da una società che ha la plutocrazia nella sua Costituzione, sicché anche la classe politica, che ne avrebbe la funzione, non possa metterci una briglia ed anzi faccia perseguire quelli che dall’esterno provano di mettercela con un revisionismo fattualmente pericoloso per la democrazia, e dunque per gli interessi economici privati che danno la vera libertà a quelle persone che non potrebbero trovarla in altro modo: interessi senza i quali non sarebbe nemmeno mai stato architettato e neppure ipotizzato né poi reso credibile e ad un certo punto imposto con le armi, un sistema come quello democratico. Ma la possibilità di arricchirsi non è la sola ragione per cui il capitalismo è il sistema più amato: è che la competizione viene pompata come cosa positiva che stuzzica la vanità degli ambiziosi senza senso sociale, sicché, chiunque abbia talento personale e forza di volontà, anche se in realtà con delle forti disuguaglianze per quanto riguarda l’accesso alle possibilità migliori che non possono non suscitare dibattiti, si vede garantito il diritto di vincere con essi ed andare fiero di qualcosa di personale, non importa in fondo quanto sarà benefico nel sociale, visto che non è il valore fondante della nostra civiltà, fatto sta che ce la possiamo fare e se ce la facciamo la nostra vita subirà una impennata generale: tanto che la stragrande maggioranza delle persone non ha altro concetto di “successo” che non corrisponda all’affermazione individualistica, economica in primis, dacché il resto ci va dietro.
Il progresso viene lasciato agire anche se sotto il loro controllo perché ne hanno bisogno in prima persona e poi per soddisfare i bisogni reali di un’ampia parte della popolazione, le cui condizioni di salute e soddisfazione alla fine vanno tenute a livelli sostenibili perché non si crei una rivolta generale e i grandi capi abbiano ancora un popolo efficiente e vitale da poter sfruttare, e dunque la deve far scivolare soltanto con molta lentezza e meno traumaticità possibile verso l’asservimento totale, sicché senza essersene reso conto si ritrovi un giorno completamente privo di strumenti psichici e fisici di insurrezione, ed essere ormai abbandonato inerte ai suoi comandi.


Il nazismo era poesia, e la sua sconfitta per mano degli orchi bolscevichi e dei plutocrati occidentali è poesia tragica. Invece il castello di menzogne che hanno costruito poi non ha più nulla di poetico, è solo bassezza giudaico-democratica, non fosse per il sole arcaico della svastica che sembra resistere sotto di esso. La storia del novecento, senza Hitler, sarebbe noiosa. Resta il personaggio principale, gli altri brillano di luce riflessa, acquistano senso solo in relazione a lui. Ma dopo il nazismo, l’intero senso della storia viene reinterpretato. Il nazionalsocialismo rappresentò una frattura senza precedenti, la cui portata non fu neppure troppo chiara all’inizio, forse agli stessi tedeschi. O meglio si trattò di una Congiuntura, di elementi che erano comparsi e si erano intrecciati anche prima, nei secoli, nei millenni, ma la cui natura e rapporti non erano pienamente comprensibili fino allo scontro finale. Questo ha avuto come demiurgo la figura del Fuhrer (titolo mai usato prima da un capo politico – o almeno non con lo stesso significato). A Berlino, in due riprese (1933 poi 1945) parevano essersi date appuntamento le due forze più ancestrali che muovono il mondo. La stessa nascita di Cristo potrebbe essere indicata come “1933 before Hitler”.
Non vi è mai stata una guerra più decisiva della Seconda Guerra Mondiale: il suo esito avrebbe visto la storia prendere due direzioni diametralmente opposte, e per la prima volta su scala planetaria, in modo da rendere apparentemente impossibile un’inversione di marcia. Ma la vittoria davvero definitiva di una delle due forze conduce in ogni caso alla fine della storia.
Lo scontro è dunque rimandato, quella fu solo un grossa battaglia.


Il tragico ha come condizione un alto sentire. Priva di un personaggio di carattere nobile, una storia può essere oggetto di commedia, ma non di tragedia. La tragedia può essere parodiata, ma la commedia non diviene tragica, e nel tentativo diviene grottesca o patetica.


Quando si sentono uomini ordinari che parlano o scrivono su uomini straordinari, l’unica cosa interessante che dicono è il nome di quest’uomo, che ogni tanto compare nel testo a prescindere dagli attributi e predicati.


Gli storici della filosofia di regime hanno sostenuto che Nietzsche non avrebbe letto Marx perché non gli interessava. Ora, che egli fosse giustamente uno snob nei confronti di testi mediocri non all’altezza di un cotale spirito è comprensibile: tutti i grandi personaggi vedono un percorso ascendente del loro snobismo ed una sempre maggiore selettività dei contatti, non solo per sdegno ma anche per quella razionale autodifesa che li vedrà tornare alla gente solo quando questa non potrà più far loro facilmente ed ingiustamente del male, ed una nuova conciliazione sarà possibile con strumenti nuovi e l’autorità che egli si sia costruito. Non è comprensibile invece come Nietzsche, un filosofo ormai maturo ed uno spirito responsabile, che aveva parlato così chiaro e così duro sul cristianesimo, che aveva sviluppato un fiuto quasi ossessivo per ogni segno della decadenza, nuovo discriminante fisiologico a priori di ogni costruzione intellettuale a posteriori che ne sarebbe stata necessariamente condizionata, laddove essa si esprimesse in filosofia, in politica, in arte, nella scienza, un uomo che appunto aveva messo in guardia dalla democrazia, dal socialismo, dal pacifismo, come pericoli per l’integrità della civiltà, illusioni capaci e forse intenzionate a trasformare l’umanità in sabbia, non è comprensibile come egli abbia potuto non menzionare nemmeno il marxismo, come avanguardia presente e corrente più estrema del socialismo, ideologia con all’attivo testi capitali di grande impatto pubblicati dal 1848 in poi,
e che Nietzsche avrebbe potuto leggere nel pieno della sua maturità, e che già si era costituito in movimento politico e stava riscuotendo un successo in rapida espansione. Inoltre Nietzsche non avrebbe trascurato una critica al marxismo imperniata sulla sua stessa precisa terminologia: avrebbe smascherato l’intento che vi era dietro quei concetti, coerentemente col suo metodo genealogico, senza nemmeno starne a predicare inesattezze, imprecisioni, contraddizioni, insensatezze, ambiguità come se fosse un principiante della filosofia che guarda l’oggetto trascurando il soggetto che ne emette parola, e non comprende la funzione precisa che hanno determinati errori, spesso voluti più che fatti, da parte di uomini che per mentire e distorcere devono saper bene la verità e dunque non sono stupidi ma solo opportunisti senza scrupoli: allorché secondo la sua filosofia del martello avrebbe distrutto sistematicamente anche la sua proletaria versione incrociata alla falce e stampata su una bandiera rossa come nuova idea che avrebbe dovuto rivoluzionare e dominare il mondo, di cui aveva preteso addirittura di indicare la meta ultima. Proprio un discorso che avrebbe lasciato indifferente un uomo che in fatto di mete cercava sempre di andare oltre
Se c’è una cosa di cui Nietzsche era giunto a piena consapevolezza, era la pericolosità dei simboli. E come nel simbolo cristiano egli aveva visto impresso il più fatale inganno di cui l’umanità fosse mai stata vittima, non avrebbe avuto difficoltà a notare lo stesso pericolo nel simbolo della lotta bolscevica, e neppure nel confrontare i due simboli tessendo una rete connettiva che desse un ruolo a ciascuno. Inoltre Nietzsche era divenuto un appassionato ed un minuto artigiano di ricostruzioni storiche, da lui ben preferite alle disamine dottrinarie, con annesse dimostrazioni e confutazioni, e nei suoi testi troviamo molti frammenti ricostruttivi e sintetici delle fasi della civiltà su base psicologica: per esempio nella Genealogia della morale, ma anche in Umano troppo umano e nella Nascita della tragedia. Eppure notiamo che si parla soprattutto delle epoche antiche, con l’aggiunta di un qualche accenno al periodo rinascimentale e quello della riforma protestante, ed un povero anche se netto giudizio sulla rivoluzione francese, sentenziata come la rivolta degli schiavi.
Una vera e propria storia della filosofia, parallela a quella della civiltà in cui la prima ha trovato genesi e spazio, è assente, in Nietzsche: ma soprattutto quasi totalmente difettiva del periodo medievale, di quello moderno, di quello illuministico, per arrivare alle nuove correnti ottocentesche ed alla fine quelle di cui lui fu contemporaneo e diretto avversario. Nietzsche nacque in un periodo storico di già così complesso, sebbene in una posizione sociale ancora assai positiva per un intellettuale, soprattutto se di salute cagionevole, in cui uno spirito tanto sensibile ed intricato come il suo, così originale e sfaccettato, non poteva esimersi dall’avere difficoltà a padroneggiare l’oceanica messe di intuizioni che la vita gli portava in grembo, per le quali doveva trovare anche un linguaggio nuovo ed adeguato, tanto erano innovative e spesso appartenenti a zone ancora inesplorate dell’esperienza umana e nelle quali tutto era ancora da scrivere, prima che qualcuno potesse azzardare una confutazione o innescare un dibattito, e quindi alcuni dei suoi pensieri si siano chiarificati solo col tempo: in forme sempre più concise, sintetiche, e sistematiche. Molto dovette prendere la forma del lirismo poetico, financo folleggiante ma mai privo della significatività dell’oggetto che dunque non dominava il filosofo, ma era da questi dominato. Io credo che Nietzsche stesse sperimentando una nuova estetica all’altezza della sua nuova etica, e non sempre l’esperimento fu pienamente riuscito, cosiccome le sue stesse dottrine etiche presentano un residuo di discutibilità e incompletezza, soprattutto allorché pare che egli non abbia mai saputo liberarsi del limite del principio individualista, che effettivamente giustifica la posizione immoralista in tutta la sua declinazione, ma che sicuramente deve essere messo in discussione. La non sistematicità di Nietzsche è più pretesa che reale, visto che, salvo alcune concezioni giovanili espresse nei suoi primi libri dal quale egli poi si distaccherà dichiaratamente, notiamo una coerenza di fondo che è naturale in ogni pensatore che non può far altro che sviluppare il suo spirito sino alle sue dimensioni naturali e suggendo sempre nuove sostanze dall’esperienza, espellendo quelle contaminanti, ma non può cambiare il suo carattere fondamentale, di cui ogni sua frase porta incancellabilmente il marchio, laddove davvero egli ne sia l’autore. La scrittura frammentaria non implica l’impossibilità del mosaico in cui tutto combacia, ed è invece il più delle volte un espediente meramente estetico nonché la viva necessità di un pensatore originale di conquistare un terreno alla volta, il più chiaramente possibile: curare il particolare, come egli sosteneva nella sezione artistica di Umano troppo umano, non per avversione alla sistematicità, ma per l’impossibilità di approdarvi subito senza colpo sbagliare. Ma senza arrivare al comunque credibile proposito finale di sistematizzare il proprio pensiero in un’opera chiamata La Volontà di Potenza, la quale si è trovata in mezzo il crollo psichico del filosofo, il suo ricovero, la sua morte, e lo zampino della sorella e di quanti altri sono poi stati chiamati in causa nei dibattiti circa le contraffazioni e le interpretazioni di Nietzsche, è possibile notare in tutte le sue opere pubblicate in vita un intento sistematico ed una effettiva disanima ordinata dei vari aspetti delle questioni: le opere sono scandite in sezioni, molte delle quali munite di un titolo abbastanza categorico da testimoniare un chiaro intento organicizzante, vi sono paragrafi coerenti nell’argomento e ben torniti in ogni componente, come dovessero essere esauriti lasciando solo il desiderio di saltare a quello successivo senza nulla aver lasciato indietro se non una roccaforte affidabile e munita di presidio, che ti introduce nel resto della cittadella nei suoi vari segmenti, nella visita guidata al lettore, come spirito guerriero ed insieme artista, binomio necessario per capire Nietzsche, ed abbia sì nobili lo sguardo e la mano, che non posson già esserlo
l’un senza l’altra, il qual si unisca alla corte ed alle sue prossime mete, ma in qualità di ospite giovi quest’oggi di una passerella panoramica sui futuri scenari, avvivata dal racconto delle passate storie, cheggià si senta verrà chiuso il cerchio e che sarà ben solida vestigia. L’argomentazione stessa, per quanto assai poco scolastica, ed invece maggiormente artistica, è precisa e priva di smagliature, di passaggi saltati: è abbastanza semplice seguire il filo logico anche quando non fosse esplicito né pedantesco, e di certo egli non pone il carro innanzi ai buoi e ciò che viene illustrato secondariamente è opportunamente preparato dal capitolo precedente. La sistematicità è dunque evidente ed è stata istintiva, anche laddove inconsapevole, con un grado sempre maggiore in funzione della padronanza dei problemi che egli acquisiva in quei pochi lustri di febbrile riflessione. Sebbene sia vero che in un libro composto di frammenti sgorganti dallo stesso spirito scintillante noi possiamo immergere la testa in un suo punto qualsiasi per attingerne una frescura magica, dilacerante di luce ed una scossa energetica, tale che quando la tiriamo fuori di nuovo notiamo che intorno a noi non vi è più nulla di consueto. Ma questa è una giusta vanità da parte di un intellettuale, il quale, essendosi mosso nella coerenza controcorrente della sua qualità intrinseca superiore alla propria epoca, noti infine i suoi risultati e sia in grado di affermare una sorta di tutto quello che dico è magico, e il corollario: mi sono conquistato il carisma, ho fatto qualcosa di nuovo e ho vinto, adesso nessuno vorrà più leggere altro, inizia ora la mia epoca.
Tutti sanno che una band eccezionale ha fatto solo pezzi eccezionali e che tu puoi ascoltarne uno a caso ed è al fulmicotone perché superiore alla media di quello che senti, ed anche se mille volte lo avessi sentito ti emoziona di nuovo. Ma nessuno può negare che l’intero disco sia qualcosa di più potente, e in un artista, come in un atleta ed un uomo qualsiasi, si conserva il desiderio di vedere unite in un solo corpo tutte le maggiori manifestazioni delle proprie virtù: dunque di essere sistema. Scremati soltanto di quel che non ci soddisfa perché non ci appartiene, in quanto estraneo oppure poco energico. Di essere dunque puri ed al massimo della potenza: di essere, orbene, totalmente sé stessi. La frammentarietà non è mai un principio deontologico che vieta il sistematico, e per voler sistematizzare la frammentarietà devi essere un ebreo non un filosofo. Quest’ultimo invece sa sempre che la disunione fa la debolezza, ed egli non potrebbe infine avere tale sicurezza ed entusiasmo se si rendesse conto di avere tra le mani non un battaglione di concetti perfettamente arruolati e muniti di spade affilate, ma una accozzaglia di frammenti contraddittori e lacunosi. Un filosofo non è mai un uomo del particolare, e se soltanto questi avesse conquistato nel suo percorso, egli proverebbe un brivido schiacciante: quello di non poter sostenere, con quella sola arma in pugno, il peso del mondo sul quale egli è chiamato a far breccia per rivoltarlo a nuovo, considerando che egli ha dedicato la sua esistenza a questo e non si è costruito altre posizioni,
né una solida esperienza altrove che lo renda forte ed appagato: ad un certo punto non si può più ripiegare sulla vita normale, di già scarsamente praticabile in dirittura di partenza per via della diversità personale che istintivamente l’aveva negata prendendo la strada della filosofia: dunque egli non può permettersi di non arrivare a destinazione, o di presentare il bilancio della sua vita con un treno di tormenti e di mancanze su un piatto ed un pugno di zanzare o lucciolette filosofiche sull’altro. E non potrebbe nemmeno permettersi di aver sviluppato molto bene un solo tema filosofico: gli investimenti che la sua opera ha richiesto esigono risultati più sostanziosi, sia per lui che voleva una filosofia a trecentosessanta gradi, sia per il mondo che ne attende la sfera. Egli verrebbe dunque schiacciato dall’insufficienza dimostrata, e quando anche la sua mono fiaccola si fosse insinuata nelle lande del presente, non sarebbe abbastanza luminosa da essere ben vista né avrebbe un potere calorifico abbastanza grande da poter scatenare un incendio che generalizzi il suo spirito. Il sistema presente è molto forte per il fatto di essere un sistema: ed un filosofo, durante la sua vita, vive senza un sistema di riferimento poiché è nemico di quello attuale e deve solo venirci a patti mentre ne costruisce un altro che deve partire da lui e sostituirsi al primo ad opera della nuova e vitale fazione dei suoi seguaci, che illuminati e vitalizzati dal tuo potere verbale dilacerante sono pronti alla conquista fisica come tu non potevi essere nell’epoca buia ed eri il solo detentore di una nuova umanità, e ne eri anzi l’elemento più forte in grado di aprire la strada con la sola energia della ragione (cioè delle acque diffrante dell’istinto), sicché gli altri elementi tutti riponessero in te la speranza di riscatto per la loro specie. La scrittura aforistica era stata utilizzata amplissimamente anche prima da Schopenhauer, nello stesso modo e con lo stesso senso in cui Nietzsche anche l’avrebbe poi adottata. Il saggio di Francoforte fu un altro spirito foriero di innovazioni ma rispettoso della forma estetica di cui la storia delle belle arti ancor consentiva e consente grandiosi esempi, e se non bastavano avrebbe creato nuovi stilemi e portato il tutto a nuovi livelli: ma l’animo forte detiene la predisposizione a quella struttura senza cui nulla di complesso può funzionare, e quanto i tutti diventano uno è solo perché li hai scolpiti ed assemblati talmente bene che non sono più gravati dal tempo e dunque da un pluralismo, necessariamente bellicistico, che non consente un appagamento completo in quanto unitario, ma degli appagamenti parziali con un riflusso negativo sulle altre passioni, i cui oggetti non ci arridono subito, e dunque verranno annessi solo in ritardo a riprendersi lo spazio che però è solo una compensazione di rimedio che salva dal peggio ma rimette in discussione l’intera partita, quale dovrà essere rifatta nell’ottica di non danneggiare nessuno. Dacché due ingiustizie non fanno giustizia: la seconda ingiustizia è vendicativa e necessaria, ma poi entrambi i contendenti dovranno chiedere conto a chi aveva impostato quella partita in modo che si creassero delle scorrettezze ed allora le debolezze non potessero essere scremate, le identità perfettamente definite e nel conflitto ognuno conquistare il podio che gli spetta. L’adeguata struttura rende tutto quanto estetico oltre che nuovo, lo rende efficace e dunque fa passare il messaggio, altrimenti destinato a disperdersi in deboli rivoli. Con tale forza razionale il filosofo sorregge l’impeto dei fiumi che scorrono dentro di lui a contatto con un’epoca ostile. Se un filosofo non fosse sistematico, ossia non possedesse una grande forza razionale, una capacità di contenere e strutturare i pensieri, quelli che ricevono il loro carisma in primis dall’intensità emotiva che lor sottende, scatenata dal contesto in cui essi nacquero, nel contatto tra un uomo eccezionale ed un ambiente, e da questo conflitto sublimati in lettera, ebbene egli fallirebbe miseramente, e sarebbe allora giustamente definibile come un pazzo con dei lampi di genio, non appunto un filosofo. La follia è appunto irrazionalità: non è dunque un difetto percettivo sugli oggetti singoli, né una insufficienza reattiva dovuta a scarsa prestanza fisica. Gli atteggiamenti che definiamo folli, dunque irrazionali, mancanti di coerenza, dipendono da un cedimento delle nostre strutture mentali: da un logoramento di quel contenitore che consente di mantenere unite anche le nostre percezioni esterne, sempre plurali nella vita quotidiana, ognuna delle quali si riconnette al suo corrispettivo interno nella specifica posizione, nella forma mentis che dà forma appunto alla realtà e che sola riconosce ogni oggetto poiché di già lo conosce, e dunque ci rende in grado di reagire ad esse percezioni in maniera sensata, ovvero secondo una sequenza precisa nessuno dei cui passaggi sia mortificante per la nostra causa e dunque di fatto interrompa il processo che l’avrebbe portata a realizzazione, come unico vero problema composto di piccoli problemi, e nessuna delle nostre azioni sia quindi un errore. Che non sia un passo falso: ovvero non coerente con la nostra natura, non affermativo ma negativo, e servente la natura altrui. Solo la debolezza contingente può renderci servi degli ideali altrui: se siamo nel pieno delle nostre facoltà percettive e reattive, noi siamo necessitati ad essere coerenti e non possiamo servire estranei, non possiamo fregarci da soli, essere nemici a noi stessi, segnare degli autogol. Non vi è invero alcuna regola che non sia natura, quindi non vi è nemmeno alcuna sociologia che non sia psicologia di un essere impuro, alcune componenti del quale se ne stiano all’esterno ed altre egli ne abbia introiettate dall’ambiente. Due oggetti si relazionano solo perché non sono completi e vogliono prendere l’uno dall’altro qualcosa che loro manca. I loro comportamenti non sono che le attrazioni e le repulsioni reciproche tra elementi omogenei ed eterogenei. Il fatto che in una stessa persona questi elementi siano frammisti e si incontrino con altre persone promiscue a loro modo, sembra generare in loro, nel contatto, una reazione complessa. Ma se è complessa, non è una reazione: sono molte reazioni di fatto indipendenti, perché per essere dipendenti dovrebbero avere qualcosa in comune che le renda complementari e dunque relazionabili, mentre lo abbiamo escluso dicendo che si tratta di elementi eterogenei. In un essere plurimo convivono in realtà vari esseri, ma in nessun caso egli ne rappresenta l’insieme, avente vita propria, loro rimangono separati: nel momento in cui definiamo un uomo escludiamo la pluralità, tutto quello che è in lui è necessario perché sia definito uomo.
La sua umanità è appunto l’insieme di cose che sole possono stare insieme in quell’aggregato avente tale forma: se i componenti fossero separati, essi sarebbero uomini infranti, aspiranti uomini e nulla mai altro. La parte non è definibile senza il tutto, cosiccome il tutto senza la parte: questo significa che non vi è reale differenza tra i due concetti, e vi è soltanto in quanto non sono tali. Se tu consideri la parte, essa deve essere per forza già staccata dall’insieme: vigeva tra loro soltanto una alleanza, una accozzaglia, un contatto, una associazione e non una fusione, ciò che davvero è unitario non è attaccabile e dunque nemmeno percepibile a frammenti: ciò che frammenti alla vista è già frammentato ed i tuoi occhi penetrano quelle fessure e le dilacerano in un intento separatore. Ecco che non è affatto sbagliato sentirsi minacciati da colui che ci guarda e ci analizza: la sua analisi è una catalisi oculistica, egli ci sta già di fatto tagliuzzando per utilizzare di noi quel che gli interessa. Egli ha sfilacciato come poteva, ma realmente, la nostra integrità: non però in maniera grave, tant’è che se lui si toglie di mezzo non ci vuole molto a che ci scrolliamo di dosso il suo sguardo, il ricordo, ossia ricomponiamo quei tessuti che esso aveva cominciato a logorare. Non esistono forze risultanti, solo le componenti in se stesse: il concetto di forza risultante non è altro che la strumentalizzazione di un conflitto altrui, che rimane separato nei suoi componenti, da parte di un terzo soggetto a cui non importa l’esito di quella guerra per quei due, ma solo il vantaggio che lui possa trarne. Egli esercita dunque la sua forza su quel binomio in lotta: solo però una volta che essa abbia dato il suo esito, non durante. Quindi dopo che il binomio è diventato di nuovo un monomio. Non puoi combattere contro o a favore di due che stanno combattendo. Tu combatti contro un altro che sta combattendo contro di te. Quando siamo sani di mente, ossia muniti di una robusta struttura razionale, non cadiamo in balia del singolarismo percettivo che nella pratica può vederci sballonzolare tra uno stimolo e l’altro al pari di un cane, in un percorso grottesco e privo di qualsiasi disegno complessivo, quella percezione prospettica e sferica, che pur vedendoci maggiormente appesantiti laddove la nostra affermazione nel mondo sia ancora lontana e noi siamo quindi necessitati a fare delle scelte non potendo togliere di mezzo gli elementi avversari posti in essere che a tali scomode scelte ci costringono, ci rende in grado di scansare ciò che infastidisce il presente, senza danneggiare il futuro. Il grado di razionalità necessario ad affrontare la vita, ossia la tenuta mentale, diminuirà secondo il numero di avversari che riusciamo a sconfiggere e dunque quanto più l’ambiente esterno sia conciliante e non necessiti di essere combattuto. Quanto più siamo felici, tanto più potremo permetterci di essere istintivi, in quanto muniti assai spesso di un solo istinto che non incontra ostacoli, tali da venire diffranto ad opera di molteplici avversari, di modo che ogni frammento materico che essi hanno conquistato di noi necessiterà di una battaglia specifica per essere riconquistato e quindi ripresa la nostra unità che ora può volgersi ad uno specifico conflitto esterno. Quando un filosofo diventa un folle, cessa di essere tale. Ma non è affatto detto che la follia non possa avere un parte nella sua vita: purché sia una parte subalterna. Egli può folleggiare, ossia guerreggiare con chi tenta di ammattirlo, scendendo sullo stesso piano e con le sue stesse armi. Il filosofo è colui che folleggia con stile e quasi di proposito, per esperimento, per affrancarsi pionieristicamente da una razionalità che si rivela fasulla ed oppressiva, per divertimento, per sfida, per rabbia, per sfogo, per eccessivo dolore, ma sempre più per forza che per debolezza, per una paura a volte gelida ma che infine e dunque fin dall’inizio non perde mai la sua sfida con il coraggio, per soluzione estrema, per un esaurimento ed una disperazione che però non perdono mai totalmente il controllo, la lucidità, e l’abilità verbale: che non spengono la spina, al massimo si mettono in stand by, fanno corrente alternata, alterata, cercano fusibili. Stiamo dunque parlando di uomini che non impazziscono, che già usano la follia come strumento e maschera, come fonte di guarigione, come arma di guerra, come viatico e danza, come espediente artistico, come elemento e personaggio di una storia, come nuovo metodo, come cambio di pelle, come metamorfosi, ed infine inglobano anche il concetto di follia nelle loro maglie pittoriche, nel loro sistema filosofico, e combattono anche il trattamento che il sistema riserva ai pazzi, proprio perché non lo sono ancora diventati, perché il sistema oppressore non ha ancora vinto, non li ha ancora stroncati: e nel momento in cui si concettualizza la follia si è più forti di essa, la si domina e non si è dunque dei pazzi. Chi più non capisce: egli si è un pazzo, egli è stato sconfitto. Colui che è stato estromesso per sempre con il trauma ed il terrore, oppure con l’impressione di un degrado energetico e fisiologico irreversibile, da un ambito della realtà che potrebbe essere messo in discussione, una zona pericolosa che agli arditi può dare una chiave di volta che porti ad una svolta gli impulsi di rivolta: costui forse sarà meno folle. Si sarà rimesso nelle corsie di pensiero consentite e fiumeggianti di acque serene o serenamente increspate, pilotate dalle sorgenti, dagli argini e dalle forze aggregative interne anche negli impeti rabbiosi e nelle discese rapide, anche nelle alluvioni che li sovrastano e si riversano in nuove falde. Costui non avrà più atteggiamenti strani, non darà nell’occhio, non desterà preoccupazioni, non farà discorsi ad elevato contenuto minatorio, offensivo, distruttivo, diffamatorio, non parlerà anche delle cose più normali in modo palesemente anormale, dismetterà la tendenza ad inerpicarsi in tematiche da cui la gente vuol stare fuori e in alcuni casi non potrebbe stare dentro poiché sono fuori dalla gamma della sua sensibilità. Egli non sovrasterà il livello standard di afasia che normalmente lega le persone normali: investite da contrasti, certo, ma le cui esigenze spesso collimano, sicché i tempi vengono rispettati senza eccessivo rancore da frustrazione, e nello stesso modo i lavori vengono svolti, i doveri espletati, le regole accettate, le opinioni dominanti approvate, i giudizi personali non sono mai abbastanza ingiusti e non si inseriscono mai in un terreno tanto piagato e avvelenato da infliggere un’offesa molto profonda, tale da suscitare, assieme alla percezione dell’impossibilità di pagarlo con la stessa moneta e l’angoscia che quel tipo di incorreggibile e orrenda persona corrisponda all’uomo medio, il quale gremente ogni strada ed ogni spalto del globo e vocicorante di volgarità ultrasonica milliumana e cattiveria bufalica, staffilante la sua grettezza in nuova spaventosa intelligenza di cinico complotto ed improvviso violentissimo taglio, si schiererà impassibile ed impunibile dalla sua parte: suscitare in lui un’ira talmente bestiale da indurre il soggetto a pulsioni suicide che infine respinge solo perché Ercole ha imparato a camminare a gattoni da lui, oppure ad atti criminosi (sia ben chiaro - secondo la legge) ma comunque compromettenti per lui su qualche piano importante. In tale società di persone fondamentalmente omogenee l’intolleranza è spostata laddove esse non sono di fatto omogenee: sul terreno dell’eccezione o comunque negli aspetti secondari della vita dove a dir bene il principio relativista e pluralista, invece negato nei fondamentali, tramite anche la vasta offerta di mercato conferisce ad ognuno il diritto di defilarsi dove più gli garba e di sentire solo quel che non lo infastidisce. Qui l’intolleranza è legalizzata e legittimato è il rifiuto delle imposizioni altrui, che sarebbero dittatoriali anche negli aspetti secondari della vita e dunque totalitarie, cosa che non può giovare al sistema il quale, dovendo garantire l’interesse delle élites che lo hanno architettato, deve venire incontro alle grandi masse il più possibile giacché non potrebbe permettersi di opprimere moltissime persone con un monopolio ideologico e caratteriale di stato che informi di sé tutti gli aspetti della vita: anche le arti, il linguaggio, l’alimentazione, i beni di consumo, gli sport, gli svaghi, l’abbigliamento ed i costumi sociali. Il popolo è l’apparato produttivo ed esecutivo che deve necessariamente mantenersi efficiente nella sua parte maggioritaria affinché non ne risentano anche le élites. Al fine dell’asservimento generale, un livello medio-alto di soddisfazione va garantito almeno fino a che le masse non diventino talmente plagiate e deboli da non poter opporre resistenza ad una schiavitù che li opprime maggiormente ma che consente loro ancora di produrre quello che vogliono i padroni e di servire la loro volontà. Se tali padroni bruciassero le tappe opprimendo eccessivamente la popolazione quando ancora questa è energica abbastanza e consapevole da potersi rivoltare in una maniera che sarebbe incontenibile, dato il grande numero, perderebbero il loro obiettivo che richiede invece di stroncare subito, prepotentemente e con la massima spietatezza gli individui eccezionali: quelli che per maggiore intelligenza capirebbero subito il loro piano e sarebbero in grado, sino a che questo non abbia operato adeguato plagio della coscienza collettiva, di fomentare le masse contro di esso. Se gli intellettuali superiori non vengono ammazzati devono per lo meno essere abbandonati in un tessuto sociale talmente eterogeneo da essere per loro un guado di fango e di rovi, di irritazione e frustrazione continua tale da renderlo assai lento nei movimenti e sempre più debole se non è stato eccezionalmente abile, e appunto dargli adito di comportarsi in maniera antisociale e folle cosicché sia consentito agire legalmente contro di lui, anche avallati dal fastidio o dalla paura che questi ha suscitato nella gente, e che dunque approveranno il provvedimento, poiché le sue idee ancora non comprensibili ed il suo comportamento risultano più negative dell’inganno che il sistema compie su queste masse umane, perché in loro si trova ad uno stadio inferiore di degenerazione: non li ha ancora danneggiati a sufficienza e fino a che la gente non comincia a star veramente male, qualsiasi cambiamento, soprattutto di natura molto destabilizzante, traumatica e addirittura implicante una guerra, mette a disagio e spaventa di più che non il mantenimento di una relativa insoddisfazione cui sono possibili ancora molti calmanti e piacevoli diversivi, e che comunque non ha ancora intaccato ne minacciato i pilastri del nostro benessere. Il sistema distruttivo deve dunque usare le masse contro le aristocrazie intellettuali, cosicché possano essere sostituite dalle nuove élite e non essere più disturbate da individui che si pongano problemi dello stesso livello, quello dei massimi sistemi appunto, ma con delle intenzioni opposte. Quando hai tolto di mezzo gli intellettuali che servono l’idea nazionale, e stroncato materialmente gli stessi soggetti politici che la incarnano, a questo punto pilotare le masse disponendo del potere finanziario, in una società in cui questo è salito in cima alle gerarchie sociali e dunque ingloba in sé e subordina ai suoi dettami anche quello produttivo, legislativo, giudiziario, militare, culturale e mediatico, non è affatto difficile. Bisogna solo stare attenti a distribuire la frustrazione laddove maggiormente possa paralizzare ed asservire con efficacia immediata e non regressiva, in modo da non suscitare nella persona oppressa un impulso di rivolta abbastanza potente a che essa si possa trascinare dietro tante altre in un’azione anti sistemica. I più forti di mente vanno stroncati per primi: perché possono guidare tanti corpi nella direzione sbagliata. I forti numericamente vanno invece tenuti a bada con un livello di benessere medio e che nel tentativo di essere migliorato possa giovare ancora delle illusioni poste dal sistema informativo, che non impone loro l’ignoranza ma una visione delle cose fuorviante e deformante, che ad essi dà comunque la sensazione di riflettere, di aver in mano conoscenze valide, di essere attivi e partecipi e non burattini sfruttati e tenuti allo scuro di tutto, di unirsi con altre persone in gruppi di discussione ed anche concreta protesta che però non porteranno a nulla perché nessuno ha svelato le verità che contano e gli strali di questi gruppi, anche laddove non siano pilotati dalla politica stessa serva della finanza internazionale, potranno comunque arrivare a scagliarsi solo contro dei pesci piccoli, che non sono mai fondamentali e che possono non solo essere messi in discussione ma anche crollare ed essere sostituiti senza danno per la struttura fondamentale del sistema che non viene posta in discussione perché non ce ne sono le basi intellettuali in nessuno dei partecipanti alla protesta e questi pensano a questo punto di aver sconfitto il vero nemico, mentre quello se ne sta dietro le quinte a ridacchiare della loro ingenuità e della sua nuova mossa vincente. Colui che la smetta di coltivare simili pensieri, egli sarà stato curato dalla follia ed accolto nell’alveo della placida schiavitù.


Se c’è una cosa che accomuna tutti i grandi filosofi è che parlano chiaro e parlano franco.
Due concetti considerati capitali nel pensiero nietzscheano: l’Eterno Ritorno ed il Superuomo, sono in tutta la sua opera quelli di difficoltà ermeneutica maggiore, e questo li rende oltremodo sospetti.
Sospetti non certo dell’esitazione di Nietzsche nel fare pesanti e decise affermazioni: mi rifiuto di credere questo di un uomo di tale livello. Sospetto invece che siano stati alterati e camuffati, come tutto quello che di Nietzsche ispira e spira ancora nel nazionalsocialismo. Egli era troppo intelligente per non rendersi conto che Eterno Ritorno è un ossimoro: un’idea troppo ebraica per essere sua, per appartenere ad un uomo che teneva così tanto alla salute, un’idea che richiama l’inutilità, lo spreco energetico, avulsi a qualsiasi spirito alato e di forte nerbo. Anche il superuomo era sicuramente, nelle versioni originali del libro, qualcosa di molto chiaramente determinato e che legava la fisiologia alla psicologia, in quel ritorno alla natura di ogni cultura che rappresenta un tema centrale della sua opera. Anche il suo richiamarsi alla civiltà antica doveva essere molto più marcato del suo individualismo che lo associa assai più al capitalismo che non all’idea nazionale. Certo egli era un frangi ghiaccio la cui pars destruens doveva aver il suo spazio, anche eccedente e temporaneamente fluttuante prima di un riassestamento, ma credo che già allora la ricostruzione nazionalistica avesse trovato spazio nei suoi pensieri di persona equilibrata assai più di quanto non fosse folle. Se anche non fosse arrivato alla parte ricostruttiva, in tal caso l’operazione sarebbe stata completata appunto dal pensiero fascista, con il tramite del futurismo, come un ritorno vitalistico alla patria ed alla civiltà successivo all’iconoclastia cristiana e della sua versione laicizzata nella politica del tempo. Se Nietzsche non ha alzato il braccio teso è perché è morto giovane: a tale ginnastica mistica sarebbero approdati i figli suoi. Nietzsche non è stato sicuramente travisato dalla sorella in senso fascista, ma al contrario in senso capitalista ed ebraico. Nessuno dei malanni di Nietzsche giustifica peraltro un tracollo psichico improvviso come quello che sembra aver subito, guarda caso pochi giorni dopo la pubblicazione de l’Anticristo. A leggerlo oggi è un romanzetto filosofico, ma alla fine dell’ottocento era una bella mina. I testi precedenti, già molto di rottura, gli erano stati tollerati: ma questo no, stava decisamente esagerando. Io credo fermamente che Nietzsche abbia subito, con la collusione della sorella, della madre, degli amici, dei medici, un trattamento sanitario obbligatorio: in manicomio glielo hanno mandato, non ci è finito da solo come ad ultimare una romantica parabola letteraria. Avevano paura di quello che avrebbe potuto scrivere, ancora così giovane. Inoltre avrebbero potuto, come curatori delle sue opere, operare tutti i tagli e i rimaneggiamenti desiderati. Anche il suo epistolario deve essere stato modificato a piacimento.
Egli non aveva affatto un buon rapporto con la sorella e la madre: i filosofi hanno raramente dei buoni rapporti, soprattutto in famiglia, e vi sono sue testimonianze e dichiarazioni in proposito.
L’internamento di Nietzsche è avvenuto inoltre nello stesso anno ed anzi negli stessi giorni in cui l’antisemita Forster, marito della sorella, è stato trovato morto in Paraguay, misteriosamente suicida con una dichiarazione fasulla di un medico locale. Si era recato in Paraguay proprio con la moglie Elisabeth, con il pretesto ridicolo di fondare una colonia ariana antisemita che poi avrebbe fallito…questa colonia doveva essere una sorta di spray repellente che non comprava nessuno dal momento che non vi erano molti ebrei in Paraguay: dunque non mi stupisco che sia fallita.
Vuoi vedere che la piccola e cara Elisabeth ha preso due piccioni con una fava: il Fratello e il Marito, e si è presa in consegno le opere del primo per farne quel che voleva…
Se consideriamo che Nietzsche è considerato un pilastro da tutta l’estrema destra…
E che le edizioni che ci sono giunte (comunque di destra per chi le sappia leggere) sono state stampate dopo la guerra…

Anche Schopenhauer, è morto a 73 anni, era di una aristocraticità estrema e mi rifiuto di pensare che non abbia scritto assolutamente nulla sul marxismo, dottrina discendente da un ramo dell’hegelismo, le cui opere avevano visto la luce 13 anni prima…

Anche le sue interpretazioni del cristianesimo ed i suoi frammenti politici sono manchevoli di qualcosa che lo fa apparire troppo ingenuo e generalista…

La cosa non mi quadra.

I guardiani del sapere hanno scaricato gli inchiostri a molti…


Ciò che vi è di buono nel Futurismo non è propriamente futurista. Esso è semplicemente l’apice della miglior tradizione letteraria, che ha pienamente conosciuto e assimilato, di cui è di fatto debitrice anche se superatrice: ed in ogni cosa buona del presente si conserva il buono di ogni cosa passata, poiché il tempo non è lineare, ma ha la forma del nostro corpo. La superiorità futurista scintilla nei suoi primi manifesti, per poi declinare laddove, assorbita la decadenza concettuale di quegli anni, i futuristi hanno abbandonato la virtù della struttura per avvicinarsi alla scrittura non sintattica, al teatro sintetico, all’impoverimento contenutistico e alla non forma. Queste cose, parenti letterari della dodecafonia, del cubismo, dell’astrattismo, del dadaismo, del relativismo scientifico, dell’internazionalismo, rientrano nei sintomi di quel virus giudaico che stava pervadendo l’Europa: fenomeni per i quali il nostro Fuhrer coniò virilmente il termine arte degenerata. Quello che i futuristi contestano non è la tradizione, dacché senza passato non si può parlare di futuro né di superamento o di evoluzione: ma solo i suoi aspetti deteriori, apportati invero dall’epoca moderna. La loro è una ribellione alla degenerazione della cultura: non al suo sano, forte e naturale percorso, nel quale anche la loro opera rientra a pieno titolo come ultimo elemento, anch’esso superabile. Marinetti non ce l’ha con gli autori classici, ma con chi li considera dei modelli insuperabili. Non ce l’ha con i romantici, solo con chi si crogiola per debolezza nella sua estetica sino a renderla stantia come ogni paralisi in cui le emozioni sono braccate, e pretende di estetizzare anche ciò che andrebbe solo vigorosamente mozzato. Tu non devi uccidere il chiaro di luna, perché saresti un volgare assassino: tu puoi però pensare che dinanzi alla luna non ci si può solo commuovere, ma anche arrabbiarsi ed insultarla, e che anche questo è poesia. Che puoi pigliare un razzo mettertelo sotto il deretano, dire ad un cammello che ti fiondi un calcione e ti spari sul satellite terrestre, atterrare con un tuffo carpiato, costruire un maxischermo e guardarti le Guerre Stellari in 3D. Questo è futurista, non quella prepotenza sgradevole di chi vuol ammazzare le gamme della sensibilità e dell’esperienza umana che hanno dato voce a molte opere, come quelle romantiche, quelle impressioniste, quelle espressioniste, quelle surrealiste, e che tutte sono belle nella loro forza espressiva se non pretendono di dare voce e dignità artistica ad una malattia oppure non possiedono la tecnica per rendere giustizia a dei contenuti sani, di qualsiasi genere. Cantare l’avventura sentimentale va benissimo, ma bisogna cantare anche il pugno, lo schiaffo, il rombo, lo schianto, lo sparo, la velocità, la macchina, l’elettricità. Quella di Marinetti è una opposizione compensativa alla faziosità artistica che eccede in un solo aspetto dell’esperienza umana e se ne preclude altri, e cosiccome ai contenuti pone dei limiti alle forme, che a questi devono invece adeguarsi secondo che ne siano all’altezza o meno. Il vero contenuto forte del futurismo è il vitalismo, che soltanto consente di evolversi nel percorso naturale dell’uomo e della sua arte. È la mentalità eroica, il costante svecchiamento, la tensione verso il completamento che ha come condizione la forza virile e la decisione nell’eliminare le scorie nocive che rendono appunto passato il nostro corpo, e così la nostra arte, nella precisa misura in cui sono insane, e pretendono di conservarsi in tale stato come forme eterne. Marinetti non si sarebbe trovato male nell’antichità classica, dove tutte queste correnti in cui è stata frammentata l’arte al pari dello spirito umano a dir bene non c’erano, dal momento che la parola Classico esprime l’imperituro ossia il perfetto. Esso mostra l’unità, l’essenza, la completezza, l’organicità, il nulla di mancante e nulla di superfluo, nell’arte. E sicuramente nello spirito classico, essendo uno spirito forte e sano, è contenuto il germe dell’innovazione, del superamento, del cambio di pelle, che realizza pienamente l’uomo e questo è precisamente il significato della parola Cultura. Essa è la sanità degli istinti conservativi ed evolutivi che sottendono al perfezionamento del genere umano. Ciò che non lo fa, merita di essere chiamata incultura, cultura involutiva, cultura cancerosa, cultura degenerata. Marinetti non detesta i grandi autori, ma il parassitismo sterile ed incancrenito dei professori che se ne fanno interpreti e custodi. L’egotismo, l’edonismo, l’estetismo senza coerenza etica. L’arte imborghesita e mercificata. Non detesta Cristo, ma l’ipocrita pusillanimità della Chiesa Cattolica. Non detesta il dolce, ma lo sdolcinato. Non i sentimenti, ma il sentimentalismo, ossia il patetismo, la debolezza con cui li si tratta: quella che non può pretendere di essere estetizzata, rappresentata, dacché non può mai essere bella. Egli detesta la mentalità piccolo borghese che conserva il benessere materiale ed egoistico a scapito di un futuro migliore. Questi aspetti del futurismo sono convogliati in pieno e si sono conservati nel fascismo, che però ne ha disconosciuto gli aspetti deteriori legati appunto a tutti quegli elementi di cultura moderna che distruggevano il retaggio incrollabile della tradizione: la struttura gerarchica, la completezza dell’anima e degli strumenti per realizzarla.

Tutto ciò che è virtuoso nell’etica e dunque bello nell’estetica presenta la pienezza indistinta delle tre virtù classiche: Giustizia, Fortezza e Temperanza, in cui il Fascismo si riconosce.
Il valore oggettivo (e quindi anche soggettivo per chi ne sia all’altezza) di qualsiasi opera della creatività umana è costituita dalla sua classicità divisa per la sua democraticità, ossia per il prodotto tra sinistra (debolezza) e destra liberale (individualismo). Solo quando un’opera d’arte sfocia nel misticismo, ossia nell’idealità che parte dall’individuo come tensione di quest’ultimo al proprio perfezionamento, cessa di essere bella per diventare sublime.
Il totalitarismo classico o fascismo non uccide l’arte.
Dona invece ad essa la piena realizzazione e dunque totalizza anche questo aspetto della cultura di un popolo. Il fascismo debella l’arte inutile, l’arte degenerata, quella che non serve la vita, non purifica l’uomo, non lo slancia nel suo percorso realizzativo, avvicinandolo a perfezioni maggiori. Il fascismo bandisce l’estetismo: ossia l’arte per l’arte, che pone innanzi un disegno fugace di felicità, una finestra favolistica dalla quale dovremo prima o poi distaccarci senza capacità di emulazione, impigrite in noi dalla filosofia del distacco, senza averne dunque attinto la forza necessaria ad estetizzare anche la nostra vita, tramite un’etica superiore, vale a dire un comportamento migliore, che ci consente di limare i nostri difetti sconfiggendo i nostri nemici. Tutte le opere artistiche significative elevano l’uomo tramite un esempio di virtù che egli venga stimolato a raggiungere. L’arte deve rinverdire gli arbusti rinsecchiti degli uomini indeboliti ma ancora capaci di risorgere e muovere verso il bene. L’arte deve liberare le energie umane, naturalmente rivolte al perfezionamento della propria azione e conseguentemente della propria felicità. I veri artisti sono dei nobili soldati del regno. Ogni attività artistica che presenti i suddetti obiettivi catartici e ne detenga le capacità specifiche deve essere promossa, sostenuta e tutelata dal governo: essa è universalmente utile e quindi rispettata e non è necessitata a lottare per avere il suo spazio e nessun cittadino deve superare ostacoli impropri, né di natura materiale né economica, per poterne attingere secondo lo specifico bisogno. L’arte deve arrivare a chiunque ne abbisogni, in maniera assolutamente svincolata da interessi economici privati. Una società malata presenta delle gerarchie naturali nella risoluzione dei propri mali. I mali si combattono solo con l’azione. Tuttavia se il corpo è debole, le sue energie sono braccate ed impotenti: qui deve intervenire l’arte nella forma di stimolo sensoriale e modello virtuoso da imitare, in tutta la varietà di forme e generi che corrisponda alle specifiche esigenze di autoriscatto e liberazione presentate dalle varie fasce di pubblico, che non sono degli acquirenti e dei consumatori ma degli amanti e dei soldati, che da un’opera ricevono passione e la stessa riversano poi nella vita, sopra amici e nemici. Questa è l’arte che libera ed è arte nobile: mentre quella consumistica od egotistica è un palliativo ingannevole che ne svilisce la funzione e lascia nello spettatore un languore sgradevole, l’amaro rimpianto di non poter essere attore, di essere escluso dalla cerchia dei virtuosi che conseguentemente divengono anche Belli. La differenza tra acquisto e acquisizione è appunto che il secondo termine è futurista, ossia evoluzionista, mentre il primo si limita a conservare lo stato presente. Il consumismo è l’atteggiamento di chi acquista dei beni per soddisfarne un bisogno contingente e non invece un’esigenza evolutiva: senza dunque che il contatto con tali beni ingeneri alcun plusvalore, da investire, ossia utilizzare, per uno sviluppo in altezza, uno sviluppo futurista dell’esistenza. Molti beni sono e devono restare beni di consumo: sono i nostri strumenti di sussistenza. Ma vi è una seconda classe di beni, superiore perché porta al superamento del proprio livello di realizzazione, che meritano di essere chiamati viatici evolutivi, o beni evolutivi. Le opere d’arte superiore appartengono a questa categoria. Le opere artistiche che nascono spontanee muovono dai mali della società, cosiccome questi si presentano ai sensi dell’artista, che ne percepisce il dislivello con i suoi limiti animistici ossia i suoi ideali. Ogni artista che si realizzi pienamente come tale non è però giunto alla felicità sino a che i suoi messaggi non sono divenuti dei cambiamenti sociali tramite i cittadini che, assunto il messaggio e fattolo proprio, non muovano concretamente contri i mali denunciati dall’artista in maniera ideale. Nessun artista che non presenti sommi ideali può essere preso a riferimento come legittimo liberatore del popolo nobile e sovrano nel regno. Nessun elemento di razza inferiore può dunque assumere il ruolo di artista nel regno, come nessun altro ruolo: egli piegherebbe infatti alle ambizioni di una volontà inferiore la sua opera correttiva dei mali della società, sicchè non li correggerebbe mai appieno, ed anzi lascerebbe intonsi dal dolce fulgore della critica emotiva e superatrice proprio alcuni suoi elementi fondamentali, non riconoscendoli come nemici, e salvaguardandoli invece come condizioni basilari della sua sopravvivenza e della liberazione della propria specie. L’arte non abbisogna di capitali e non deve produrre capitali: l’arte abbisogna di rette passioni e deve produrre passioni rettificate. La si sostenga materialmente e spontaneamente per esserne infine sostenuti: questo il patto, questo il rapporto, questa la giustizia in merito. Nessun mercato dell’arte: e tutte le arti contro il mercato. Il mercato è una gabbia contro l’arte, ne prescrive le forme e i limiti, di effettiva bellezza e di efficace trasmissione e applicazione. Il mercato piega l’arte ai suoi scopi. Tutti gli artisti che abbiano scopi superiori facciano partire la propria ribellione dal rifiuto di vendere il proprio ribellismo al mercato. Tutte le operazioni economiche che avvengono nel Regno devono assumere la forma del Volontariato rispettoso dei principi gerarchici. Nessuna spesa imposta o finanziamento negato, nessuna coercizione economica che sostituisca quella violenta di una politica comunque abietta e detentrice di scopi inferiori. Il principio dell’economia sana è Intransigenza e Solidarietà. Ai nemici non si vende, e agli amici si regala. Abolizione del denaro: pagamenti spontanei in natura. Sostituzione della parola pagamento con la parola aiuto. Tutti i termini che rimandano alla spersonalizzazione dei rapporti economici, all’astrazione degli stessi che dissolva le differenze tra le materie razziali ed impedisca loro di unirsi in azione collettiva realizzativa, e dunque li privi del loro misticismo, del loro senso, della loro anima: vanno aboliti. Nessun termine che non meriti di stare in una poesia abbia libero corso nel mondo assieme alle istituzioni corrispondenti. Nessun codice civile, nessun codice penale, nessun giurista, nessun ermeneuta di leggi non chiare, nessuna finta politica e nessun politichese, nessun avvocatese, nessuna burocrazia e nessun burocratese, nessuna banca e nessun banchese, nessuna finanza e nessun gergo finanziario, sia il mercato inteso solamente come luogo in cui circolano e si attribuiscono le merci e si conservino di esso i termini che corrispondono ad operazioni sane ed oggetti degni di esistere. Non vi sia alcun documento di identità o appartenenza, nessuna simbologia, nessuna retorica: ognuno deve essere riconosciuto in base al suo aspetto ed al suo comportamento, nessuna divisa che non sia il complemento tessile del proprio corpo atto a svolgere qui ed ora una determinata operazione necessaria al benessere del regno, ogni ente rappresenti dunque se stesso dinanzi a chi possa riconoscerlo e fargli del bene, e si tenga invece lontano quando è debole ed abbia un pronto intervento distruttivo dinanzi a chi non possa riconoscerlo oppure vederlo come nemico e fargli del male. Si chiami ogni oggetto con il suo proprio nome. Chi non aiuta l’arte buona, l’economia buona e la guerra buona è una persona cattiva: bisogna primariamente cacciare fuori dal regno i nemici. Gli amici si organizzeranno poi spontaneamente, riconoscendosi e rispettando le naturali gerarchie.
Una civiltà il cui ministero della cultura assuma la politica dell’Estetismo, in ambito artistico, non consentendo l’applicazione dell’arte esso vedrà opere sempre più decadenti che cercano di addolcire, nobilitare, rinforzare, guarire, appunto estetizzandoli, scorci di realtà sempre più degenerate e squallide: fino alla necrofilia, al feticismo della morte.
Il risanamento di un corpo sociale deve sempre partire dai suoi elementi più basilari. Il ministero della cultura deve inizialmente promuovere gli artisti, suddivisi nei rispettivi ambiti secondo i reali talenti e dunque le reali esigenze espressive, a realizzare opere che parlino dei mali primari del paese, stimolando gli agenti capaci e predisposti ad agire su di essi con uno scrollone emotivo e con una iniezione di sostanze benefiche. Queste opere dovranno essere rappresentate ovunque ce ne sia bisogno (non a spese dello Stato, ma con il supporto dello Stato, o anche ad opera dello Stato), per tutto il tempo necessario, perché agiscano fino in fondo facendo passare il messaggio, che non è altro che una specifica stimolazione emotiva ad agire meglio, compiendo il proprio dovere. Una volta che la vita abbia assunto in questo primario livello, quello della virtù artistica di riferimento, la sua piena salute, la perfezione, la funzionalità, l’ideale, non vi è più bisogno di tali opere. Esse vanno conservate solamente come preventivo contro una eventuale ricaduta. Ma si deve considerarle una risorsa di emergenza: una volta che si è raggiunto uno stadio materiale di benessere, una fisica prestanza, una virtù d’azione, si devono concentrare i massimi sforzi nel conservare ed espandere quest’ultima, non nella creazione preventiva di nuovi modelli da contemplare, e dunque ricominciare da capo prima che ve ne sia la necessità. Di ogni specie e livello vanno conservate soltanto le opere migliori, e queste ultime vanno immediatamente distrutte non appena se ne sia creata una più perfetta. Sia analogamente rifiutato il sostegno e lo spazio agli epigoni: ogni eccesso è un regresso. Anche quello numerico. Non si devono sprecare energie per dire ciò che è già stato detto, o che sia stato detto meglio. Di ogni opera presente nel regno, affrancata dalle maglie del mercato e dunque dal prepotente utilizzo privatistico e conservativo del livello imperfetto della società presente, cui quelle opere fingano di voler porre rimedio ed invece appunto si vendano: di queste opere deve essere accertato il valore oggettivo, ossia il potenziale benefico, e verificata l’applicazione completa in tutte parti del regno che portino quest’ultimo a giovarne. A questo punto si deve salire di grado: gli artisti che non sappiano rinnovarsi devono cambiare ruolo. Tutti i professionisti del settore devono creare adesso opere all’altezza della nuova situazione materiale. Come possiamo constatare da questi semplici ragionamenti, sebbene ogni loro premessa sia dogmatica ovvero imperio di razza, il perfezionamento dell’arte come di ogni altro aspetto della civiltà passa per un suo affrancamento dalla debolezza impostale dai principi democratici (mediocrazia) e da quella impostale dai meccanismi del mercato (plutocrazia) ossia dall’individualismo spersonalizzante. Cosiccome l’azione va preparata dall’arte, l’arte va preparata dalla filosofia. Ogni grande stagione artistica della storia è stata introdotta da una rivoluzione intellettuale: da una nuova corrente filosofica. Questo perché i macigni spinosi del presente, prima di poter essere smossi nella loro singolarità, anche solo teorica tramite opere particolaristiche, ossia artistiche, necessitano di essere abbracciati nella forma astratta e più leggera del concetto e già qui dissestate criticamente nelle loro fattezze fondamentali: questa è la base che illumina e scatena la fantasia creativa dell’artista, che ora si sbizzarrisce nel tessere storie, scolpire forme ed imprimere coloriti. Senza dubbio un’opera artistica ha un potere stimolante superiore a quello di un’opera filosofica, per il suo maggior grado di concretezza e singolarità.
La filosofia deve quindi muovere l’arte. L’arte deve muovere l’economia. L’economia deve muovere la guerra. La buona guerra uccide i nemici. Senza di essi viene smantellata la loro economia. Senza il supporto di questa crolla la loro arte. Senza l’arte la loro filosofia diviene impalpabile. Anch’essa infine si dissolve nel misero ricordo, fatto di deboli parole,
che n’era rimasto.


L’uomo schizoide del ventunesimo secolo


La parte strumentale di questo pezzo non è affatto inespressiva e non è progressive. Essa non vuole nemmeno e pertanto essere simbolica della vacuità dell’uomo moderno, perché identificarla come tale e come tale poterne parlare significa attribuirle un significato, esprimibile anche musicalmente, laddove invece la nullità non è assolutamente rappresentabile. Il testo è una denuncia irritata e vomitata in pochi punti essenziali, senza distinzione armonica, del carattere schizoide dell’uomo moderno, cantata scimmiottando lo stesso modo di esprimersi del soggetto descritto. La parte strumentale è un ibrido tra la colonna sonora di un film poliziesco e quella di un film comico: questo comunica musicalmente l’ambiguità di questo personaggio, che vuol essere un giudice, un rappresentante di rettitudine, di regola e un uomo d’azione o che potrebbe altresì essere considerato pericoloso e meritevole di una azione di polizia, ma in un caso come nell’altro appare grottesco. Ogni nota ci descrive questo soggetto mentre passa il suo carrozzone: Irruento, sgraziato, incalzante, ripetitivo, sfogante, squillante, arrogante, pagliaccesco, patetico, turbinante, ritornante su se stesso, minaccioso, preoccupante, irresponsabile, incostante, apparentemente inarrestabile, dispersivo, vacuo, inconcludente, allucinato, pazzo, senza un disegno preciso, divertito nella frammentarietà, che parte cauto poi ci prende gusto ad insistere enfatizzando i suoi comportamenti, accelerandone l’andature, e però in fondo incoerente, auto parodico, frivolo, in tutta la sua gamma in bilico tra l’autocompiacimento e il menefreghismo, a tratti improvvisamente composto, adesso addirittura serio e ostentatamente tecnico, collettivizzante e intellettualoide nelle sue argomentazioni, per poi ritrovarsi di nuovo starnazzante e senza niente in mano.


L’estremismo consiste nella pazienza di accettare tutti i compromessi temporanei unita al coraggio di non accettare alcun compromesso definitivo.


La vita di ogni essere consiste in una battaglia per la purificazione del proprio mondo. Nessuno si astrae, né consapevolmente né inconsapevolmente, da questa battaglia nemmeno per una frazione di secondo, durante tutto il percorso della propria vita. Purificare il proprio mondo significa ridurlo all’unità, e ciò che è difforme non può stare unito: va annientato. Nessun essere nell’universo si indignerebbe mai di questo spontaneo e voluto annientamento perché la distruzione del diverso per la realizzazione dell’unicità è la legge stessa della Vita: nel mondo vogliamo esserci soltanto noi, il che è identico a dire dominare tutto, senza più residuo nemico. Noi dobbiamo essere il Mondo ed il mondo deve essere Noi. Non vi è nessuna colpa in questo. La colpa è la presenza del prossimo dentro di noi. Una presenza che può essere solo dannosa e dunque dolorosa. La particella colonizzante nemica, letteralmente, nella forma del linguaggio, si è inserita in noi e ci corrode dall’interno: e ci fa provare rimorso ovvero il secondo morso, di natura interiore, che un nemico sconfitto è ancora in grado di infliggerci. Ma non siamo mai noi gli autori masochistici di questo rimorso di coscienza. La nostra coscienziosità consiste nel liberarci la coscienza dal prossimo, non nel continuare a sentirlo dopo che lo abbiamo fieramente ammazzato. Finché ti senti in colpa la tua vittoria non è completa. Noi non dobbiamo uccidere gli amici: ma possiamo farlo solo qualora costretti fisicamente o con la deturpazione intellettuale da parte di un soggetto esterno nemico, quindi quando colpiamo gli amici non è colpa nostra: solo invece del nemico. Quando ci sentiamo in colpa gli altri sono presenti dentro di noi in opera di devastazione: noi sentiamo gli altri, ossia le colpe, le impurità, ma non possiamo condannare noi stessi. L’uomo lasciato solo opera la purificazione interna ed esterna. Esternamente egli estirpa ogni elemento di questo mondo che conservi il carattere e dunque le fattezze delle razze nemiche, per sostituirlo con i propri stilemi, per rendere ogni cosa uniforme alla propria anima. Internamente, egli si discolpa: se privato di pressioni esterne, di fatto nemiche, la sua psicologia non è altro che un processo di liberazione dalla schiavitù, dai gioghi e dalle trappole dilaceranti innestate in noi sotto forma di sostanze chimiche avversarie oppure concetti avversari. Quando abbiamo le mani libere noi ridefiniamo i concetti, riconquistiamo il linguaggio. La forma della nostra anima, ossia la nostra Filosofia, riscrive la Storia della nostra vita, ovvero rintraccia ed espelle tutti i colpevoli, ossia tutti gli altri che hanno infierito su di noi, che ci hanno resi incompleti, corrotti, oppressi. Il linguaggio, come gli altri elementi fisici che ci circondano, è spiacevole ogniqualvolta lo abbiamo assaporato come affermazione del nemico su di noi: ed è possibile guarire solo vendicandosi nello stesso tempo con un gesto e con la parola che lo ha accompagnato nel torto che abbiamo subito dal prossimo, sinonimo di umiliazione. Dobbiamo dunque sottomettere nel dolore il nostro avversario e poi insultarlo. Noi dobbiamo piantare nel suo corpo lo stesso pugnale, in una situazione analoga, e commentare la cosa con le stesse parole. Ora la vista di un pugnale non ci darà più fastidio, l’udire quella parola non ci tormenterà più, e quella situazione non ci farà più gemere perché non è la conferma di una sconfitta. Non è possibile rigettare se stessi ma appunto soltanto il prossimo, il diverso, il nemico: esso che non ha alcuna dignità perché non può esserci utile, perché non ci completa, al contrario soltanto ci infastidisce, logora, corrompe, opprime, sporca, ferisce, disgusta. Non solo la storia la scrivono i vincitori, ma non è assolutamente possibile, in condizioni di supremazia totale, che i vincitori materiali non divengano anche assoluti vincitori morali, scevri da ogni colpa, e riversata questa invece, totalmente, sino all’ultimo sottilissimo strato di analisi della vicenda conflittuale, sull’avversario. Degli che in questo modo, come lo si è finito di sconfiggere socialmente, ossia esternamente, or coll’istintiva opera chiamata opportunamente damnatio memoriae, si finisce di sconfiggere anche psicologicamente. Chi si lamenta del trattamento subito dopo una sconfitta militare, sappia che gli è andata bene: evidentemente tale sconfitta non è stata totale e dunque l’avversario ha ancora delle remore a giustiziare ferocemente e radicalmente anche la vostra anima. Egli è dunque ancora costretto a farvi delle concessioni, a fingere di rispettarvi, a discutere ancora parte dell’accaduto come se il processo dovesse continuare e le sentenze essere ancora in dubbio. Ma esse restano in dubbio solo fino a che lo è la completezza dell’affermazione fisica. Sino a che un nemico riesce a salvare la sua anima, lo deve al fatto che anche il suo corpo è ancora in grado di difendersi e far male. Forse nessuna guerra è stata mai vinta completamente e questo è il motivo per cui tutto si può mettere ancora in discussione: da qualche parte vi è infatti una persona che sa in quanto è ancora se stessa, vi è ancora l’ego pulsante di ogni fazione, di ogni singola razza che vuole cantare la sua versione ossia gonfiarsi ed esplodere la sua collera sino al ribaltamento totale delle sorti sul campo, la remissione dei peccati, l’annientamento del nemico ed il dominio totale dell’Universo, che è stato ben finora un Multiverso orientato più nel verso dei nemici. Sino a che nel mondo è ancora in vita un ariano, e sia la civiltà ariana completamente spazzata via ed anche cancellata dai libri di storia oppure in questi completamente alterata, egli ha la potenzialità di rifondare quella civiltà e riscrivere quella storia: la civiltà è infatti intrinseca al suo sangue, e la storia, nella sofferenza necessariamente impressa in lui dal mondo nemico che evidentemente si è preso tutto quanto massacrando i suoi fratelli e tutti i loro averi. È sempre possibile risalire a fatti ai cui protagonisti non è stata resa giustizia. Perché mentre la giustizia sparisce nel momento in cui è realizzata, l’ingiustizia del passato si ripercuote e si ritrova nella società presente: ed essa può qui parlare per mille segni.


Non ha neppure senso in realtà parlare di razze superiori e razze inferiori, perché il concetto di gerarchia o anche quello di ordinamento sussistono soltanto all’interno di un insieme, non tra insiemi isolati, come sono state definite le razze, quali insiemi di elementi incompatibili e irriducibili. Le visioni del mondo hanno tutte una base razziale, un tipo umano da difendere, l’unico fine nei confronti del quale ogni altra cosa è un mezzo, ed è dunque sacrificabile e prima o poi invero, necessitato ad essere sacrificato ed annientato. Penso che la cosa più sterile e ridicola operata dalla naturale faziosità umana, legata per ognuno alla propria razza, sia l’ipocrisia egualitaria che inganna tutti e porta le fazioni a discutere nel solo modo in cui sia possibile farlo e trovare una linea di ragionamento comune: accettando una forma di uguaglianza, dei principi condivisi, ad esempio quello che condanna la violenza come cosa negativa. Vediamo allora le due fazioni cercare di elevarsi l’una sull’altra mercanteggiando su chi in guerra abbia fatto il maggior numero di vittime, o in generale di crimini, come se non sapessimo tutti che ogni sangue ha il suo colore, quindi anche le violenze ed i morti hanno un colore, che le giustifica tutte quando sono dello stesso colore del tuo sangue e dunque sono perpetrate in nome della tua causa, mentre ognuno se ne indigna quando li subisce da un’altra bandiera, dacché la propria è sempre e soltanto l’unica meritevole di rispetto ed impossibile a perderlo, di qualsivoglia crimine si macchiasse a propria volta. In questo caso poi stiamo parlando di Ideologie, ovvero della rappresentazione teorica delle massime ambizioni e dei sentimenti dell’uomo, che toccano i suoi limiti spirituali, oltre ai quali non vi è nulla di apprezzabile, nulla di più alto, in nome del quale sacrificare quelle: il nostro Ideale si conferma per l’appunto essere lo Scopo, impossibile a mercificarsi e dunque divenire mezzo, asservito ad un altro fine. Ragion per cui la storia ci insegna che in nome di codesti ideali diventiamo spietati e disposti alle azioni più estreme: possiamo anche sterminare l’intera umanità se questa impedisce il trionfo del modello di umanità che solo ci rappresenta. Per questo le genti temono il solo termine Ideologia: poiché esso è letteralmente, sinonimo di Sterminio - seguito da una ricostruzione omogenea. L’ideologia è l’apice del pensiero umano, un discorso coerente ossia completo che concerne la definizione di una Idea. Tutte le visioni del Mondo che hanno cambiato la storia si sono presentate con una nuova visione dell’Uomo. Ma ogni Uomo come è stato definito da un filosofo era uno specifico tipo razziale, altrimenti non avrebbe avuto da combattere, prima con le altre idee di uomo, e poi con gli altri uomini, organizzati in fazioni e sistemi politici. Le ideologie sanciscono i termini di una contrapposizione identitaria. Esse contengono dunque una lista di entità amiche e pertanto rispettabili, della cui esistenza sulla terra si accetta la prosecuzione ed anzi si assegna ad esse un ruolo più o meno precisato, ed entità nemiche che devono invece essere necessariamente annientate dalla faccia della terra, con una procedura più o meno precisata. La parola Ideologia indica dunque e senza dubbi la camera di incubazione di una guerra mondiale.
Per questo genera incubi, sebbene l’incubo più grande sia appunto perdere una guerra totale ed invece il sogno più paradisiaco il vincerla. Nessuno rigetta la guerra: solo teme la sconfitta. Il concetto di umanità non è astraibile da quello di guerra, come da quello di amore. Non è definibile senza d’essi: giacché la guerra e l’amore sono i soli strumenti di definizione ossia di identificazione. L’umanità consiste nel diventare uomini, e condizione per farlo è di scremare i diversi, dopodiché congiungersi con i complementari. Sono dunque umani tutti gli atti distruttivi e costruttivi, animati dunque dall’odio e dall’amore, che contribuiscono realmente alla purificazione di se stessi.


Propriamente non vi è amore pienamente godibile se non come premio ad una guerra vinta, non per una sorta di contratto a premi: ma in natura, come gioia congiuntiva che è libera e piena solo quando l’abbraccio non è guastato dalla presenza, nei due corpi o anime, di residui nemici che provocano dolore e risentimenti negativi. Tutti gli amplessi e le amorose tresche che ricevono il loro sapore romantico dall’essere vissuti durante un conflitto devono questo sapore alla necessaria incompletezza e impurità che li caratterizza: l’ostacolo della guerra pone nei due amanti il rimpianto di non essersi incontrati altrove, ed il ricordo sognante non è che la percezione del vuoto impossibile da accettare come ogni natura incompleta, quello che rende l’uomo e la donna pronti ad una nuova guerra cosmica se solo servisse a riavere il maltolto, tant’è che il succo delle romanticherie musicali e letterarie sul tema è proprio l’ostentazione di questo sentimento che sfida la natura e la storia, che si slancia through time and distance, motivato dal fatto che il senso della vita e dunque della storia è quello di completare la propria natura distruggendo tutti i propri nemici e agguantando ogni elemento mancante. Anche l’odio per il nemico sposta le montagne, può scatenare una promessa di sangue che impegna per una vita intera, sfidando appunto il tempo e la distanza, e l’epopea del vendicatore spreca gli esempi. Amore e vendetta sono i moventi di tutte le tragedie. La loro disposizione sul campo è ciò che rende interessante una sceneggiatura. La loro debolezza, ciò che la rende scialba. La debolezza con cui i personaggi padroneggiano le passioni,
è ciò che rende una sceneggiatura patetica. Mentre la forza, con cui fanno ciò, la rende epica. Non sempre dal punto di vista drammaturgico, ma sicuramente da quello eudemonologico, nella vita bisogna possibilmente dare la precedenza alla guerra, come il dovere deve precedere il piacere per davvero consentire quest’ultimo, e dunque un piacere non doveroso sia un’attrazione ingannevole e la durezza di un dovere reale e dunque benefico sia una fatica soltanto apparente, ben affrontabile se distogliamo la mente dal confronto con piaceri fatui o con soddisfazioni di cui non siamo ancora all’altezza perché non ce ne siamo costruite le condizioni: come più semplicemente, prima ci si lava poi ci si veste, prima ci si mette in sesto per piacer a se stessi poi si cercherà di piacere al prossimo, prima scolpiscono le pietre poi costruisce la casa, e la gerarchia è di tipo naturale, addirittura biochimico: nessuna congiunzione tra esseri impuri sarà piacevole… ci si scambieranno tossine, necessariamente, assieme al buono. Non bisogna per lo più cadere nel tranello in cui talvolta sembra porci la vita, quello di un apparente circolo vizioso secondo cui, per poter vivere una esperienza libidica, dovremmo prima aver chiuso i conti col nostro presente e dunque col nostro passato, contro tutto quello che ci ha sconfitto e di cui portiamo le scorie dentro, combattendo per ristabilire la nostra autostima e così la nostra identità, e tuttavia, proprio per avere la forza di fare questo, dovremmo essere corroborati dall’amore di qualcuno, o da qualche altra esperienza piacevole di tipo congiuntivo e non distruttivo. Questo dilemma è solo apparente, perché le due cose non stanno sullo stesso piano, ma sono appunto gerarchiche: se tu metti in contatto una cosa sporca con una cosa pulita, poi le dovrai lavare entrambe. Pertanto la strategia di amare da impuri, come quella di giocare da malati, oppure di agire contro volontà, sono da accogliere solo quando davvero non c’è altra scelta perché far le cose secondo natura provocherebbe, a causa dalla situazione esterna, una sconfitta ancora maggiore. Ma nella maggior parte dei casi non abbiamo invece bisogno di quel piacere ausiliario per continuare la nostra guerra in maniera vincente, mentre abbiamo sicuramente bisogno di aver vinto la nostra guerra per accedere ad un piacere vero, e nel primo caso abbiamo spesso la possibilità invero di attingere a piacere più piccoli e specifici che siano corroboranti senza effetti collaterali, e dunque non è per niente conveniente lanciarsi nel percorso del purgatorio graduale emotivo, secondo il quale, in ogni tappa, tu sei maggiormente puro, ma non hai mai combattuto né amato nella pienezza delle condizioni e dunque il tuo atto è sempre stato solo parzialmente appagante con aggiunto un residuo di nuovo inquinamento sull’altro settore. Una persona che ha un passato, il quale si legga nel suo presente perché non è ancora risolto, desta sicuramente interesse, in una donna come in un uomo, se non altro perché è una circostanza che consente meglio di mettere alla prova quella persona: si vede come essa affronta la vita, dimostra il suo carattere, elemento da valutare per una proficua sociazione e che spesso due persone non arrivano a conoscere perché si sono relazionati quando era tutto rose e fiori, illudendosi sulle qualità dell’altro, per poi andare incontro a cocenti delusioni quando arrivano i tempi duri e vediamo chi è veramente la personcina che avevamo messo sul piedistallo. Tuttavia, le persone in situazioni difficili sono interessanti dal punto di vista estetico, non etico: per un contatto quindi in cui noi abbiamo ruolo di spettatori e non di protagonisti. Il rapporto fondamentale di qualsiasi coppia è una congiunzione di cui entrambi sono pienamente all’altezza, priva dunque di attese o inquinamenti sgradevoli.



POSTILLE PER UN ARRIVEDERCI


Sapete qual è il modo per conquistare la notte? Pensare che non debba necessariamente iniziare al tramonto e finire all’alba. Sapete qual è il modo per conquistare il giorno? Pensare che non debba necessariamente iniziare all’alba e finire al tramonto. Sapete come conquistare l’alba e il tramonto? Pensare che non debbano essere necessariamente così brevi. Sapete come conquistare le ore del giorno? Pensare che non debbano durare per forza un’ora. Sapete come conquistare i minuti? Metterli per secondi. E per conquistare i secondi? Fate come fossero i primi.

La vita è fatta di attimi. Non aspettarli: perché non arriveranno, oppure arriveranno in ritardo, oppure costeranno di più, altrimenti costeranno di meno solo perché per avere infine quelli ne hai perduti altri che valevano di più. Non cogliere l’attimo: scaccia ogni attimo che pretenda di coglierti senza il tuo consenso.

Sai qual è il modo di cominciare a ridere? Smettere di piangere.
Sai qual è il modo di cominciare a piangere? Smettere di ridere.

Sai qual è il modo di dissacrare un capolavoro?
Dire che fa schifo. E non dare spiegazioni.

Se ti dicono che non hai spiegazioni, dì che è assurdo voler spiegare l’evidenza.
Se ti dicono che l’evidenza non è la stessa per tutti, digli che non ti interessa la sua.
Se ti dice che parli così perché hai paura del confronto, digli che qualsiasi confronto razionale potrebbe solo confermare il conflitto istintivo, ma sarebbe più dispendioso: come se si prendessero i soliti due grossi fiumi che vanno in direzione opposta, e li si spartisse ognuno in diversi rivoli che per un tratto allargano la forma del fiume, pur non alterando il volume di acqua, che vien dalla sorgente, e dunque la portata complessiva, né evitare che i due grandi fiumi conducano in ogni caso alle rispettive foci. Ragionare di fronte alla pienezza di un istinto significa fare un torto all’istinto ed anche alla ragione: non avremmo nessuna ragione per farlo in quanto non avremmo nessun istinto.
È infatti una cosa che può esserci imposta solo dall’esterno: come qualsiasi regresso.

Cosa è la giustizia? L'istinto dell'uomo superiore.

Ogni volta che si cede alla spiegazione, si perde la propria autorevolezza.

Tu devi spiegare le cose a chi non ha capito e vuole capire.
Mai a chi ha capito benissimo e non è d’accordo con te.

Se qualcuno ti biasima, probabilmente ha ragione: non siete fatti l’uno per l’altro.
Se tu lo biasimi, probabilmente hai ragione: non siete fatti l’uno per l’altro.

Avendo dunque ragione entrambi, non siete più in disaccordo.
Potete andarvene in pace fino alla prossima guerra.

Se sarà solo fisica, qualcuno vincerà.
Se sarà intellettuale, perderete entrambi.

Però sarà fastidioso, irritante, faticoso,
disgustoso, urtante, destabilizzante, inquinante.

Tornerai a pensarla come prima, ma non potrai evitare i tornanti.

Sai qual è il modo per andare lisci contro mano? Metterci contro anche il braccio.

Sai perché dopo che gli hai dato uno spintone lui ti ha steso con un pugno?
Perché non glie lo hai dato abbastanza forte a che si potesse spaventare.

Sai perché dopo il tuo primo colpo ne hai preso uno più forte?
Perché non hai avuto il coraggio di dargliene subito un secondo ed un terzo.

Sai perché dopo il suo colpo lui te ne ha dato un altro? Perché ti ha visto esitare nella replica.

Sai perché dopo che tu lo hai toccato su un punto sensibile lui ti ha aggredito ferocemente?
Perché non dovevi toccarlo: ma traumatizzarlo fino a paralizzare le sue capacità di replica,
e da lì finire di smembrare quel che meritava di essere smembrato.

Sappi che non hai detto una cosa sbagliata: non l’hai detta con sufficiente energia.

Sai come portare un codardo ad essere mediamente coraggioso?
Essendo molto coraggioso dinanzi a lui.

Sai perché il coraggio fa due passi indietro? Perché non è riuscito a farne un altro avanti.

Sai perché ne fa altri due indietro? Perché non è riuscito a farne subito tre in avanti.

Sai perché tre in avanti non sarebbero bastati? Perché senza il quarto, ne fai subito un altro indietro.

Per rimediare, ora devi farne due in avanti.
Ma se vuoi evitare di farne poi un altro indietro, devono essere tre.

L’unico modo di non dover mai tornare indietro è di non perdere mai il coraggio. L’unico modo di non perdere il coraggio è di non tornare mai indietro. Ma in qualsiasi punto siamo retrocessi, se invertiamo il senso di marcia e non ci fermiamo più, possiamo raggiungere qualunque meta. Noi esitiamo quando non siamo noi stessi, quando non siamo pieni. Quando non lo siamo, però, non è possibile essere coraggiosi. Un uomo pieno di sé non può esitare, e quando tutte le armi sono spianate, la guerra è giusta perché dirime tutti i conflitti diminuendone il numero, e i deboli vengono sconfitti. Ma quando non siamo pieni, il nostro coraggio sta nel conquistare la nostra pienezza. Siamo innati anche in questa capacità.

Sai come portare uno che dice che quella cosa è buona a dire che forse non è poi così buona?
Dire duramente che è cattiva.

Sai qual è il modo per non essere il solo a fare una cosa? Farla una volta in pubblico.
Quando molti l’avranno fatta in privato, ora quelli che non sarebbero stati abbastanza coraggiosi da farla per primi in pubblico, visto che per primi non la facevano nemmeno in privato, ma sono tuttavia più coraggiosi della media, cominceranno a farla anche in pubblico, sapendo ormai che in privato la fanno tutti. Quando la maggioranza avrà preso a farla in pubblico, tutti gli altri si aggregheranno. Il tabù è ora norma di legge.


I miei pensieri sono molto vincenti. Nessuna prolissità. Nessuna carenza. Ogni frammento dispiana una questione. Ogni frase stende un nemico. Nessun colpo fiacco. Nessun colpo eccessivo. Nessun colpo impreciso. Nessun colpo a vuoto. Nessun colpo fuori luogo, nessuna ingiustizia.
Tutti questi nessun sono necessari ad assestare un colpo grosso.

Nessuno può permettersi di interrompere un mio aforisma:
e non esistono cause di forza maggiore.


Arrivederci.



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