Prima
di dichiarare che non hai bisogno dell’approvazione degli altri,
aspetta di trovarti davvero nella situazione di non avere quella di
nessuno. Se la tua causa riesce a trionfare, solo questo successo è
un’efficace medicina a quel disagio, e la speranza che il biasimo
si trasformi in invidia.
C’è
chi crede di fare fieramente solo di
testa sua e non si rende conto che
di fatto gode dell’appoggio morale degli altri: sia questo tacito
oppure esternato. Egli conta, inconsapevolmente, sul fatto di essere
onorato. E non sa che, se comparisse nella sua mente anche solo il
sospetto che vi sia un’ampia
cerchia di persone che biasima e sprezza la sua persona, le sue
intenzioni ed il suo operato, o che non lo comprende e non lo
considera, si bloccherebbe e non riuscirebbe a farlo più. Se poi con
queste persone ha frequenti contatti reali, se il loro biasimo
sprezzante viene esternato con sguardi, gesti e parole, credete
davvero che questa persona abbia la sedicente forza interiore per
perseverare nei propri comportamenti ed inseguire le sue cause?
Naturalmente quello che pesa di più, in positivo come in negativo,
sono gli interventi reali
delle persone con cui entriamo in contatto; ma contano anche quelli
solamente immaginati,
che sempre però son figli di quelli reali in cui siamo incappati e
vengono da questi alimentati.
Non
crediate di poter stabilire la forza della vostra fiducia in voi
stessi prima di essere i soli a credere in voi stessi.
Se
ti rendi conto che le tue opinioni e tendenze si discostano molto da
quelle comuni, non preoccuparti: sei sulla buona strada. Se ti sei
messo in testa di fare qualcosa di grande e nessuno ti sostiene, non
preoccuparti: sei sulla buona strada. Se tutti si innervosiscono, si
incazzano, ti criticano, ti disprezzano, ti guardano male, ti
attaccano, ti biasimano, ti osteggiano, si allontanano da te, non
preoccuparti: è segno che sei sulla buona strada. Se qualcuno ti dà
ragione comincia a pensare che potresti avere torto. Se tutti i
settori della tua vita gradualmente peggiorano, si scambiano influssi
negativi, se ciò che senti dentro diventa sempre più infernale, non
preoccuparti: questa è invero la prova che avevi intrapreso fin da
subito la buona strada e l’avevi proseguita con coerenza.
Il
filosofo è libero dove gli altri sono schiavi e di conseguenza è
schiavo dove gli altri sono liberi.
Gli
uomini svolgono
i doveri del presente, il filosofo determina
quelli del futuro.
Mentre costoro
parlano di ideali agendo nel conformismo e non scostandosi di un
soffio, nel pensiero e nell’azione, da quello che esiste già e che
è stato loro insegnato, c’è qualcuno che gli ideali li costruisce
grazie ad un atteggiamento anticonformista.
Fare
filosofia significa essere
controcorrente. Non esistono una filosofia scadente e una filosofia
buona. Semplicemente quella scadente non è filosofia, è il prodotto
di un finto atto ribelle. I professori ne sanno qualcosa.
Un
uomo rappresenta il suo ideale in ogni giorno e in ogni azione della
propria vita, poiché egli stesso è quell’ideale. Ora, prima di
pretendere di combattere per un
ideale bisognerebbe preoccuparsi di
crearlo.
Ma crearlo significa invero scoprirlo, poiché esso è già in noi.
Dunque prima si lavora per conoscere se stessi, comprendere dove si
vuole arrivare e come ci si può arrivare. In realtà non si può
conoscere il dove prima di conoscere il come, sicché il nostro
ideale diviene consapevole con la stessa gradualità con la quale
scopriamo il mondo e ci impadroniamo dei suoi strumenti. La
rivoluzione viene dopo, ma già la prima è una rivoluzione, dura, e
sconosciuta a tutti coloro che sono pronti all’azione perché non
hanno un pensiero e quelli che hanno non son farina del loro sacco.
Costoro saranno sempre dei burattini al servizio di ideali di turno,
o nuove schiere a rinnovar le file di vecchie contrapposizioni
ideologiche. Tutti quelli che non pensano con la loro testa, ma sono
pronti all’azione, sono le persone perfette ad essere
strumentalizzate. E non sono i servi del futuro, ma i servi del
passato. Perché per essere i Servi
del Futuro, cioè ricoprire quello
che è invero un ruolo necessario, nobile, meritorio, devono seguire
uno che ha costruito un’idea innovativa e giusta. Se non è
innovativa è sbagliata, in quanto le vecchie idee, se hanno perso e
non hanno prodotto la felicità, qualcosa di erroneo dovevano
avercelo per forza. Deve essere anche veritiera perché altrimenti,
credendo di portarci nel futuro, ci riporta nel passato, aumentando,
con le sue conseguenze negative, il peso di un fardello storico che
dalle generazioni successive dovrà poi essere smaltito, sanato,
corretto. Fare la storia
significa invero mozzarla, non aumentare le pagine di libri senza
conclusione, poiché ognuno anziché risolvere complica, poiché un
mondo che si risana diventa appunto sempre meno storico, così come
un uomo che ha davvero risolto i suoi problemi non li ricorda più,
mentre il fatto che conserviamo ancora tutto è segno che non si è
ancora risolto niente, che ci portiamo ancora dentro le conseguenze
di pensieri ed eventi antichissimi. La scienza va a ricercare
addirittura l’Origine dell’Universo, perché si sospetta
inconsapevolmente che noi possiamo essere vittime di un errore
originario.
La servitù non è qualcosa di umiliante, è invece un dovere nobile
nella misura in cui si serve l’ideale giusto. Giusta
servitù fa rima con virtù.
Non possiamo mica essere tutti leader. Ed il leader da solo può far
ben poco. Ma l’uomo potrebbe essere una sola volta servo e
preferisce essere cento volte schiavo. Ovvero servo di chi lo inganna
e mortifica.
Quelli
che pretendono di definirsi ribelli ed hanno avuto una vita perfetta
e priva di problemi significativi fanno ridere il Re dei Polli, tutta
la sua corte compresi i pettina penne e i lustra zampe. Siccome poi
una dose di anticonformismo è obbligatoria anche per essere un
conformista con le carte in regola, ecco che tu verrai in tal caso
accettato da una fazione dominante dovendo però gestire ogni tanto
degli scontri collaterali con altre categorie e idee secondarie,
rispettando le forme in cui ti hanno insegnato che bisogna farlo ed è
onorevole ed accettabile farlo. Ogni uomo dovrebbe farsi una seduta
riflessiva e cercar di dire onestamente: ma
io, quanti avversari ho? In fondo,
può rispondere a questa domanda misurando il suo livello di
sofferenza. Anche se è chiaro che non tutti i nemici stanno
all’esterno. Pertanto possiamo lanciare qualche sentenza
riassuntiva del concetto.
Percorso
netto, vigliacco perfetto.
Percorso
accidentato, eroe patentato.
Percorso
infernale, filosofo morale.
Se
dobbiamo inoltre contrapporre gli eruditi ai creativi dobbiamo dire
anche:
Percorso
all’indietro, filosofi di vetro.
Percorso
in avanti, filosofi portanti.
Oh
beh gli eruditi sono di vetro solo come filosofi, non come uomini.
Dico
di vetro perché la loro filosofia è finta, perché la luce ci passa
attraverso dal momento che dentro non c’è nulla, sebbene loro
cerchino di affumicarsi parlando oscuramente ed allora sembrano più
solidi o addirittura minacciosi. Ma privata dei suoi meschini trucchi
e della forza personale del loro sostenitore, la loro filosofia è
fragile come il cristallo. Loro invece possono essere anche di marmo
travertino, perché anziché consumarsi nella ricerca della verità
hanno fatto il loro interesse, e in una disputa possono anche
umiliarti brutalmente con la loro fiera energia, con la sicurezza che
alberga in loro, senza sentire la missione che il filosofo deve
portare a termine, con le loro sofisticherie prive di pudore o magari
citandoti varie opere assolutamente
fondamentali e di qualità
insuperata
che tu non hai letto oppure non hai letto per intero o ancora ti sei
rifiutato di imparare a memoria perché le avevi bollate come
scadenti e chi deve raggiungere la verità non può portarsi dietro
il fardello degli errori, nemmeno dei suoi, figuriamoci quelli degli
altri, così come non può permettersi di lasciarsi inquinare la
testa, condizionare, confondere e fuorviare da un pensatore inferiore
a lui…fatto sta che in concreto ci
fai la figura dell’ignorante.
Quando la tua filosofia sarà compiuta, si sarà affermata e avrà
prodotto degli evidenti cambiamenti nella società, probabilmente
loro non saranno più vivi per rosicarne, ma sarà presente allora
una nuova generazione di eruditi che adesso sono costretti da un
principio di deontologia professionale a stimarti e studiarti
alacremente, poiché se la loro unica arma sono le nozioni è chiaro
che non possono trascurare di farsene il più possibile. Adesso
avranno un altro autore importante su cui ruminare professionalmente
senza saper dire se abbia ragione o torto, senza applicare le sue
idee né cercare di confutarle perché all’erudito non interessa
che la verità sia trovata, che essa si affermi e che la giustizia
regni, sicché la tua filosofia si unirà al suo armamentario
concettuale di cui si servirà per gettare fumo negli occhi alla
gente parendo brillante e per strapazzare qualcun altro nelle
discussioni. Senonché quando la mia filosofia sarà al potere i
falsi filosofi saranno a zappare la terra. Quella della loro fossa.
Se
vogliamo avere una prova empirica del livello filosofico di una
persona, la cosa meglio indicata non è analizzare sistematicamente
le sue dottrine, nelle formulazioni più generali. Bensì vedere che
tipo di giudizio dà sul caso concreto, si tratti di un episodio di
natura etica con parti contrapposte, dell’interpretazione di un
fenomeno commerciale o sociale che avete entrambi sotto gli occhi,
della sua spiegazione di un problema psichico, del suo giudizio su
un’opera d’arte. Infine, bisogna guardare come si comporta. Se in
tutte queste cose egli cade miseramente e non lo vedete affatto
distante dagli atteggiamenti e dai giudizi dei cialtroni, potete fare
a meno di prendere in considerazione il suo pensiero, perché egli
non è altro che un cialtrone acculturato. La filosofia è un ammazza
luoghi comuni. Se il risultato del percorso filosofico di una persona
è di confermare tutti i principali luoghi comuni sulle cose della
vita, direi che il suo tentativo è fallito miseramente e poteva fare
a meno di partire.
Chi
nega il principio di non contraddizione può essere solo due cose: 1)
l’apoteosi dell’idiota 2) il più astuto dei ciarlatani, che in
questo modo si riserva il diritto di dire tutto e il contrario di
tutto senza essere arrestato per oltraggio al pudore. Esso principio,
come ha detto il saggio Aristotele, è condizione della
significatività, cosa che non interessa affatto al sofista, il quale
non vuole che le sue parole vengano comprese, non vuol che si sappia
di cosa diavolo stia parlando. Il vero Sofista partecipa di entrambe
le categorie: egli è di fatto incapace di dare risposte agli
interrogativi filosofici e di comprendere l’importanza di una
ricerca onesta, ma è invece brillantissimo nel capire le condizioni
del suo successo personale, geniale e pronto nel portare l’acqua al
proprio mulino. Il filosofo onesto sa fare entrambe le cose ma spesso
cade nella seconda in quanto preferisce la prima e tende ad
illudersi, il più delle volte per il bisogno di interlocutori, di
trovare lo stesso atteggiamento e la stessa ingenua saggezza nel
prossimo. Vuoi tu che il sofista si facesse scappare di mano un’arma
così micidiale come la negazione dei principi della logica? Neghiamo
il terzo escluso! Così avremo la strada spianata per prendere per il
culo la gente. Loro noteranno le nostre contraddizioni e noi
risponderemo che le affermazioni non hanno necessariamente solo due
valori di verità, quando dovremmo dire più onestamente che per noi
la verità non ha alcun valore. Poi faremo le nostre affermazioni in
formule talmente oscure e contorte che nessuno ne capirà il senso,
così non gli sarà facile dire se sono vere o false, confrontandole
subito con la propria esperienza. Infine pronunceremo frasi che non
hanno assolutamente alcun senso e di fronte alle proteste diremo che
il senso è un’aggiunta superflua ed arbitraria ancorché sensuale.
Sarei loro grato se avessero almeno la mia ironia, ma per fare
dell’ironia occorre dire cose sensate, ed avere una percezione del
vero e del falso talmente chiara da consentire addirittura la
sinotticità e lo scambio dei punti di vista. Quindi se vuoi ignorare
la logica, spudorato teppista, vile furfante e squallido garbuglione,
disonestà incarnata e noioso buffone, tu non solo non dirai la
verità, ma le tue baggianate non faranno, perlappunto, nemmeno
ridere.
Quando
un sofista viene smascherato non abbandona dignitosamente il palco in
silenzio:
si
nasconde di quattro quinti dietro la quinta e tira fuori un quinto
elemento.
Non
è possibile pensare
controcorrente senza andare
controcorrente. Una cosa prima la fai poi la pensi (ovvero la
ricordi): è impossibile fare il contrario. Un rivoluzionario del
pensiero è un rivoluzionario e
basta: non è corretto declassarlo
rispetto al personaggio che poi, applicando le sue idee, va a fare la
lotta armata, con la scusa che il secondo è concreto mentre il primo
è solo
un teorizzatore. Non vi è scorcio di mondo, lemma di anima, qual
s’apra a visioni maggiori, che non sia stato aperto con la spada.
Se voi andaste a scrutare le vite dei filosofi vi accorgereste di
quante esperienze, sofferenza e coraggio stiano dietro qualsiasi
pensiero originale, e zittireste la vostra arroganza contro gli
uomini di scienza, lettera ed arte. Potrebbe sorgere una obiezione:
tutti hanno pensato di uccidere
qualcuno, ma davvero in pochi lo fanno sul serio.
Controbbiezione: quello dell’omicidio non è un pensiero originale.
Avere a che fare con la sincera
tendenziosità di un avversario è irritante e financo odioso. Ma
peggio è rendersi conto della faziosità celata dietro i trucchi del
sofisma. Dopo aver ascoltato parlare un sofista, dopo aver affrontato
una discussione con lui, dopo aver letto un suo testo, possiamo
riscontrare delle costanti. Ci sentiamo in parte nauseati, in parte
confusi e storditi, in parte provocati e minacciati, ma sicuramente
presi in giro, ed infine confermiamo come fondato nella realtà
quello che avevamo percepito fin dai primi istanti: l’odore della
Frode. Il nostro cervello è stato come bombardato e sottoposto
all’azione centrifugante di una lavatrice. Lo scopo,
chiarissimamente consapevole per quanto astutissimamente celato, del
sofista, era esattamente quello di farci perdere orientamento ed il
contatto con la terra, affinché ci trovassimo poi alla sua mercede
con le interiora in subbuglio e la vista annebbiata, temporaneamente
incapaci di coordinazione intellettuale, con la perdita della quale
vengono compromesse le nostre capacità di giudizio ed analisi,
l’agilità di movimento tra nozioni ora scombussolate e fuggenti e
nuovi dati assolutamente poco chiari ed univoci, e non siamo in grado
di riconoscere rapidamente i suoi movimenti e le sue intenzioni:
proprio qui egli ci tiene in pugno! Approfittando del tempo
necessario a ritrovare equilibrio, egli riesce a colpirci, se così
vuole, oppure a rubarci il portafogli, renderci incapaci di ribattere
efficacemente in tempi rapidi, farci apparire degli stupidi che non
afferrano, uomini privi della necessaria perspicacia ed acume, che
non sanno quel che dicono, che non possiedono argomenti e nozioni.
Egli è riuscito, unicamente grazie al suo modo di esprimersi ed
atteggiarsi, non già solo a rendere inutilizzabili anche le nozioni
più semplici e meglio padroneggiate, bensì a paralizzare o almeno a
rendere fiacca e maldestra l’intera nostra facoltà intellettiva.
Importante è sapere con somma chiarezza che queste tecniche sono
state studiate come una vera e propria scienza. Esse rappresentano
nella loro efficacia una virtù reale conquistata con impegno e
fatica e gradualmente perfezionata anche laddove si disponesse di un
talento naturale. Sviluppare questa arte è stato ai sofisti
necessario come agli animali deboli il mimetismo, l’agguato,
l’inganno e l’abilità nella fuga. Ma essi abbisognano di queste
tecniche perché le utilizzano, non generalmente nella vita, come
invero fanno tutti coloro che hanno la somma premura di conservarla,
bensì nel campo della filosofia, riservato per diritto a chi la ama
veramente e farebbe volentieri a meno di dover combattere con questi
impostori. I quali non potrebbero mai sconfiggere i veri filosofi
senza scorrettezze.
La testa comune non ha scrupoli a
sacrificare la verità per un qualsiasi personale vantaggio. Il
filosofo dimostra spesso di aver pochi scrupoli nel sacrificare il
proprio vantaggio alla verità.
Quando si sale nel fine si sale
necessariamente nella comprensione dei mezzi. È dalla piccolezza del
proprio intorno, cui la bassezza d’animo si adagia, che la
grandezza d’animo invece si espande sino ad accogliere tutti i
mezzi costituenti le pedine necessarie a riempire il percorso che
solo può condurre alla meta elevata. I confini di questa meta non
sono altro che i confini del nostro spirito.
Quanto sideralmente sono ridicoli i
cosiddetti democratici quando dichiarano che essi concedono la
libertà a tutti tranne che ai fascisti, con la ragione che questi
vogliono negare la loro libertà? I cosiddetti democratici hanno
costruito uno stato che corrisponde ai loro bisogni e tradotta la
loro volontà in legge. Solo da questo momento, essi sono
democratici, perché la maggioranza è composta da loro simili, e la
dittatura di questa, chiamata poi democrazia, si rinnova di
generazione in generazione a causa del fattuale predominio numerico,
costante nelle epoche, delle teste mediocri e individualiste. Ma la
democrazia non si afferma democraticamente, perché invero niente si
afferma democraticamente se non ciò che non ha bisogno di essere
affermato perché non incontra resistenze in quanto che sono tutti
d’accordo. Il concetto di affermazione presuppone il bellicismo.
Quando si crea uno Stato si rende dunque legittimo quello che si è
originariamente imposto con la forza. Il qual di fatto continua ad
essere legittimo solo grazie al monopolio della forza istituita che
fa rispettare tale volontà. Con la parola legittimo si tenta di
porre un freno psicologico ai dissidenti persuadendoli che compiono
un male anche per loro stessi nel momento in cui sfidano la legge, ma
senza la minaccia della forza fisica tale plagio psicologico sarebbe
una ragnatela impotente a frenare il loro istinto, avverso alle leggi
del branco. L’unico uomo libero è colui che ha vinto una guerra.
Oppure i figli suoi che ne ereditano i risultati: a patto che siano
di spirito affine.
La democrazia è una dittatura che è
passata agli uffici dell’anagrafe a farsi cambiare nome perché
quello d’origine poteva dargli delle noie. I comunisti, oltre ad
essere tra i vincitori della seconda guerra mondiale ed ancora in
forze, avevano in Italia partecipato alla Resistenza ed avevano
quindi diritto ad una rappresentanza nell’Assemblea Costituente.
Chi non lo sappia impari che ogni diritto è conseguenza di una
vittoria ed ogni dovere è conseguenza di una sconfitta. Dunque, i
comunisti non potevano mettersi fuorilegge da soli come hanno fatto
con i fascisti. Tuttavia l’Italia era stata liberata
sostanzialmente dagli Angloamericani e ne aveva dunque assunto il
sistema politico: la democrazia capitalistica, con misure socialiste
che erano già presenti nei paesi occidentali, volte a mitigare i
contrasti del libero mercato, sicché, anche se non esplicitamente,
la Costituzione metteva fuorilegge anche il Comunismo che, negante di
fatto i principi costituzionali, poteva essere imposto solo con la
lotta armata e dunque con una nuova rivoluzione. Non vi può essere
giammai alcun predominio Ideologico che non corrisponda ad un
predominio Fisico. Nell’essere umano e nell’intera natura, le
Idee e gli Atti viaggiano di pari passo, perché ogni Atto non è che
il tentativo di realizzare quell’Ideale che coincide con la nostra
Natura. I nostri ideali non possono cambiare, possono solo rendersi
più consapevoli nel corso della vita, ed un progresso ideologico non
è altro che un passo avanti nella rivelazione di noi stessi, che
però avviene solo parallelamente ad un progresso pratico, ad un
aumento dell’esperienza, sia negativa o positiva, poiché entrambe
ci illuminano circa le nostre mire. Questa è la ragione per cui è
stato detto e notato che le nostre posizioni politiche, già
identificabili da molti piccoli segni in giovane età, tendono nel
corso della vita non a correggersi bensì ad estremizzarsi. Il nostro
carattere ad assumere tratti sempre più solidi e decisi. I nostri
giudizi una sempre maggiore sicurezza e nettezza. I nostri difetti
una sempre maggiore evidenza. I nostri talenti naturali delle
manifestazioni sempre più grandiose, qualora li abbiamo potuti
coltivare. E così il piacere di considerare, in età avanzata, che
avevamo molta più ragione di quella che pensavamo di avere da
giovani. Allo stesso modo vediamo gli anni spogliarci di tutto il
fogliame idealistico eterogeneo che l’inesperienza ci aveva
appiccicato addosso temporaneamente, ma che non era l’espressione
del nostro midollo, proviamo il rammarico di aver inseguito cause ed
ambizioni che non ci appartenevano, aver ricevuto una educazione
inadeguata, subito influssi ambientali di ogni genere che ci
allontanavano dal nostro vero io, combattuto amici e frequentato
nemici, esserci fatti odiare per quello che non eravamo, talvolta
essere stati amati per quello che era solo un ingannevole involucro.
Appongo qui una lettera inviata
parecchi anni or sono da un ragazzo senegalese alla rubrica di
Umberto Galimberti su D di Repubblica, intitolata all’occasione
Alla ricerca del male.
Seguono il commento di Galimberti e poi
il mio.
Alla
ricerca del male
Scrive
Max Stirner nel suo libro L'Unico: "Perciò dico basta a ogni
causa che non sia interamente la mia causa. Voi credete che la mia
causa debba essere per lo meno la "buona causa"? Che cos'è
bene, che cosa male? Io stesso sono la mia causa, e non sono né
buono né cattivo. Queste distinzioni non hanno per me nessun senso".
di
Umberto Galimberti
Foto
di Maki Galimberti
Io
sono senegalese stronzo molto bellissimo geniale e frocio. Vivo con
un ragazzo italiano che è un po' come me (Marco ti adoro). Io faccio
il cubista nelle discoteche lui fa il fotomodello. Guadagniamo un
casino di soldi e siamo felici. I soldi sono la cosa più bella più
figa più importante del mondo, tutto il resto non conta se ci sono i
soldi perché con i soldi ci compri tutto (l'altro giorno Marco era
un po' depresso, io mi sono riempito le tasche di soldi ho preso la
mia coupé che ne compro una nuova all'anno e gli ho portato a casa
cinque travestiti). Coi soldi ci fai tutto. Chi è che lo dice che
tutto ha il suo prezzo? Un genio cazzo quasi come me. Io sono
orgoglioso un casino di me e anche del mio ragazzo: siamo belli pieni
di soldi e soprattutto senza neanche un po' di morale, siamo stronzi
egoisti lo diamo nel culo a tutti. I miei sono tutti giù in quel
continente di merda dell'Africa a crepare di fame. Che crepino tutti
porca troia! Prima di vedere una lira devono passare sul mio
cadavere. Tutto quello che guadagno me lo tengo per me e per Marco
(Marco ti adoro). Agli occhi di tutti io sono una merda umana e me ne
vanto: soldi piacere bellezza: è questa la mia vita e basta. Quando
si dice una persona schifosa si dice uno come me. Io mi ci crogiolo
nel male, nel male puro e semplice, nel disastro mi piace cadere in
basso che più in basso non si può, solo per il piacere di farmi del
male e di fare "il male". Mi piace il sadomaso e si vede.
Ecco non ho neanche le palle di dire come mi chiamo. Poi vedete tutti
che più schifoso di me non c'è nessuno e me ne vanto perché tutti
si vantano se sono migliori e allora io faccio il contrario perché
sono uno stronzo. La discoteca, l'ecstasy, il piercing, il culo di
Marco: il resto può crepare adesso che me ne frego.
Lettera
non firmata, Brescia
Commento
di Galimberti.
Lei
non è alla ricerca del male. Un lavoro troppo impegnativo per i suoi
mezzi culturali. Lei sta esprimendo in modo crudo ed esplicito quella
tendenza all'egoismo radicale sempre più diffusa nel nostro tempo, e
lo fa come può, saltando da un cubo all'altro delle nostre chiassose
discoteche popolate da quelli che il sociologo tedesco Falko Blask
definisce i "seguaci del fattore Q come caos" che, a
differenza dei loro predecessori della "generazione X",
ritengono che sia "meglio essere esagitati e attivi, che
sprofondati in un mare di tristezza meditativa, perché se la vita è
solo uno stupido scherzo, dovremmo almeno poterci ridere sopra".
Lei, caro senegalese, non cerca il male, semplicemente venendo in
Europa ha imparato che qui non vigono più regole, né morali, e che
l'unica certezza è nel fatto che in questo mondo, in qualche modo,
siamo vivi. E non ci sono altre verità assolute. Per quanto riguarda
il modo con cui nella sua lettera lei descrive l'amore, le garantisco
che non è il caso di attizzare il sesso in una società, quella
europea, dove da anni più non domina il pudore. Questa battaglia è
già stata vinta o persa da tempo. Non distinguendo più l'amore dal
sesso, lei non può più neppure sbagliare, perché è praticamente
impossibile fallire quando non ci si aspetta nulla più di quanto ci
accade. Comportamenti come il suo sono a prova di delusione perché
tutto quello che è accaduto prima e tutto quello che è accaduto
dopo è irrilevante: "Negli ultimi giorni non volevo aver più
niente a che fare con te, ma questo non è un buon motivo per non
divertirci insieme adesso". Con questo atteggiamento astorico
centinaia di migliaia di persone come lei, che quindi non è
l'"Unico" in questa nostra società europea, per conoscere
se stessi altro di meglio non trovano che foggiare il proprio corpo
ispirandosi agli attuali prototipi di bellezza, come se questa fosse
l'unica perfezione realizzabile senza ostacoli. In fondo il culto del
corpo unito al culto per il denaro soddisfa la smania egocentrica al
suo livello più elementare e costituisce, in mancanza d'altro, un
supporto all'io che si concepisce come il centro del mondo e il fine
ultimo di tutti gli sforzi. A chi, come lei e come molti giovani
della sua età, non è in grado di influenzare non dico il corso del
mondo, ma neppure le sorti del proprio vicino di casa, capisco che
non resta altro che prendere in mano le sorti del proprio corpo e
scambiarlo per il proprio destino. Ma non si dà destino per chi si è
liberato dal sentimento di appartenenza a una comunità, si dà solo
una successione di istanti all'apparenza felici, dove l'infelicità
finale non è bandita, è solo prorogata.
Commento mio.
La lettera del ragazzo senegalese è
bella nella sua sincerità, nella padronanza della sua logica
elementare e nell’eroticità che, figlia di un benessere e di una
forza vitale, detiene le condizioni del suo sfogo nella realtà
dell’autore e si traspone anche, con la stessa forza, nel terreno
artistico o letterario. È facile scrivere come il senegalese,
come è facile vivere come lui, ma non è sempre corretto, e non lo è
in questo caso, leggere il suo atteggiamento come animato dalla
premura di non subire delusioni: riferita a molte persone è
un’accusa fondata ma, se vogliamo essere sinceri, la maggior parte
degli uomini non sono idealisti mancati, arresi e rifugiati nel
disfattismo e nel carpe diem, ed il loro livello intellettuale non
supera di fatto quello di questo ragazzo, le cui ambizioni realmente
non vanno oltre quelle passioni da lui crudamente elencate, un
ragazzo che però ha avuto lo strumento, la bellezza del suo corpo,
per affermare questo disiato stile di vita senza pudore o
compromessi, mentre i tanti altri che sono simili a lui nella
mancanza di voglia di tormentarsi con grandi ambizioni, addirittura
incaponirsi in valutazioni morali sempre taglienti e fatte di
conflitti interiori ed esteriori, si appigliano all’immagine di chi
ha avuto la possibilità di vivere così mentre quel surplus di
riflessione che sono costretti a gestire col cervello è solo
determinato dalle materiali circostanze più avverse in cui essi
vivono, lontani dunque da quelle corsie privilegiate in cui il
senegalese si crogiola: ma il loro livello mentale intrinseco viene
tradito dai loro discorsi che soltanto cercano ma non riescono ad
esprimere qualcosa di più complesso, né loro stessi sono capaci di
tirarsi fuori dalle sue grinfie. Occorre dire che ogni superficialità
sgorga dalle profondità.
Nessuno può avere una bella cera,
qualora la sua interiorità non sia davvero sana.
La felicità di questo ragazzo è
reale. Ma non è autogena. La sottostruttura che gli consente di
vivere in questo modo è creata da altri che si pongono ed affrontano
problemi veri, e si organizzano per far arrivare ai privilegiati
tutto quello di cui hanno bisogno e di cui si pavoneggiano. Ognuno di
questi belloni edonisti e nichilisti è realmente felice perché,
paragonando il mondo ad un oceano, ha avuto in dono una tavola da
surf che gli consente di cavalcare le creste del mare in tempesta,
nell’ammirazione di chi li crede forti, evitando di cadere in acqua
ed essere subissato dalle perigliose correnti in cui si dibattono gli
altri. Tutto bene dunque, sino a che non si cade in acqua. Del resto
è la scommessa dell’egoismo. Sino a che stai bene, sinché la
realtà ti sorride, fino a che non cadi in acqua, sei un dio. Ma se
cadrai sarai perduto perché non hai imparato
a fare nulla, mentre tutti sanno che
prima stavi a galleggiare, nell’arroganza del galletto, perché
avevi qualcosa che ti sosteneva, e che non era certo il tuo nerbo
interiore. Se sei stato alle stelle senza essertele conquistate,
nessuno ti darà una mano quando cadrai. Non ti rispetteranno ed
anzi, forse scoprirai che non vedevano l’ora di vederti
sprofondare. Tu prima non sprofondavi nemmeno nell’angoscia della
vergogna perché quei giudizi sdegnosi che ricevevi dal prossimo non
ti ferivano, non avevi mai ambito ad essere migliore di ciò che sei
ed è vero che sei fiero di te stesso. Per non esserlo avresti
dovuto riflettere, ma si riflette soltanto su ciò che non si ama, su
ciò che non ci soddisfa, su ciò che sentiamo l’intima esigenza di
cambiare: tu hai chiuso l’accesso a tutto ciò che poteva far
soffrire nella mente e nella realtà, e vi hai chiuso gli accessi non
perché ti sentivi desideroso di affrontarlo ma troppo debole per
uscirne vincente, bensì perché tu davvero nella vita non desideravi
altro che ciò che essa ti ha concesso. Galimberti non riesce a dare
lo stesso erotismo alla sua risposta, pur dicendo cose più giuste e
che presuppongono un animo ben più attivo e profondo che si dibatte
in ben altri livelli di problematiche e analisi della realtà. Tale
realtà però essa non viene padroneggiata da lui, né realmente e
dunque nemmeno artisticamente, come invece lo è la realtà più
semplice del senegalese. L’astoricità da condannare non è quella
di chi vuol vivere il presente, ma quella di chi vuole curare il mal
di testa con la decapitazione, quella di chi pretende di eliminare i
problemi senza averli districati ossia risolti, quella di chi vuol
scordare il passato senza averlo realmente vinto e con la necessaria
gradualità. Il passato è insanità, possiamo essere felici solo nel
presente, alleggerendo dunque il suo fardello. Ma chi è trascurato
ed egoista è felice solo sulle spalle di chi risolve problemi,
magari distribuendogli addosso nuovi danni col suo atteggiamento
menefreghista. La maggior parte, ed in senso più profondo la
totalità, dei nostri bisogni viene soddisfatta dalla socialità,
poiché realizzare se stessi significa estendere il proprio ego in un
tessuto unitario a tutto ciò che di necessario sta nel mondo, a
tutto ciò che, senza che inizialmente lo sappiamo, anche se
istintivamente ci muoviamo verso di esso, fa parte di noi. Pertanto,
non è credibile un asociale che sia parassita della società da cui
finge di estraniarsi per qualche motivo. Quando si condanna la
mentalità antistorica, ce la si prende invero con chi si appropria
degli sforzi altrui nella risoluzione dei problemi. La conflittualità
e dunque anche la fatica del vivere si basano appunto
sull’individualismo, sulla non-collaborazione, poiché se tutti
collaborassimo allo stesso grande progetto, non avendo più nemici
tutti saremmo felici con un singolo gesto, non imposto ma desiderato.
Mentre la conflittualità stessa, dominante eppure suddivisa in
gradi, determina che gli idealisti, ossia i socialisti, si
sacrifichino di più, con intensità discendente in funzione del
livello di individualismo: il coefficiente della tua sofferenza
sarebbe infatti identico al coefficiente di individualismo che c’è
nel mondo ossia di disorganizzazione, che lascia lo spazio solo ad un
tutti-contro-tutti, ad una guerra generale in cui non vince nessuno,
se non fosse che in realtà l’individualismo giova dei socialismi
parziali operati da altre persone e di quelli più generali operati
di fatto dalle strutture politiche degli stati nazionali e delle
comunità internazionali, concesse tutte imperfezioni possibili, ma
la cui efficienza ed onestà è idealmente necessaria alla
realizzazione del concetto di interesse personale, mai svincolato
dalle sue condizioni ambientali.
Uomini eccezionali sono fatti in modo
da provare un tale fastidio per il mondo presente da prendersi la
briga di cambiarlo anche da soli.
Bisogna lavorare alla bandiera ed alla
spada. Tutti i fili che trascurerai al panneggio della tua bandiera
sono i fili in cui inciamperai nel corso della battaglia, quelli che
ti piomberanno nelle mani del nemico. Tutte le tecniche non
padroneggiate e le energie carenti ti faranno esitare perché non sei
te stesso e solo noi stessi possiamo immolare serenamente,
consapevoli che altri non possiamo servire. Facciamo tesoro di quanto
ci racconta la saga di Highlander. Egli era un immortale destinato ad
affrontare il Kurgan, ma non era ancora pronto, sicché Ramirez lo
addestra ed illumina, e lo protegge poi, si batte con Kurgan al posto
suo, e perde, perché più debole: era ormai tempo che la sua testa
cadesse. Gli immortali sono destinati a battersi con un altro
immortale, e la loro lunga vita certo ha dato loro il tempo di
diventare saggi e forti. Gli immortali attraversano come spettri le
linee frastagliate della storia, vi partecipano ma non sono
protagonisti delle singole epoche. Essi non devono rivelarsi perché
i mortali li odiano, e cospirerebbero per far cadere la loro
testa prima del tempo. Gli immortali non si odiano invece tra
loro: essi sanno che devono battersi, per realizzare una meta
superiore, e nulla li turba di questo destino, se non l’eventualità
che esso non si compia.
Qualsiasi principe viva perduto nel
mondo senza la alte mura di un palazzo a cingerne la vita, sappia o
saprà che quel mondo non lo ama. Si rivesta dunque da povero, in
ogni suo gesto o parola, ogniqualvolta sia aggiri in mezzo agli altri
uomini. La natura detta legge e la legge di una natura indiscriminata
è quella dello stridore, è quella di ognuno che vuol imporre la sua
legge laddove la sorte lo abbia messo. La legge del più forte
diviene quindi legge del più numeroso, in una civiltà non
gerarchica, sicché il volgo è principe in casa sua, seppure,
rimarrebbe volgo anche qualora espugnasse il castello e si ponesse
sul trono con rispettive sentinelle di vedetta alle alte torri. Ma
questo implica che anche tu sei principe dovunque la sorte
meni il tuo cammino. Allora prenderai istintivamente a comportarti da
nobile, e ti accorgerai che tutti, inizialmente incuranti, cominciano
a guardarti strano… Nelle corsie dei mercati, non resisterai
poi alla tentazione di tirare fuori dalla tua tasca delle gemme... Ne
estrai una rossa ed una verde… all’improvviso l’atmosfera
intorno a te comincia a farsi cupa…ora tutti ti stanno guardando
torvo…
Deluso, ti illudi che raccontare di
come vengano fabbricate e qual funzione abbiano nel regno possa
migliorare la tua posizione, ma l’atmosfera, da cupa, si fa adesso
tagliente e sulfurea...
Convinto che sia un problema di forma,
non ti arrendi e dall’altra tasca estrai adesso altre due gemme:
una viola e una gialla, e mostri loro che è possibile anche
assemblarle con una cassa metallica e creare una amuleto… Ti rendi
conto che adesso il loro sguardo fa davvero paura…
Nei loro occhi brillano lo stesso
rosso, lo stesso verde, lo stesso viola, lo
stesso giallo, e gli elementi metallici che iniziano a
tintinnare nelle loro mani sembrano assai più minacciosi del tuo
amuleto che appare ora impotente contro quel drago multicefalo che
sta montando nell’ira e raspando il terreno… A questo punto, se
vuoi aver salva la vita, rimettiti il cappuccio e corri più lontano
che puoi. Ma proprio rapido, che non ti prendano, come il cavallo di
Samarcanda…
Da cosa fuggiva il soldato? Non
dalla morte. La nera signora era la mediocrità, o se vogliamo
l’alienazione, e lui non poteva spendere la sua vita per servire
ideali altrui, non doveva morire in quella guerra né trattenersi
nelle gozzoviglie di vittoria e pace dei suoi pseudo compagni, egli
aveva ricevuto un monito, non poteva sottrarsi al suo destino per
ascoltare la banda, e giungere ad esso a Samarcanda era stato per lui
una gioia. Aveva attraversato prati poi campi poi un’alba viola,
aveva toccato infine bianche torri, e la morte aveva ballato tutta la
notte con lui, era diventata una figura amica, addirittura un’amante,
capace anche di materni consigli: perché bello e poetico è battersi
per i propri ideali, e adesso non lo induce a scappare, ma ad
incitare il suo cavallo che corra fiero contro il vento, perché
Samarcanda non è poi così lontano, ovvero la vita è breve,
verso il compiersi del proprio destino.
Elasticità significa che, per non
soccombere a pressioni esterne, gli esseri umani, come le molle, sono
capaci a deformarsi, sottinteso, che al venir meno della pressione,
tornano alla forma iniziale con una rapidità caratteristica. Se tu
hai un’anima di destra e ti fanno leggere quaranta testi di
sinistra senza soluzione di continuità, tu avrai una progressiva per
quanto restia deformazione in quella direzione: chiaro che appena
questa forza trainante svanisce, te ne torni come prima e, se aiutato
dall’improvvisa lettura anche di un solo testo di destra, la
rapidità fresca ed argentina con cui si ricompone il tuo regno sarà
stupefacente e tu ti senti di nuovo a casa: ecco che non vorrai più
nemmeno guardare la copertina di un libro di sinistra. Se ti fanno
sentire ovunque musica che non si confà alle tue orecchie, finirai
per fartela piacere, ma basteranno poche note improvvise di una
musica affine alla tua anima perché tu provi un’emozione
imparagonabilmente più piacevole e tu non voglia più sentire altro.
Se tu stai con un gruppo di gente con cui non ti diverti, finirai,
insistendo, per divertirti: ma non appena incroci uno stralcio di
dialogo con un fratello di spirito, manderai al diavolo in un
istante, con indignazione, la mala compagnia. Se tu stai con una
donna che fin dall’inizio non ti convinceva più di tanto,
imparerai ad apprezzarla, ma non appena ne vedrai una davvero
attraente, te ne innamorerai e non vorrai sentir più parlare
dell’altra, ai cui difetti ti eri abituato fino a vederli meno
brutti ma che ora, a confronto con i pregi della nuova, ti sembrano
ripugnanti nella loro essenza. Se tu sei costretto a portare un paio
di scarpe scomode, a furia di camminare, tra un callo del tuo piede e
uno stiramento della tela, ci camminerai quasi bene, ma se finalmente
puoi togliertele e infilarti quelle che ti calzano a pennello,
l’adattamento è immediato di gratitudine e le vecchie le
scaraventi fuori dalla finestra. Tutto questo se la molla non è
stata deformata oltre il suo limite elastico, da farle perdere dunque
la sua natura di molla, trasformandola in un pezzo di ferro piegato.
Un trauma, dunque, troppo intenso, ti snatura ed allora non sei più
responsabile di come reagisci. Un uomo è veramente responsabile dei
suoi atti solo quando è completamente sano, ossia è pienamente se
stesso, e dunque l’atto è stato compiuto solamente da lui. Ma ogni
fastidio, problema fisico, psichico, alterano la natura temporanea
del soggetto, immettendo in esso le contingenze, ossia le
impurità, quegli elementi, dunque, che deresponsabilizzano il
soggetto e responsabilizzano soltanto la creatura ibrida che vi si
era sostituita. In tal caso non esiste la responsabilità parziale,
poiché ad ogni causa corrisponde un effetto, ad ogni azione
un agente, fosse anche composto, ma unico nella possibilità
di produrre quell’evento, giacché se manchevole di anche un sol
elemento, esso non si realizza. La bravura di un giudice sta dunque
nell’affinare lo scrutinio e cogliere esattamente chi ha
commesso che cosa. Il pentimento sincero è un chiaro sintomo
d’innocenza: noi non abbiamo voluto il risultato della nostra
azione. Non eravamo puri dinanzi ad essa, noi stavamo appunto
gettando fuori di noi la colpa, l’elemento estraneo che si era
impadronito di noi, condizionando il nostro agire. Ma nemmeno questa
colpa, da sola, è imputabile del nostro atto. Invece l’entità
che ha consentito la compresenza di questi elementi eterogenei è
il vero e solo responsabile di quanto è accaduto. La priorità degli
organismi è quella di gettare fuori gli intrusi: quando saremo pieni
di noi, quando saremo puri, ecco che potremo volgerci alla battaglia
esterna, altrettanto necessaria e però questa volta rivelatrice
della nostra natura di cui siamo imputabili, in quanto unici e veri
agenti. Quando giuridicamente si dichiara un uomo temporaneamente
incapace di intendere e volere, ci si riferisce appunto a quella
momentanea perdita della propria identità, che di fatto ci esime
dalla responsabilità dell’atto. Ritornati in noi, ecco che il
nostro giudizio sull’accaduto rivelerà quello che volevamo
veramente, in quanto soggetti pieni di sé. Quando la molla è invece
sformata, quando siamo stati privati del nostro carattere in maniera
permanente, smettiamo di essere quel preciso uomo che prima eravamo,
e non siamo più responsabili di nulla presupponga il nostro
carattere umano.
Sentirsi in colpa dopo un atto
compiuto è paradossale, perché nello stesso momento in cui lo
riteniamo un atto spregevole e dunque estraneo a noi, ecco che siamo
tornati in noi stessi ed abbiamo scacciato la colpa: l’intruso che,
inquinandoci, ci ha condotto a quell’atto. È chiaro che di fronte
a noi stessi non possiamo, senz’altro, sentirci in colpa, ed il
sentimento che indichiamo con questo nome è invero la preoccupazione
del disonore, ossia che altri ci considerino responsabili, volontari
esecutori di un atto dannoso, dunque ci prendono per quelli che non
siamo, giacché non è possibile deprecare se stessi, ma appunto solo
ciò che non ci appartiene. Quello che si presenta in noi dunque è
un senso di colpa nuovamente eterogeno, provocato da chi vuol
rimettere in noi, pensando appunto al passato, quelle impurità che
hanno armato la nostra mano, dopo che già noi le avevamo espulse: ma
loro invece ci scambiano per ciò che non siamo e pertanto non le
considerano impurità, ma precise caratteristiche nostre. Tale
sentimento si cura soltanto con la correzione del giudizio del
prossimo: non dobbiamo lavorare su noi stessi, noi siamo già puri,
già liberati, ma un soggetto esterno cerca nuovamente di snaturarci
e noi dobbiamo impedirglielo. Noi ci sentiamo in colpa solo tramite
la percezione di questo suo pensiero, di come lui ci rappresenta.
La giustizia era unitaria per il
semplice fatto di essere giusta. Un intervento esterno ha
scompaginato i ranghi e da allora ogni elemento ha reagito
istintivamente per ritrovare il suo posto. Dalla riuscita di queste
egoistiche azioni dipende la realizzazione del panegoismo e dunque
della nuova giustizia, poiché in ogni essere vi è un pezzetto di
qualsiasi altro, sicché nessun uomo riesce a purificarsi senza che
tutti gli altri anche siano purificati, abbiano preso da noi ciò che
loro spettava ed in noi deposto ciò che spettava noi. Non è
corretto dir che la bilancia pende sempre più a favore della
ingiustizia nella misura in cui un legame si spezza e da un ente se
ne compongono due, che dunque il mondo è tanto più infelice quanto
maggiormente plurimo: poiché dovunque si abbia una divisione, anche
vi è una unificazione in qualche altra parte del cosmo, senza che il
morbo originario sia però stato eliminato ed il mondo resti
conflittuale in quanto non unitario. Tutte le ingiustizie
scaturiscono infatti da quella originaria, ed il conflitto riposa
unicamente tra il numero Due ed il numero Uno, con quest’ultimo che
si vede dividere per il primo ancora ed ancora, ma invero sempre ed
una sola volta nella sua globalità, e nella stessa globalità esso
reagisce, mettendo in moto ogni singolo essere. Lo spirito unitario
di tutti questi esseri frammentati, ossia la sempiterna presenza in
ognuno di loro di una ambasciata d’ogni paese, li porta a comporre
sempre nuovi ed insoddisfacenti legami, sino a che soltanto la
soluzione dell’enigma non sia trovata e la reazione globale del
cosmo non sia quella che annulla la spinta centrifuga originaria. È
errato affermare ciò che par ben giusto, ossia che per realizzare
la giustizia occorre effettuare a ritroso il percorso stesso
dell’ingiustizia, nel preciso ordine inverso con cui siamo stati
contaminati. Noi notiamo infatti che, quando le strade son
bloccate, siamo naturalmente portati a compiere grandi manovre ed
imboccare lunghe deviazioni tortuose, che ci portano anche molto
lontano, ma che ci consentono un immediato superiore benessere, prima
che arriviamo a risolvere un vecchio problema che appariva
prioritario. Ed ecco il Segreto: noi affrontiamo invero sempre per
primo il problema realmente prioritario, anche quando
trascuriamo un problema che ad altri sapienti parrebbe esserlo senza
alcun dubbio, poiché per il cosmo e dunque anche
per noi era bene che noi ignorassimo quella visione e
trascurassimo tale azione, ci dedicassimo invece a qualcosa d’altro,
quello a cui ci siamo effettivamente dedicati, anche se ciò ha avuto
conseguenze localmente terribili, che ci fanno tutti gridare
all’Errore. Il cosmo non sbaglia, perché non ha alternative, se
poi le avesse, non potrebbe sbagliare, poiché esse sono soltanto due
e lui è la prima, la seconda è un nemico, quell’intruso alieno,
quell’estraneo che vuol imprimere la sua natura duplice a tutto il
nostro mondo che invece vuol con tutto il cuore essere uno, ed allora
in ogni cuore brama tornare tale dopo che è stato diffranto. Vi deve
essere una autorità superiore a questa battaglia, un tribunale
celeste adibito a sentenziare questa guerra dei mondi, dal quale il
nostro mondo Unitario si vede respingere infiniti appelli, tanto
potente è stata l’accusa primigenia. Ogni nostra nuova
configurazione quotidiana, modificata rispetto alla precedente, è
un’arringa dell’avvocato del nostro mondo per respingere la
granitica e crudele richiesta dell’accusa: che il nostro mondo
deve essere Duale. Ma noi respingeremo per sempre questa condanna
e paradossalmente la sconteremo proprio avversandola. Giacché, il
tempo è prerogativa di ciò che è plurale, noi siamo nel carcere
cosmico a guerreggiare tra noi, il sigillo dell’Altro Mondo è
stato posto anche sul nostro, ma una volta scontata la condanna, una
volta trovata l’Arringa Suprema, saremo restituiti alla nostra
forma di esistenza ed allora non esisterà più ciò che nel gergo di
un mondo soggiogato allo straniero e dunque spurio anche nel
linguaggio, che ad esso appartiene, abbiamo chiamato Tempo: dire che
noi saremo eterni in tale forma di esistenza, non avrà significato,
ed altri mondi anche saranno eterni a modo loro, ossia non saranno
altri che sé stessi, ognuno avrà la sua beata eternità,
giacché il tempo è relativo, pertanto reale solo laddove esistano
relazioni. Come può però esservi una guerra tra due mondi, dei
quali il primo abbia come principio la pace ed il secondo appunto la
guerra, senza che, per questo stesso fatto, il secondo abbia vinto?
Esso ha vinto e perso contemporaneamente, ossia vinto
temporaneamente, sul mondo nel quale ha creato il tempo, e perso
eternamente, contro ciò che, unitario anche nella sua
frammentazione, e vanificata quest’ultima dal fatto che in ogni
frammento è conservato l’intero, conserva la sua natura. Ma,
viceversa, come può un mondo pacifico rimanere in pace isolandosi
nel suo loco cosmico, come separato da una cosmica cesura, ed
ammettere quindi l’esistenza di un Altro mondo, dove vigono
principi opposti, quando il concetto di alterità deve implicare la
guerra e continui ad aver senso solo in un universo ancora non
organico? Se ogni cosa trova il suo posto, i Molti divengono Uno.
Tuttavia, come lo spirito unitario si conserva anche quando è
vittima della frammentazione, lo spirito duale si conserva anche
quando è vittima di unificazione, dunque quei frammenti che noi
abbiamo cucito in una veste siano destinati a disgregarsi, se la
materia di cui sono fatti i due mondi che abbiamo posto è diversa.
Essa vuole,
nel primo mondo, incollarsi, nel
secondo, scollarsi. Come non si può fare una guerra tra la guerra e
la pace, così non si può fare una pace tra la pace e la guerra. Due
mondi intrinsecamente dissimili, che interesse hanno ad unificarsi?
Perché il mondo duale dovrebbe aver interesse a colonizzare il mondo
unitario, ed il mondo unitario a colonizzare il mondo duale? Perché
il mondo duale dovrebbe universalizzare la propria bellicosità, ed
il mondo pacifico universalizzare la sua pace? Il concetto di
universalizzazione presuppone una affinità intrinseca, ed una
diversità solo estrinseca e dunque dovuta alla posizione, ma non può
essere applicato ad entità intrinsecamente diverse. No, non è
possibile vittoria alcuna dell’uno sul due, né del due sull’uno,
vittoria nel senso di annientamento del nemico tramite assimilazione
dello stesso. Gli elementi estranei vanno dunque soltanto scacciati
dai rispettivi mondi, comunque vi siano finiti, perché non potranno
creare altro che problemi, non hanno un ruolo positivo in tal mondo
come invece hanno tutti gli elementi autoctoni, positivo perché
appunto unitario nel fine. Tutti gli autoctoni collaborano, infatti,
opponendosi al contrasto che li ha opposti per mano aliena. Forse noi
abbiamo tentato di unire in epoche precontaminate ciò che non poteva
essere investito dalla nostra pace ordinata, e tale avulso mondo ha
reagito cercando di distruggerci, mandato degli emissari a
corromperci, come noi dovevamo aver fatto con loro. Dunque vi erano
paci o guerre non completamente pacifiche o non completamente
conflittuali. Forse che da tempi prima del tempo vi fosse un
contingente straniero in ciascun mondo, e che per riagguantarlo a sé
si sia arrischiata una battaglia cosmica che ha rischiato di far
collassare tutto? Qual mai entità superiore, qual Dio, aveva posto
questa incompletezza? Qui le nostre indagini si fermano, come a
chiedersi Schopenhauer come si fosse originata la volontà: Egli non
poté rispondere, ammise il suo limite e lo vide coincidere con
quello della Filosofia.
Egli poté constatare quello che era
innegabile, la Volontà, e trarne tutte le conseguenze:
era un filosofo, un luminoso, fedele
specchio della realtà, la cui immagine doveva essere riflessa a
tutto il mondo che viveva avvolto in tenebre di menzogna, ed accettò
con onore questo ruolo.
Ma capì che su questa realtà
non ci si poteva interrogare oltre, la natura non può interrogarsi
su se stessa, il soggetto è il non plus ultra, non può
essere anche oggetto. Ogni volta che nelle manifestazioni
riconosciamo l’elemento costante, lo spirito animatore, siam giunti
al capolinea.
A tal natura dobbiamo, adesso,
solamente adempiere.
Chi si sente in colpa non ha
colpa. Ogni colpa è impurità, ogni impurità è incompletezza, è
uno stato non totalitario e dunque il senso di appartenere ad un
mondo che non combacia completamente con la nostra natura, ora reso
ancor più lontano da essa grazie ad un gesto che abbiamo compiuto
non per volontà nostra ma per volontà di qualcun altro, dunque
sotto l’effetto di un inganno: noi non abbiamo mai voluto
quell’azione, ossia l’insieme di effetti che essa ha avuto, ma
solo il senso che essa aveva per noi, dunque la nostra intenzione. È
giusto fare il processo alle intenzioni, perché se queste
differiscono dalle conseguenze materiali, non ne siamo noi i
responsabili, ma soggetti esterni. La nostra natura risente di tutte
le colpe, ossia di tutte le impurità, ossia di tutte le
incompletezze, di tutte le zone del mondo o del proprio corpo che
siano ad essa difformi. Il fatto che noi, percependo una zona dolente
del cosmo non proviamo lo stesso dolore di essa, ma un dolore
diverso, è perché noi non siamo pienamente quel corpo ma esso è
solo una nostra componente verso la quale la nostra persona fisica ha
per natura un differente ruolo, e soffre in tal caso di non poter
intervenire. Nel senso di colpa che solo ci sprona all’azione si
manifesta un legame tra elementi disparati, ossia inframmezzati di
elementi estranei, ed essi ambiscono ad unirsi, a completarsi, sicché
nel senso di colpa tutti gli uguali sentono lo stridore causato da
tutti gli ineguali. La nostra natura si realizza infatti solo
globalmente, parte di essa è nel mondo, e noi dobbiamo
appropriarcene per uniformarla, dobbiamo conquistare il potere di
agire su di essa, dovunque la colpa si trovi. Anche le debolezze
contingenti non sono le nostre. Gli altri ci hanno reso deboli, ma
non lo siamo intrinsecamente. Gli errori che facciamo perché siamo
in una situazione o condizione ingiusta non ci appartengono. Noi
abbiamo sempre la stessa intenzione: perché abbiamo solo uno
scopo, corrispondente con la nostra forma mentis e dunque con la
nostra natura. Fare il processo alle intenzioni significa dunque fare
il processo alla natura. Le intenzioni contingenti non sono la nostra
intenzione, noi siamo stati ingannati, noi siamo deboli
contingentemente e dunque la nostra percezione del mondo era impura.
La percezione incompleta è impura perché fallace, e proficua invece
per il nemico, ed invero voluta e provocata dai nostri nemici.
Possiamo usare quando vogliamo i termini impuro e incompleto come
sinonimi.
Noi siamo un corpo che deve essere
integro nei suoi componenti e dunque perfezionarli per adempiere alla
sua natura che è indistruttibile, e che tutto respinge ciò che non
le è affine per accogliere invece tutto ciò che le è affine.
Quando un uomo muore si rivela il fatto che egli era una natura
temporanea che serviva alla natura eterna e quindi onnicomprensiva
per ottenere la sua completezza, era un mezzo per il suo fine, cui
possiamo togliere l’aggettivo possessivo perché superfluo in un
mondo mono soggettivo e dunque oggettivo, come superflua era
diventata ormai la sopravvivenza di quell’essere, non più capace
di servire la meta e dunque sacrificabile. Ciò che è necessario
alla pace non muore mai, quelli che muoiono non sono più necessari,
è stupido rimpiangere il ruolo che avevano ricoperto, perché
saranno certamente sostituiti da qualcos’altro.
Il nostro corpo è pronto ad accogliere
oggetti affini e respingere oggetti estranei. Quando non ne ha la
forza sufficiente, esso accoglie od espelle quello che riesce, con
l’azione del suo organismo pensante che si rischiara parzialmente
nell’atto in cui, espellendo ed assorbendo, ristabilisce equilibri
alterati dall’esperienza, e questo avviene quando diciamo di aver
trovato un nuovo assetto, quello che ci consentirà di
affrontare meglio la prossima arena di battaglia, operando una
espulsione più completa o più completa acquisizione. Ogni oggetto
con cui siamo entrati in contatto ha generato uno scambio materico la
cui positività o negatività è determinata precisamente. Quando un
oggetto ci ha fatto del male e noi ne vediamo un altro simile,
intanto lo possiamo vedere simile solo nella misura in cui esso è
effettivamente simile, e la nostra visione è immediatamente
giudiziale e dunque reattiva, poiché il percepire fa parte
dell’essere e dunque dell’agire. Inoltre noi reagiamo in maniera
anticipata solo perché esso agisce in maniera
anticipata, battendo un secondo solco su quello precedentemente
inciso dal suo simile, che non era stato colmato, e costituiva una
insania gestita ottimamente dal nostro corpo che l’aveva messa in
sordina, racchiusa in un’ansa dalla quale essa non estendeva il suo
danno, giacché, quando invece le sue capacità espulsive fossero
complessivamente aumentate, affinché un soggetto fosse superiore al
nemico esterno, esso avrebbe automaticamente effettuato il
risanamento della zona. Un oggetto deve essere giudicato ossia
combattuto oppure accolto il prima possibile, poiché egli è, senza
eccezione, una minaccia o una occasione, un male oppure un bene, un
nemico oppure un amico. L’aumento della saggezza corrisponde alla
capacità di identificazione dei nemici, ossia alla previsione degli
eventi che conseguono necessariamente da un preciso grado di
diversità tra soggetti che si incontrano, dunque la capacità di
compiere scelte opportune o inopportune, dovuta al fatto che si è
sperimentata più profondamente la realtà, e quello che ci era
sembrato identitario nella sua parzialità era invece solo una
propaggine di qualcosa di molto più grande, molto più benefico
oppure molto più malefico, da giudicare poi tale o talaltro nel suo
complesso. Il saggio riconosce quello che c’è dietro un volto, un
atteggiamento, una parola, un evento, con quanti altri soggetti ed
eventi sia questi collegato, e dunque cosa rappresenta davvero per
noi accogliere oppure respingere ciò che abbiamo di fronte nella sua
superficie. Se conoscere significa assimilare, riconoscere
significa riassimilare, dunque reagire di nuovo come si
reagisce ad un nemico o ad un amico, però con la nuova forza
complessiva che abbiamo acquisito nel percorso esistenziale. Memoria
è sinonimo di Frustrazione: essa è il serbatoio apparentemente
unitario di tutte le insanie presenti nel nostro organismo. Il dolore
è la sensazione di una presenza malefica non completamente espulsa
dal nostro corpo, o della presenza incompleta di un oggetto del
bisogno. La nostra conoscenza è memoria, perché conoscere significa
assimilare, e l’assimilazione si snoda in atti di accoglienza ed
atti di espulsione. Le nostre forme a priori di conoscenza sono le
forme a priori del nostro spirito, ovvero le forme a priori del
nostro corpo, le sue caratteristiche che determinano il destino
accogliente od espulsivo che riserveremo a tutto ciò che
incontreremo nel nostro cammino. Non si può dunque conoscere senza
reagire, ed un appello alla conoscenza oggettiva è soltanto una
astuzia di chi vuole sottrarsi alla responsabilità del proprio
interesse verso un oggetto, della propria volontà di intervenire su
di esso coerentemente con la propria natura, dunque ascondere
quest’ultima affinché nature avverse epperò più forti non
reagiscano a noi in maniera ostile. Appellarsi alla conoscenza
oggettiva significa altresì impedire ad un uomo di essere sé stesso
affinché agisca invece per conto di un altro, sottoposto quindi ad
una motivazione che non è quella scatenata dal contatto con
l’oggetto stesso, ma con qualcosa d’altro di cui egli sia
suscettibile, ed il suo ruolo di giudice è dunque soltanto apparente
ed il suo giudizio insincero, giacché egli non rappresenta se stesso
ma qualcosa di estraneo. Ogni carica rappresentativa illustra il
fallimento della civiltà. Un uomo deve rappresentare se stesso,
qualora assuma una carica, non un principio estraneo. Se quel
principio è giusto, egli stesso deve essere quel principio,
altrimenti non avrebbe mai dovuto assurgere a quel ruolo. Ma dacché
un principio politico degenere permette che chiunque possa assumere
qualunque ruolo, chi in origine ne pose la deontologia ossia né fu
l’identitario ha dovuto spersonalizzare i futuri incaricati che,
naturalmente avulsi a quella responsabilità, non vi avrebbero mai
adempiuto e li ha resi dunque rappresentanti di qualcosa di estraneo,
in altre parole di sé stesso, tramite il principio dell’oggettività.
Sii oggettivo significa togliti di mezzo, non sei l’uomo
giusto ad operare il giusto, non ci possiamo fidare di te.
Quest’uomo viene dunque posto in una situazione di alienazione,
perché non può svolgere il suo lavoro con piacere, non
corrispondendo questo all’affermazione delle sue naturali pulsioni.
Tutto ciò che viene condannato, è
perché danneggia un interesse materiale del condannante. Un
principio etico astratto è l’espressione verbale di una identità:
esso racchiude e prescrive infatti l’essenza di questa identità
ossia i comportamenti che questa assumerebbe a contatto con le
circostanze della vita: quelli che i nostri nemici temono e dunque
condannano.
Andare avanti significa risalire un
fiume che non doveva sgorgare, riportare le acque all’immoto lago
originario.
Colpa significa impurità. Noi sentiamo
tutto ciò che stiamo cercando di espellere.
Cerchiamo di espellere tutto ciò che
non ci appartiene ed è dunque inaccettabile. Quando ci sentiamo
in colpa gli altri entrano dentro di noi. Ma non è
possibile volgere l’aggressività verso se stessi: il soggetto non
può essere anche oggetto. Il suicidio è comminato dal mondo esterno
e noi non ne siamo che gli esecutori passivi: non c’è una scelta
in mezzo. I soggetti esterni hanno individuato in noi, nella nostra
essenza quindi e non in qualcosa di contingente, il Male,
quello che non collima con la loro natura, che la minaccia dunque ed
è da eliminare. Noi non percepiamo noi stessi come male, perché ciò
è impossibile: semplicemente siamo troppo deboli per opporci alla
mortificazione che avviene ad opera dei soggetti esterni. Possiamo
sbagliarci solo sugli altri, non su noi stessi: perché noi
percepiamo gli oggetti, non il soggetto. Giudichiamo i primi, non il
secondo, che è invero il Giudice. Noi non sappiamo chi siamo, ma
agiamo secondo le sue direttive. L’atto suicida non è una
decisione, ma la mera conseguenza della nostra reale debolezza nei
confronti del mondo esterno. L’uomo aborre la morte, non può
desiderarla, nessuno vuol perire, ma ci è costretto quando è
malvisto e troppo debole. Noi in realtà cerchiamo di scacciare la
morte con tutte le nostre forze. Possiamo sentirci male quanto è
possibile, ma quando arriviamo alle strette, quando arriviamo al
dunque, quando la macabra uscita di scena si avvicina o magari ne
abbiamo gli strumenti a portata di mano, noi ci rendiamo conto che è
una cosa inaccettabile, che non vorremmo affatto compierla, che non
vi è nulla di attraente. Anche quando le circostanze si aggravano
drammaticamente, invero noi ci sforziamo di visualizzare più vie di
fuga possibili, elementi di realtà che consentano di nuovo la
speranza di vittoria e scaccino la necessità di farla finita.
Gli altri possono entrare dentro di te
con la prepotenza o con sottile inganno. Camuffati da amici (verità
= affinità) essi entrano nel tuo corpo impossessandosi delle sue
interfacce col mondo esterno, oppure riescono a penetrare sino nel
cuore, ed allora tutto il resto dell’organismo deve sbattersi:
agire o ragionare per espellere l’intruso. In forza della nostra
alterità, ossia in forza di ciò che per gli altri è debolezza,
essi ci considerano materiali di scarto, escrementi. In noi stessi
compare l’elemento fecale solo nell’ambito dell’attività
escretoria, ma il nostro stesso essere non può essere fecalizzato:
quando ci sentiamo delle merde, e non per contingente degenerazione
ovvero già per le influenze contaminanti riversate in noi dal
prossimo, ma proprio per la nostra natura che, in posizione
subalterna, pretenda di inseguire il suo ruolo naturale rompendo i
ranghi, noi in realtà stiamo subendo la pressione esterna di gente
che non solo può impedirci di agire come vogliamo, ma addirittura
annientarci minando le nostre difese immunitarie, appropriandosi dei
nostri gangli vitali, o dei nostri pensieri, sino a che, col
suicidio, le zone occupate dagli avversari stroncano gli ultimi
baluardi della nostra resistenza identitaria: a questo punto essi non
sono diventati noi, si sono invece appropriati delle nostre sostanze
dopo aver scompaginato quell’unione caratteristica che ci
rappresentava. Ma dicevamo che il nostro pensiero può essere
modificato di prepotenza con un giudizio secco: ci viene imposto un
giudizio, non argomentato, ossia non sostenuto da altri. Noi possiamo
rispondere con un giudizio inverso e altrettanto energico.
Oppure con una argomentazione: ossia
con il sostegno di altri. Se uno sostiene che Socrate sia immortale e
si limita a gridarci: Socrate è immortale!
Noi possiamo superarlo in forza e
rispondere: Socrate è mortale!!
Oppure dire: Tutti gli uomini sono
mortali (e ci stiamo arruffianando l’appoggio dell’intera
umanità), Socrate è un uomo (seconda spalla d’appoggio), quindi
Socrate è mortale. Stiamo letteralmente ammazzando Socrate:
cacciandolo a forza all’interno di un insieme di uomini destinati a
morire. Oppure, se siamo deboli di argomenti affermativi, possiamo
usare la dimostrazione per assurdo. Se Socrate fosse immortale
[ la forma condizionale concede l’ingresso del prossimo dentro di
noi, ma solo per tendergli una trappola ] non avrebbe insegnato
l’immortalità dell’anima…
Se noi siamo più forti per natura,
amiamo la verità istintivamente poiché in essa non vediamo altro
che la nostra forza ed il suo necessario trionfo. Ma solo il debole
che già è subalterno accetta la sua posizione, e la accetta in
quanto che il nobile nella sua locazione naturale non gli fa alcun
danno ma anzi opera nel suo interesse, mentre nel calderone non
gerarchico, tutti sono in battaglia e lo sono per il predominio, il
potere politico, l’apicalità, giacché vede tutti i diversi come
inferiori.
Supponendo dunque egli che ogni virtù
del forte, et sia essa ideale o fisica, venga rivolta contro di lui,
egli non può che percepirla come debolezza, ed allora il debole non
può che desiderare la sconfitta del forte: per ottenere dunque
vittoria, in questa necessaria lotta, egli non può far altro che
camuffarsi da forte. Egli deve essere meschino, e trasfigurar
se stesso e l’avversario. Può attaccarlo dopo averlo colto in
circostanze sfavorevoli e avergli messo contro compagini di elementi
che da soli non avrebbero mai potuto sconfiggerlo.
La sopportazione di uno stile di vita
imposto dalla volontà del prossimo significa essere temporaneamente
deboli ma non aver rinunciato alla vittoria e dunque alla
liberazione.
La dimostrazione, però, che la nostra
non è rassegnazione, è la linea di tensione che si mantiene
attiva nell’arrestare l’avanzata del prossimo volta a
spersonalizzarci, alienarci, conquistare le nostre sostanze avendole
finalmente sotto il suo controllo in piena disposizione. Parte della
nostra azione deve quindi trovare la possibilità di dispiegarsi
contro corrente, in qualche corsia protetta o poco visibile:
giacché non è possibile pensare controcorrente, e dunque
mantenere vivi i propri ideali - laddove non si agisca,
anche, controcorrente. Il nostro pensiero e dunque la nostra azione
devono pertanto continuare a lottare per respingere quelli estranei,
ripetendo anche ossessivamente le proprie argomentazioni con la
stessa frequenza con la quale ogni giorno veniamo attaccati dalle
loro, che si ripresentano tali e quali nella loro prepotenza,
erroneità, nocività: perché altrimenti la avranno vinta:
cambieranno il nostro modo di pensare nella precisa misura in cui
continuano a determinare il nostro modo di agire. Se noi smettiamo di
opporre resistenza, certamente soffriamo meno: ma la conseguenza è
di venire assimilati. Ad esempio, quando noi siamo legati ad un
dovere che non ci appartiene, ed all’interno di esso ci ritagliamo
degli spazi per fare altro, il nostro dovere naturale, noi ci
sentiamo in colpa. Cosa significa questo? Che noi percepiamo di
aver avuto una negligenza (conseguenza dell’alterità) nei
confronti del dovere eteronomo, che ce lo siamo potuti permettere
temporaneamente, ma che dovremo recuperare il lavoro negletto in
quanto il potere materiale esterno è ancora vigente, anche se non ci
ha controllati con rigore, e potrà dunque imporci quella fatica ora
aumentata perché concentrata. Esso potrà, inoltre, con la sua
azione barbarica, infliggerci una punizione per il nostro affronto:
perché non abbiamo rispettato le sue condizioni, la sua autorità, e
quando una nazione debole non paga i suoi debiti ecco che quella
dominatrice può usare la forza per schiacciarla o per disporre di
lei anche priva del consenso.
Il primo segno di
una nobiltà che matura è cogliere al volo ciò che è ignobile.
Ma il dominio
fattuale dell’ignobiltà confonde il nobile sull’identità
propria ed altrui. Anche qualora la chiarezza sia di nuovo giunta,
una deviata mentalità martirica spinge il nobile a corrompersi e
sforzarsi per nobilitare
il prossimo: nulla di più vano. Il volgo non può
che essere volgare e volgarizzare ogni cosa che tocca. Il nobile è
tale in quanto sa discernere cosa è da preservare e cosa è da
combattere. Ma un lungo apprendistato lo attende a questo proposito,
anche verso la comprensione della misura in cui deve di fatto
preservare sé stesso
e i suoi fratelli. Mettere ognuno al proprio posto: questo significa
coordinare. Si tentava di nobilitare l’ignobile solo poiché questo
aveva assunto un ruolo ed un potere che non meritava.
Questione
di chimica. Quando una sostanza
nobile entra in contatto con una sostanza volgare, avviene di solito
una reazione dagli effetti assai sgradevoli e perniciosi.
Democrazia
è la parola più sporca e orrenda del vocabolario italiano. Essa
racchiude l’essenza del crimine. Non già come la più blanda
anarchia,
che può presentarsi anche come il sano istinto radicalmente
dissolutivo di un ordine sociale fallimentare: purché essa aneli
però ad una più giusta ricostruzione, e non disperi di essa
abbandonandosi pigramente ad un individualismo idealizzato,
essenzialmente pessimista, il quale contrasta non già solo col buon
senso, bensì con gli istinti naturali e con la teleologia insita
nell’esistenza. Non esiste invece, nella società, evento più
nefasto dell’universalizzazione di
un diritto elitario. Essa equivale
ad una sua volgarizzazione. Democrazia significa di fatto inversione
della gerarchia sociale: potere legislativo, potere esecutivo, potere
giudiziario messi in mano al volgo. Tematiche profonde e delicate,
per risolvere le quali spesso non bastano le energie, la
raffinatezza, il coraggio, la pazienza e il consumato esercizio dei
pochi individui che nelle varie epoche possono chiamarsi
intellettuali, e che possono spesso interloquire solo attraverso un
libro lasciato in eredità al secolo successivo: tali questioni
maneggiate brutalmente dagli individui più gretti ed irrispettosi
verso di esse. Visibilmente poco amorevoli e devoti, ma sbrigativi,
impulsivi, egoisti, talvolta per giunta beffardi e spocchiosi,
costoro violentano
ciò che dovrebbero curare come la propria amata: esse questioni
vengono presto risolte in quella che non può essere altro che uno
scempio e un’ingiustizia, una non-soluzione che peggiora i problemi
e miete vittime, fiera e inconsapevole. Democrazia significa altresì:
spiriti nobili gettati in pasto all’opinione
pubblica. Soffocati, condizionati,
spaventati, governati, ostacolati, amministrati, giudicati, feriti e
puniti da essa. Ma che dico! Ogni
evento tramite la stampa e il passaparola diviene soggetto a tale
opinione pubblica in nome di un “diritto all’informazione” che
nessuno si è mai preso la briga di giustificare adeguatamente.
L’opinione pubblica diventa lo spauracchio ed il pericoloso giudice
con cui ognuno pensa di dover fare i conti: e così è. Nel mondo
moderno vige l’Egemonia del Commento. Se fosse calcolabile il tempo
che passiamo, immersi nelle nostre faccende, a preoccuparci
dell’impatto che daremo sull’opinione pubblica e della reazione
di questa, resteremmo sbigottiti. Solo chi è competente ed amorevole
nei confronti di una questione, sicché può intervenire su di essa
in maniera massimamente benefica, dovrebbe averne le informazioni ed
il diritto di gestione. L’opinione pubblica ha acquisito quindi dei
diritti che non meritava. È stata data un’arma terribile nelle
mani di un incolto marmocchio pidocchioso e perfido. Il principio
gerarchico funziona in questo modo: dal basso verso l’alto per
esposizione di fatti e ragioni; dall’alto verso il basso per
meditazione e finale imposizione, per verdetto e sentenza. Lo spirito
nobile infatti è sensibile alle ragioni, le tratta con ogni riguardo
e rispetta tutte quelle vere senza indebite discriminazioni, non
trascura il reperimento delle prove, l’analisi precisa di quanto è
avvenuto e di ogni circostanza accessoria. Non si può richiedere né
permettere che questo faccia invece il volgo: esso non ne è capace
né desideroso, esso non sa cosa sia la giustizia. Esso va governato
e giudicato senza discussione alcuna, senza alcuna sua partecipazione
al dibattito se non nel ruolo subalterno di chi deve fornire
informazioni necessarie. Anche le “ragioni” cui ho accennato, che
il giudice dovrebbe stare a sentire, non costituiscono affatto un
confronto dialettico o dottrinario, ma solo un elemento istruttorio
rivolto a comprendere la levatura intellettuale, caratteriale e
culturale dell’imputato, e per portare a galla altri fatti che
facciano inquadrare davvero in maniera corretta ciò che è successo.
Inoltre l’opinione pubblica non è stimolata a sviluppare un
processo razionale e approfondito, in quanto è irresponsabile
legalmente del suo operato, non ha ufficialmente in mano la questione
e vi partecipa come di sfuggita, distratta dalle proprie attività ed
in modo molto impulsivo ed umorale, spesso animata da niente altro
che una curiosità maliziosa, beffarda e crudele; inoltre, essa si
appoggia sulla forza del numero, sulla massa brutale. Dunque,
l’opinione pubblica possiede di fatto l’ausilio della forza
fisica e psicologica, senza che vi sia a giustificarlo alcuna
competenza altresì contornata da una precisa ed ineludibile
responsabilità. È inconcepibile che ogni individuo debba
quotidianamente preoccuparsi dei danni che può ricevere da una
manica o marea di cialtroni che vengono a sapere dei fatti che
direttamente o indirettamente lo riguardano. La democrazia, il
coinvolgimento delle masse in questioni che dovrebbero avere uno
specifico gestore e responsabile, diviene altresì uno strumento di
qualche soggetto privato per aizzare una massa informe, rumorosa ed
agguerrita, il cosiddetto polverone,
contro un suo avversario. Quella massa che, essendo poco riflessiva e
molto emotiva è nello stesso tempo così difficile e così facile da
manovrare, per chi ne abbia gli strumenti.
Un’opinione
è come un ordigno pronto a scoppiare. Vi è mai passato per la testa
che avere un’opinione sia un atto di presunzione
ed altresì l’assunzione di una precisa responsabilità?
Ma il mondo democratico ha deresponsabilizzato le opinioni, sputato
sulla dignità della conoscenza ed in tale modo ha scavato la fossa
all’umanità.
C’è
chi un’opinione se la guadagna attraversando selve oscure, inferi,
purgatori, guidato da un’istintiva fede e armato di onestà,
coraggio, disposizione a sopportar l’ingiusto per arrivare al
giusto, ed essa giunge lui come un ormai inaspettato raggio di luce
benedetta. Poi c’è chi vivacchia, sghignazza, arraffa, inganna,
inquina, violenta, si adegua, svicola, offusca, insabbia, travisa,
risparmia, protegge, deturpa, tarpa, banalizza, anestetizza,
vagheggia, vaneggia, scoreggia. Ma il principio democratico afferma
che le due categorie vanno messe sullo stesso piano ed anzi, se i
secondi sono più dei primi (e lo sono sempre) hanno ragione loro.
Questa
è la democrazia.
È
il sistema democratico (plutocratico n.d.t.) alla base di tutto:
universalizzando i diritti elitari, annullando ogni gerarchia basata
sul merito (competenza + onestà) si getta tutto in mano alle masse,
chiunque può occuparsi di qualsiasi cosa. Risultato: 1)
la mediocrizzazione della stessa 2)
la moltiplicazione dei soggetti politici ed economici in concorrenza
(sleale, poiché non ne esiste d’altro genere) 3)
spreco immane di risorse e stridore generalizzato 4)
braccia rubate all’esecuzione e i pochi cervelli davvero validi,
soffocati 5)
élites di cinici affaristi che, non diversi dagli altri e solo più
furbi, speculano su ogni cosa e grazie ai soldi sono i soli ad essere
liberi. Perché è facile approfittare anche degli idealismi deboli e
falsi di chi in realtà è un homo
oeconomicus (leggasi: materialista)
e in generale di una politica che non funziona ed è solo serva
dell’economia (privata).
La
democrazia fu inventata e sponsorizzata dagli ebrei per arrivare
proprio a questo: volgarizzando le funzioni nobili, volte per natura
all’organizzazione e dunque coincidenti con le forze politiche,
esse sarebbero divenute inefficaci a contenere le spinte
individualistiche che stavano traendo potere appunto dalle idee
liberali e dall’accumulo di capitale monetario privato (borghesia)
da investire in produzioni massificate, sicché le lobby economiche
avrebbero soverchiato le autorità politiche, ormai private del
carattere nobiliare che le contraddistingue e che si esprime nella
conservazione dell’idea nazionale sopra gli egoismi particolari,
favorendo dunque la coesione, la gerarchia meritocratica (giammai
meramente plutocratica) ed è pronta ad assumersi responsabilità
personali con determinazione, cosa che non fanno le assemblee
parlamentari che di fatto non rappresentano mai l’intera nazione e
presso le quali non spicca mai alcuna personalità davvero eminente.
Vedo
migliaia di adolescenti sfilare per le strade e mi soffermo sulle
loro scarpe: noto che tutti hanno le
Converse. Ci vanno in giro in
gruppo: credo sia una forma di Conversazione. Ne vedo un paio che
sembra diverso poi noto che è solo una Converse Nikizzata. Vado su
Google immagini: dopo i mille modelli c’è una foto del Che con un
paio di Converse al posto delle spalle. Su Wikipedia leggo che la
Converse è stata acquisita dalla Nike nel 2003 per 305 milioni di
dollari. In teoria il buon Ernesto fece una rivoluzione contro sta
roba ma loro sono convinti che la stellina che teneva in fronte sia
la stessa delle loro scarpette firmate. Sai te l’importanza di
chiamarsi Ernesto... Basta religione oppio dei popoli! Vogliamo solo
prodotti chimici doc. Un tempo si faceva politica perché andava di
moda, e già questo era ridicolo, oggi si è perso ogni remora e si
va di moda credendo di fare politica.
Una
società può avere dei nemici all’esterno e dei nemici
all’interno. Ma poiché anche l’uomo è una società di persone,
ossia ha dei componenti,
egli può avere nemici all’esterno o anche all’interno. Quando un
soggetto esterno cerca di farti dubitare di te stesso, di farti
vergognare, di minacciarti rimorso e pentimento, cerca di crearsi
degli alleati interni al proprio nemico.
Un
uomo di scienza che si appella a Dio ha tremato
dinanzi all’abisso.
Ha
detto: non ce la posso fare.
Ma se davvero egli non è all’altezza di attraversare tale abisso,
dovrebbe compiere un atto di umile correttezza, farsi da parte e
lasciare che altri proseguano, spiriti più forti e motivati. Anziché
mettere staccionate dinanzi a ciò che teme, con su scritto Limite
Invalicabile - Pericolo di Dannazione,
e proseguire la propria vita aggrappandosi saldamente alle nuvole,
fiducioso che la mano del buon Dio lo sosterrà e lo condurrà alla
salvezza. L’onnipotenza e l’onniscienza sono il nostro sogno, ed
ogni sogno è realizzabile, se anziché sospirare si combatte. Non
bisogna pertanto aver fede in Dio, ma nella possibilità di
diventarlo. Il cristianesimo sostiene che la fede e non già l’azione
sia salvifica: fa questo per giustificare la propria pigrizia e
pusillanimità. Ma non esiste fede che non conduca ad una forma
d’azione, e non esiste azione che non sia animata da una fede: esse
sono dunque sempre sinergiche poiché identiche. Ma la prassi
promossa dalle persone religiose ha come caposaldo la fede in un
intervento esterno, e non già la fede in se stessi. La retta
Fidactio conduce alla salvezza.
Le
persone mentalmente limitate, rendendosi conto della propria miseria
fanno come la volpe con l’uva e prendono a disprezzare ogni
estremismo.
Le
persone ancora più limitate, non rendendosi conto della propria
miseria, osteggiano come esagerazione
tutto ciò che l’oltrepassa.
Le
linee comprendono i segmenti: sono i segmenti che non comprendono le
linee.
L’arroganza
dell’uomo sta nel porsi a misura delle cose. Nel sottrarsi al
relativo per essere assoluto. Tale arroganza è paradossalmente
figlia del principio di uguaglianza: solo se fossimo uguali, infatti,
le cose potrebbero essere assolute, ossia ugualmente soddisfacenti
per ognuno. Ma essendo tutti uguali, ognuno potrebbe imporre il
proprio metro come assoluto: non fosse che non ci troviamo mai
d’accordo proprio perché siamo tutti diversi col nostro metro
personale. L’uomo non è dunque misura delle cose. Semplicemente,
certe cose sono fatte su misura per un uomo e quell’uomo è fatto
su misura per esse.
Non
è giusto che un codardo insegni la prudenza a un coraggioso.
Non
è giusto che uno stupido insegni la modestia a un intelligente.
Non
è giusto che un conformista insegni l’ortodossia a un creativo.
I
forti devono rispettare i deboli soltanto se anche i deboli
rispettano i forti.
Ma
perché questo avvenga, dove stia la forza e dove stia la debolezza
deve essere chiaro come il sole. Il seguito è un corollario: chi
deve insegnare e chi deve imparare, chi deve stare in una classe e
chi deve stare in un’altra, chi deve rispettare certe regole perché
ne ha bisogno ed esse si confanno alla sua condizione, e chi non deve
invece averle tra i piedi perché non ne ha bisogno o è addirittura
in grado di scolpire regole nuove cui nuove reclute si
assoggetteranno. Deve essere chiaro chi è il malato e chi è il
dottore, ammesso che sia colui che gareggia in una corsia a dover
istruire quelli della corsia inferiore affinché si elevino. Può non
fare parte del suo lavoro, può non essere il suo dovere.
Nell’intervento sui problemi del prossimo è necessario porre delle
regole che minimizzano il danno cosmico delle nostre scelte, nel
quale rientra anche il nostro personale. Io devo aiutare qualora 1)
Io sia la persona in grado di farlo al meglio 2)
Quell’uomo meriti la mia dedizione 3)
Il danno che ne ricevo io e tutto ciò che dalla mia salute dipende
non sia superiore al giovamento che ne riceve lui e tutto ciò che
dalla sua salute dipende. La meritocrazia non esclude la solidarietà,
bensì la ingloba, in quanto bisogna essere all’altezza di essere
aiutati ed anche all’altezza di aiutare, indi per cui non tutti
hanno il diritto-dovere di essere aiutati e non tutti hanno il
diritto-dovere di aiutare. Ma se una persona difettosa, anziché
chiedermi di correggerla, si mette con arroganza a dire che sono io
che sbaglio e mi guasta con la sua sgradevolezza, mi inquina con i
suoi pensieri bassi e viscidi, mi logora e appesantisce con la sua
mediocrità, mi rallenta e mi tedia con le sue regole, osservazioni,
rimproveri e concezioni limitate nelle quali vuol far rientrare le
mie che sono più grandi, io, questo, non lo posso accettare.
Sembra
che l’etica non abbia ancora saputo risolvere il seguente problema.
Ci
sono sei persone in una stanza con una finestra. Tre di loro dicono
che hanno caldo, le altre tre dicono che hanno freddo. Bisogna
aprire la finestra? Si possono
inventare tutte le ragioni del mondo per dire quale dei due gruppi
debba essere sacrificato. Ma la risposta è che tre di loro devono
lasciare la stanza, in quanto il sacrificio non è cosa buona in
nessun caso. Due gruppi di persone con esigenze differenti si erano
ritrovate indebitamente nello stesso luogo. A questo punto, se una
soluzione immediata non è accessibile, ossia le tre persone che
devono andarsene non possono raggiungere la locazione predestinata
senza che questa operazione di rimedio non sia una pezza peggiore del
male, si dovranno sacrificare coloro, la cui soddisfazione
contingente è meno proficua per il cosmo: in sostanza la fazione
meno importante,
quella, il cui sacrificio ha un costo inferiore. Ma quel sacrificio
ormai necessario andrà ripagato dall’intero sistema, e gli
elementi della realtà che avevano imposto la compresenza di persone
eterogenee nella stessa stanza, che non poteva soddisfare tutti,
andranno rimossi dai loro ruoli affinché la cosa non si ripeta.
Le
questioni etiche non si sono sviluppate gran che nel corso dei
secoli. Puoi parlare del cesso della scuola o delle turche
dell’impero romano, ma la merda è la stessa. Un giorno il mio
maestro di musica riassunse la mia personalità dicendo che io, se
c’era un chiodo su un pianoforte, mi ostinavo a dire che c’era un
pianoforte intorno al chiodo. Sarà che il pianoforte era il mio
chiodo fisso ma non mi sono mai tirato fuori da queste questioni. Ora
un chiodo può dar fastidio, ma un pianoforte ne regge bene il peso.
Se tu sei un chiodo e sei riuscito a sostenere il peso di un
pianoforte senza spezzarti né arrenderti, la gente vorrà suonare la
musica del futuro con corde forgiate nel tuo metallo.
LA SCALA DELL’AMBIZIONE
Il vantaggio di voler essere poco è di poterlo essere subito
Il prezzo di voler essere molto è di essere poco per molto tempo
Il prezzo del voler essere tutto è di non essere niente per
un’eternità
Sicché ti dicono: te la sborri con la
tua cappella superiore? Vallo a fare sotto la cappella degli
inferiori! Così ti taglieranno i testicoli impedendo al tuo genio di
propagare la sua genia, o per lo meno te li strizzeranno talmente
forte che metterai al mondo solo figli deboli, e non prodi
rappresentanti della virilità futura. Essi non concepiscono la
solitaria attività intellettuale poiché sono uomini applicativi cui
la democrazia ha raccontato che tutti insieme possono anche essere
creativi. Attribuiscono, così, grande potere euristico al dialogo,
in un residuo di ingenua grecità, illudendosi che un convegno
mercanteggiante di piccoli scrigni pieni delle più comuni monete
possa ad un bel momento produrre qualche nuova valuta, e dal momento
che la solitudine giammai arriderebbe loro altro che il gelo della
paralisi, declinantesi in noia e paura, suppongono che così debba
essere per chiunque, ed allora bollano l’attività di un pensatore
solitario come un ciondolio irresoluto o miserevole giramento di
pollici, per giunta accompagnato dalla vera bestia nera di
tutti i mediocri, quella cosa assolutamente insopportabile che si
chiama presunzione. Dal momento che tra stupidità e
intelligenza non colgono la differenza, perché per farlo bisogna
appartenere al secondo gruppo, essi danno per scontato che chiunque
si presenti come diverso dagli altri lo faccia per avere degli sconti
che non merita, sicché quella che deve scontare è innanzitutto una
pena per questo affronto. Gli uomini la cui anima non trascende il
piano personale non possono infatti che equiparare il concetto di
intelligenza a quello di furberia, e qualora notino che qualcuno non
è furbo, pensano che non sia nemmeno intelligente, senza poter
vedere che i colpi che costui perde nelle angustie dei loro sentieri
son dovuti all’infausta intersecazione tra essi ed una strada
maestra di cui egli conosce la destinazione ma alla quale deve
costruire lo spazio vitale, contro le volontà imperiose di un mondo
che verge in altra direzione.
Quando si accorgono che effettivamente
costui prende a comportarsi in modo fattualmente insolito e che
sembra davvero persistere in quella direzione, cosa fanno?
Dapprima essi rifiutano di pensare che
costui abbia davvero accettato la sfida che nessuno di loro avrebbe
mai osato avvicinare. Quando cominciano a rendersi conto che le sue
intenzioni sono serie, forse sono ancora in tempo a dissuaderlo e non
già per il suo bene ma per paura che un individuo determinato a tal
punto verso una cosa così insolita debba avere sul serio qualcosa di
eccezionale, sicché possa ad un bel momento arrivare a destinazione:
allorché non gli resta che la bramosia di fargliela perdere, questa
sfida, con tutte le armi del repertorio storico. Ed essi vorrebbero
ben inventarne di nuove, se necessario: ma per fare questo dovrebbero
aver con lui una parentela geniale che invece non possiedono, sicché
la maggior parte di loro non riescono ad essere originali nemmeno nel
servire il Male …
Tutti gli inferiori possono dunque
avere tre motivi per detestare il filosofo, per considerarlo un
nemico
a) che proprio non lo capiscono b) che lo invidiano c) che lo temono
QQuesti stadi esprimono la scala ed il
livello massimo di comprensione che egli può sperare di ricevere dal
prossimo, se ve ne fosse un quarto, la sua conseguenza sarebbe
d) che lo amano ...
Ma esso non è raggiungibile che da
quella posterità cui la sua vita eroica deve spianare la strada.
Del filosofo essi ignorano o
disconoscono totalmente, per mancanza di natura e dunque di
esperienza analoga, precisamente i tre elementi che lo caratterizzano
e che, se non fossero merce così rara, e rifiutando di essere
venduta al mercato, lo vedrebbero come una figura rispettata in vita
e non solo glorificata dopo la morte.
1) La sua irremovibile onestà
verso la ricerca del vero e la dedizione costante che ne consegue,
disposta ad affrontarne conseguenze terribili 2) Il vortice
di passioni conflittuali che accompagna la vastità intricata dei
suoi autonomi pensieri, quelli che sorgono orbene da qualsiasi
circostanza, anche la più infausta in cui la vita lo abbia costretto
e che stoicamente difendono il loro nucleo, smanioso di svilupparsi,
anche in condizioni di estrema oppressione esterna ed ambientale
disturbo, ma che prendono appunto il largo, con stupefacente energia
e rapidissimi progressi, proprio allorché si disincagliano dai
vincoli della vita comune 3) Il significato dei
pensieri che costui concretamente sforna, allorché decidono di
bollarli sprezzantemente come masturbazioni mentali.
Precisamente essi non sanno che i figli
spirituali provengono ben dall’onanismo e non dai rapporti
di coppia e tantomeno dall’abbandono orgiastico. Questi ultimi
andrebbero invece definiti atti impuri. Per figliare, non deve
altro il filosofo che farsi le seghe allo specchio. Nulla infatti lo
eccita quanto la sua stessa immagine, e mai potrebbe provare un
piacere maggiore da contatti con persone estranee. Ora, solo il
piacere genera l’amore, e solo l’amore la fertilità. Essendo
egli stesso un concentrato del mondo, riconoscendosi dunque in ogni
conflitto che deve trovare in lui, dopo la sua maturazione che si
compone di Bandiera e Spada, l’esempio direttivo per risolvere se
stesso, e non consistendo il piacere in altro che nella dissoluzione
di un conflitto, operato da un personale atto di disgiunzione o
congiunzione, egli può in sostanza e per restare in forma
masturbarsi ovunque sentenziando ciò che vede poiché sentendone il
falso ne possiede anche il vero, senza dunque che la cosa debba
suscitare scandalo, biasimo, o riprovazione. Ma tali cose hanno ben
una doppia ragione. I) Innanzitutto la massa comprende solo i fatti e
non le idee e dunque riconosce il valore del filosofo solo a
posteriori e indirettamente, dopo che le sue idee sono diventate
rivolgimenti politici ad opera della prossima generazione che, a
partire da una cerchia ristretta in grado di comprenderle al cui
apice sta comunque un sol uomo (essi non erano in grado di pensarle
da soli ma nella forma concretizzata di un testo scritto riescono
invece a vederne l’applicazione politica) hanno attuato un
cambiamento concreto che (per questo stesso fatto) le ha rese
apprezzabili anche da chi era di un secondo gradino inferiore:
quest’ultimo a sua volta ne ha tratto un mutamento concreto che
renderà quelle idee visibili e (qualora positive) apprezzabili anche
dal terzo grado di subalternità spirituale, e così via sino a che
tutti, anche colui che non ha la minima capacità volatile e
comprende solo la terra che ha sotto il naso, accetterà la nuova
filosofia. II) Una seconda ragione è la funzione che assumono i
falsi filosofi al potere nel fornire anche al popolo ignorante un
simulacro della filosofia (analogamente al caso superiore, apprezzata
solo perché divenuta concreta) nell’attività che loro svolgono,
il che contribuisce ad aduggiare in un nero d’infamia colui che, da
vero filosofo, oltre a svolgere una attività che non viene
apprezzata dalla gente nel genere, pretende anche di farla
fuori da quel contesto di concretezza (dunque influenza sulla realtà)
che le viene assegnato a livello istituzionale.
Questi signori possono essere irritati
dal constatare che uno spirito eletto in una passeggiata in collina
possa ottenere più conquiste sul terreno della verità che non in
dieci anni una intera istituzione ruminante all’infinito testi
altrui, tarata dall’obbligo implicito e dall’impossibilità
psichica dei suoi aderenti di mettere in discussione il sistema
presente e dunque la filosofia dominante, intrinsecamente quindi
oppure estrinsecamente incapaci di alcun vero progresso, mimanti per
mestiere e per immagine un improbabile interesse a produrre opere
innovative che poi si rivelano immancabili nella noiosità, nel
conformismo, nella fedeltà alla causa della falsificazione del vero
che dalla riconferma del passato si declina poi nella lettura di un
presente nel quale i cattivi devono alla fine avere sempre lo stesso
nome che hanno avuto dal giorno in cui questo sistema si è
affermato, una istituzione peraltro già impegnata nell’insegnamento
di conoscenze ancora inesistenti a persone assoldate o comunque
ammesse senza criterio selettivo allo studio della più elitaria
delle discipline, laddove qualsiasi altra, pur meno aristocratica ma
che necessita di produrre dei risultati validi, presenta giustamente
progressivi livelli di scrematura degli inadatti.
Una cosa sia chiara una volta per
sempre: nel mondo della cultura ed in tutte le culture del mondo,
tutti i progressi sono personali e le applicazioni,
solamente, collettive. Inoltre, a nessun uomo autosufficiente passa
per la testa di cercare alleati, dacché si troverebbe in ultima
istanza a spartire più la gloria ed il bottino che non il lavoro
utile, sobbarcandosi altresì le inevitabili noie inerenti a
qualsiasi sodalizio, nel quale giammai regnerà un perfetto accordo
tra le parti. Perché un tale accordo ci fosse, dovrebbe trattarsi di
due persone assolutamente identiche, ma in questo caso nessuna
potrebbe aiutare l’altra e allora perché fare in due quello
che si può fare da soli senza detrimento? Infatti non avrebbe senso
clonare un genio – e definiamo Genio la capacità di creare cose
nuove – bisogna clonare solo quegli individui destinati ad eseguire
un compito che presuppone la quantità oltre che una
determinata qualità: e tali non saranno mai compiti creativi,
ma sempre e soltanto applicativi.
Da tutti possiamo ricevere nozioni.
Unicamente da un fratello maggiore possiamo ricevere
Insegnamenti: ossia la personale valutazione di un oggetto,
che si esprime in un giudizio nella teoria ed in una azione nella
pratica. Da nessun diverso è possibile imparare qualcosa che non sia
la sua diversità: epperò anche questa non la impariamo da lui, ma
dal conflitto spontaneo, per quanto talvolta mascherato o
sottovalutato, che sia crea nel contatto. Dai nostri simili possiamo
trarre lezioni di psicologia: giovare quindi della luce
portata in noi da esperienze loro, che sarebbero state esattamente le
stesse in noi, se ci fossimo trovati nelle medesime circostanze, in
quanto è lecito dire che i nostri nervi trasfondano nel corpo del
fratello, di modo che, quando egli parla, sentiamo quel che
dice, riusciamo ad immaginare ciò che ancor non abbiamo
direttamente visto: ma di più,
a commuoverci dei suoi stessi
sentimenti, approvare dunque le sue mosse quando fossero state
vincenti, angustiarcene quando non lo sono state per quella
che sentiamo subito essere una mancata pienezza, una debolezza
contingente, dunque, del corpo o della mente, e nessuna diminuzione
di stima investe quindi il nostro simile: mentre detesteremmo una
reazione non conforme, compiuta da un altro, in maggior misura quanto
più essa sia stata energica, e non perdoniamo un suo fallimento
poiché non proviene da volontà che rifiuta il danno ma da
contingente debolezza che non può perpetrarlo: egli resta, in
ogni caso, un malvagio. Se noi siamo in qualsivoglia contatto fisico
con il protagonista dell’azione, e sia egli un fratello, le sue
parole sono sufficienti a descrivere quel che non possiamo
direttamente vedere, in quanto noi viviamo in lui. Mentre se siamo in
contatto fisico con un diverso, dobbiamo saper che le parole con cui
egli descrive la realtà osservata sono tanto più lontane da essa
quanto più lo siamo noi, intrinsecamente, da lui, e qualsiasi cosa
egli descriva, l’oggetto che egli denoti, lui invero la
coscrive, la connota, ossia vi pone qualcosa di suo, la elogia
o la bistratta, la svilisce o l’innalza, la mutila, l’intarsia,
la deforma, l’accoglie o l’attacca, insomma essa rappresenta per
lui un bene oppure un male di determinata specie e grandezza, il cui
reale valore nei nostri confronti noi possiamo calcolare solo
tramite il fattore di conversione. Quando la difformità dal non
fratello è ben percepibile, tramite contatto diretto, noi dubitiamo
immediatamente di qualsiasi cosa egli stia dicendo su una cosa
qualsiasi, ed anzi il fattore di conversione, il nostro livello di
avversione da lui, ci porta a simmetrizzare ogni suo giudizio e
dunque, stia egli elogiando qualcosa, noi ce ne allontaniamo
istintivamente come cosa infida, sospetta, negativa, di basso valore,
mentre, la stia egli invece vituperando, ci sentiamo attratti da essa
nella medesima misura, diventiamo dei simpatizzanti
dell’elemento bistrattato, non conosciuto direttamente ma costruito
per antinomia al soggetto percepito ed inviso, dacché il bisogno
del suo opposto è contenuto nella nostra forma a priori che
brama di essere riempita: nasce allora il desiderio, che in ambito
conoscitivo si chiama curiosità, di attingere a nuove fonti,
questa volta affidabili, poiché affini, o perché no, al contatto
diretto. Dai fratelli possiamo avere consigli affidabili su cosa
cercare, cosa vivere ed assumere con avida sicurezza, e da cosa
invece guardarci con la massima cautela. Mentre i dissimili ci
spronano inesorabilmente ad andare incontro alla nostra rovina, e
nondimeno a privarci di qualcosa di benefico. I dissimili vedono quel
che serve loro e quel che loro nuoce: altro non serve. Nessuno
spreca, ordunque, energie inutilmente. Essi consigliano quindi ad
amici e nemici sulla base di ciò che a loro è piaciuto o
dispiaciuto: per istinto, quell’istinto che vuol uniformare tutto a
sé, et pereat mundus, sicché non deve preoccuparsi di
adattare le sue ricette al nemico. Già per rendersi consapevole di
ciò che questi voglia, egli deve in lui immedesimarsi, dunque
farsene invadere almeno le superfici, come vengano intaccate da una
colonia di molluschi di cui sentiamo ora le brame contrapposte alle
nostre, grazie a questo fastidioso ma lungamente insopportabile
contatto: un’esperienza, dunque, l’Immedesimazione, irrazionale
per definizione ed ottenuta solo a partire da un attacco fisico, che
in questo caso ha indebolito e penetrato le difese mentali. La
Ragione infatti non è altro che il nostro sistema immunitario che
cerca di scalzare via ed espellere gli intrusi: dunque
l’immedesimazione, quale ossimoro degli ossimori, è un
procedimento fallace a priori ed impossibilitato quindi a presentare
un esito che sia diverso dal finale rifiuto del prossimo, con
tutti i giudizi e le reazioni che la sua colonia abbia innescato
suggendo temporaneamente le nostre sostanze, ed il corrispondente
ritorno alla nostra identità originaria, la quale, di nuovo posta in
contatto con l’oggetto esterno, rivendicherà e cercherà di
imporre le sue proprie reazioni. Nessun essere, in natura, cerca di
immedesimarsi nel prossimo: ciò è una perversione dell’istinto
che si innesca solamente tramite una fattuale contaminazione col
prossimo, precedentemente avvenuta, e che cessa completamente
allorché quella sia terminata. La natura invece sa benissimo, quanto
al prossimo, come sia bene ch’egli si avveleni con ciò che
invece noi è grato, e che si deprivi di ciò che noi
arricchisce e giova. I limiti dell’uomo sono quelli della sua
psiche: la vastità, la pervasività, la finezza della sua
Sensibilità. Tali sono anche i limiti della psicologia che
gli sia comprensibile, in quanto assimilabile. Parlando con un
fratello che abbia affrontato il mondo in piena salute noi capiremo
il significato di ogni vocabolo e lo gradiremo, e correggeremo il
verbo debole di un fratello, degli che è forte per definizione,
assolvendo e perdonando lui. Fuor dalla Psicologia, non si
studia più l’uomo ma i rapporti tra gli uomini e si entra dunque
nel campo della Sociologia, la quale ha regole proprie, cosiccome ne
ha la fisica rispetto alla chimica, che studia le relazioni tra i
corpi senza entrare nel merito della loro intima natura e
composizione. Non mai dai nostri dissimili, ma dal contatto con loro,
elaborato dai noi stessi, possiamo trarre lezioni di sociologia,
disciplina che nella sua compiutezza diviene l’arte della guerra di
Sun Tzu, il cui caposaldo è che si impari a riconoscere,
infallibilmente e con la massima rapidità, un nemico da un amico. Se
l’autore di un libro è un tuo nemico, non puoi imparare dal testo,
e solo invece dal contesto. Il contesto infatti è
assimilabile: perché tu puoi imparare a porre l’infame dov’egli
possa esistere senza nuocerti, ed anziben farti del bene. Il testo
invece, come promanazione e prodotto di un diverso, su di un tema che
tu stai affrontando come rappresentante di una specifica identità,
non è assimilabile: in definitiva è assolutamente inutile. Quando
senti un uomo parlare di un argomento qualsiasi tu devi, senza
eccezione, farci la Tara. La tua deve essere una pseudo
soggettiva in cui si distingue bene colui che parla ed il modo in cui
parla di un oggetto che si trova altresì sotto il nostro diretto
sguardo. Noi non dobbiamo in sostanza mai pendere dalle labbra di un
nemico che non abbiamo precedentemente riconosciuto come tale ed
immobilizzato acciocché possa parlare senza nuocere, e noi possiamo
eventualmente evincere in maniera indiretta, dalla sua voce e dal
contesto, e pensando infine il contrario di quel che lui dice, una
verità che non abbiamo empirica sotto gli occhi.
Una cosa è la testa, un’altra
l’esperienza. Ci sono errori che tu puoi evitare perché sei
intelligente, altri che puoi evitare solo perché sei esperto. Se li
c’è una porta e tu non sai cosa c’è dietro, puoi solamente
aprirla e sperare di essere fortunato. Un ragazzo che non sa, non
importa quanto sia sveglio, deve fidarsi del consiglio di una persona
più matura che sola può distoglierlo da una strada funesta o
indirizzarlo verso una fruttifera. Ma questa sarà in grado di
valutare ciò solo se affine al ragazzo al quale azzardi donare la
responsabilità di un consiglio. Quel che è stato buono per lei, non
è detto non sia cattivo per altri. Quanto è stato cattivo per lei,
non è detto non sia buono per altri.
E alla differenza di percezione non è
saggio addurre la complicazione del ragionamento. Se due persone
guardano un oggetto e una dice bianco l’altra dice nero, la seconda
può illustrare con estrema chiarezza alla prima cosa abbia
intenzione di fare con quell’oggetto nero in virtù della sua
negrezza ossia trarne delle conseguenze: la seconda dirà comprendo
il tuo ragionamento (ossia percepisco l’insieme delle tue
proposizioni come coerentemente contrastante con la mia visione del
mondo) ma quell’oggetto è bianco (quindi le conseguenze
dovrebbero essere diametralmente opposte, e più precisamente tu le
passi in rassegna, più cresce la mia ostilità verso di te). Quando
si parla di visione del mondo, si parla delle fattezze della propria
anima, della propria identità, della propria razza: ed ogni visione
parziale sarà tanto distante da quella del prossimo, quanto distanti
sono le visioni globali. Chi non è d’accordo sulle cose grandi non
è d’accordo neanche su quelle piccole. Chi non è d’accordo
sulle cose piccole non è d’accordo nemmeno su quelle grandi.
È possibile mettersi d’accordo?
No…
Gli uomini differiscono per Qualità:
ossia per quantità percettiva. La quantità percettiva è il
numero di elementi fisici esterni ai quali un uomo è in grado di
reagire grazie alla presenza di un recettore interno ossia un
rappresentante. Un giudizio oggettivo è dato dalla persona il cui
numero di recettori pienamente funzionanti è pari al numero di
elementi di cui è composto l’oggetto esterno. Il giudizio
oggettivo (ovvero giusto) resta nondimeno soggettivo (e nondimeno
giusto laddove vinca) perché attua una reazione personale, positiva
o negativa che interviene sull’oggetto. Non devi solo avere ragione
su un oggetto, devi anche avere ragione di lui, ovvero
intervenire con successo secondo il tuo bisogno, secondo il bene o il
male che esso rappresenta per te. Se tu sei nella debita posizione
sociale e sei nel pieno delle tue forze, sia la tua percezione che la
tua reazione saranno vincenti, perché chi detiene una forza
percettiva maggiormente completa ha anche a disposizione una schiera
più completa di elementi che organizzandosi accerchiano, combattono
e distruggono un oggetto nemico, o che più perfettamente lo
accolgono nel proprio essere, lo comprendono, lo assimilano.
Quando si apprende un nuovo concetto
utile, ne si esaurisce il potenziale positivo applicandolo a tutti
gli altri concetti già positivi che compongono il nostro sistema
mentale: questo è ragionare.
Un ragionamento è un aggiornamento del
nostro sistema operativo con una sua versione maggiormente evoluta.
Quando l’istallazione è completata, la struttura organica dei suoi
strumenti reagisce automaticamente, dunque istintivamente, ad un
tempo, trattando un nuovo dato empirico che le venisse sottoposto.
Quando la reazione è lenta, quando appunto dobbiamo ragionare sul
dato empirico anziché giudicarlo (reagire) immediatamente, è
perché il nostro sistema nervoso (ovvero immunitario) non era
uniforme, non era completamente aggiornato, abbiamo elementi variati
che rispondono differentemente: quando i vecchi sono più numerosi,
quando dunque il sistema vecchio è quello maggiormente consolidato,
l’organismo (gli strati più antichi del nostro cervello…)
sceglie di lasciare gli aggiornamenti in attesa, racchiusi in una
locazione, una scatola compatibile col vecchio programma e di
affrontare il problema con quest’ultimo – mentre, se la
sostituzione è già in corso avanzato ed ha investito elementi di
basilare gestione, sono adesso questi che operano tenendo a distanza
l’oggetto esterno mentre si completa l’istallazione dei
pezzi mancanti. Gli uomini più percettivamente deboli, ossia
manchevoli di alcuni recettori, non possono rendere giustizia a
quell’oggetto, ossia sistematizzarlo con oggetti affini. Essi lo
brutalizzeranno, lo frantumeranno pigliando di esso solo gli elementi
che loro interessano, diminuendone orbene il potenziale allo stadio
di persone grezze, oppure lo annienteranno, non potendone cogliere il
valore positivo, ma solo quello a loro negativo. Dunque i vari
oggetti sono suddivisi in classi di complessità: e la classe
superiore, nel suo complesso, distrugge infallibilmente la classe
inferiore in un confronto paritario, perché avente una maggiore
organizzazione. Analogamente il singolo appartenente alla classe
superiore distrugge l’elemento della classe inferiore in un testa a
testa. Chi è dunque più sensibile è anche più forte, e chi
percepisce meglio, ragiona (ovvero lotta) anche meglio, e può essere
sconfitto solo dalla superiorità numerica, ovverosia un sistema
inferiore può sconfiggere un elemento superiore, che gli darà
comunque del filo da torcere. Gli uomini di stampo inferiore hanno
delle percezioni incomplete, selettive, limitate agli elementi che
servono la loro economia interna, i loro bisogni: di conseguenza
tagliuzzano ogni oggetto dei suoi elementi maggiormente nobili ossia
reggitori di una civiltà, di un livello di organizzazione maggiore.
Essi non hanno per loro la minima funzione: sono inutili, dunque
spregevoli, dannosi. Sono degli sfruttatori, delle palle al piede,
dei fastidi. Questo tipo di uomini hanno parimenti una logica
elementare, perché mettono a sistema solo quelle quattro cose
che percepiscono, e la capacità difensiva che corrisponde a queste
operazioni logiche, lo strumento con cui si traggono d’impaccio, è
quella cui ci si riferisce con il termine grossolanità o
maniere spicce. Anche i membri di una civiltà primitiva,
tuttavia, sono capaci di riconoscere i reciproci ruoli, di agire come
corpo unico e dunque di rispettarsi gli uni gli altri per il ben
comune: tratterebbero però il membro di una civiltà
superiore come un nemico. Egli non li arricchisce: li molesta. Chi
può creare una civiltà, procede autonomamente nel farlo: si possono
portare ad un popolo nuovi strumenti adattabili al loro sistema di
vita, non sistemi di vita superiore, gli si possono fornire oggetti,
non sostanze. È la questione della Razza. Le persone, ed i popoli,
possono essere completati: giammai elevati. L’inchiostro rosso e
quello nero non sono compatibili, ed il rosso ed il nero non
molleranno la propria penna di qualsivoglia cosa stiano parlando: il
primo tratto urta lo sguardo dei secondi, il secondo quello dei
primi, e non vi sarà conciliazione. L’inchiostro nero è più
nobile ed i nobili sono sempre stati anche ricchi, sebbene non lo
divengano mai oltre la necessità, se davvero nobili sono, e non
sottraggano mai il pane di bocca a chi ne abbia bisogno. Il loro
inchiostro scintillerà di più infastidendo lo sguardo dei rossi e
dirà cose più complesse orbene più grandi, che quelli non vorranno
stare a sentire. Non vi sarà accordo…
Ed immaturo è il fascista che sostenga
il comunista starebbe molto meglio sotto il fascismo che sotto il
comunismo…è falso. Il comunismo è una forma di società
effettivamente buona per una determinata razza. L’operaio fascista
è felice sotto il fascismo perché ne condivide la razza
fondamentale anche se il suo rango non è quello dei capi. Confondere
Razza e Rango è un errore fatale. Uomini di diverso rango ma stessa
razza non faticano a mettersi d’accordo, orbene a disporsi. Uomini
di stesso rango e diversa razza si detestano. Uomini di razza e
rango differenti non si possono letteralmente sopportare. In Germania
non ci fu la Resistenza perché paese dotato di maggiore uniformità
razziale. In Italia molti non vedevano l’ora che si verificasse una
invasione per poter voltare la gabbana: non erano felici, non lo
erano mai stati, dunque non potevano essere fedeli: erano
stranieri in patria. In qualche modo avevano il diritto di fare ciò
che hanno fatto perché il Diritto non è altro che l’istinto a
difendere la propria razza. La Patria di un uomo è l’insieme
degli elementi della stessa razza. Non si può sperare in un successo
fino a che si è promiscui.
Ci interessa comprendere solo ciò che
vogliamo fare.
Possiamo fare teoria solo della
pratica.
Ma al filosofo interessa fare anche la
teoria della pratica teorica
dunque egli vuole comprendere più
cose, poiché sente il bisogno di fare più cose.
Dunque anche la teoria è una pratica,
che però ha significato solo in rapporto alla pratica, ossia al suo
livello più basilare, cui a questo punto possiamo annettere
innumerevoli altri livelli, il cui quantitativo di concretezza si fa
sempre più esiguo per lasciar spazio al linguaggio.
La pratica dunque è sempre il punto di
partenza, e dal momento che essa è stata, nelle arene di battaglia
della vita, imperfetta, ci ha provocato dei traumi che hanno lasciato
in noi delle insanità. Ecco che noi facciamo tesoro di questo
residuo scomodo che dovremo rendere al proprietario, in modo che il
colpo messo a segno dall’ambiente esterno su di noi rappresenti
adesso, grazie alla nostra bravura, il suo punto di debolezza:
perché ci ha informati su di sé proprio immettendo in noi un
campione delle sue forme, non manchevole di quel che servirà,
acquisitone gli strumenti, a sconfiggere l’intero. La forma più
forte della conoscenza è l’azione, la forma più debole
dell’azione è la conoscenza. Se noi disponiamo della nostra
pienezza energetica, ci esprimiamo solo con le azioni, non con le
parole. Quando diciamo: non dirlo, fallo! Oppure: non pensarlo,
dillo!
La persona destinata ad essere più
saggia ed infine più vincente è quella che ha ricevuto la
quintessenza di tutte le sconfitte possibili, tralasciando un
superfluo che, inutile ad aumentare la teoria, non ci può aiutare
nella pratica.
Un uomo che ha sconfitto verbalmente un
nemico, egli ha coniato una bella parola.
Un uomo che ha sconfitto materialmente
un nemico, egli ha coniato una buona azione.
Ma dacché alla costruzione del
linguaggio (codificazione e dunque generalizzazione)
contribuiscono persone di ogni risma, ne consegue che ogniqualvolta
gli elementi più volgari assumono il potere e divengono legislatori,
anche le persone più capaci sono costrette fin da piccole ad
imparare a parlare da chi giammai fu abile di lingua, cosiccome ad
agire da chi giammai fu abile di spada. Le brutte parole non son
altro che parole inefficaci, e niente che non funzioni può esser
definito bello, mentre se funziona, sarà anche bello nella medesima
misura. Quando una maestrina di scuola rimprovera l’alunno
sentenziando che l’espressione è bella ma tuttavia non
corretta, non fa altro che manifestare la propria bassezza oppure
la propria sudditanza ad una norma che lei per prima non condivide:
si è trovata a dover insegnare come si parla e non a parlare.
Filosofia
del linguaggio
Funzione del
linguaggio nell’ottica individualista. Per
dominare gli oggetti pare che abbiamo innanzitutto bisogno di dar
loro un nome.
Il significato di
quello che stiamo facendo è quello che stiamo facendo.
Cfr. wittgenstein
Il linguaggio è la totalità dei fatti
Dal dizionario
Treccani:
fonèma
s. m. [dal fr. phonème,
e questo dal gr. ϕώνημα
«espressione vocale», der. di ϕωνέω
«produrre un suono»] (pl. -i).
– In linguistica, ogni elemento sonoro, o unità elementare, del
linguaggio articolato, considerato sotto l’aspetto fisiologico
(cioè della sua formazione per mezzo degli organi vocali) e
acustico. Più in partic., nella linguistica strutturale, l’unità
fonologica minima di un sistema linguistico, ossia un segmento
fonico-acustico non suscettibile di ulteriore segmentazione, dotato
di capacità distintiva e oppositiva rispetto alle altre unità, in
quanto costituito di coefficienti acustico-articolatorî detti tratti
distintivi o pertinenti
(per es., in ital., un tratto pertinente è la sonorità in quanto
differenzia p
e t,
«sordi», da b
e d
«sonori»).
Il linguista
parla di capacità distintiva e
oppositiva di una unità
linguistica rispetto alle altre. Senza queste capacità appare arduo
parlare di linguaggio.
Il linguaggio è dunque qualcosa di bellico, costituito di ruoli
organizzati verso uno scopo. La dispersione linguistica è
l’anarchia. La dissoluzione dei ruoli, della gerarchia;
l’intercambiabilità o casualità dei ruoli che ogni parola, come
ogni oggetto, assumono all’occasione, verso il labile scopo del
momento. Ipotesi sulla fine del linguaggio corrispondente alla
realizzata stasi del mondo: se tutti hanno un solo scopo non v’è
più scopo in quanto esso presuppone la conflittualità. Che le
parole abbiano un solo significato
significa che abbiano una sola funzione
verso uno scopo.
Storia del
linguaggio: cosa succede
quando diamo ad un oggetto un nome? Quale atto compiamo realmente in
quella circostanza?
La
discriminazione
è insita nel nostro linguaggio ed anzi ne è il principio primo.
Dare un nome ad un oggetto significa in primo luogo distinguerlo
dagli altri. L’identificazione è un processo di distinzione: non
si può impunemente confondere due enti. Sentivo alla televisione la
cronaca di un scontro in cui era rimasto ucciso “un cinese”.
Pensai che fanno tanta propaganda contro le disuguaglianze e poi
identificano preventivamente un individuo dalla sua nazionalità: non
potevano semplicemente dire “è morto un ragazzo”, senza
specificare se cinese, senegalese o americano? Il dato di fatto su
cui ci si basa è la morte: “c’è un morto”, questo il punto di
partenza. Ma se anche avessero detto “è morto un ragazzo”
avrebbero già fatto una duplice discriminazione, in quanto sarebbe
stato diverso dire che era morta una ragazza (discriminazione
sessuale) oppure che era morto un uomo di mezza età (discriminazione
anagrafica). Allora avrebbero potuto dire “è morto un essere
umano”, ma anche in questo caso si avrebbe avuta una
discriminazione in quanto si distingue la morte di un uomo da quella
di un animale. Allora avrebbero potuto dire che “un essere è
morto”, e ci sarebbe stata ancora la discriminazione numerica in
quanto l’articolo indeterminativo sancisce che un essere morto è
diverso da due
esseri morti o da cinque
esseri morti o da mille
esseri morti. Risalendo lungo il grado di generalità, non si riesce
comunque ad eliminare le discriminazioni ed anzi, queste diventano
sempre più radicali, sancendo quindi delle differenze sempre più
significative: infatti c’è più distanza tra un animale ed una
pianta che non fra un cavallo ed una mosca. Ma tornando all’esempio
del cinese, il discriminante nazionalistico o etnico non è affatto
ininfluente, al contrario ci dà delle preziose informazioni per
reagire all’evento della sua morte nella maniera più opportuna. Se
sono state correttamente forgiate le parole che indicano la
nazionalità, ciò significa che corrispondono a delle differenze
reali, che come tali devono essere apprezzate, senza fare alcuna
confusione. Essere cinese ha delle conseguenze. E diverse ne ha
l’essere americano. Ma non ci basta sapere che si tratta di un
cinese. Dobbiamo sapere anche se è maschio o femmina, poiché non è
la stessa cosa. Sarebbe quindi opportuno sapere anche quanti anni ha.
Poi dove vive, a quale estrazione sociale appartiene. E tutto questo
rappresenta solo un’indagine estremamente superficiale per poter
sapere come comportarsi nei confronti dell’evento accertato del suo
omicidio. Dovremmo conoscere la personalità di questo ragazzo, i
suoi precedenti, il suo passato, nonché le abitudini del suo
presente. Ma tutte queste ed altre caratteristiche sono implicite nel
suo Nome.
Se sappiamo il nome dovremmo sapere tutto di lui. La sua identità è
fissa o cangiante? Questo è un nodo centrale. La nostra storia,
ovvero la contaminazione con altri esseri, ci cambia. Propriamente
cambia la struttura di quell’essere collettivo chiamato Mondo, in
quanto si intesse una nuova rete di relazioni tra i soggetti che lo
compongono. L’indagine che si fa sul ragazzo cinese deve essere
fatta anche sulle persone che lo hanno ucciso, per la stessa ragione
che non c’è un fattore ininfluente e pertanto trascurabile, e dal
ragazzo cinese e dalle persone che lo hanno ucciso si deve invero
risalire a tutte le persone ed anzi le entità che hanno avuto con
essi una relazione,
poiché sappiamo che nessun fenomeno è isolato dagli altri. Si deve
conoscere cioè la Storia del Mondo, da qualsiasi evento particolare
si voglia partire, al fine di intervenire con Giustizia. Non esiste
infatti una giustizia particolaristica, ma solo una giustizia
globale. Non faziosa. Per poter essere giusti è necessario scremare
da ogni soggetto le bucce che non appartengono al suo Io originario,
tutte le contingenze,
ovvero le responsabilità d’altri, che lo hanno trasformato. Che lo
hanno reso più forte o più debole. Il principio fondamentale
dell’etica è dunque quello di non contaminare
la propria identità con quella d’altri. Pena l’essere ingiusti.
Questa è l’unica enunciazione corretta di un principio di Purezza
della Razza. Il linguaggio stesso
è stato vittima nella storia di una deprecabile contaminazione,
ovvero di una perniciosa promiscuità nei significati dei termini,
che distorcono l’unico corretto, ed ogni significato scorretto
porta con se un bagaglio di sangue e rancori che rischia di
perpetuarsi. La Filologia
è nata per ovviare a questo inconveniente. Almeno dovrebbe avere
tale scopo. L’ingiustizia che ha determinato l’innescarsi della
Storia, consiste appunto in questa contaminazione,
che è sinonimo di relazione
infausta. Il linguaggio è uno
strumento di filogenesi: ed ogni origine
come ogni passato la si va a ricercare quando rappresenta un errore
cui si deve porre rimedio. Pertanto il linguaggio è uno strumento di
eugenetica.
È stato creato dall’uomo e nei millenni sviluppato per restituire
ad ogni ente la propria identità, per apprezzare ogni differenza, e
dunque ristabilire la giustizia ovvero una relazione
fausta tra gli enti che compongono
questo mondo. È ovvio che questo non può essere fatto senza la
conoscenza, e dunque la scarsa cura del linguaggio
è il primo sintomo d’inciviltà, e la degenerazione del linguaggio
porta ad uno sviluppo ulteriore delle ingiustizie, ad un complicarsi
delle contaminazioni, il prodromo di un’epoca di oscurità e
barbarie da cui l’umanità faticherà ad uscire, a prezzo di enormi
fatiche degli uomini della conoscenza e con il sangue di tutti. Il
sacro rispetto della lingua è invece istintivo nel filosofo in
quanto suo imprescindibile strumento di lavoro.
Se
io dico The cat eats the mouse
oppure dico Il gatto mangia il topo
che differenza c’è?
Il
suono è diverso, la sintassi la stessa. Rimandiamo la questione
della sintassi. Prendiamo un Inglese nella sua Inghilterra e un
Italiano nella sua Italia i quali vedono un gatto che si mangia un
topo. Intanto il gatto visto dall’inglese non è lo stesso gatto
che vede l’italiano. Anche i due topi non sono lo stesso topo.
Inoltre il contesto è diverso. Anche il soggetto che vede la scena è
diverso. Ma noi potremmo trovarci agli albori della lingua, quando è
poco plausibile che l’uomo articolasse una frase di questo livello.
Forse il nostro inglese, vedendo quella scena esclamò “STRAWL!”
e quel verso fu una reazione fisiologica all’emozione suscitatagli
da quell’esperienza, ed il significato
di quell’espressione è la funzione che ha avuto, in questo caso
per lui, ma indirettamente per tutto il mondo esterno sul quale ha
avuto un impatto. Ad esempio potrebbe aver fatto scappare il gatto e
sicuramente ha agitato l’aria circostante. Il significante
è pur sempre un oggetto: un suono, un odore, un sapore, un clima,
una immagine, il segno su un foglio, un oggetto con determinate
caratteristiche, un gesto, un sentimento. Il significato
è tutto quello che vi consegue, nell’individuo che recepisce il
segno e fuori di lui tramite le sue reazioni. Ma queste sue reazioni
sono, per i soggetti esterni, per l’ambiente circostante,
altrettanti segni,
e dunque significanti
che producono in essi un effetto e dunque assumono un significato.
La differenza tra Significante e Significato è dunque quella tra
Estetica ed Etica, dunque tra aspetto passivo della vita e aspetto
attivo, e per il principio di azione e reazione non v’è mai l’uno
senza l’altro. Il Linguaggio dunque non “descrive” il Mondo
Fisico, bensì è il mondo fisico stesso: e Wittgenstein ha ragione
nel dire che il linguaggio è la totalità dei fatti. Linguistica e
Fisica sono a questo punto un’unica scienza che è solamente
possibile separare in branche, ovvero in domini di oggetti, in cui
ognuno sa cogliere un frammento della catena causale, ossia del mondo
che parla in quanto agisce, che è in continuo movimento. Ma adesso
siamo alle prese con il nostro english cat che si pappa l’english
mouse, e del nostro gentleman che ha reagito dandogli dello STRAWL,
il che per lui poteva anche essere un complimento del tipo “Ben
fatto! Il topo di merda è stato annientato!”. Ora se ci fosse
stato un altro gentleman che avesse visto la stessa scena, essendo
una persona diversa essa avrebbe avuto un altro impatto su di lui, e
suscitato una differente reazione, forse nemmeno verbale: egli
potrebbe essersi portato semplicemente le mani al volto ed aver
rallentato la sua respirazione. Già il significante (la scena del
gatto che mangia il topo) non è mai esattamente lo stesso poiché i
due punti di vista non sono mai sovrapposti, qualcuno vede sempre
qualcosa che all’altro manca. Poi c’è la reazione soggettiva
ossia il significato. Dunque: il mondo parla
ad ognuno di noi in termini giammai identici anche se dalla stessa
bocca, e noi lo comprendiamo
(ossia reagiamo al messaggio) in maniera del tutto personale. La
Comunicazione è l’insieme di una azione e di una reazione, dunque
è uno scambio materico, che nella sua componente verbale definiamo
giusta quando ha appagato entrambi, ossia ognuno ha detto quello che
voleva dire e si è sentito dire quello che voleva sentire. Così
come noi ci ricordiamo solo i torti che non sono stati completamente
vendicati, la cui reazione dunque non era stata efficace, ecco che
noi ci ricordiamo soltanto le parole che ci hanno lasciato un residuo
di malessere. Il gentleman inglese, il suo STRAWL non se lo ricorda,
si ricorda la scena che ha visto, qualora la sua reazione non sia
stata sufficiente ad annullarne l’effetto negativo o
insufficientemente positivo, ed in lieve misura si ricorda anche
delle parole che ha emesso, come del gesto che ha eventualmente
compiuto, del comportamento che ha tenuto, qualora ne abbia ricevuto
una rappresentazione esterna, un contraccolpo, le quali cose dunque
sono passate da semplici significati
ovvero atti compiuti
e quindi oggetti etici,
a nuovi significanti
ovvero atti subiti
e quindi oggetti estetici.
Ma focalizziamoci invece sul secondo gentleman, il quale abbia visto,
dal suo punto di vista, la scena del gatto e la reazione del primo.
Non è possibile attuare una reazione plurima,
bensì ogni reazione è riferita ad una precisa azione, e qualora più
organi sensoriali recepiscano input noi possiamo reagire soltanto ad
uno per volta, quello che ci ha impressionato nella maniera più
dolorosa ed è dunque prioritario, oppure possiamo avere ricondotto
quella pluralità di segnali ad un solo corpo, come un banco di pesci
che ci attaccasse ed una visione unitaria della loro compagine
provocasse il nostro moto difensivo che prevale sui singoli attacchi,
cui tuttavia dovremo porre rimedio se sono stati efficaci e che
ricorderemo, anche solo in un secondo tempo, sino a che non saremo
guariti. Noi possiamo risalire a tutte le cause del nostro malessere
sino a che quest’ultimo è ancora presente. Un altro esempio di
questa percezione unitaria di ciò che è plurimo ce lo dà il
movimento istintivo di contenimento eseguito da un portiere dinanzi
ad una coppia di attaccanti variamente posizionati che si avvicinano
alla porta: egli non segue il singolo, segue il baricentro della
linea che li unisce ed in tal mondo difende la porta. Dunque, il
nostro gentleman percepisce simultaneamente una scena ed uno STRAWL,
niente che venga percepito simultaneamente può ottenere una reazione
sequenziale, ed anche se parte dello stimolo è percepito con la
vista ed altro con l’udito, e possiamo aggiungere altre sensazioni,
i sensi possono essere coordinati a produrre una reazione
autodifensiva globale contro tutto ciò che è stato percepito come
minaccioso, come se il nostro sistema nervoso avesse una certa
liquidità interna. La sua reazione non può lasciare solchi in
memoria se è stata risolutiva. E di quello che ho percepito, mi
ricordo ciò che è rimasto come danno in me, ed un singolo oggetto
può restare in me disconnesso dal contesto in cui comparve solo se
esso soltanto, di quell’insieme, sia riuscito a scalfire la mia
salute, e dunque l’unica cosa che sia stata realmente percepita,
poiché la percezione non è altro che un sistema di autodifesa. Se
un oggetto una volta mi ha danneggiato, il fatto che la seconda volta
che esso si avvicina a me io mi metta preventivamente in allerta si
spiega col fatto che esso si era già preparato il terreno la prima
volta per penetrare in me, il solco è già scavato e dunque basta
una minore quantità della sua sostanza per scatenare in me una
reazione profonda che appare anticipata
ma tale non è: la nuova percezione infatti ha solo completato la
vecchia, e le è bastato di essere parziale. Se io avessi espulso
totalmente i residui nocivi della prima, il ripresentarsi
dell’oggetto sarebbe qualcosa di totalmente nuovo, non avrei
reazioni anticipate, esso dovrebbe insinuarsi dentro di me
autonomamente. Si può essere prudenti e coraggiosi, ovvero saggi,
solo se ancor danneggiati: la saggezza scompare con la vittoria e noi
torniamo nel candore infantile. Se io ho dinanzi una pseudo
soggettiva, ossia vedo un oggetto (che di per se stesso avrebbe
scatenato in me una determinata reazione) ed anche un altro soggetto
che lo guarda, ecco che la mia reazione è relativa a questo insieme,
giacché solo tra due
oggetti vi può essere una relazione, mai di più, ed una forza si
confronta sempre con un’altra forza, anche se quest’ultima fosse
in sé composita. Io non posso rendermi conto che la reazione del
soggetto che io vedo nella mia immagine è determinata dal suo
contatto con l’altro oggetto, senza sostituirmi a lui e trasformare
la pseudo soggettiva in soggettiva vera e propria. Ma se mi
sostituisco a lui non vedo più lui, vedo solo l’oggetto e dunque
come posso fare un confronto
tra la mia reazione e la sua, attuando il primo atto di codificazione
linguistica che è invero una unione tra simili? Quando questa
riesce, ecco che noi abbiamo un linguaggio comune, quell’oggetto
esterno ha per noi due lo stesso significato: noi abbiamo infatti
avuto la stessa reazione ad esso. La civilizzazione consiste in un
processo graduale di assimilazione tra oggetti, ed è una cosa
spontanea di cui non possiamo essere consapevoli come di alcuna
espansione dell’ego, perché un ego non può percepire se stesso,
ogni percezione è il rapporto con un altro
oggetto, quando è entrato in noi siamo diventati qualcosa d’altro
insieme a lui, non sentiamo la nostra crescita poiché una cosa
positiva non lascia residui in memoria, il vecchio ego, più debole,
è scomparso come scompare il male ad opera del bene. Che gli oggetti
esterni (ed anche le parole udite) abbiano dunque lo stesso
significato per due persone non è cosa che queste ultime possano
stabilire, se non quando, a posteriori, come terzo soggetto, vedano
il filmato dell’esperimento cui hanno entrambi partecipato uno dopo
l’altro, in cui dovevano rispondere ad un determinato stimolo.
Un evento magico nella vita è rivedere
se stessi nelle vite di antichi fratelli, notare dapprima i pensieri
che usano le stesse parole, spesso le stesse immagini, e scoprire da
elementi biografici come abbiano visto quasi le stesse cose,
trovatisi nelle stesse situazioni. Come siano stati affascinati da
quello scorcio di panorama naturale, umano, concettuale, che altri
non prendeva in considerazione. Ma sicuramente, sul piano
sociologico, come essi abbiano imparato a memoria…
…tutta la declinazione della Colpa,
ossia della Diversità, anche il particolarissimo caso accusativo
anomalo il qual sostiene che il diverso finga o scelga di essere
tale, per convenienza, ma che è pieno il mondo di questi soggetti,
dunque possiamo dire che in realtà siano più le mosche bianche di
quelle nere. Prima si limitavano ad affermare che siamo tutti
uguali, poi si sono spinti ad affermare che siamo tutti
diversi, son infine fieri di entrambe le contraddizioni. A quanto
pare l’uguaglianza è diventata talmente totalitaria da inglobare
anche la diversità. Il tiranno però era Mussolini…
un uomo così uguale nella sua
diversità, ma soprattutto così diverso nella sua uguaglianza.
Guarda caso, le mosche bianche sono
così tante, che una di loro non ne incrocia mai un’altra sulla sua
strada, sebbene se ne svolazzi in lungo e in largo. Delle mosche
nere, colei aborre le
sostanziali abitudini: 1)
trovarsi a proprio agio ovunque ci sia odore di merda 2)
approfittare dei corpi in decomposizione 3) ronzare
continuamente senza aver nulla da dire 4) posarsi su qualsiasi
cosa senza che si capisca il perché 5) essere dappertutto e
non essere gradevoli da nessuna parte 6) vantare una vista
stereoscopica e non saper cavare un ragno dal buco 7) aver
fatto incazzare anche quel pezzo di pane di Max Pezzali per aver
ucciso, con oscura e losca cospirazione, l’Uomo Ragno. Ma fino a
che questi diversi sono poche gocce nel mare, ben possiamo dire che
sono uguali. A gestirli, penseranno quelle masse d’acqua che hanno
la sfortuna di trovarsene uno all’interno o all’intorno.
Sostanzialmente queste si vedranno dover far loro delle concessioni
contro volontà perché legati giuridicamente ai propri stessi
principi, che esse avean posti avventatamente come universali, ma dei
quali adesso la lor mente pensante, sotto la spinta dell’istinto
perentorio che sa sempre quello che crede in quanto sa quello che
vuole, è costretta a dubitare, a seguito del contatto con un
soggetto fattualmente diverso: poiché non ha più una sola
percezione e si trova a doverla racchiudere sotto un solo
concetto. Iniziamo ad essere insofferenti al linguaggio quando lo
sentiamo stridente con le nostre percezioni. Quando esso chiude due
esseri diversi nello stesso cerchio, oppure due esseri uguali in due
distinti cerchi, o ancora non li mette nella debita posizione
gerarchica all’interno del legittimo cerchio. Gli istinti non hanno
dubbi perché sono tutti unitari.
La ragione non è invece altro che
l’arena in cui gli istinti contrapposti si danno battaglia,
la qual potrebbe esser chiamata Arena
del Dubbio, unico vero soggetto dubitante, che non può sapere
perché non può ancora essere: la sua identità verrà
sancita dal vincitore della battaglia conclusa. Durante questa, la
ragione dubita in quanto promiscua, nella misura in cui è
ancora promiscua, ossia le forze non compongono ancora due distinte
compagini, tali che la più forte debba inequivocabilmente
schiacciare l’altra, e la forza sia invece frammentata e dunque un
istinto con la sua materia si sia insinuato nelle file nemiche ed
impadronitosi di alcune sue sostanze, indebolendo appunto il loro
istinto. Il nemico però si impadronisce di sostanze che può tenere
sì in custodia
e quarantena, ma non potrà giammai
utilizzarle a sua volta perché non sono intrinsecamente affini. Egli
non le riconosce, dunque non possono essere per la loro schiera o
schiatta nemmeno dei mezzi. Giacché ogni mezzo nemico è schierato e
finalizzato a farli schiattare. Non esistono invero oggetti neutri,
tali che possano essere utilizzati ai fini di entrambe le compagini.
Se vediamo che ambedue li utilizzano, questo ci costringe ad
ammettere che esse hanno ben qualcosa in comune. Ma è chi è
totalmente contrapposto nei fini è anche totalmente contrapposto nei
mezzi. Infatti chi si biasima nelle grandi cose prende posizione
anche contro tutte quelle piccole che siano coerenti con quello scopo
inviso del cui mosaico rappresentano i tasselli.
La natura ci ha conferito un bagaglio
di qualità necessario e sufficiente per raggiungere una meta. Questo
non implica solamente che noi possiamo raggiungerla: ma che non
possiamo raggiungere altro, poiché la nostra volontà, inerente a
quel preciso insieme di caratteristiche, è rivolta interamente
(poiché di fatto unitaria) verso quel fine. Il carattere è sempre
coerente perché unitario.
Esso si esprime in ogni nostra azione,
giudizio, opinione, nel modo in cui viviamo ogni settore della nostra
vita. Non esiste nulla di noi in cui sia davvero possibile, senza
fraintendimenti, riscontrare una nota che stride con quell’accordo,
fondamentale, del nostro essere. La nostra sostanza informa di sé
ogni cosa con cui entra in contatto, agisce dunque su di essa
imprimendole un contingente della propria anima, che non essendo per
l’ente esterno un proprio, cercherà, con tutto il suo essere, che
analogamente non può essere parziale poiché unitario, di rigettare.
Non
si fa la
storia
coi SE
e coi MA
però
si continua
a subirla
senza di essi
Sei intelligente ma ingenuo? prima o
poi ti sveglierai.
Sei furbo ma non intelligente? prima
o poi incontrerai uno più furbo di te.
Sei nobile? piglierai mille calci in
bocca, ma alla fine sarai ricompensato.
Sei ignobile? darai mille calci in
bocca, ma alla fine sarai punito.
Non credo che l’ironia si basi sulla
meta-cognizione.
Basta avere cognizione della propria
meta e trovarsi degli ostacoli materiali. Il chiasmo è una rivalsa
poetica.
Ispirazione…
Non servi te stesso, la patria, nè
Dio
Se tutte le strade portano a Sion
Ed ogni casello rallenta il cammino
Ma ad ogni casello lui prende un
soldino
Col tempo i caselli divennero tanti
La strada per Sion fruttò ori e
diamanti
Ed ogni distanza era stata studiata
A sancire i battiti della tua
giornata
Ti eri sbattuto, ti eri ingegnato
Di certo il tuo pane era guadagnato
Peccato però che gli imposti
bisogni
Usurparono il posto di tutti i tuoi
sogni
Da qui a diciott’anni i tuoi figli
devoti
E poi tra cinquanta i tuoi nipoti
Avranno per gradi, ma in sorte
sicura
La mente più inerte, e la vita più
dura
Scorrendo attraverso l’educazione
Trapassa il dominio dell’ebreo
massone
Nessun potrà ammetterlo, ma loro
insegnavi
Ad essere sempre, e poi sempre più
schiavi
Ringrazia colui che si muove già
adesso
Accettando di vivere un poco più
oppresso
Lo fa per rispetto di un nobile
amico,
non si trovi domani così a mal
partito
Tra un secolo o due una rivoluzione
Sarà di capir come gira un bullone
Ma pria di capir come gira
l’industria
In quei tempi bui, sarà pena ed
angustia
Un uomo comune, lo sguardo ormai
perso
Ancor gioverà di un orgoglio
perverso
Ho fatto un mattone, levigato e
bello
Lo porgo all’Ebreo per il suo
castello
Nessun li ha votati a suffragio
diretto
Ma tutti sostengono il Popolo Eletto
Nessun li conosce, in faccia e nel
cuore
Si presero il verbo di Nostro
Signore
E lo sparsero ben, per il mondo, al
contrario
Dispianava la strada allo scopo
primario
Sradicare da quello la Civiltà
antica
Pervertire gli istinti in cui vive
la Vita
Non importa descrivere i geniali
passaggi
Con cui volse gli umori, le scienze,
i coraggi
Il lavoro e le arti di ogni Popolo e
Regno
Al servizio del losco e più bieco
disegno
E poi vittimeggiando sopra i miti
più fausti
Di persecuzioni, calunnie, Olocausti
(!)
Lui che dietro le quinte pilotava
ormai tutto
Se ne usciva più forte, dal
Conflitto e dal Lutto
\
Impegnato ed indomito e finora
prevalso
A piegare ogni vero sotto il giogo
del falso
Se qualcuno di loro la morte ha
incontrata
Siete proprio sicuri non se la sia
cercata?
Perché mai un soggetto così pio ed
innocente
Pur non osa mostrarsi di mezzo alla
gente?
Perché non si dichiara: chi è,
cosa vuole
La sua nobile storia, e ci mostra le
prove?
Su ogni foglio, ogni schermo, ha
influssi sicuri
Non gli manca strumento che
attenzione catturi
Di ogni uomo che parla può comprare
il parere
Quello che lui decide, può farti
vedere
Ma tra tutto nasconde: il pensier, e
la sua faccia
Quasi fosse sicuro che al mondo non
piaccia
Nonostante lo plasmi, lo plagi, lo
storca
Che contro di lui, tutto quanto
ritorca
La TV dell’ebreo sempre parla
d’altrui
Glorie, pene, misfatti, tutto, basta
che abbui
Cosa diavolo faccia questa ignota
figura
Quale ruolo mai abbia, che di tutti
ha paura
Di qualsiasi processo è
sovrintendente
Quando è contro di lui, nessuno può
dir niente
Come imperator che prendesse la
Dacia
Si difende e lo vince… in
contumacia!
Non importa poesia, gergo, lezione
Tu non vinci per legge, ma per
Costituzione
Quella che dall’origine fu diversa
ed aliena
Corruttrice del mondo, che di esso è
la pena.
Il raggio dei soli più
caldi
richiede il coraggio più
lento
Non salgono mai i codardi
le porte del tempo
Nella storia ci sono sempre state due
categorie di persone: quelle che hanno interesse alla verità e
quelli che hanno interesse a nasconderla. La Filosofia definitiva
prescinde dalla sua storia, e potrebbe avere di fronte, come suo
contraltare e mortale avversario, la Sofisticheria definitiva,
analogamente priva di storia: in questo caso la filosofia è
destinata a vincere perché nella loro purezza il forte annienta il
debole. Ma una storia della filosofia, come tutte le storie fatta di
forze antagoniste, non può prescindere dalla storia parallela e
necessariamente intrecciata della storia del sofisma. Dall’antichità
ad oggi, i filosofi e i sofisti, come paladini linguistici del bene e
del male, dei giusti e dell’ingiusti, hanno reagito gli uni agli
altri, seconda dei nuovi strumenti che questi o quelli disponevano
sul campo di gioco. La vita del filosofo non dovrebbe essere altro
che una concreta battaglia contro le teorie del sofista. E viceversa.
L’attività teorica, fondamentalmente scrittoria, è concretezza,
ed ogni altra base materiale attiva o passiva cui egli attingesse o
abbisognasse d’attingere nella vita rappresenta appunto un mezzo
per giungere a quella meta,
per esaurire il potenziale di un
intellettuale, dunque il senso della sua esistenza. Vi sono in tutti
i corpi sociali forze aggregatrici e forze disgregatrici. In ogni
specifico ruolo i rappresentanti della prima fazione combattono coi
rappresentanti della seconda. Ogni uomo volge i suoi sforzi
istintivamente verso lo scopo della sua vita ovvero nell’espletamento
della sua professione naturale. Egli può essere costretto a fare
altro solo dall’eliminazione pregressa dei suoi fratelli
sostenitori, e complementari della sua causa, operata della fazione
sofistica, colei che possiamo chiamare falsaria, od anche maligna:
dal momento che il falso è l’aspetto linguistico del male ed il
vero l’aspetto linguistico del bene. Qualunque mente accolga una
opinione vera e la porga in essere,
egli compie una buona azione. Qualsiasi
opinione falsa, crea invece un danno materiale, una cattiva azione.
Un filosofo che non possa nella sua epoca occuparsi solo di
filosofare, è stato privato dei suoi fratelli onesti
nel’agricoltura, ne l’industria, ne’ commerci, nelle politiche,
nell’armi, nei servizi, ne l’educazione, nelle scienze, nell’
arti, dunque del loro contributo positivo alla causa. Un’epoca
dominata politicamente da un’etnia e dunque da un’idea avversa è
dominatrice necessariamente in ogni aspetto della materia. Tuttavia,
la materia nobile si ribella a tale stato imperfetto di aggregazione,
spurio, cui venisse costretta. Ma nessun rappresentante di quella
fazione agisce invero in maniera intellettuale ossia linguistica, ma
solo invece e direttamente con la resistenza fisica: operata nello
spirito dell’ultimo livello filosofico raggiunto da essa fazione,
ovvero dell’ultimo filosofo onesto. Il quale, però, deve essere
superato: perché le sue conquiste intellettuali non hanno ancora
rappresentato un beneficio tale da poter ribaltare le sorti della
partita tra le sue genti ed i fraudolenti. Quando la fazione giusta è
in inferiorità, essa lo è complessivamente.
Dunque in ogni grado: ed è proprio qui
che i fratelli devono stringere cerchio, i buoni lavoratori debbono
sostenere il filosofo, come tutta l’attività di ricerca nei suoi
gradi che sottende la vetta, affinché la sua vista superiore,
giovante del loro concreto appoggio, possa portare nuove visioni, la
propria scienza ad uno stadio superiore che, una volta messo in atto
dai politici di domani, sempre nobili ma che adesso si abbeverano di
quelle sistematizzazioni accessibili solo agli intelletti sopraffini
dei filosofi e che necessitano di passare attraverso la forma
linguistica ogniqualvolta la fazione dei giusti sia più debole e
quindi in svantaggio temporale, aumenterà le capacità guerresche
complessive di quel popolo e lo farà assurgere ad un nuovo altipiano
di dominio e maggior benessere. Qualora tutti questi componenti
mancassero, il carattere ario dovrebbe riprendere a filosofare da
zero con la clava e la pietra focaia, fino a che la forza sociatrice
di quella razza non abbia raggiunto un livello di civiltà, ossia di
specializzazione, tale da potersi misurare alla pari con la fazione
distruttiva, digià più organizzata e dunque detentrice di più
sostanze. Quando siamo condizionati nel pensiero è perché lo siamo
nella materia. Un pensiero superiore, inerente niente ad altro che
alla capacità percettiva del corpo nobile, respingerebbe
immediatamente e con efficacia un crimine linguistico, ossia una
menzogna scritta o pronunciata, perché le sue capacità verbali e
dunque la forza delle sue parole è superiore a quella delle razze
subalterne, i cui rappresentanti filosofici non potrebbero nulla
contro i nostri se non fossero supportati da uno strapotere materiale
e generale della lor fazione, mossasi in anticipo in quella direzione
ed organizzatasi, raccogliendo sempre più forza, in un’epoca in
cui era assente un avversario all’altezza. Analogamente un nostro
leader politico, in condizioni paritarie iniziali, sarebbe nettamente
superiore al loro, e parimenti in tutti i mestieri, tutti i gradini
della scala sociale e dunque il popolo nel suo insieme, tale da poter
agire immediatamente senza alcuna opera di ricerca preventiva e senza
possibilità di sconfitta. Ma la ricerca, il cui strumento è il
linguaggio, non è altro che la reazione collettiva della classe
intellettuale di un popolo che corrisponde al tentativo di
appropriarsi del livello formale di evoluzione del popolo nemico,
osservandolo dal debito punto di vista, analogo al nostro potenziale
ma che non può essere raggiunto in una posizione fattualmente
soggiogata e che necessita allora di una disgiunzione tra la
componente esecutiva di un popolo, quella che mantiene il livello
presente, e quella creativa che si appoggia e puntella sulla prima
per di lassù, sul belvedere dei popoli oppressi di cui però
anch’essa sente pienamente la propria parte di peso essendo il
proprio destino legato a quello del popolo intero, attualmente
umiliato e schiavo, agguantare un progresso. Tale reazione prende
corpo solo nella forma simbolica della parola scritta: la qual poi
dovrà imprimersi, attraverso la decodificazione, in nuove sostanze
energetiche o informazioni nel corpo di tutto il popolo, rendendolo
atto a combattere meglio e soverchiare il nemico. La civiltà nemica
si trova dunque ad essere presa come modello da imitare formalmente,
pur essendo una civiltà inferiore sostanzialmente. Per sconfiggere
il nemico possiamo solo assumerne le vesti e riempirle della nostra
virtù, della nostra qualità biologica e dunque spirituale, dobbiamo
forgiarci attraverso la vista una infrastruttura interna che loro
hanno digià raggiunto e che in qualche modo ci aveano rubato: noi
gliela sottraiamo attraverso i sensi in una siluetta che però tocca
i bordi di quello stadio animistico che è necessario a vincere la
guerra e che è sufficiente a richiamare le nostre sostanze interne a
riempire lo scheletro di sangue e tessuto. A questo punto possiamo
sconfiggerli, perché loro erano solo più evoluti, ma non più
forti. Aveano di fatto agito scorrettamente, e solo in questo
modo era stato loro possibile sottomettere un popolo superiore. Scopo
della ricerca tutta è di costruire il proprio esercito per la
battaglia, e la cosa più deleteria è pretendere di forzare la
naturale durata del processo, gettandosi in pasto a sicura sconfitta
e dunque una dispersione ed una sottomissione ancora più grande
delle proprie risorse di popolo, che necessiterà processi ancor più
lunghi per riprendere unità e coscienza di sé. Purtroppo sono
processi che richiedono una intera epoca… termine definito
proprio dalla quantità di elementi, ossia dal tempo, che vanno
riguadagnati a sé prima di potersi volgere alla nuova guerra. Dunque
ogni epoca storica vede la crescita graduale della fazione
materialmente sottomessa e però spiritualmente più forte, dacché
solo tale superiorità intrinseca potrebbe contrastare lo
schiacciamento operato dalla fazione debole ma più forte a livello
contingente perché partita in anticipo, posta sul campo quando era
già adulta e l’avversario bambino. La dialettica della storia è
data dal contrasto multifasico tra due fazioni che, nel loro
complesso, hanno sempre un vantaggio ed uno svantaggio, tali perché
originari, alla base d’innesco della ruota dell’essere: un forte
partito in ritardo ed un debole partito in anticipo. Naturalmente
nella guerra non si può far altro che essere coerenti con la propria
natura: sicché solo i forti potranno vincere d’onestà e
giustizia, e i deboli dovranno sol potenziare al massimo il livello
di mendacità e scorrettezza della lor azione, altrimenti son
destinati a certa sconfitta. A subire ingiustizia può essere
soltanto un nobile da parte di un ignobile: il contrario è
impossibile perché il nobile non è capace di commettere
ingiustizia, ossia di tradire un fratello oppure evitare di punire,
quando possa farlo, un non fratello. Ma se il nobile si volesse
vendicare di un atto ingiusto potrebbe farlo solamente con un atto
giusto: quello che all’ignobile fa male, mentre degli atti ingiusti
non risente in quanto vive di essi e quando li vede commettere non li
sdegna ma gli strizza l’occhio. Egli riconosce un fratello, che
possiamo chiamar semplicemente alleato visto che non ne ha vero
rispetto, l’individualista incapace di creare civiltà. Quando
un’epoca si svolge regolarmente, senza forzature, si conclude
sempre con una rivoluzione vittoriosa. Con un trauma, dunque, per la
fazione dominante: il cui esito è una inversione delle parti. Un
nuovo soggetto che d’oggi domina il campo. Una guerra perduta è
senza eccezione una guerra affrettata. Ma anche questo è inevitabile
perché interno al divenire, dunque quando si perdono le guerre si è
stati forzati a combatterle anzitempo dalla presenza infausta di
troppi nemici anche all’interno delle nostre fazioni e contaminanti
col linguaggio anche lo sviluppo rigenerante dei nostri propri
pensieri. Noteremo il fatto che il corso della storia non ci si
mostra come una costante ascesa degli ordinatori, partiti dai
bassifondi della società, i quali attraverso una scala li conducono
di nuovo alla vetta ristabilendo i ranghi. Noi vediamo invece in essa
fasi alterne. L’una in cui l’ordine costituisce la regola ed il
caos l’eccezione, poi un’epoca di disordine entro la quale
spiccano zone armoniche e piccoli regni, dunque tempi di caos
sistematizzato in cui la forza, e con essa la bellezza e la speranza,
tentano di estendersi sempre di più. Ciò è dovuto al fatto che le
fazioni sono talmente discrasiche da potersi davvero incontrare in
una battaglia che sancisca definitivamente la subalternità di una
sull’altra forse soltanto in un teatro di guerra molto lontano,
mentre gli scontri che avvengono sono solo battaglie erroneamente
scambiate per guerre. Questa altalenanza può infatti essere dovuta
soltanto alla diaspora di buoni e cattivi, tale per cui le forze del
bene stagliantesi sul pianeta non riescono mai ad essere tutte
coinvolte nello sforzo sinergico, ma scendono in campo per una
battaglia che appare definitiva contro la compagine maligna, per poi
scoprire che non lo è, in quanto il proseguimento delle operazioni
incorre in azioni e scenari inaspettati dove subiamo degli agguati
dal gusto tragico e deludente, nei quali, per avere la meglio sugli
avversari, ci rendiamo conto che sarebbe stato necessario il supporto
di altri fratelli non pervenuti alle nostre file, siano essi uomini
di scienza o combattenti. Analogamente la fazione del male, anche
qualora abbia avuto il sopravvento, subisce spesso un riflusso per
mancanza di appoggi, e tante configurazioni si possono trovare sul
campo a parcellizzare progressi e regressi, con qualche manipolo di
uomini che si esaltano per un trionfo locale o si abbattono per una
sconfitta, ignorando il fatto che poco più in là li aspetterà una
revisione bellica del primo come della seconda, da nuovi scontri con
compagini di livello energetico differente. Più grande è lo spazio,
più lungo è il tempo, e più noi siamo lontani dalla perfezione e
dalla felicità: siamo dunque molto contaminati. Solo un uomo che
parte puro finirà puro e nessuno metterà in discussione l’esito
della battaglia: questo sarà infatti giusto. Se il filosofo non
fosse condizionato nel pensiero da sofisticherie che si sono imposte
a livello sociale e dunque sono diventate materia del mondo e prassi
condivisa da masse umane, egli non prenderebbe della società altro
che ciò che gli serve per ultimare le sue opere sulla base
dell’analisi critica del mondo presente. Ma la vittoria
intellettuale è sempre costituita da l’influsso cu n’idea rie
sciadar su l’mondo materiale. La confutazione del sofista, lo
spadaccinare contro di lui è solo una resistenza che si pone alla
sua azione ostruttiva, disturbante e fumigante. Il filosofo non
avrebbe affatto bisogno di guerreggiare col sofista, in quanto non ha
nulla da imparare da lui: questi può essere solamente un sabotatore
e come tale agisce, palesemente, ogni volta che apre bocca con uno di
noi. Bisogna sempre essere lesti nel riconoscer l’intento, che vien
da la natura avversa. Se lo abbiamo notato una volta, quella basti
per sempre: bisogna evitare i contatti sino a che la nostra bandiera
non sarà forgiata autonomamente, ed in questo lasso di tempo
dobbiamo tenere lontani questi calabroni infernali e molesti, poiché
siamo svantaggiati in quanto non ancora maturi, e come non potremmo
giovare di un dialogo conciliativo, dacché questo potrebbe essere
soltanto simulato e fasullo, è probabile che uno scontro si tramuti
in una sconfitta oppure in una vittoria eccessivamente logorante e
spiacevole. Quando si scende in campo bisogna essere pronti. Non ci
sono storie, né eccezioni. Non ci si deve mai permettere di essere
sconfitti: la natura vuol affermarsi e non è possibile negarla senza
che si riprenda ed insegua la sua realizzazione negli eoni del tempo.
Chi forza la natura in qualsivoglia modo otterrà una sconfitta e
determinerà un allungamento del proprio percorso di realizzazione.
Che il migliore debba prenderle, semplicemente, è ingiusto.
Ma quando infine le due compagini materiali del bene e del male
saranno disposte in schieramenti paritetici, il male definitivamente
soccomberà. La vita è cominciata col vantaggio del male, e dunque
del sofista che ne avalla linguisticamente lo sviluppo ed osteggia,
ostruendolo e di fatto commettendo atti di violenza psicologica
attraverso il linguaggio, il Filosofo, correttore della realtà
attraverso lo strumento propedeutico del linguaggio di un animo
retto, autore di quel testo sacro, e tale perché per essere
scritto necessita di giovare di una posizione privilegiata,
distaccata da tutte quelle forme di azione particolare che non
giovano allo scopo, ma che il guerriero costruisce comunque, in mezzo
a qualsivoglia inferno la sorte lo abbia scaraventato, che dissacrerà
gli idoli nemici, nient’altro che i simboli della nostra
oppressione, emblemi del mondo schiavizzante, illuminando il nostro
popolo sulla vera stella da seguire, schierandolo dunque alla
conquista della propria libertà, ora pronto ed entusiasta di
partecipare ad una guerra che non può non appartenergli. Guerra sì
bella oramai, sol quanto la pace ch’essa può realizzare, ma che
abbisogna di questo passaggio violento per vendicare i torti subiti:
quelli che restano inelutti in noi sinché non li riversiamo ai
nostri feritori. Un’azione che assume ben sol in queste fattezze la
propria epicità: appannaggio di una guerra in sintonia con
l’ideale. E sol quando la pienezza sia nella spada e la bandiera,
essa assume il misticismo: poiché sente ormai la vetta, il
superamento, la vittoria, l’approdo ad uno nuovo stadio d’essere
della propria stirpe, come una certezza sempre più palpabile, e gode
oh quell’idillio di cui l’uomo è grato agli dèi poiché ne
partecipa, e che posse chiamare imperturbabilità guerresca,
sol erotico preambolo della propria figlia, ossia l’imperturbata
pace. La civiltà che potrà crescere su di un tale terreno, essa
vedrà cose meravigliose: saranno quivi Amore, Forza, Creazione,
saranno i vecchi che parlano i bimbi come un sol uomo gli estremi
limbi. Ma non è affidabile un terreno che presenti ancora i grani
incombusti del vecchio mondo, guerra lei che non sia stata ben vinta
né perduta. Mai si libra un buon salto da un poggio frammisto: esso
avrà sempre due direzioni, scinde la gioia, la forza, le
intenzioni. L’unico modo di finire uniti è partire uniti. Non vi è
passo falso che non possa esser ridotto a falsa partenza. Sacro dal
quel momento in poi sarà non ciò che è possibile fare sul nuovo
podio conquistato, la nuova vita dei nostri figli, ma per questi
invece, gli insegnamenti dei padri, quel che impedisce alla
civiltà di tornare indietro, il dovere a difendere quanto
acquisito per la vita della loro razza.
Agisci con non calanza, non metterli al
centro, ma padroneggiali attraverso la determinazione con la quale
prosegui il tuo percorso autonomo che, dalla sua stabilità centrale
e dal dinamismo che tiene energici, lucidi e non ristagna, può
scagliare via o intervenire in modo concisamente efficace sugli
intrusi, senza perdere la sua linea d’azione o troppo farsi
braccare da loro. Questa concisione, che ti è concessa
spiritualmente dal tuo tenere il passo della tua tabella di marcia
senza accumuli, si traspone anche negli interventi esterni che si
rendessero necessari per l’arrivo di un personaggio molesto:
essendo orgoglioso di te stesso, gli altri vengono respinti con
sicurezza perché non hanno precedentemente creato una testa di ponte
ed inserito una colonia nemica dentro di te con la quale i nuovi
arrivati possano comunicare ed operare manovre, pertanto la completa
indignazione che si innesca da contatti anche solo
superficiali, può subito esternarsi con un gran buon colpo che
spaventa il nemico o quant’altri volessero imitarlo. Esso proviene
infatti dalla fierezza, ossia dalla pienezza di sé, e dunque dalla
massima forza che possiede un uomo, sicché tutti i più deboli
verranno dissuasi da un confronto, e ti lasceranno in pace. Talvolta
questo metodo può consentirti addirittura l’incuranza, qualora
anche un intervento stringatamente ponderato risultasse troppo
impegnativo: senza per ciò danneggiare la tua partita esponendoti a
pericoli futuri, giacché rimani tu il più forte. Mentre se tu
invece ti fissi sugli avversari senza che sia necessario, il tuo
percorso globale è deviato e più angusto, e rischia il ristagno.
Questa deviazione ed angustia sono causate originariamente da una
situazione materiale di svantaggio ineluttabile, e che magari si
mantiene od aggrava nel tempo. Essendo noi ben lungi dal tenere il
passo delle nostre tabelle di marcia, sempre più acceleranti, sempre
più pretenziose, accumuliamo oppressione e non siamo liberi. Di
conseguenza ci muoviamo più lentamente, e movimenti eccessivamente
bruschi, oltre a scaricarci le energie, possono essere pericolosi per
il fisico, come un tennista che giocasse con un pesante zaino sulle
spalle - e per liberarci di un problema che altrimenti sarebbe
semplice, spesso dobbiamo fare un lavoro assai macchinoso perché
esso si è inserito improvvidamente in un contesto decisamente non
pronto ad accoglierlo: di modo che a volte l’annegarci in quello
che sembra esternamente un bicchier d’acqua ci fa sfigurare ed
affossa l’autostima, perché attraverso il giudizio del prossimo,
che assorbiamo, nemmeno noi ci rendiamo conto che sotto il bicchier
d’acqua c’era la collina del purgatorio. L’oppressione non
diventa mai depressione sino a quando non vince, sino a quando le
nostre difese non cedono: ma da questo momento la zona attaccata è
inerte, ha perso la sua forza vitale, è degenerata e non collabora
più alla battaglia, e dovrebbe essere amputata.
Non è detto ch’essa morirebbe per
sempre, in quanto la congregazione organica che detiene un desiderio,
ossia un potenziale di sviluppo cui è necessitata ad adempiere, può
ricrearsi in futuro.
E quella mortificazione che rende
necessario uno sfaldamento ed una espulsione dall’organismo,
affinché quest’ultimo non danneggi tutto, favorendo il cancro
divoratore del nemico, può ritrovare il suo composto, dopo altre
navigazioni ed ottenimenti, e quel desiderio divampare di nuovo in
tutta la sua focosità, e senza essersi trascinato dietro scorie
marcescenti, dunque nuovo nel vero senso della parola: esso è
un ritorno senza ricordo, ma giova adesso di una energia maggiore e
di una posizione dalla quale gli è possibile appagarsi, ed
annettersi a quella complessiva affermazione della nostra volontà
cui non deve mancare un solo elemento e che non lascia terminare la
vita sino a che non è completa. Di fatto la volontà non muore
perché non muore il corpo. Il corpo si trasforma e sembra
trasformare appunto la volontà, che riconoscerà se stessa nella
propria forma originaria allorché avrà conquistato se stessa,
ovvero il suo oggetto, la sua oggettività. Lo scopo dei nostri
nemici è quello di mortificarci totalmente, disgregare il nostro
organismo, ucciderlo. Essi lo fanno attraverso armi di spinta ed armi
da taglio. La pressione e la lacerazione, quando vincono, diventano
depressione. Spesso il nostro organismo nella sua rotondità esercita
una resistenza troppo forte al tentativo di schiacciamento globale.
Premere non è dunque sufficiente al nemico per sconfiggerci, ed egli
può utilizzare la costanza della pressione a scopo di sfiancamento
solo se le sue energie si consumano, in tal modo, più lentamente
delle nostre. Ma quando questa condizione non si verifica, si rendono
necessarie delle penetrazioni che creino delle fratture interne, che
debilitino l’unità difensiva, scompaginino i ranghi, alcuni dei
quali vengono poi circondati, isolati in un’ansa dell’organismo
ed attaccati da sinergiche fronde nemiche. Quando tu lasci degli
accessi al prossimo, esso si comporta in questo modo. Perché la tua
forza difensiva risulta più debole della sua forza oppressiva. Anche
le tue possibilità di movimento sono ridotte, e le comunicazioni
disturbate. Se non vuoi soccombere, e vuoi che i tuoi attacchi siano
vincenti senza essere controproducenti, la priorità è quella di
tenere il nemico alla debita distanza. Se lo lasci aprirsi mille
sentieri, come una ragnatela corrosiva, ed all’interno d’essi lui
è sempre in superiorità numerica, sempre bene armato contro
bastioni sempre meno sani ed efficienti, farà di te ciò che vuole.
Un esercito che avesse lasciato penetrare le forze nemiche fin nel
suo quartier generale, quasi che a capo supremo ci fosse ad un certo
punto un ufficiale avversario, non avrebbe ciò nondimeno perso
definitivamente le sue unità. La nostra fazione può essere stata
sottoposta a priori della guerra, ma senza perdere la sua
intima natura e dunque il suo obiettivo, ad un’opera di plagio
talmente forte da aver disposto le singole forze ampiamente al
servizio del nemico, che le disistruisce, le avvelena, le fiacca
anziché temprarle, le disorganizza al massimo, e poi le manda al
macello, mette le une contro le altre, e l’unico vantaggio a lungo
termine di questa situazione è che i nostri soldati semplici, di già
eroici ed abili di natura, essendo stati sottoposti ad un livello di
bellicosità allucinante e avendo dimostrato una tenacia fuori dal
comune, hanno acquisito una tale maestria, una tale esperienza nel
combattimento ravvicinato e in inferiorità numerica, da far paura,
nel corpo a corpo, a chiunque. Quando poi sarà svelato l’arcano,
quando le armate si saranno riorganizzate dal basso, inizialmente
incontrandosi inaspettatamente e rivedendosi amici, senza che
sapessero di avere dei compagni, ed orbene la gerarchia militare sarà
stata riguadagnata al contrario, sorta direttamente dalla guerra, dai
più intelligenti e valorosi tra i soldati che ora hanno riacciuffato
la vetta e sono divenuti dei generali: ebbene essi saranno adesso i
generali più in gamba di tutti i tempi, assurti alla cima attraverso
i guadi spinosi. Sino a che però la nostra saggezza non è in grado
di espellere gli oggetti morti della frustrazione essi si
decompongono in noi come pesanti carcasse, siamo spesso bloccati nel
fango, feriti, confusi, annebbiati, traumatizzati e stanchi, e
continuiamo a guardare un paesaggio ostile nelle sue ulteriori
minacce cui una perversione dell’istinto ad opera di pensieri
nemici incastonati nel nostro centro direttivo, ci porta ad esporci,
ad attirare ed assaporare cento mille volte, amplificandoli, gli
infami colpi da questi perpetrati, a guardare i loro possedimenti
come fossero nostri, prendere dunque esempio da un’estetica
ingiusta in quanto eteronoma e che dunque non può favorevolmente
influenzare l’etica, e le ingiustizie che ancora siamo in grado di
riconoscere suscitano in noi una rabbia che non può essere
scaricata, per via della nostra posizione subalterna e debole, e si
ferma come pulsione sanguigna ad ingrossare le propaggini del nostro
corpo, le nostre interfacce col mondo a cui questo rinfaccia la sua
intoccabilità, il suo compiaciuto rifiuto, ed allora delusi gli
istinti ripiegano all’interno, alla gonna puttana che di noi chiede
dazio, piegata dal tempo per ragioni di spazio, e la cui stiratura
chiede arte e stipendi, non chiama ricordi che non fossero orrendi.
Nella debolezza invece, e sia lapidaria sentenza, i contatti col
mondo esterno, sia quelli minacciosi e quelli allettanti, devono
essere sempre più selettivi. Altrimenti il nostro percorso si
immette in uno scenario d’incubi: palude mefitica in cui
prolificano bestiacce mostruose, spietate, aggressive, con te che non
puoi scacciarle se non con uno sforzo mentale notevole e parzialmente
bonificante, che è necessario per riavere se stessi e poter infine
ucciderle esteriormente, con una azione ora solamente fisica e non
più psichica, che nella pienezza delle tue risorse le convoglia
verso lo sgradevole intruso che si aggira alle superfici del tuo
regno o ti fa sentire la sua pressione ed il desiderio di entrare
senza però riuscirci perché riceve una resistenza forte e anche
controffensiva. Non lasciare dunque che il nemico ti circondi ed
entri in te così facilmente, ed in misura esagerata. Più esperienza
acquisterai e più concluderai che fin dall’inizio la politica
migliore fosse quella dell’isolazionismo: ogniqualvolta tu sia
debole. E dell’ermetismo completo: quando ti presenti in pubblico.
Necessariamente, s’intende, a guerreggiare. Poiché questa
sentenza, di tardivo rimpianto, non è altro che la voce corale di
tutte le esperienze negative che parlano attraverso i lor residui
organici ancor presenti nel tuo organismo, che ancora adesso e forse
mai più avrai la forza di espellere: sicché non si può
tornarne indietro. Lascia dunque che debbano conquistarsi tale
ingresso, non consegnar loro la coppa col bollino di posta
prioritaria, che se la vengano a prendere e che debbano rischiare di
essere sbranati, disprezzati, odiati, o di perdersi nel cammino,
esaurire le forze, morir di fame e sete, torcersi a nausea e
sgomento, fa che debbano esser tenaci, e coraggiosi come non sono,
essere intelligenti, decché non sono, per poterti uccidere: non
spalancar dunque loro le porte, e non dissipare indizi. Loro non
lasciano ingressi a te, e se questi si presentano inaspettatamente
per una situazione delicata e inaspettata che si crea intorno a loro,
tale per cui si ritrovino scoperti e vulnerabili, loro scappano
subito, si dileguano, accucciano, bruciano le prove, o turan le falle
con tutto quel che trovano. Legni, piastrelle, cementi, stucchi,
parole oscure e menzogne a mucchi, e poi ti depistano senza rammento,
senza rammarico, a cuore spento, non si accollano e non arrischiano
mai un combattimento ravvicinato ed intimo, se non quando possono
solamente attaccare ed il loro nucleo è protetto ermeticamente.
Sentiam cosa dice
Laplace nel 1814 nella sua
Introduzione ai
Saggi filosofici sulle probabilità…
dice…
Un’intelligenza
che in un certo istante conoscesse tutte le forze che mettono la
natura in moto e tutte le posizioni di tutti gli oggetti la quale
natura è conosciuta, se questo intelletto fosse anche abbastanza
vasto per analizzare questi dati, raccoglierebbe in una singola
formula i movimenti dei più grandi corpi dell’universo a quelli
del più piccolo atomo, per una tale intelligenza, niente sarebbe
incerto e il futuro, come il passato, sarebbe il presente ai suoi
occhi.
Questa
affermazione presuppone 1) che si sappia per certo che sia una
intelligenza
a possedere questa capacità e ad assumere questo ruolo 2) che si
sappia che cosa sia un istante
3) che si sappia cosa significhi conoscere
4) che si sappia che cosa sia una forza
5) che si sappia cosa voglia dire natura
6) che si sappia che cosa sia il moto
7) che si sappia che cosa sia la posizione
8) che si sappia se tali forze agiscano indipendentemente
oppure organicamente
9) che si sappia che cosa significa analizzare
10) che si sappia che cosa siano i dati
11) che si sappia quale sia il ruolo di una formula
12) che si sia sicuri che il suo ruolo sia la previsione
13) che si sappia che cosa significhino grande
e piccolo
14) che si sappia cosa siano la certezza
e l’incertezza e
perché muoviamo verso la prima 15) che si sappia cosa sono passato
presente e
futuro 16)
che si sappia cosa significa la parola sarebbe
e dunque cosa siano le condizioni,
la possibilità,
il fatto,
la realtà
e la potenza.
In Minority
Report vediamo come un metodo per prevedere il futuro consenta alla
polizia di intervenire per evitare un delitto. Chi viene fermato in
tempo viene tuttavia condannato come se lo avesse commesso. Alcuni
pongono l’obiezione che se tu prevedi il futuro e lo fermi, non è
più il futuro. Le autorità rispondono che se tu prendi una palla da
biliardo, la fai rotolare sul tavolo e la fermi prima che cada,
questo non nega il fatto che sarebbe
caduta.
Essi usano dunque
il condizionale,
il quale implica che per la realizzazione di un evento occorre la
sinergia di più soggetti, ma che se alcuni di questi mancano, la
responsabilità e punibilità dei singoli elementi non ne vengono
diminuite. Ma invero nessuno vorrebbe premunirsi verso una cosa
impossibile - come lo è una azione solitaria – e dunque noi
andiamo a bloccare tutti gli elementi che, presi nel loro insieme,
producono il male, e chi contribuisce con la sua presenza a produrre
un male qualsiasi deve essere eliminato. Per il mondo nel suo insieme
esiste solo il presente ed è dunque sano,
ma per i singoli soggetti esistono anche il passato (una
stratificazione di elementi fuori posto dentro di noi) ed il futuro
(la fantasia su sfondo empirico del loro riposizionamento).
L’ultima parte
della sentenza di Laplace
per una tale
intelligenza onnisciente il passato e il futuro sarebbero il presente
significa che noi
risolveremmo tutti i problemi, ma non aggiunge l’avverbio
istantaneamente né
contemporaneamente in quanto sarebbe improprio. Non avverrebbe
questo contemporaneamente perché gli
altri elementi del mondo non possiedono questa capacità, sono
pertanto ciechi e dunque solo per gradi una tua
mossa tattica di spostamento determinerebbe tutti gli
spostamenti necessari a risolvere la totalità dei problemi. Ad
esempio, se la legge spagnola proibisse ai figli dei proletari di
frequentare l’università, sebbene alcuni di essi ne avessero il
talento e dunque le potenzialità, e tu
invece avresti le potenzialità, entrando in politica, di cambiare
questa legge, ma un’altra legge ti impedisse di entrare in politica
perché sei italiano, ecco che un terzo personaggio, spagnolo, che
abbia il tuo stesso obiettivo di consentire l’accesso
all’università ai figli dei proletari ma una differente capacità
d’azione, si metterebbe in moto per darti il diritto di entrare in
politica, ovvero ti metterebbe nelle condizioni di porre le
condizioni che realizzino il vostro scopo. Ogni condizione
prepara un’altra condizione, UN
oggetto ne sposta un altro, rispettando le posizioni in cui stanno,
l’uno adiacente all’altro. Ma possiamo affermare che tutti sono
alleati, scompaginati e inframmezzati di soggetti nemici, alleati nel
male, che fanno tutto il possibile per realizzare la totalizzazione
del male, poiché il falso è affine al falso, e tutti i nostri
obiettivi buoni sono invece compatibili
perché posti in un unico organismo.
Tutte le affermazioni contenute in
questo libro sono estremamente presuntuose.
Ebbene: devono esserlo. Perché
lo scopo della filosofia è promuovere una svolta epocale e
conseguentemente le sue affermazioni devono andare a smuovere i
pilastri della civiltà presente. Se non ti senti all’altezza di
una simile responsabilità, va pure a scrivere innocui trafiletti sul
gazzettino provinciale e lascia stare la filosofia. Se guidi come un
cittadino modello, avrai il plauso del tuo paese e vivrai tranquillo.
Tuttavia non vincerai alcun mondiale di Formula 1. Ma allora non
metterti sulla strada di Senna e Schumacher agitando le braccia, o
avranno tutto il diritto di stirarti. Che Senna se la veda con Prost,
non con l’inetto tassista che gli suona dietro. Tutti quelli con
cui ho dovuto discutere nella vita hanno avuto il sostanziale ruolo
di rompermi le palle. Ti mettono davanti degli ostacoli,
fastidiose segnaletiche, ti infangano la visiera, ti depistano, ti
attaccano sacchi di sabbia agli alettoni, dispongono chiodi
sull’asfalto, vi praticano buchi talvolta voraginosi, ti versano
zucchero nel serbatoio. Oh se invece avessi avuto un Team!
Che prima mi mette a punto una vettura
perfetta, poi comunica con me via radio per dirmi quello che devo
sapere, se poi ci sono problemi tecnici mi aspetta ai box con tutto
l’essenziale e la rapidità necessaria a chi deve vincere una gara
contro il tempo. Il problema è che alla Filosofia nessuno ha
costruito un circuito apposito. Sicché devi girare con la tua
monoposto fiammante nelle strade comuni, imbottigliato e
surriscaldato, e non si sa se sian più le imprecazioni che rivolgi
tu al prossimo o quelle che ti rivolge lui quando decidi di rompere
le regole e usare la strada come fosse una pista a tua disposizione.
« Il
regno dei cieli si può paragonare a un granellino di senape, che un
uomo prende e semina nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti
i semi ma, una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi e
diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si
annidano fra i suoi rami »
(Matteo
13,31-32)
Significato: il pensatore solitario che
possiede talento e voglia di lavorare alla fine fonderà un nuovo
regno sotto il quale tutti troveranno rifugio e rispetteranno le sue
leggi
La dimenticanza alleggerisce la
coscienza e spegne il rancore ma con esso spegne anche le sue ragioni
e la loro forza. Quando ritornerai in battaglia, laddove c’erano
determinazione e rabbia ci saranno ora vacuità e spaesamento, se non
addirittura un sentore di colpa, stimolata dall’ostilità del
nemico cui non hai più gli elementi per contrapporti. Attenzione a
dimenticare ciò che non era stato risolto…
“I filosofi non sanno nemmeno dire se
è caldo quando è caldo, se è freddo quando è freddo, non hanno
mai sentito l’odore di merda, non sono né soldati né operai, non
sono un cazzo, filosofeggiano ma…ah io preferisco il soldato rude
con il suo fucile alzato sulla testa!”
Un operaio a tutta birra
Allora il soldato lo comanda il suo
diretto superiore sino a che non si arriva al generale che piglia
ordini dal capo di stato maggiore il quale prende ordini dal
presidente il quale prende ordini dal suo partito di riferimento il
quale è basato su di una ideologia la quale è creata da un fottuto
filosofo. Il filosofo non è dunque un cazzo ma determina la vita
delle prossime generazioni, dei tuoi figli e dei tuoi nipoti. Tu
lavori in una fabbrica che non te ne frega nemmeno un cazzo di che
cosa produce “basta che paghino” e se nessuno ci avesse messo
l’iniziativa imprenditoriale e la gestione tecnica tu al massimo
zapperesti la terra sempre che qualche intellettuale preistorico
abbia capito come si estraggono i metalli e si costruisce una zappa.
Lo sai perché questo nuovo materiale per tubature che tu innesti è
di qualità superiore a quello che si usava quindici anni fa? Se lo
chiedi a un ingegnere idraulico te lo sa dire, e nella tua azienda
sicuramente ce n‘è uno, che naturalmente sarà un coglione ed uno
sfruttatore che fa i suoi banali progettini ma non si sporca le mani
come invece fai tu. Del resto se le sporcasse rischierebbe di
macchiare il progetto e prova tu a presentare un progetto macchiato
ad una commissione senza che te lo tirino in faccia. Il vero uomo è
concreto ed è sporco! Nemmeno il tuo amico Stalin metteva
direttamente la gente nei Gulag, eppure glieli mandava lui: dunque
nemmeno lui era nessuno? A cosa serve studiare undici anni di
medicina per fare due taglietti, ci vai tu, con la tua chiave
inglese, rigorosamente sporca così scivola meglio. Tu fai tutto con
il martello, anche filosofare. Lo faceva anche Nietzsche nel
Crepuscolo degli idoli, ma era una cosa diversa. Il suo era un
martello metaforico, ed un martello di precisione perché doveva
smontare dei concetti capitali che avevano plasmato la creta del
mondo per millenni. Tu invece i concetti li prendi barbaramente a
mazzate e li schiacci. Ma non li ammazzi, te lo assicuro. Non li
ammazzi. Spesso non li colpisci nemmeno, e dopo di te resta tutto
come prima. Il compagno Marx ragionava poco meglio di te, ed era
dunque meglio che restasse un operaio. Invece, ha deciso di fare il
filosofo, e sono stati cazzi amari per milioni di persone.
Dovremmo fare una rivoluzione per questo, dovremmo imporre una
Fabbricatura dell’Intellettualato come misura temporanea per la
creazione di una società più giusta.
Per selezionare i bambini a seconda
delle rispettive inclinazioni, li si ponga di fronte ad un oggetto
composto di molti stimoli eterogenei e si registri quali tra questi
egli scarta immediatamente, quelli che prende in considerazione ma
alla fine scarta, quelli che prende in considerazione ed alla fine
accoglie, e quelli cui si aggrappa invece subito e saldamente il suo
interesse.
L’educazione consiste nel portare un
bambino nella direzione
che prenderebbe da solo se fosse già
vecchio.
Non esistono visioni incomplete,
percezioni incomplete, reazioni incomplete, scelte incomplete. Quello
che vediamo è completo per noi nella sua incompletezza oggettiva, ed
abbiamo una piena reazione ad esso, con tutto il nostro essere.
Non esiste alcun metalinguaggio, perché
il linguaggio stesso è un oggetto fisico sottoinsieme dello stesso
universo di oggetti fisici. Un termine di metalinguaggio è un segno
che corregge un altro segno, reagisce ad esso in questo modo, opera
su di esso proprio come il primo segno linguistico era intervenuto
sul primo dato empirico, era un gesto autodifensivo attuato verso una
realtà percepita come non completamente piacevole e non
perfettamente conciliante i nostri bisogni.
La soddisfazione dei letterati non è
quella di aver espresso bene qualcosa, poiché questo ha un potere
irrisorio nei confronti della realtà esterna che è la vera fonte
del male sulla quale intervenire. La soddisfazione dei letterati è
quella di poter portare, tramite il linguaggio, le energie di molti
uomini dalla propria parte ed agire collettivamente su quella stessa
realtà che li affliggeva.
Il termine espressione è usato
con molta sciatteria. Dunque: se una realtà ha impresso in me un
sentimento, io posso scoprire che lo stesso sentimento può essere
impresso, in un’altra persona, tramite una combinazione di parole.
Ma tali parole, se fossero solo serie di macchiette su un foglio
oppure sequenze di suoni, difficilmente potrebbero davvero avere lo
stesso effetto di una realtà empirica maggiormente potente. Queste
parole sono dunque efficaci tramite l’associazione, ossia tramite
il loro significato, che empiricamente sta nella contiguità
percettiva tra il segno e l’oggetto avvenuto contemporaneamente in
due persone. Due persone non possono affatto comunicare se non hanno
avuto una esperienza in comune a contatto della quale è comparso un
termine. Una completa comunicazione è una completa assimilazione: se
non fosse questo un ossimoro in un mondo ancor plurale, in quanto
completa assimilazione significa identificazione. Se due persone
hanno avuto la medesima esperienza associata alla medesima
stimolazione verbale, si può dire che essi abbiano un linguaggio
comune. Infatti, quando sentiranno di nuovo quella parola, ammesso
che esista un sostrato umano, una condizione generale che riceva da
quella parola un effetto simile, ecco che rievocheranno entrambi
quell’esperienza vissuta. È ovvio che, se quell’esperienza fu
negativa, quei due avranno reagito come alleati contro di lei, e sono
diventati dunque fratelli di sangue e di bandiera, e quella parola
diventa la loro parola d’ordine qualora siano stati loro ad
emetterla come grido di battaglia, all’unisono, o invece una parola
sinistra e presaga di sventura qualora l’abbiano sentita
dall’esterno associata ad una perdita. Il linguaggio è dunque
un’arma, ed è un’arma comune qualora sia stata utilizzata nello
stesso modo contro la stessa realtà. Il modo in cui parliamo è uno
dei primi elementi di riconoscimento tra persone simili e di
discriminazione istintiva delle persone diverse. Se noi infatti
parliamo nello stesso modo delle stesse cose significa che siamo
uguali.
Hannah Arendt osserva come Arché
significasse sia inizio che comando.
Platone, nel III Libro delle Leggi, fa
un censimento dei principi che permettono di governare. Quattro di
essi si presentano come differenze che derivano dalla nascita:
comandano coloro che sono nati prima o meglio.
Genitori
Figli
Anziani
Giovani
Padroni
Servi
Nobili
Plebei
Si tratta di un VEL o di un AUT ?
Possiamo stabilirlo solo prendendo in
considerazione il significato dei due termini disgiunti: solo
così potremo stabilire se sono compatibili o meno. Vediamo che sono
compatibili: infatti uno può essere nato prima ed anche meglio. Egli
non ha posto una gerarchia di valore tra i due termini, ed uno da
solo è sufficiente a determinare il diritto di governare, ma i due
termini hanno dunque, in ogni caso, un valore, nella fattispecie un
valore uguale, quindi averli entrambi significa essere doppiamente
legittimati. Tra due individui nati meglio vincerebbe quello nato
prima, e tra due individui nati nello stesso tempo vincerebbe il
migliore. Non essendo fornita però una gerarchia tra i due termini,
non siamo in grado di evincere chi dovrebbe avere la meglio in caso
di contrasto. Ai due termini contrapposti vedremmo sostituiti due
binomi contrapposti, ognuno formato da una virtù e da un
vizio di pari valore, con il risultato di una neutralizzazione che
rende impossibile la scelta in quanto la differenza tra due termini
uguali è sempre zero. Ma le uguaglianze esistono solo nella teoria,
in pratica esiste sempre una differenza che determina la scelta, e
quando due fattori sono effettivamente equivalenti, non è che non si
sceglie, si trova un criterio che lo consenta. Se una scelta è
infine infattibile perché entrambe le conseguenze sono inaccettabili
[per quanto in certa misura sempre differenti] ecco che il soggetto
ritiene ingiusto compiere quella scelta e dunque sceglie di rompere
gli schemi in cui lo avevano costretto, ampliare ed innalzare il
punto di vista spostando la scelta tra quella invisa dicotomia e la
sua negazione, ossia una terza opzione.
Nietzsche [La Volontà di Potenza]: la
logica si basa sul presupposto che esistano due cose
uguali.
Rettifica: La logica si basa
sull’istinto dei molti a diventare uno, il che è possibile
soltanto ponendo ogni ente nella sua posizione gerarchica all’interno
di una sfera concettuale. La discriminazione in sé è sinonimo di
vita, perché le cose sono fattualmente diverse, e non è possibile
reagire ugualmente a due stimoli diversi. All’identità di un
essere corrisponde la funzione, la guerra è il mezzo per realizzare
questa uguaglianza, processo implicito nella teleologia dell’essere
vivente.
La logica come disciplina è una teoria
della guerra, è una guerra teorica in grado di prevedere conseguenze
di collocazioni erronee senza rischiarle direttamente.
I concetti generali non sono che una
prima scrematura dei soggetti particolari:
li si iscrive in un insieme, già di
per sé sottoposto o sovrapposto ad un altro insieme. Poi gli si
attribuisce un preciso ruolo nella gerarchia interna di
quell’insieme. Imparare a parlare significa imparare ad agire e
cioè a collocare, a togliere da un oggetto tutti gli attributi che
non gli competono (dunque dissolvere le relazioni infauste) ed
annettergli tutti gli attributi che gli competono (instaurare
relazioni fauste). Le parole ci colpiscono e ci smuovono perché non
sono altro che proponimenti, presagi di azioni. Nessuna azione è
innocua, dunque nessuno lo è.
Chi mette ordine nei concetti metterà
ordine nella realtà e questo è la Filosofia.
Contro
gli studiosi di biologia che si arrampicano sugli specchi per negare
l’evidenza nonostante abbiano anche le intime nozioni tecniche con
cui confermare quello che è comunque evidente ad un uomo che voglia
essere onesto…
Se
non sono i geni cosa è che determina un livello intellettivo, la
sensibilità, cui conseguono le inclinazioni comportamentali e una
determinata cultura che, in assenza di interventi esterni, si
conserva anche per millenni? Alla scienza voglio ricordare due cose:
1) Lo scienziato è un uomo
e
tutto ciò che indaga è sottoposto ai suoi limiti di razza e alla
necessità di difenderla 2) I soldi alla ricerca li dà o li
nega la politica, dunque ne è la padrona e commissiona le
teorie da “dimostrare scientificamente”, e se un dato empirico
contraddice gli interessi del potere, non è difficile farlo sparire
o “interpretarlo”.
Parti
dai bassifondi di una società a gerarchia invertita, non sai chi
sei, sei abituato ad ingiustizie che non conosci come tali perché il
linguaggio violenta e plagia la reazione naturale dell’istinto che
le rigetta, anch’esso inefficacemente per la debolezza fisica
contro un mondo nemico che in fitte e stratificate compagini grida ed
opera il Male come Bene. Un direttore istintuale che dagli apogei
coordinerebbe in un sol gesto la massa insana del paese,
districandola magistralmente e senza pene indebite, si diffrange in
piccole azioni che trovano ognuna una specifica opposizione materiale
e giudiziale, poiché in ogni ansa di realtà i nemici percepiscono e
vogliono diversamente. Tu puoi ragionar con loro, ossia: ad un
giudizio singolo che si contrappone al loro, chiami in aiuto altri
giudizi che portino la tua bandiera e questa è una argomentazione,
che pesa psicologicamente per il peso della schiera delle parole
udite dal tuo nemico che non lo convincono ma lo vincono
(temporaneamente). Forzano il suo pensiero e dunque il suo cervello
ad operare contro le altre parti del suo corpo. Allora anche lui usa
una contro argomentazione, ovvero i sensi gli vengono in aiuto
liberatorio ponendo ogni sua percezione a contraddire rispettivamente
ognuna di quelle che tu abbia chiamato in causa. E non ci si può
trovare d’accordo, perché la difformità di spirito e dunque di
percezione si ripresenta quale che sia il tema toccato, con la
massima coerenza in ogni partecipante alla disputa, e dunque
discutere, ragionare, non serve ad altro che a complicare le cose, ad
estendere quell’ostilità naturale che già era evidente al primo
confronto, sino ad assolutizzarla addirittura e dunque scatenare uno
scontro che, disponendo delle armi sufficienti, decreterebbe la morte
di uno dei contendenti. Perché renderebbe chiaro ad entrambi che
rappresentano uno per l’altro un nemico mortale, che qualsiasi
spazio lasciassimo a questo essere difforme, sarebbe fecondo di
sventure per noi, anche se molto indirettamente, e dunque quando
scegliamo, di fronte ad un dissenso, di andarcene semplicemente
ognuno per la sua strada siamo solo dei pigri, degli imprudenti,
degli stolti, dei disfattisti, degli ingenui, e nella nostra
tolleranza non vi è alcun valore etico. Spesso cerchiamo di portare
il nostro avversario alla contraddizione. Se però cogliamo
l’avversario in contraddizione non lo abbiamo veramente sconfitto:
o meglio abbiamo sconfitto la sua apparenza, la sua montatura,
dunque la sua prestabilità per un gioco che presuppone certamente
una identità ben precisa, che la contraddizione esclude come
conseguenza linguistica dell’impurezza, la quale si esprime
nell’insicurezza e dunque nella conflittualità d’azione, rivela
una non completa fedeltà, cosa che non lo rende giammai affidabile e
dunque tollerabile a chi debba assegnare lui un compito. Infatti in
un avversario che si contraddice spesso il nostro disappunto è
rivolto alla mancanza di serietà o di onestà, un individuo che non
sembra capace oppure non vuole rivelarsi per quello che è, ossia un
elemento a noi avverso oppure favorevole, un amico o un nemico.
Cogliere un uomo in contraddizione è dunque un espediente utile al
mero scopo di smascherarlo, dunque rivelare in lui una
identità che non è conforme a quella richiesta per ricoprire un
ruolo. Ma l’uomo può anche essere indotto alla contraddizione con
la sofisticheria che cerca di confondere percezioni che per lui erano
invece chiare, di modo che le esprima ora in maniera maldestra e
contorta perché non sa esattamente di cosa si sta parlando, ovvero
alle sue parole non corrispondono precise percezioni, e nemmeno a
quelle che il sofista gli comunica, in maniera volutamente fumosa e
contorta per fargli perdere l’orientamento e renderlo inetto a
qualsivoglia reazione determinata ed efficace. Si tratta ovviamente
di una scorrettezza, mirata nelle persone disoneste ad evitare che il
confronto paritario abbia luogo, mentre nel caso precedente si
cercava di portare alla contraddizione un uomo che aveva percezioni
chiare ma le celava opportunisticamente per travisare la propria
identità ed ottenere un ruolo che non meritava. Nel primo caso
dunque si volevano stabilire delle precise identità: precondizione
di ogni sensato confronto. Nel secondo si voleva evitare il confronto
sottraendogli la sua precondizione ossia la percezione di
determinate identità. Anche questo conferma come non si debba mai
discutere con un sofista: perché manca in lui l’onestà, ossia la
comunanza di obiettivo, condizione primaria di ogni confronto. Quando
invece discutono due persone oneste, è fondamentale dire che ogni
uomo, posto puramente dinanzi ad una realtà chiara, non può non
avere una reazione ben precisa e piena che lo identifica,
e che tale reazione non può essere incoerente con tutte le
altre reazioni pure che egli abbia avute dinanzi ad altrettanto pure
realtà. Giudicata una cosa, noi le abbiamo potenzialmente giudicate
tutte, anche se non è prevedibile a priori il fatto
che gradiremo una musica se abbiamo precedentemente gradito una bevanda. Ma lo statuto di affinità con altre persone rende
invece tale cosa anche prevedibile. La maggior parte delle
esperienze sono state già vissute da un carattere umano, in una
delle sue incarnazioni in esseri singoli: ossia, un oggetto ha
ottenuto una reazione fisica o linguistica, da parte di altre persone
simili a noi, e dunque tali contatti hanno generato un sistema
linguistico, un codice, i cui termini sono naturalmente coerenti
poiché provenienti dal medesimo carattere, la qual cosa rende
possibile la previsione tramite deduzione, ossia evincere un
giudizio da un altro senza porsi direttamente di fronte
all’esperienza, solo perché un altro ha emesso quel giudizio, ha
avuto quella reazione, che dunque saremmo necessitati ad avere anche
noi, poiché suoi simili. Naturalmente questo non potrebbe avvenire
senza la presenza di molti esseri affini e dunque senza una
esperienza collettiva, spartita per settori, che esime ognuno
dal vivere tutto in prima persona e consente un rapporto di fiducia,
possibile solo tra persone di identico carattere. Tuttavia, come
prima abbiamo invalidato la sensatezza di discutere con persone
disoneste e dunque false, ora dobbiamo invalidare anche la
discussione tra persone oneste: perché l’olio non è riducibile
all’aceto, sia che si discuta sopra l’insalata o sopra qualsiasi
altra pietanza che si tirasse in ballo allo scopo di sostenere la
giustezza della reazione oleosa contro quella acetica oppure
viceversa: si può trovare una pietanza sulla quale l’olio e
l’aceto, ognuno, sia ben chiaro, con una specifica e naturale
funzione, possono conciliarsi per uno scopo comune, ed in tal caso la
troveranno entrambi gradevole e cesseranno le opposizioni: sino a
questo punto le due sostanze si ritrovano affini, ed invero
solo il loro ibrido ossia una terza sostanza risulta affine ad un
fine ossia mezzo per quel fine. Anche se bisognerebbe osservare che
un oggetto ibrido può essere utile solo ad un altro oggetto ibrido
precisamente per disibridarsi, ed ogni Utilità è temporanea,
dovendo dissolvere le impurità e dunque annullando una identità
temporanea in quanto spuria.
Ma
nel momento in cui l’aceto si posasse su un qualsiasi oggetto
alternativo, ritroverebbe l’olio che lo rimprovera di aver
barbaramente acetato quell’oggetto, anziché olearlo
come avrebbe fatto lui. Per quanto discutano i due condimenti,
contendentesi il diritto di agire su una sostanza, non possono
giungere ad un accordo, possono solo scontrarsi fisicamente e
prendersi tale diritto con la forza. Il diritto, tuttavia, non ce
l’hanno entrambi, perché uno dei due può avere un effetto
devastante sull’oggetto sul quale interviene, che indirettamente
diviene l’intero sistema, che nel suo insieme non può meritare mai
di essere danneggiato. Quindi la guerra è inevitabile e giusta, ed
il più intelligente deve essere anche il più forte e non farsi
scrupolo di ammazzare l’avversario.
Ogni
vero scienziato è un uomo che possiede una capacità percettiva
superiore agli altri in un determinato settore, e secondariamente
relativa al suo livello più macroscopico oppure ad un livello
maggiormente subalterno. Costoro sono destinati ad essere degli
innovatori, perché la loro passione li conduce a smontare tutto ciò
che stride, nella realtà e dentro il loro petto percettore, nel
livello scientifico odiernamente raggiunto ed istituito. Se costoro
sono spiriti dello stesso livello quanto a coefficiente di
risoluzione della loro vista, eppure differenziati nell’ampiezza
del campo visivo e dunque nell’interesse, vediamo che, se
operassero ognuno la ricerca relativa, criticamente rispetto alla
scienza di oggi, i loro risultati, posti a confronto, sarebbero
coerenti, e sistematizzando appunto tutte queste singole
ricerche potrebbe operarsi una grande rivoluzione scientifica. Un
progresso può e deve tirarsi dietro tutti gli altri: ogni singolo
vero progresso, per quanto settoriale e piccolo, è un pinnacolo di
scoglio che si erge sul mare degli errori odierni, che deve essere
preso a vessillo di un cambiamento generale, perché esso rappresenta
il pensiero più evoluto del sistema concettuale dell’epoca, quello
che già appartiene alla prossima epoca, il cui piano deve essere
raggiunto da tutti gli elementi affinché quella possa essere
chiamata tale: un frammento di cambiamento non è una rivoluzione
come una rondine non fa primavera, è solo un segnale di lieto
augurio, ma tutte le gemme devono fiorire e le acque disciogliersi,
il clima temperarsi ed il paesaggio assumere una veste uniforme
perché si possa dire che è cambiata le stagione. Ma ogni reale
innovazione, veritiera, è un segno dalla provvidenza che la civiltà
tutta ha ancora una speranza di redenzione.
Quel
raggio di luce è in grado di rincuorare spiriti anche molto
distanti, appartenenti a tutt’altri ambiti disciplinari ma affini
nel livello intellettivo di quel ricercatore al quale tributano
immensa gratitudine non appena scorgessero, d’improvviso e
casualmente tra le righe di articoli scientifici di altra e pessima
matrice, due singole righe di quella musica così diversa e di
qualità, si trattasse anche solo di una ardita ipotesi e non di una
tesi comprovata: perché l’ipotesi di un cervello superiore è
necessariamente vera e per le prove non v’è che da attendere.
Questo contatto,
per
colui che ne giovi, rappresenta sempre una conferma ed un punto di
appoggio di valore inestimabile, soprattutto se questi di già fosse
privo di molti appigli nella sua zona d’origine e spesso si fosse
trovato a dover lanciare il suo pensiero ad innestare basi mancanti
nelle lande oscure di settori scientifici di cui non è competente né
molto partecipe. Dovunque un frammento di materia nobile, o di
pensiero nobile, giunga in contatto con spiriti affini, stia sicuro
di suscitare un effetto vitale come altri non ne potrebbero questi
trovare sul loro cammino, che nei momenti più drammatici delle anime
perdute raggiunge addirittura la commozione. Sappia dunque un
linguista controcorrente che esiste da qualche parte un fisico
controcorrente che si è scontrato contro lo stesso livello di
bassezza sistemica e ne ha sofferto quanto quel musicista
controcorrente che se incontrasse quel pittore controcorrente gli
chiederebbe di illustrare i suoi dischi ed andrebbero a cenare a casa
di quel cuoco pieno di originalità e di buon gusto al quale
piacerebbe guidare una macchina progettata dagli ingegneri che
applicano le teorie di quel fisico raccontate con lo stile di quel
linguista. Se questo cenacolo di personaggi affini potesse creare il
proprio sistema, non basterebbe cotale affinità a dare avvio ad una
organizzazione spontanea, perché non ci sono organizzazioni
spontanee laddove manchi anche solo un elemento: per la visione
d’insieme
occorre
ebbene la vista del filosofo.
La
filosofia migliora le singole scienze ponendone in correlazione i
principi, che esse prendono singolarmente come postulati per poi
dedurne delle conseguenze: se tali scienze fossero davvero perfette
ossia integrate in un sistema che applicato alla realtà si traduce
nell’innesco di un progresso continuo ed unitario, esse sarebbero
già un sistema filosofico e politico, che non stimolerebbe alcuna
riflessione sistemica di tipo necessariamente critico. In questo caso
nemmeno singoli innovatori nelle singole scienze sarebbero richiesti
e la creatività in generale trasvolgerebbe in mera esecuzione.
Invece la filosofia è in ogni epoca tanto imperfetta quanto lo sono
le singole scienze, poiché la sua inefficienza, dunque
l’inefficienza del sistema politico fondamentale, è basata sulla
impossibilità di farle combaciare. Il singolo scienziato di livello
è uno specialista che però ha la vista migliore e fin dall’inizio
mette in discussione grossolani ed ingannevoli principi fondamentali,
ed egli è capace di operare una rivoluzione scientifica, che però
può diventare una rivoluzione sistemica solo se parallelamente altri
specialisti del medesimo livello hanno fatto la stessa cosa nel loro
campo, ed infine un filosofo dello stesso livello connetta il tutto
creando una ideologia politica pronta ad essere applicata da un
grande personaggio. Se mancassero singoli grandi geni, e ce ne fosse
uno filosofo, egli potrebbe nondimeno spianare la strada a future
innovazioni tramite uno strumento che è accessibile solo a chi si
interessi del tutto e possieda un punto di vista generale: il suo
confronto tra i principi delle discipline rivela delle
incoerenze, ed egli sa che dovunque ci sia incoerenza sono presenti
degli errori, cosiccome nella vita quotidiana ha sentito vari
stridori laddove tutte queste anime hanno preso corpo e moto. Si
tratta appunto di errori che non possono essere individuati da
singoli scienziati non creativi, vincolati al dogmatismo della
scienza istituita. Se c’è un errore alla base, l’unico modo in
cui può aversi un progresso più settoriale è che un piccolo
innovatore si sia messo ad osservare un fenomeno privo della sua
gabbia concettuale colla quale sarebbe stato tenuto ad interpretarlo,
e vi abbia visto più giusto di chi lo aveva osservato
precedentemente essendo altrettanto grezzo di chi si è invece
occupato di problemi più fondamentali sparando generali minchiate,
ed abbia imposto ai subalterni di sviluppare ad albero quello schema
concettuale entro il quale sarebbero dovuti collimare tutti i futuri
esperimenti. Se gli esecutori di queste ricerche applicative sono
altrettanto grezzi del maestro, se non erano in grado nemmeno di
percepire come non convincente la formulazione generica del
principio, essi non potranno neanche notare che gli esperimenti
specifici lo invalidano: la loro sensibilità personale difettiva
troverà in essi invece le conferme di quell’idea, come un figliolo
figlio proprio di suo padre non trova nulla da ridire nei suoi
insegnamenti, anche laddove li stagli nel suo piccolo mondo infantile
e non in quello del genitore adulto.
Il
filosofo è un individuo che per assumere una decisione serena circa
l’imbrattamento dei monumenti ad opera dei piccioni di un comune di
provincia dovrebbe scomodare i massimi sistemi.
Il
conflitto tra architettura e regno animale non è cosa che si possa
dirimere dal basso. L’ufficio comunale che si occupa della
questione probabilmente non la prende nemmeno in considerazione meno
di sei mesi dopo l’esposizione formale delle proteste dei cittadini
e quando poi finalmente lo fa, la deliberazione non richiede più di
una ventina di minuti di gestazione piuttosto agevole e priva di
turbamenti: tutto al più i dilungamenti sono di ordine burocratico
ma non morale, ed anzi dettati per lo più dal disinteresse generale
verso questioni non personali. Va da sé che il comune non risolverà
il problema alla radice: ma per la gente comune questo non
rappresenta un problema. Essa più che radicarsi si appoggia, e si
vuol libera di scivolare. Il popolo vive o si illude di vivere in un
panta rei, dove tutto diviene e nulla è, tutte le zolle sono
mobili e non necessitano di comporsi in una gerarchia che trascenda
l’istinto egoistico delle singole a sopraffare l’elemento che con
loro qui ed ora si scontrasse. Tolto il necessario e lasciato il
contingente, la contingenza diviene per loro la unica necessità, e
qualsivoglia intrusione di questioni generali necessita innanzitutto
di essere scagliata via per prima come scomodo problema contingente.
Il Conflitto, che per loro è sempre particolare per quanto duale,
non può generalizzarsi, dunque aumentare di complessità e
doversi allora necessariamente disporre in ordine verticale e non più
orizzontale, stabilendo in tal modo un ordine di priorità
nella risoluzione dei conflitti. Questa è una cosa che interessa
invece sancire ai boss della filosofia e della politica. Nella
singolarità di un soggetto non è possibile sancire una gerarchia e
dunque un ordine verticale. La priorità che resta effettiva per lui,
ovvero l’ordine unitario con cui affronta i problemi, non è altro
che la sequenza naturale in cui questi gli si presentano uno
dopo l’altro: logico dunque che non la scelga lui, egli ci si
imbatte. Ma egli può essere dissuaso e deviato da questa istintiva
scelta solo per l’intervento di un gerarca che dallo snodo
superiore decida che quel suo conflitto va posticipato, poiché prima
ne viene un altro. La gerarchia verticale è quella degli intelletti,
che analogamente ragiona in orizzontale come linea perpendicolare
alla larghezza, dall’alto verso il basso, e si è creata appunto
dal confronto naturale tra soggetti dei quali il primo, il più
forte, abbia sottomesso il secondo, e dunque un ordine che
provenga da lui, una sua disposizione, sarà sempre più forte
degli altri che vi entrassero in conflitto e nessuno che davvero
abbia trovato la sua locazione gerarchica per scontro diretto
tenterebbe una insubordinazione, perché sente di aver bisogno di un
punto di riferimento superiore per rendere vincente la sua azione,
laddove il suo snodo non sia l’apice dell’algoritmo.
Ma
per chi abbia perso ogni orientamento e sia in balìa di ciò che la
vita gli porta, i problemi non son mai radicati né radicabili: si
tratta di piante erranti, galleggianti, roteanti, serpeggianti, forse
rampicanti, ma nulla di ciò viene letta provenire dal profondo di
qualche landa da scandagliare. Questa percezione delle cose motiva la
scarsa attenzione che l’uomo comune dedica allo studio.
Egli
non lo ritiene necessario: le sue decisioni sono sempre piuttosto
rapide ed egli ha fretta di concretizzarle, perché una pulsione non
va in effetti trattenuta nel corpo una volta che abbia fissato il suo
obiettivo e le forze fisiche la sostengano. Dunque egli biasima e
sprona con una certa sgarbatezza chi invece se ne resta assorto in
ponderazioni e studi complessi come una persona poco risoluta.
Ignorando che ella possa avere un problema assai più grande da
risolvere di quello che lui è convinto di aver risolto. Certamente
colui che volesse risolvere in maniera radicale e definitiva il
problema dell’urbanesimo piccionesco merdabondo dovrebbe inserirlo
in un piano coerente di reimpostazione sistemica. Il filosofo è uno
che applica istintivamente il principio kantiano del trattare
qualsiasi cosa come fine e non come mezzo: tale è la ragione della
sua lentezza decisionale sulle questioni singole e spesso del suo
infastidito rifiuto di occuparsene adesso, ossia con gli strumenti
limitati del particolarista che asservirebbero uno scopo più grande
al suo scopo personale. Pertanto egli mostra di frequente il suo
disfattismo riguardo ad esse, soprattutto quando esse non siano
nemmeno ed anche per lui delle fastidiose scaglie contingenti
ed egli abbia l’energia per scagliarle via, bensì problemi di già
più complessi che altre persone, quelle che propriamente sarebbero
tenute ad occuparsene subito, vedono come completi in tale visione e
sono determinati senza remore ad una soluzione che appare altrettanto
completa ed appagante, ma di cui il filosofo percepisce subito
invece la relazione con altri problemi e dunque i confini di quel
problema più grande, che egli è tenuto al contrario di altri a
riempire di ogni panneggio, e per risolvere il quale ha già
individuato un altro ordine di priorità, un altro piano di lavoro,
anzi vi stava già lavorando da sempre poiché costituiva la sua vera
causa, mentre se gli viene richiesto di focalizzarsi sulla soluzione
singola, egli sa che per lui non è affatto singola, come gli altri
la vedono avallandone l’egoismo e partecipandovi a cuor sereno, ed
invece è una propaggine di un problema più complesso al quale
costoro pretendono di anteporre la parte, lasciando il quadro al suo
destino, guastandone le pianificazione risanatrici, e dunque
mortificarlo in onore di quell’arrogante e barbarella particola.
Queste prepotenze sono davvero molto sgradevoli e financo odiose per
chi abbia visioni superiori: esse sono infatti ingiustificate ed
ingiuste come ogni insubordinazione gerarchica. Il filosofo merita un
ruolo dirigenziale proprio perché è l’unico che è similmente
infastidito e mortalmente inappagato dalle angustie della
particolarità, che invece rende le soluzioni altrui fiere e serene
sebbene siano temporanee e personali e non invece costanti in quanto
universali. Se queste soluzioni sono state pur valide nella loro
temporaneità, sicuramente anche il filosofo ne giova, egli che gravo
del tutto in ogni momento avrebbe diritto di esser sgravato del
tessuto massivo del singolo per conservare di questo solo la siluetta
strutturale che ne consenta la correlazione con gli altri elementi,
in un insieme sinottico che è il vero oggetto del suo lavoro e di
cui detiene giusto diritto di gestione e responsabilità. Mentre lo
specialista si deve addossare pienamente la massa del singolo
problema, con la controparte dell’essere sgravato da preoccupazioni
relative ad altri problemi e precisamente il come quelli siano
interconnessi, e parlassimo noi dei problemi pratici del mondo del
lavoro o di quelli teorici del mondo della ricerca. Il corretto
equilibrio sociale, dato dall’impegno costante di tutti in analogo
livello di sforzo, è espresso appunto da questa spartizione del
lavoro, ed è anche ciò che consegue in una soluzione organica, la
più rapida possibile ed unitamente quella meno passibile di
regressione, dei disagi di una civiltà e che tutta la porta verso
uno stadio di sviluppo superiore. Quando vi è una collaborazione
reale, quando orbene tutti stanno lavorando allo stesso problema e lo
stanno facendo bene, la conseguenza logica è che tutti stiano
facendo la stessa fatica. Allorché cesserebbero anche le dispute sul
concetto di ingiustizia sociale che maggiormente si riferisce,
appunto, al peso della vita distribuito in maniera così poco
equa tra i diversi cittadini o classi sociali, laddove ognuno pensi
solo al suo interesse e però alcuni lo perseguano da posizione
avvantaggiata. Qui invece ogni teorico sentirebbe quotidianamente lo
stesso peso di ogni pratico. Ed ogni astratto lo stesso peso del
concreto, dacché l’astrattezza non è che una concretezza disposta
diversamente, quella di chi si occupa di un corpo che è la
stilizzazione, dunque l’impoverimento dell’inessenziale al suo
scopo, di una serie di oggetti i quali, nel loro complesso
strutturato, hanno lo stesso peso specifico dell’oggetto singolo di
cui si occupa un altro studioso e che viene appunto definito per
questo un oggetto concreto. Ma in senso lato son concreti
tutti: anche il concetto di Essere che, ben lungi dall’essere
vuoto, è l’insieme delle relazioni organiche, oppure il
concetto di Divenire, che è l’insieme delle relazioni
contingenti, ossia delle contaminazioni. Quandunque un filosofo
ragioni di essere e divenire, non si abbia l’insipienza di
affermare che egli stia vaneggiando o facendo discorsi campati in
aria. I suoi discorsi sono campati in terra e su tutto quello
che la restante massa lavoratrice mantiene ed opera su questa terra,
ma egli stesso sta armeggiando niente meno che con i Pilastri della
Terra che, sebbene stilizzati, sono talmente alti da essere assai
ponderosi. La caratteristica fondamentale del vero filosofo e del
vero politico, redentore della scienza il primo e redentore
della società il secondo, è che appunto essi non si sentono
estranei e dunque disinteressati ad alcun aspetto della realtà,
sebbene non siano mai interessati fino in fondo ad alcun suo
frammento, almeno non nella composizione imperfetta che questi abbia
assunto nel qui ed ora, che per altri invece è interessante in se
stessa e non la considera qualcosa da rimettere globalmente in
discussione e scompaginare. Adunque tutto il mondo è paese, con i
suoi monumenti ed i suoi ospiti, sicché la Piccionaggine e la
Monumentalità non escludono l’Umanità, e diventano per chi le
gestisce questioni estetiche e morali. Essendo il filosofo coinvolto
in questi processi con tutta la sua anima, la sua indagine non
rappresenta mai una distaccata e distensiva contemplazione, ma una
guerra dei mondi trasferita dentro sé, della quale egli sente
ogni moto, emozione, contrasto, colpo, contraccolpo, tradimento,
astio, vendetta, biasimo, e poi certamente anche brama di
realizzazione in ogni sua parte che gioisce, che viene parzialmente
appagata ogniddove le sue componenti si affermino. Il filosofo è
biologicamente un corpo sistemico, ed anche laddove abbracci
temporaneamente una filosofia individualista, egli lo fa
ingannevolmente, giacché un vero individualista non ne fa una
questione filosofica e dunque sistemica, mentre lui ancor la spande a
riflessione generalista e general principio, e ciò significa che
quella visione del mondo non corrispondeva al carattere della sua
anima, ma era solo uno dei tanti elementi, in questo caso ideologici,
che egli istintivamente passa in rassegna, definisce, classifica,
infine pone a confronto per evincerne quello migliore, il solo
accettabile in generale oppure ne stabilisce la gerarchia e dunque ne
accetta il pluralismo da sussumere sotto una guida generale che
unifica di nuovo il tutto, con buona pace degli svaniti tutti. La
mentalità organicistica non può dunque essere negata in lui, e
discussa solo in maniera impropria, con una contaminazione, come una
illusione di poter mutilare se stessi e vivere a modo degli
individualisti: essa che sarà infine espulsa come ogni impurità. Ma
essendo gli elementi ideologici altrettanto difficili da sbrogliare e
togliere definitivamente di mezzo quanto gli elementi materiali, non
ancora definitivamente organizzati, la guerra dei mondi si mantiene
viva anche tra le correnti di pensiero, sicché in questo senso,
prendendo la seguente frase come emblema dell’infinità dubbiosa
del filosofo, possiamo dire che egli continui a chiedersi ad ogni
occasione se dobbiamo avere il cielo stellato sopra di noi e la
legge morale dentro di noi, oppure il cielo stellato sopra di noi e
la morale sotto i nostri piedi. E solo uno sciocco potrebbe
pensare che in questo binomio il Cielo Stellato rappresenti un
elemento positivo. Esso è una bega astronomica. E gli astri non
devono aver di malocchio gli uccelli né viceversa, sicché non
possiamo fare a meno di conoscerne il punto di vista, le intenzioni e
lo stato di salute, in quanto essi hanno di certo un influsso sul
mondo. Il filosofo non fa pace con nulla che non abbia trovato
definitivamente il suo posto: e dunque sino a che non lo trovano
tutti, tutto è in subbuglio, tutto è in frantumi e danza, tutto
frantuma e ricompone in una danza erotica e violenta che a volte
stupra gli amanti e fotte i cadaveri, ed è allora una danza macabra,
lei che vuole dismettere questa maschera oscena, riprender la mossa
che conduce all’estasi, nell’agir la più etica estetica azione.
Tale turbinio universale avviene dunque nel mondo come dentro questo
personaggio che ne detiene un campione in se stesso. Se nella
questione della sua vita sono ad un bel momento comparsi dei
piccioni, e la bega tutta non abbia ancora dato il suo esito
risolutivo, avendo egli iscritta nell’animo una sorta di
responsabilità eterna verso le specie aviarie, rievocherà questa
guerra dei mondi anche mentre si trova sul cacatoio di casa sua,
allorché abbia visto un piccione appollaiato sulla grondaia
dell’edificio latistante. Quando magari, quella volta il piccione
non ti caga nemmeno. Passava di lì tranquillo ed aveva già scordato
tutto. Poi tu insisti, riemergi la questione, complicandola sino ai
confini che essa ha per te ma non per lui: lo talloni da presso, e
lui ti manda a cagare. Ovviamente tu non ci vai anche se ci fossi
andato per cause di forza maggiore. Potresti una sera essere andato a
teatro e guardare una bella rappresentazione, e svariarti, ma…
Che
in essa non compaia alcuna penna! E neppure un battibecco!
Altrimenti, se tu vai in bagno, e pure che il bagno stia al piano
terra, il conflitto piumato prontamente rievocatosi, or nella tua
mente sublimante si vede estendersi turbineo ad ogni ordine di palchi
sinché tra nulla ti ritrovi in piccionaia. Se un’anima possiede
maestose ali, non importa di dove tragga decollo: essa vuol toccare
gli apogei. Di lassù non si vede un cazzo, naturalmente, se non le
sagome degli attori in proiezione ortogonale e qualche battuta
attutita nelle sue gamme più impressive: sicch’ei si perde
l’opera. Tuttavia la cosa non risulta sempre di svantaggio: se egli
avesse guardato l’opera, ed non ci fossero mica piccioni né
suggestivi volatili, nessun mi convincerà che i barboncini delle
nobildonne inglesi seicentesche sono amici suoi. Quand’è che egli
possa esser felice? Laddove nei ranghi egli sia spettro quieto, e sol
dalle cime divino aceto.
Sociopsicologia
del dolore
Se
tu sei stato all’Inferno e te ne esci con il muso lungo e l’aria
da vittima, non ti baderà nessuno. Ma se tu sei stato all’Inferno
e te ne esci con il portafogli di Satana, ti porteranno rispetto.
La dimenticanza alleggerisce la
coscienza e spegne il rancore ma con esso spegne anche le sue ragioni
e la loro forza. Quando ritornerai in battaglia, laddove c’erano
determinazione e rabbia ci saranno ora vacuità e spaesamento, se non
addirittura un sentore di colpa, stimolata dall’ostilità del
nemico cui non hai più gli elementi per contrapporti. Attenzione a
dimenticare ciò che non era stato risolto…
Ad ogni uomo in pena…
Dio non ti può aiutare, perché devi
ancora diventarlo
E prima c’è la croce.
Ogni divinità è l’incoronazione di
un uomo che ha fatto per primo qualcosa di straordinario, grazie al
suo coraggio.
Frammenti
di filosofia della civiltà
Non è conveniente scrivere niente di
personale, per la semplice ragione che l’autobiografismo tradisce
la sfiducia nella vittoria finale, o per lo meno la constatazione che
ci sono state delle imperfezioni e dunque delle sconfitte nel
percorso, e noi ci teniamo a documentare quello che è successo per
scagionarci da accuse ingiuste, in quanto pensiamo che la colpa stia
all’esterno. Implicitamente ci proiettiamo già dinanzi al
tribunale dei nostri nemici, a rispondere dei nostri misfatti, quando
invece potremmo anche vincere ed essere loro seduti al banco degli
imputati, alla mercé dei nostri inquisitori. Scrivere la storia
prima che la battaglia sia conclusa toglie di fatto alcune nostre
energie in servizio al fronte per metterle a lavorare nelle retrovie
già conquistate: quando la cura del territorio va invece sempre
sottoposta alla conquista di esso e al mantenimento del nostro
dominio. Se vinceremo, avremo le mani libere ed allora potremo
scrivere tutte le narrazioni che vogliamo, siccome plasmare quel
territorio secondo i nostri canoni estetici e regolarlo secondo i
nostri canoni etici. Ma il vincitore non ha invero bisogno di
scrivere alcuna storia, salvo il caso in cui i suoi avversari siano
ancora vivi o possano comunque ripresentarsi in nuove compagini,
sicchegli deve attingere al corpo della prossima generazione,
portando più persone possibile dalla propria parte, tramite la
propaganda. Ma se tu scrivi la storia e perdi la guerra, essa non
varrà nulla: sarà infatti cancellata, distorta, negata, respinta,
occultata, rigirata, tagliuzzata, trasvalutata. Non vi è santo che
tenga su questo punto e nessuna eccezione. I nemici sono difformi a
te e piegheranno ogni cosa alla lor volontà. La vittoria non è
dunque una cosa dalla quale si possa prescindere: senza di essa tutto
il resto è niente.
Perdere le guerre è l’evento più
significativo in assoluto: la prima lezione che dobbiamo apprendere
dalla storia. Si suole contestare questa opinione citando esempi di
nazioni che, uscite sconfitte da una guerra e sottoposte ad un altro
sistema politico, hanno visto una rapida crescita economica, e di
altre che, pur vittoriose, sono andate incontro ad una grave crisi.
Quella crescita, e questa crisi, sono nondimeno temporanee, in quanto
spurie. La materia è nulla senza l’integrità dello spirito, nel
singolo come nel corpo di un popolo che, coerentemente con quello
spirito, muova verso una meta comune. Se vi è questa circostanza, la
vita di quel popolo può assumere davvero il tratto patriottico ed il
misticismo, ossia la gioia di lottare per andare oltre nel proprio
destino. Ma la ricchezza economica da sola non è indice della forza
di una nazione, e nemmeno lo è la potenza dei suoi mezzi militari.
Vi sono nella storia esempi di piccole nazioni, povere e male armate,
che hanno respinto, grazie alla fede comune e ad una forte
determinazione a conservarsi, il tentativo di invasione da parte di
un impero. Le capacità di un popolo non si misurano dal prodotto
interno lordo, ed una floridità che non sia giustamente distribuita
contiene il germe della disgregazione sociale, della sua identità di
popolo e dunque compromette il suo futuro. È meglio vivere con poco
da mangiare ma nella propria integrità e nel proprio orgoglio, che
maggiormente ricchi sotto dominazione straniera. La forza morale del
popolo, data dalla coerenza interna, è destinata a produrre nel
tempo anche la ricchezza e la potenza, mentre non è vero il
contrario, dal momento che i cittadini di quel paese tenderanno ad
usare quello che possiedono gli uni contro gli altri, poiché non
costituiscono un popolo di fratelli ma un’aggregazione non
spontanea, ed anzi imposta proprio da tirannidi esterne. Qualsiasi
sistema politico materialista, che trascura deliberatamente l’aspetto
spirituale della vita e dunque il carattere di un popolo, è
destinato a perdere la fiducia dei suoi stessi cittadini, anche
qualora una serie di circostanze favorevoli avessero consentito uno
sviluppo complessivo e un miglioramento delle condizioni di vita
medie. Il concetto di sviluppo perde infatti di significato senza
quello di identità. Ed un aggregato di specie che non sono riuscite
a creare un ecosistema, in quanto possiedono qualcosa di più
profondo che li accomuna e consente quindi una loro convivenza
organizzata, non può realmente svilupparsi come organismo, ed invece
le singole differenti specie al suo interno lottano per trarre il
massimo per se stesse, circondate da molesti stranieri anche in
patria, e possono essere indotte a rispettare le regole solo con la
forza dei tutori della legge, poiché si tratta di regole scomode ed
eteronome, che essi non si sono scelti. La quantità di mezzi che un
sistema politico deve dispiegare a difesa della propria conservazione
è indice di quanto quel sistema sia spurio al suo interno nei suoi
elementi umani, sia di fatto percepito come un nemico da molti
cittadini, e quindi abbia trascurato l’elemento base, razziale, e
quindi spirituale, su cui soltanto è possibile edificare una civiltà
che stia in piedi, sia fiorente, e duri nel tempo. Nell’unità
spirituale di un popolo, invece, la legge diventa nulla più che una
formalità, una serie di principi generali in cui tutti si
riconoscono e che rispettano spontaneamente, poiché quando già una
è la sostanza, essa sa quale forma deve assumere, perché
non potrebbe assumerne altre. Le leggi, siano esse laiche o
religiose, non sono altro che espedienti per ingabbiare e tenere
unito ciò che in natura sceglierebbe invece la libertà e la
separazione. Quando un cittadino non è disposto autonomamente a
rispettare una legge, lo stato deve chiedersi se egli sia veramente
un cittadino di quello stato, o se esso sia davvero lo stato di quel
cittadino. Se tra i due enti non c’è stima, uno dei due deve
andarsene. Il loro sodalizio è infatti dannoso per entrambi. Un
popolo può davvero trovare la sua realizzazione solo sotto un
sistema politico che sia coerente con il suo carattere di popolo.
Questo è precisamente il popolo unito che sarà valente anche
sul piano internazionale, poiché sia nelle azioni di difesa che in
quelle di attacco è fiero di se stesso, non essendo altri che se
stesso, e sa di combattere per la sua essenza. Questa è la sola vera
forma di democrazia. Naturalmente, ogni paese sarebbe democratico a
modo suo, ossia coerente con lo specifico carattere del proprio
popolo. Esso avrebbe allora la propria cultura da rispettare, a patto
che non pretenda di esportarla, imponendola anche solo esteticamente
a chi non potrà mai accoglierla sinceramente poiché non può trarne
beneficio, né arricchimento alcuno, ma solo fastidio, inquinamento,
corruzione. L’inserimento di un elemento oggettivamente estraneo
provoca nella società una destabilizzazione ingiustificata…
In quanto non si tratta di un trauma temporaneo motivato dal fondo
dagli interessi vitali di una comunità: come lo sono invece
le guerre, le sommosse, le rivoluzioni, cosiccome le innovazioni
scientifiche ed artistiche, tutti processi rivolti invero ad una
successiva stabilizzazione della civiltà su di uno stadio superiore.
Si tratta invece di attentati all’Integrità di una
Nazione, base inalienabile di ogni benessere e progresso della
stessa. Quando tali atti hanno successo, ciò che si innesca e
sviluppa nel corpo ospite può essere soltanto un processo
degenerativo. Una sorta di colpa originaria da redimere: analogamente
ad un virus che si fosse insinuato in un organismo, destinato
addirittura ad ucciderlo qualora la sua opera, procedente sicura,
cinica, crudele, istintivamente e razionalmente graduale,
spontaneamente inarrestabile in quanto unitaria e di natura avversa,
non venisse appunto arrestata, energicamente e metodicamente,
dall’organismo invaso, ed infine da questo completamente espulsa.
In tal caso una autorità
sovranazionale non dovrebbe fare altro che garantire la reciproca
indipendenza e non ingerenza dei paesi, qualora se ne conservassero
la possibilità ed il pericolo: ossia qualora i rispettivi popoli non
fossero completamente integri e solidamente radicati su di un
territorio connaturale e che disponga delle risorse sufficienti a
nutrirli e sostenere l’intrinseco potenziale di sviluppo della loro
civiltà. Ma parlare di democrazia in un paese che è solo
un’accozzaglia di elementi eterogenei in naturale conflitto
ed artificiale associazione, tenuto in piedi solo grazie alla
necessità del compromesso tra cittadini e all’efficienza delle
forze dell’ordine, è addirittura ridicolo. Il compromesso stesso,
elogiato come virtù dianoetica somma allo scopo di far accettare e
consolidare il volgarissimo vizio etico consistente nel
sopportare la frustrazione inflittaci dal prossimo come condizione
naturale e giusta della vita sulla terra, anziché discernere
risolutamente tra chi merita un posto, un diritto, e chi non li
merita ed ha il dovere di andare altrove ad esprimere la sua volontà
e la sua natura, ed in un contesto già multi stratificato di
conflitti merita la priorità completa in quanto la soluzione di tal
primario conflitto avalla ed inanella anche tutte le altre. Questo
concetto etico, dunque, tanto ricoperto d’oro da chi ha interesse a
che i problemi non si risolvano, che la conflittualità permanga ed
anzi si moltiplichi, che la frustrazione e l’infiacchimento
progressivo portino le masse umane alla mansuetudine, alla
rassegnazione, alla piccolezza, all’ebetismo, all’asservimento
spirituale oltre che fisico; questo concetto che viene come
controparte accettato e da questa umanità auto parodistica per
giustificare la propria pigrizia, viltà, e magari una stoltezza
precedentemente dimostrata ma al cui errore si potrebbe ancor porre
rimedio se un orgoglio popolare più sciocco ancora non ne
pretendesse l’assoluzione obliosa.
Il compromesso, dico, è invero un
concetto che contiene sempre quello di necessità contingente
e dunque si traduce in termini di una compromissione con tirannidi
altrui, con nature avverse, e mai invece una necessità
intrinseca e dunque una Volontà. Non vi può essere alcuna volontà
di compromesso, giacché esso nasce solamente dalla
contrapposizione di volontà le cui forze materiali siano in
equilibrio e dunque non consentano l’affermazione completa sul
nemico. L’Ipocrisia è per l’appunto la necessità orgogliosa o
debole di mistificare un compromesso, accettato per debolezza,
spacciandolo per una cosa buona in sé. Per una virtù originaria,
quindi, buona in quanto unitaria e non promiscua. Sottacendo che si
tratta di una cosa buona solo per l’evenienza, una cosa conveniente
orbene, non buona, che quindi può essere tale solo
temporaneamente, precisamente sino a che dura quello stato di
promiscuità e dunque di dipendenza dal nemico, che soltanto può
sottendervi, che ne è la condizione di partenza, qual mai
nessuno può desiderare ma solo subire. Quando da una
parte non si è capaci di risolvere il Caos, oppure dall’altra si
ha consapevole premura di favorirlo, si sostiene allora che il Caos
sia la forma suprema di Ordine, che insomma il Male sia il Bene,
ragion per cui dobbiamo abbandonarci al corso delle cose, sinché
reato e onta divenga l’opporvisi - rivolto appunto
alla disorganizzazione, per chi agisca in ottica individualistica.
Per il demonio tentatore è assai facile persuadere i peccatori a
coltivare liberamente i propri piacevoli vizi senza dover rendere
conto a nessuno, reinterpretandoli come virtù e vere fonti di
beatitudine, di piacere terreno senza conseguenze ultramondane,
quelle che in ottica laica possiamo chiamare semplicemente future.
Il Maligno deve solo far leva sulle parti più ignobili dell’essere
umano, dunque le più deboli, quelle già contaminate, già corrotte.
Il maligno non può dunque, originariamente, indurre in tentazione
chi era scevro dal peccato in quanto pieno della sua virtù, o meglio
virtuoso della sua pienezza: ma può ben approfittare di ogni perdita
della retta via, di ogni logoramento, di ogni diminuzione di sanità,
che abbiano investito un uomo, nientemeno che incoraggiandolo a
proseguire su quella strada anziché reagire con tutta la forza
della sua nobiltà, ossia con tutte le risorse ancora presenti in lui
e schierate coerentemente alla difesa ed alla ricostituzione del suo
carattere originario. Il demonio dunque non induce a cadere, ma
spinge verso la china colui che già sta cadendo. Mentre il saggio,
il mentore, il redentore, non può analogamente persuadere al
bene, perché non può mutare la natura degli uomini, che nella
sua purezza è sempre benigna e solo diviene maligna allorché si
corrompe col diverso: ma egli può invece inserirsi come buon
consiglio presso le corrotte genti, facendo appello alle loro forze
residue, le forze risanatrici e ordinatrici, quelle che ancora li
fanno stare in piedi e credere nella realizzabilità del proprio
destino terreno e conseguentemente celeste. Il Cielo va infatti
conquistato sulla Terra: lunga ed impervia è la strada verso la
giustizia. Di questo venivamo ammoniti in tempi ormai talmente
corrotti, nei quali credere ancora di poter raddrizzare la barca era
divenuto appannaggio di poche persone eroiche. Non sembrava più cosa
accessibile all’uomo comune. Sicché tutti erano portati ad
accettare il vizio come condizione naturale, rinunciare ad una
Elevazione che presupponeva un impegno ed una coerenza nel seguire
giusti precetti, di cui non si sentivano più la forza né la
lucidità necessarie. È necessario, dunque, quanto più ci si trovi
in epoche buie, che un predicatore sia un esempio integerrimo. Che
egli tenga duro nella mente, e nell’agire come la sua mente ancor
lucida dice, affinché da qualche parte riemerga la civiltà pura.
Grazie al suo abbrivio, che uomini più deboli, ma ancor
potenzialmente desiderosi di servire il Signore e di nuovo mangiare
alla sua mensa, salgano sulla barca dei giusti, ritrovino la speranza
e la forza di remare, e grazie ai loro progressi trascineranno a se,
allo stesso modo, persone ancor più perdute, più indebolite, e
sfiduciate. Non vi è altro modo, né vi sarà mai, perché il Bene
trionfi sul Male: che il sommo rappresentante del primo conservi e
completi la sua forza ed assuma un ruolo sempre più elevato nella
società, dal quale possa influenzare un numero sempre più grande di
persone. In modo necessariamente analogo vincerà, invece, il Male.
Quelli che parlano del Compromesso come della strada maestra della
propria crescita etica, invitano la gente ad imboccare, invece, la
strada che conduce gradualmente alla mortificazione assoluta. Il
compromesso non elide infatti l’ostilità, ma solo la sua concreta
manifestazione: noi non siamo mai diventati amici, solo che non
possiamo comportarci come nemici, dobbiamo, dunque, essere
contrapposti senza combattere. Paradossalmente però, con la politica
della promiscuità e della democrazia che si sostituiscono alla
purezza ed alla meritocrazia, ci costringono a combattere senza
essere contrapposti, dacché i diversi lasciati al loro posto non si
mettono a guerreggiare, e non desiderano farlo. La strada della
crescita personale e della perfezione etica è invece quella di
ridurre gradualmente la necessità dei compromessi, ossia il
meccanico verificarsi di quei comportamenti che discendono dalla
presenza di nature ibride. Le autorità politiche devono
dunque elidere tutte quelle rinunce che ogni cittadino deve
solamente alla promiscuità personale e sociale, quella che impone un
Prezzo ad ogni bene, che tanto più alto sarà, quanti più soggetti
devono essere mortificati per produrlo, e richiedono quindi un
rimborso. Scopo dell’economia e più in generale dell’etica è di
portare a zero il prezzo di ogni bene. Ossia di realizzare lo
scambio equo tra domanda e offerta, tramite un sistema che presenti
la nuda complementarità (dunque anche la contemporaneità –
biunivocità dello scambio) tra le attività umane.
I principi sono semplici:
1) Nessuno deve produrre cose
inutili
2) Nessuno ne deve produrre
quantità non vendibili - dunque necessariamente invendute
3) Ognuno deve vendere uno
specifico prodotto ad uno specifico cittadino e a nessun altro.
Imponendo questi criteri, il prezzo
di un bene non subisce già un mero livellamento
ed una stabilizzazione su di esso: ma
il concetto stesso viene addirittura annullato,
dacché ogni produzione non comporta
alcun danno, o spesa che dir si voglia.
La Democrazia è la società del
disordine, è la realtà in cui si esprime il concetto altrimenti del
tutto insensato di Anarchia, è lo pseudo governo e la pseudo
politica che avallano e traducono in legge la naturale competizione
tra elementi eterogenei aggruppati sotto un territorio chiamato
erroneamente Stato, se inteso come sostantivo, in quanto ciò che
continuamente diviene non può essere, presentandosi come un composto
di diverse sostanze. Mentre se inteso come forma verbale, quel
termine è corretto, in quanto una configurazione qualsiasi che si
stagli sotto il sole del Paese quest’oggi, avesse anche l’aspetto
di un miglioramento, sarà già messa in discussione domani e ben
presto finita. Sarà un aggiustamento parziale sbandierato a
principio di progresso generale, ma in quanto tale instabile: sarà
dunque un participio passato. Non esiste dunque alcuno Stato in
Luogo, e non avendo coscienza di dove si proviene il suo non può
essere neppure un Moto per Luogo: ed arduo è parlare di complementi
quando manca un soggetto che dia senso complessivo alla frase, ossia
la propria ricostituzione tramite azione, il cui contenuto non può
avere nemmeno una struttura sintattica, alcuna gerarchia d’elementi,
alcuna collaborazione rolistica, non può essere un’azione
risolutiva che dal disagio produce una nuova unitarietà e dunque un
Soggetto politico. Al contrario il territorio nazionale di uno stato
democratico non sarà altro che il terreno di sconclusionata
battaglia di innumerevoli esseri diversi ognuno movente verso i suoi
scopi: ed una tal Democrazia non condurrà mai ad una felicitazione
maggiore delle proprie genti, non diminuirà mai il suo quantitativo
intrinseco di disordine e dunque di infelicità complessiva. Le
forze interne si sballotteranno le sofferenze gli uni sugli altri,
questi attaccheranno e se saranno abili otterranno un
miglioramento, che però non sarà stabile perché quelli
reagiranno. Le fazioni avverse degli umiliati e offesi non accettano
il torto subito e la nuova oppressione in cui si ritrovano, in quanto
non è effettivamente giusta. Sicché agiranno per rimettere in
discussione le cose. Le cosiddette forze dell’ordine, operanti
sotto le democrazie, non sono invero garanti in alcun modo della pace
e della concordia: cose possibili solo in quella Omogeneità che
viene negata di principio e di fatto da tale sistema politico. Esse
sono invece impegnate soltanto ad evitare la degenerazione
bellicosa o financo eversiva, ed avallando il libero gioco
delle forze economiche e sociali, ma non di quelle militari di cui
sono monopoliste, queste ultime si ritrovano ad essere fattualmente
difensori dei privilegi di chi riesce ad assumere maggior potere
economico oppure faccia parte della fazione più numerosa, che di
fatto detta ed impone la sua volontà dovunque si presenti contro una
minoranza. Ecco che la democrazia si traduce in Plutocrazia e
Mediocrazia: ossia tirannide del più ricco, anche se cinico
farabutto, oppure del più numeroso, anche se mediocre imbecille. E
la loro unione consegue precisamente nel fatto che una massa
internazionale di idioti siano pilotati e presi per il culo da una
cricca di affaristi antinazionali senza scrupoli: precisamente a
questo scopo fu inventata la democrazia. In un tale stato, non
vi è nessuno, assolutamente nessuno, il quale possa essere
eletto, od eventualmente prendere il potere con la forza, e
pretendere di farsi interprete e simbolo della volontà nazionale:
poiché non vi è una volontà nazionale, non essendovi un
popolo, e dunque una nazione. Una dittatura popolare è una struttura
volta alla difesa e al corretto sviluppo di una razza, nella civiltà
in cui si esprime il suo potenziale vitale. Una democrazia
multirazziale è una struttura volta all’accrescimento di conflitti
naturali vietati ad essere risolti bellicosamente e pertanto non
risolvibili, e che relega il concetto di sviluppo soltanto nel
piccolo e nell’individuale, senza che il livello di promiscuità
possa essere diminuito e pertanto l’insieme crescere di organicità.
Un corpo sociale promiscuo, al quale si lasci accesso a nuove
sostanze, senza mutare i rapporti di forza e vietando l’espressione
fisica della propria ostilità, non è un organismo e dunque
non può avere alcuno sviluppo organico: esso può portare soltanto
la propria infelicità a livelli sempre maggiori. Ma non vi è
sistema tanto irrazionale da non difendere realmente l’interesse di
qualcuno: ciò che sta in piedi, per qualcuno necessariamente
funziona: percicchebbene l’istinto può essere forzato
contro il proprio interesse, ma non agire contro se stesso quando
abbia le mani libere. Senz’altro perciò, se uno ha le mani più
libere degli altri, toglierà di mezzo tutto ciò che impedisce la
propria realizzazione. L’interesse ebbene difeso da cotale sistema
politico è quello delle élites finanziarie: che possono asservire
le forze sviluppate dalle diverse fazioni, volontariamente poste da
quelle in contrapposizione, senza che però mai possano liberare
la propria potenza ed ottenere la propria libertà. La loro vita
libidica e realizzativa, necessaria alla conservazione della
speranza, dunque del lavoro e della creatività, nel rispetto delle
regole del gioco, viene a questo scopo trasferita su vie traverse e
micrologiche. Quelle avallate e supervisionate dal sistema a scopo di
contentino, fusibile o panacea del malcontento popolare…
1) Una morigerata ostilità
verbale cui si danno gli strumenti ed i diritti di espressione, e
qualche atto concreto distruttivo, legalizzato oppure tollerato
perché salutare ma mai compromettente per le basi del sistema ed i
poteri forti che quelle sostengono imperturbati 2)
L’affermazione economica e commerciale sui rivali, cui si aggiunge
quella sportiva che, estetizzata e trasmessa dai mass media, trascina
a sé anche le pulsioni delle masse che trovano in essa nuove
soddisfazioni: entrambe le forme di competizione sono
sostitutive della guerra vera: ella chell’ascia infine
spazio, avvolta vinta, assoli amici, quali colloro ci sarà invece
collaborazione e non alcuna interminata competizione 3) La
gestione dell’Edonismo, una supervisione dei piaceri più o meno
viziosi che possono essere prodotti dall’apparato capitalistico
stesso, per affogare in variegate nicchie di piacere fisico e in
distensivi mentali divertenti la frustrazione di non poter cambiare
la costituzione fisica del mondo che ci circonda e la gente che lo
abita 4) Un apparato sanitario fatto di psicoterapie e
farmacoterapie che fanno girare altri soldi e danno ad altre persone
la possibilità di realizzarsi servendo il sistema che crea e non
risolve problemi: tutte rivolte a calmare il soggetto, nevrotico in
quanto infelice e giustamente critico nei confronti di una
società ingiusta, tramite un ibrido di comprensione simulata e
falsamente affettiva, falsa attribuzione di un’importanza,
insinuazione di false speranze di felicità che non siano conformi
alla propria natura e alla conseguente ambizione da realizzare, falsa
autogenazione di problemi di vera origine sociopolitica,
dissuasione dalla rettitudine delle sue idee il più delle volte
fondate ed ancor lucide nonostante tutto, soprattutto però dalle sue
brame più vendicative e distruttive, dalle sue critiche più
radicali, astuta vanificazione ed intervento regressista, simulato
adiuvante, sulla crescita personale che il soggetto sia riuscito a
conquistarsi anche privo di supporti esteriori, in direzione appunto
anti sistemica e coerente con il proprio spirito, verepprino
fiacchintontaggio per bieche pasticche, che stabilizzano l’umore:
non dico come, non dico dove…
Il sistema sanitario è alleato al
sistema politico, e la sua funzione medica principale consiste nel
patologizzare, ascrivendole al soggetto incriminato o
paziente, le naturali e sane reazioni alle problematiche ed
alle frustrazioni causate dall’ingiustizia del sistema. Tutti ci
stressano e noi siamo conseguentemente nervosi: il sistema dice che
noi abbiamo delle nevrosi.
Essendo legalmente o materialmente
impossibilitati a scaricare le nostre pulsioni nei gesti, la maggior
parte delle nostre battaglie si spostano nella psiche: sicché noi
abbiamo delle psicosi.
Innumerevoli fattori ci disturbano, ci
mortificano ed impediscono di realizzare la nostra personalità:
sicché noi abbiamo dei disturbi della personalità.
Ovvio che uno psicoterapeuta o uno
psichiatra non potranno mai dire che il paziente ha ragione, e che
non deve cambiare lui, ma i fattori esterni che lo rendono infelice,
altrimenti dovrebbero mettersi contro il sistema che invece consente
loro lauti guadagni e serenità personale:
e dovrebbero mettere sul banco degli
imputati anche se stessi e le loro scelte di vita.
Sul terreno di battaglia, non la
volontà di forza, ma la forza di volontà è l’elemento decisivo.
È quella che può consentire ad un
nanerottolo di intimidire o anche malmenare un armadio. A una madre
di salvare il figlio che sta per essere schiacciato da un carro,
nientedimeno che sollevandolo. È quella che rende le piccole
squadre di provincia temibili quando giocano in casa, benché siano
deboli in trasferta o comunque non possano ambire ad un titolo
nazionale. Chi voglia muovere guerra, a chicchessia dunque, se
intelligente vuol esser stimato, si preoccupi innanzitutto di
apprendere non già quanto egli sia forte: ma quanto egli sia
motivato a conservare ciò che
si tenti di sottrargli.
Ciò che differenzia la competizione
dalla guerra è che nella prima vi è una parziale affinità tra
quelli che si chiamano orbene avversari e non nemici: dacché questi
ultimi sono invece completamente divergenti nel fine e desiderano
allora la distruzione completa dell’avversario. Tra contendenti vi
è rivalità, e dunque una basilare stima purché si osservi la
correttezza. Tra nemici vi è odio, e non vi sono regole poiché
queste ultime presuppongono il riconoscimento di uno scopo comune, il
che costringe a conferire un ruolo, e sempre quindi un valore
positivo all’avversario, del quale giammai si arriva a desiderare
il completo annientamento. Sino a che si rispetta la deontologia,
dunque lo scopo, di uno sport, quel che si dice il suo spirito,
si potrà sempre essere certi di non perdere il rispetto degli
avversari che nutrano la stessa fede, per quanto completa possa
essere la sconfitta che ci venisse inflitta e dunque la debolezza
dimostrata sul campo. Ma qualora nella competizione un contendente
violi le regole, e commetta dunque delle scorrettezze, egli si
trasforma immediatamente da avversario in nemico, e verso di lui la
rivalità travolge in odio, la sete di riscatto in sete di vendetta.
Si può sempre sostenere che un avversario è un nemico superficiale,
la rivalità un odio superficiale, ed il riscatto una superficiale
vendetta. Se si conserva infatti in noi un qualsivoglia desiderio di
rimettere in discussione qualcosa, di riconfigurarlo, è segno che
non lo riteniamo giusto e dunque è per noi intollerabile, come ogni
mancata realizzazione della nostra natura, anche minima. Quando
rispettiamo un avversario che ci ha sconfitti meritatamente,
significa dunque che gli non ci ha veramente sconfitti, che
non ci ha orbene mortificati, ma al contrario per mano sua è
stata annientata o fugata in noi una pecca di cui noi stessi
soffrivamo e della quale ci volevamo liberare. Siam allora grati
all’uomo che ci ha dato una lezione. Solo per questo motivo:
che egli lo ha fatto per noi, anche allorché lo avesse fatto per se
stesso, e l’effetto della lezione è proprio l’averci restituiti
alla nostra pienezza, alla nostra identità e dunque anche
rettitudine e rinnovata fierezza. Noi ci rendiamo conto che non
avevamo mai voluto essere quello che siamo stati fino a poco prima, e
dunque non lo eravamo: eravamo stati condizionati, influenzati,
contaminati. Quando due uomini nobili (ma a dire il vero anche due
uomini ignobili purché di natura affine) si incontrano, ed uno dei
due sia impuro, quello puro è in realtà dispiaciuto della necessità
di dare al primo una lezione, ossia di procurare alla sua parte
nobile un trauma allo scopo di liberarlo da quella parte ignobile che
lo ha colonizzato come un batterio: propriamente solo quest’ultima
parte è nemica di entrambi. Ma quello che ne è ancora invaso,
soffre in essa dell’umiliazione impostagli dall’avversario
amico, e sino a che il distacco del male dal bene non è avvenuto, la
creatura ibrida che si era biformata in quanto bisostanziata si vede
reagire in maniera duplice: propriamente la parte ignobile, quella
che non si è mai fusa in lui ma posizionata nelle zone adiacenti
senza mai cessare di essere separata e sia soltanto e sempre un
organismo ospite, si sente umiliata e vuol vendicarsi: ma per farlo,
essendo lei un intruso, un accidente e non un proprio, essa non può
fare a meno di appoggiarsi all’elemento base, essa deve dunque
sfruttare il corpo estraneo, come nei fenomeni di possessione
descritti da innumerevoli opere e aneddoti, contro i suoi stessi
fratelli. Questo, precisamente, è il meccanismo dell’Ibridazione.
Dobbiamo intenderla come una associazione tra elementi eterogenei,
che pertanto non potrà essere giammai Fusione. Scopo
dell’ibridazione è proprio quello di impedire l’associazione
tra esseri omogenei: quella che invece è necessariamente un
fondersi, un completarsi. È quell’unione, dunque,
che fa la forza, mentre l’altra la paralizza e degenera. Non
può darsi nessun caso in natura di esseri diversi che provino una
qualsivoglia forma di attrazione reciproca e un interesse ad operare
uno scambio di sostanze che non arricchirebbe né depurerebbe alcuno.
Al contrario, la differente natura impone la più
intransigente repulsione reciproca: infatti nell’unitarietà e
dunque nel concetto stesso di natura non trovano spazio alcuna
gradazione o misura, dunque alcuna quantità, e le qualità
differenti non sono commensurabili e non possono quindi avere
rapporti. I rapporti che hanno possono essere soltanto parassitari e
quindi negativi, poiché la vita dell’uno non può favorire, e solo
invece soffocare, frenare, depredare, la vita dell’altro. Noi
possiamo dunque concedere al prossimo solo quello che il prossimo si
è già preso di noi. Quando troviamo un dialogo, un contatto
gradevole, con un essere diverso, può essere solamente perché
siamo entrambi colonizzati di elementi reciproci. Precisamente quel
che succede è che lui parla con il se stesso che è in me (ed
il piacere non è altro che la sensazione di una alleanza tra
madrepatria e colonia che aumenta la potenza), ed io parlo con
la componente di me stesso che è in lui. Fatto sta che tutto il
resto è solamente un fastidio, è quella base eterogenea che non può
produrre mai alcuna conciliazione perché è già completa: mentre
quella fattuale comunione che si crea è una alleanza
ingannevole. Solo che ad essere stati ingannati son precisamente gli
alleati, non certo due soggetti che si mettessero d’accordo per
fingere una ostilità reciproca per meglio danneggiare un terzo
soggetto che si dimostrerebbe quindi il vero nemico di entrambi e
confermerebbe la fattuale alleanza e quindi affinità tra quei due.
Quest’ultima sarebbe dunque una alleanza reale che si
dissimula. Ma nel caso presentato siamo di fronte ad una ostilità
insanabile in quanto naturale che viene travestita da amicizia, come
due divise militari di colore diverso su ognuna delle quali spicca
anche un piccolo stendardo dell’esercito nemico, che già è
scomodo da portare per chi lo indossa e stride alla vista di un
osservatore esterno, ma quando poi i due ufficiali si trovano l’uno
di fronte all’altro, si possono far abbindolare solo dal luccichio
fraterno di quella mostrina e nel parlamentare col nemico possono
captar di esso solo i messaggi che contengono i termini indicanti i
componenti di quel feticcio, il resto non sono che pistolettate
annacquate d’ipocrisia. Una falsa amicizia – ovvero una
commistione con qualcosa di eterogeneo - è la definizione più
calzante del concetto di Malattia: uno stato dal quale si deve
pertanto guarire col solo mezzo della separazione. Questa alleanza è
dunque totalmente illusoria, e tanto più dannosa quanto più si
stringe. Può infatti essere poggiata soltanto sull’impurità ed
aumentare di dimensioni solo in proporzione all’ingrossamento
reciproco delle colonie all’estero, senza però mai poter
corrompere la natura intrinseca del popolo e dunque della nazione
straniera. Essendo orbene le colonie, sostanzialmente e formalmente,
dei furti sul territorio straniero, giammai veramente radicate su di
un terreno che le rigetta e solo, per così dire, appoggiate su di
esso, dovendo la loro forza solamente al supporto ed al legame con la
madrepatria e non sussistendo autonomamente, essendo accettate dal
territorio straniero ed autoctono solo per costrizione oppure per
abitudine, ne consegue che la colonia stessa non sarà mai parificata
al territorio nazionale che la accoglie poiché poggia su un terreno
diverso ed è dunque sempre fondamentalmente a disagio su di esso, ed
il territorio che finge di accoglierla in realtà la detesta ed
aspetta soltanto di poter scacciare di nuovo l’elemento estraneo e
riassimilare il fazzoletto di territorio liberato. La colonia cresce
suggendo nuove sostanze dal territorio che occupa indebitamente, ma
aspetta solo di poterle usare contro quel territorio, verso il
quale personalmente ha rancore perché esso la nutre per esigenze di
scambio e non per amore parentale e che fa sentire il suo sottofondo
ostile. Quello che la colonia farà, in ogni suo eventuale sviluppo,
sarà minacciare sempre di più la zona autoctona, fingendosene amica
e magari accolta da quest’ultima come un arricchimento. Ma non si
diventa mai più ricchi dello stretto necessario, e necessario può
essere solamente annettere alla realizzazione del nostro carattere un
altro stadio o elemento impervenuto: altre cose ci abbagliano e poi
inquinano. Uno stesso prodotto alimentare, artistico, artigianale,
industriale, letterario, musicale, capo di abbigliamento, dottrina
religiosa, filosofica o giuridica, un concetto, un costume sociale,
un modo di esprimersi, tutte queste cose possono sperare di
affascinare lo straniero solo tramite un astuto mascheramento e
dunque a patto che siano presentate e si insinuino negli spazi e
nelle coscienze come prodotti già precedentemente ibridati e resi
maggiormente somiglianti a quelli autoctoni cui la gente è abituata
ed affezionata, e che non rigetta in quanto le sono conformi: ma i
non conformi sono destinati, dopo la catalisi dell’assunzione, a
essere rigettati. Questa finta amicizia reclamizzata politicamente e
dalla politica avallata e incoraggiata nei suoi aspetti concreti,
talvolta addirittura creati tramite il peggioramento studiato delle
condizioni di vita di un popolo all’interno del proprio paese che
spingono molti suoi componenti ad emigrare, ed un complementare
peggioramento delle condizioni socioeconomiche del paese accogliente,
nonché la sua degradazione morale, che spingono quest’ultimo ad
abbassare le difese e a trovare comunque un motivo per accettare lo
straniero e sostenerne gli insediamenti con tanto di specifiche
esigenze, questa prassi porta i due popoli ad avvicinarsi sempre più
l’uno all’altro, a fondersi sociologicamente senza mai
potersi fondere psicologicamente, e dunque senza perdere la
loro naturale avversità che genera stridore e guerra. Le due
compagini, originariamente uniformi in quanto unisostanziali,
generalizzando una politica d’interscambio possono raggiungere una
composizione materiale praticamente equilibrata nel numero di
elementi. Il risultato è che il conflitto si trasmette ad
ogni aspetto della società. La presidia, la pervade, irrigidendola
nella tensione, spargendola di tafferugli o gruppi dichiaratamente in
conflitto, vittime della propria stessa ignoranza o disinformazione
in larga parte causate dal sistema stesso, o risvegliati dal proprio
buonsenso e dalla propria vitalità in cerca di affermazione che
sentono la realtà e l’istinto stridere con le balle assorbite
dall’esterno e che reagiscono a quella patina di apatia
disinteressata o fiduciosa nel meglio, o rassegnata e ripiegata nella
mentalità piccolo individualista, la popolazione in generale
investita da un clima di incertezza, spaesatezza, paura, rabbia,
sospetto, acidità. Anche la nostra vita materiale perde di vigore,
scioltezza, mano ferma, determinazione, armonia col prossimo,
fluidità, continuità, di quei rapidi progressi che una volta
significavano gratificazione e speranza, privi di un rischio continuo
di riflusso o ripercussioni negative, le ansie del confronto e della
competizione si alzano di livello, il pericolo è potenzialmente
ovunque, non abbiamo idea di quale sia il problema da affrontare per
primo, o se qualcuno lo sappia veramente, il nostro pensiero perde in
levità e perspicacia, essenzialità, focalizzazione, dunque capacità
risolutiva, la nostra emotività si fa più complessa, contrastata e
contorta, molte pulsioni non possono essere soddisfatte e questo
aumenta lo stress, il rischio di nevrosi e crisi depressive, siamo
frequentemente lunatici ed intrattabili, fastidiosi, difficili da
comprendere, spiegare le nostre ragioni diviene assai complicato,
considerando poi che pochi hanno il tempo la voglia o la capacità di
starle a sentire, assumiamo quindi un pudore rancoroso di stampo
autodifensivo che si spaccia per autosufficienza intellettuale ed
emotiva, maturità nella comprensione della vita, autocompiaciuta e
serena furbizia, la nostra storia diventa una brutta gatta da pelare,
siamo già molto impegnati ed in maniera per lo più non piacevole,
ma non esserlo potrebbe essere persino peggio, perché il
vomere del nostro pensiero sarebbe allora costretto, innescatosi
istintivamente laddove il corpo sia tolto all’aratro, ad imbattersi
in zolle dolenti e falle del terreno, oppure in territori la cui
desolazione e drammaticità ci angosciano troppo, la cui vastità da
indagare ci scoraggia, la cui vegetazione spinosa non rassicura, né
alletta, ed anzi raggela, la cui incertezza di arrivare in fondo o di
poter tornare indietro è sfidata solo dai più intrepidi e
cervelluti, e bisogna essere a dir bene dei pazzi. Talvolta la
lentezza della soddisfazione di bisogni anche basilari e che parrebbe
invece banale in una società sana diventa esasperante, le assurdità
dei paradossi che vediamo ovunque ci fanno inferocire e poi non ci
vogliamo credere, poi ridiamo per non piangere, sottovalutiamo per
non valutare, sentenziamo per non studiare, agiamo per non
riflettere, assumiamo i capri espiatori presentati dagli opinion
makers oppure ne confezioniamo di nostri che aggradino qualche
personal bisogno, correggiamo stupidità altrui colla nostra, egoismo
altrui col nostro, poi ci sentiamo impotenti a farci qualcosa,
tendiamo ad accettare di partecipare a ciò che non ha senso e ci
giustifichiamo perché sembra impossibile cambiare, perché comunque
siamo in buona compagnia negli atteggiamenti principali, perché in
fondo siamo persone normali e facciamo quello che possiamo, le nostre
giornate sono già piene di impegni, fatiche, responsabilità,
fastidi, del resto poca gente ci ha aiutati ed invero, molti
ci hanno delusi, ingannati, feriti, usati, lasciati, danneggiati, ben
su pochi abbiamo potuto contare, alla fine ce la siamo cavata, forse
fin troppo bene, non è colpa nostra se non siamo il messia, o se
questo mondo ha preso una pessima piega, pensiamo di aver diritto
alla nostra vita e di ritagliarcela anche con maggiore impeto ed amor
proprio di quanto non fatto sino ad oggi, in un mondo che
dall’infanzia ci ha nutriti d’illusioni e gettati agli sconforti,
all’interno di un sistema che non sa più organizzare le cose e non
è più affidabile né idealmente né materialmente. Diviene poi
necessario mentire al prossimo ed a se stessi, determinando una
posticipata ma poi necessaria opera di riaquisizione delle
consapevolezze perdute, della diffusione e rimessa in vigore delle
concezioni corrette. Perdiamo fiducia nelle istituzioni, che essendo
complici se non artefici di tutto questo non ce ne offrono poi una
interpretazione affidabile, una valida risposta e reazione di
rimedio: questo aumenta la perdita del legame sociale con gli altri
cittadini e con l’idea stessa di Nazione che già era stata minata
alle fondamenta e rende i cittadini stessi incapaci di fare le veci
di uno Stato che non difende più la propria nazionalità e dunque il
proprio popolo. Ma ancora i nostri rapporti sociali, anche quelli
positivi, si frammentano, e diventa più difficile
contare su percorsi abbastanza affini da poter giovare di lunghi
sodalizi pieni di contemporaneità e complementarità esigenziale.
Noi siamo costretti a repentine rotture, indeterminate sospensioni,
cali di intensità, improvvise, frustranti attese, accelerazioni,
sbandamenti, sostituzioni, scomodi riallacciamenti, cambi di
programma, schiacciamenti emotivi, sovrapposizioni, parcellizzazione
di azioni che nella libertà sarebbero state unitarie e pienamente
risolutive, interruzioni di percorsi sprovvedutamente impostati per
inadeguatezza cognitiva imposta dalle circostanze, spreco energetico
e temporale, virtù resa necessaria di ben reagire alla cosa
rilanciandosi senza demoralizzarsi o peggiorare la situazione
all’interno e verso l’esterno: ed inutile dire che non tutti
possiedono questa forza o maturità, e nessuno la possiede mai
pienamente, in un mondo discrasico che consente a deboli di agire su
persone forti ma già precedentemente indebolite da analoghi deboli
posti in posizione sociale indebita, rendendo lenta e tortuosa la
loro reazione ordinatrice, che nelle mani della forza intrinseca e
indomita sola può giacere, unica speranza in un Futuro migliore: la
basilare impostazione sociale della nostra civiltà impone insomma
che i danni in qualche modo si verifichino e si sviluppino: e
chissà quanta forza e buona volontà dovranno comparire allora, in
nobili soggetti e locazioni future, per riparare tutte le brecce ed
attuare le modifiche necessarie. Spessissimo siamo protagonisti di
sfoghi deviati e nondimeno irrefrenabili sopra oggetti in sé stessi
innocenti e che reagiranno all’ingiustizia a modo loro, non potendo
veramente accettarla ed originando nuovi dissapori, complicazioni,
cattivi rapporti, guerre, accuse, domande, questioni, discussioni, ed
altri sfoghi su gente che non c’entra, mancando la forza di
stroncare subito la fonte del dispiacere: è così che vittime creano
altre vittime, ed essendo la discrasia sociale ormai generalizzata,
nemmeno si dà il caso che gli ultimi danneggiati della catena si
ritorcano a un bel punto contro i loro diretti carnefici sicché il
percorso si inverta e procedendo a ritroso il torto si stampi infine
ben in fronte all’originario malfattore. Invece, i rancori vengono
ormai distribuiti con la stessa irresponsabilità con cui sono state
distribuite le colpe, ossia le impurità che hanno generato i
problemi. Gente contaminata deve scagliare fuori di sé quanto
ha ingurgitato di molesto, senza poter sapere donde provenisse:
diveniamo l’un per l’altro in primis un’occasione per
scaricare le nostre tossine, ed in secundis qualcosa da
valutare nel livello di intesa, dunque nell’opportunità o meno di
un’alleanza, e nel livello di potenzialità nociva contingente,
dato dal prodotto del dislivello intellettivo per la forza personale
detenuta dal soggetto nemico. Quando siamo tutti puri, queste
valutazioni sono semplici: sono istintive come ogni confronto
paritario, costituito dal contatto tra un soggetto e un
oggetto. Ma nella promiscuità i giudizi son difficili: perché la
superficie non esprime l’anima, o meglio non è detto che
l’esprima. La persona in questione potrebbe avere infatti un
rivestimento contingente, ed anche tutto all’interno essere
disseminata di insanità, ossia di elementi impuri, che spezzano
l’unità ebbene l’efficienza del suo carattere: essi fanno
apparire quest’ultimo incoerente nella fattiva varietà
degli atteggiamenti mostrati, dinanzi alla quale non sappiamo
distinguere direttamente qual sia il suo carattere naturale e qual
invece l’acquisito, che pertanto sarebbe modificabile nella misura
in cui i suoi problemi siano risolvibili. In questo contesto
l’Ignoranza Filosofica, invero figlia spirituale di quella stessa
ed originaria diffrazione e perversione degli istinti che quivi ha
trasvolto il Regno delle Certezze nel Regno dei Dubbi, reagisce
sostenendo, alternativamente, due castronerie di pari livello: che
una persona sia priva di carattere, obbien che il carattere
stesso sia qualcosa di modificabile. Quandi le cose st’anno,
concisamente, nel modo seguente. Passero lecito affermare che uom sia
privo di personalità. Sia manchevole cioè di una forza
contingente che lo renda carismatico nel bene o nel male, ossia per
amici e nemici, per affini e disaffini, i quali sian dunque obbligati
a prestargli attenzione, in mezzo a tanti altri elementi insulsi
ossia non promettenti né minacciosi, per gli amici quale opportunità
di gioia, di vittoria, ed elevazione, mentre i nemici se ne devono
guardare qual pericolo di sconforto, sconfitta, umiliazione. La forza
contingente, ossia la personalità, la buona sorte, è ciò che rende
gli uomini carismatici per chiunque graviti loro attorno: ma solo gli
affini per carattere li troveranno interessanti in modo
sempiterno, anche cioè, nella disgrazia più abissale, e faranno
lega con loro a prescindere dallo stato di vigore e salute. Poiché è
lecito affermare, che essendo la loro causa la nostra causa,
essendo noi complementari nella realizzazione dello scopo, essendo
noi parti distaccate della stessa persona, noi cogliamo in queste una
personalità che va oltre lo stato di debolezza, ovvero di
ibridazione con persone nemiche, qual possa averle investite: dei
nosfratelli condividiam’ossia gioie e dolori. Vero è dunque che le
sue vittorie son vittorie nostre, ed alle sue conquiste egli è lieto
che noi ci appoggiamo più di quanto un padre sia lieto di riversare
il suo patrimonio fruttilavorodecennico, nell’investire sul futuro
di un figlio di cui vada fiero e che ami come prosecuzione della sua
stirpe sulla terra. In entrambi i casi l’eredità del ricevente non
è una appropriazione, pertanto necessariamente indebita, ma
una acquisizione, termine che la rende debita e doverosa da
ambo le parti, dacché solo i progressi del primo uniti ai progressi
del secondo possono condurre alla meta finale. I fratelli si prendono
cura gli uni degli altri e si vengono incontro, rallentando il più
forte a sostenere il più debole, sino al momento in cui quest’ultimo
non abbia concluso la sua parte, necessaria, nella battaglia cosmica
di quella specie umana, e dunque non possa ancora permettersi di
perire senza consegnare ai compagni l’ultimo scrigno della sua
eredità. Ma quando il fratello non può più servire la causa,
quando la sua decadenza è irreversibile, è lui medesimo, nella
nobiltà ossia purezza del suo sangue, a compiere l’ultimo e finale
atto coraggiodenico che gli resta. Il farsi da parte, sacrificarsi,
con quieta e totale fermezza. Dignità e coraggio non sono che la
mera conseguenza della propria natura affine alla causa della specie:
giammai possono essere misurati altrimenti e senza questo
riferimento, e non vi è misura nella dignità e nel coraggio che per
la misura di purezza, sicché nel completamente affine decade il
concetto di misura, ed esiste solo l’accettabile o l’inaccettabile,
l’amico o il nemico, ed ogni nemico è indegno e vigliacco: egli
volge infatti ogni sua risorsa alla nostra mortificazione, sicché
ogni sua forza è debolezza. Esistono dunque una Forza e una
Debolezza contingenti: quelle che possono essere misurate, ma
che non sono reali e pertanto sono destinate a perire, a separarsi
come tutte le qualità ibride, dunque apparenti e non essenti. Ed
esistono orbene una Forza e una Debolezza intrinseche. I due elementi
in cui si conferma la ancor temporale duplicità di un
soggetto che adesso per via di strutturazione gerarchica, e non già
più per disgiunzione, deve ultimare il suo completamento, orbene la
sua oggettivazione. L’elemento Forte in questo contesto
è dato dall’Omogeneità profonda di tutte le righe del testo,
declinazione dello spirito della Natura: l’elemento Debole sta
invece nelle differenze Speciali che ancora necessitano la
strutturazione gerarchica in base ai casi, completamente
invertiti nel calderone di massima promiscuità, dal quale nulla era
più prevedibile dai più nobili, affossati e con la vista obnubilata
sotto congerie di masse inferiori, sicché ogni evento fausto di cui
erano portavoce, ed ogni infausto da cui proteggersi vennero chiamati
casuali, aleatori, termini che esprimono il predominio
della quantità sulla qualità, ossia le epoche buie e democratizzate
in cui gli inferiori governano il mondo. Ma più la scienza
progredisce, più i nobili hanno recuperato posizioni nella gerarchia
sociale e da un belvedere gradualmente più elevato la lor vista può
spaziare sino ai contorni e nelle precise profondità che le sono
connaturate e adibite, sicché ora riesce ad operare più magnifica
organizzazione: ecco che l’indigesto minestrone linguistico,
cosiccome la poltiglia sociale, ritrovano una chiarezza, un ordine,
dei ruoli, e mano a mano convergeranno ad unità, riferendosi i casi
inferiori, via via men probabili nel loro presentarsi in
locazione infausta, ma prevedibili dunque e controllati per
tempo, invece, nei movimenti, sicché la loro stoltezza ruspante non
possa affermarsi col numero sulla qualità, ad un soggetto. La
rigorosa causalità di ciò che in una natura ancora
retrograda sembra essere casuale, ossia il verificarsi di un
progresso, evidentemente avvenuto per la sinergia inconsapevole e la
collaborazione istintiva dei nobili sparsi per il pianeta dopo la
dissoluzione, uomini che ancora non avevano raggiunto la forza per
entusiasmarsi nella previsione, ad un certo punto invece possibile,
di una finale comprensione e ordinamento del mondo, ed erano dunque
rassegnati e scettici nei confronti dell’inoppugnabile teleologia
del cosmo: tale Causalità ebbene, non è altro che una profonda
affinità che vuol infine assimilare anche gli strati più
superficiali, sicché in ogni caso lo spirito della Materia
vuol ridursi ad un solo caso, ogni rapporto all’unità, ogni
complemento al mero soggetto. Di già i casi sono ordinati, in epoche
buie, secondo la frequenza… poiché in esse il numero
conferisce la forza e dunque l’importanza, ed i singoli
hanno senso e speranza solo se si riferiscono alla massa dominante,
al popolo sovrano, agiscono in funzione di essa, funzionalmente ad
essa, sono attributi di essa, brillano di luce riflessa, non
possiedono autonomia senza dessa, essendo perduti e ad alto rischio
di essere soverchiati dalla sua potenza numerica hanno poca
personalità e dunque vengono indicati come senza carattere, non sono
dunque nessuno senza il padre popolo che li conforma ed istruisce,
mentre possono avere un’esistenza e conservarla futura, se si
conformano ai suoi pareri, alla sua guida, ai suoi dettami, alle sue
abitudini, alle sue ambizioni, ai suoi limiti mentali. Mano a mano
invece che i forti resistono e conquistano terreno, scalano le
gerarchie sociali, ecco che gli elementi maggiormente densi di
materia, che ben potevano soccombere solo se attorniati di compagini
formate da singoli deboli ognuno in sé stesso, e la cui
moltiplicazione numerica non potrà supplire alla sua povertà
interiore, che sola può connettersi intimamente e ricoprire un
seggio il cui detentore deve aver ben lo spazio al suo interno,
mantenendosi invece singolo nel corpo, mentre gli altri occupano
spazio esterno in forma di branco ma ognuno di loro mantiene
inalterate sostanze e dunque possibilità di connessioni interne e
capacità organizzative verso l’esterno, allorché quindi il loro
numero ed il dispiego di energie fisiche risultano addirittura
d’intralcio al ruolo di comando, e di spreco verso le attività
applicative che invece necessitano ben di tanti corpi a riempir
levaste piazze e gli operosi campi: allor ben si ricompongono adunque
i ranghi, in base alla densità di materia dei soggetti, ecco
che i frammenti secondari vengon riferiti, sempre, in progressiva
opera di aggregazione, al Soggetto, come suoi complementi.
Egli diverrà infine unico e supremo: ogni singolo elemento in natura
desidera ridursi ad uno, essere inglobato nel tissuto, realizzando
una tappa maggiormente avanzata dell’unificazione cosmica. Quando i
tratti più fondamentali sono stati liberati dal giogo di materia non
ancora organizzata perché incapace di farlo, e soltanto impegnata
invece in dissennata opera di soffocamento e spostamento a vanvera
dei nuclei di condensazione, da questi corpi assemblati in strumenti
utilizzabili nel bene come nel male, oggetti di notevole peso e
volume, incollati anche spiritualmente alla grossolana fisica con le
sue macroscopiche leggi di aggregazione che non possono penetrare i
segreti del microcosmo esplorati dalla raffinata chimica, benché ne
siano dipendenti e debbano ad un certo punto cederle il passo,
ignoranti delle più intime tensioni e adesioni che possano
determinare durevolmente l’unità o la disgregazione del nostro
mondo: quando questi affidabili nuclei ottengono il rispetto che
meritano, una aggregazione più sicura e stabile può avvenire sotto
il loro comando, e tutto il mondo materiale migliorare la sua
efficienza, la sua estetica e la sua etica dunque, data dal maggior
grado di purezza dei corpi, che orbene si organizzano con più
facilità, con meno impedimenti, sono più forti perché possono
evitare ai deboli di attuare relazioni infauste, che cospirano contro
la vera forza e contro l’unificazione del mondo, e mettono invece
ognuno al loro posto, uniti nel bene e separati invece, laddove
potrebbero solo far danni… ecco che la massa debole in quanto
intrinsecamente poco densa si pone al servizio e dunque in relazione
alla massa densa e ne aumenta le dimensioni. Una volta appurati i
soggetti, essi si trovano adesso ad armi pari, ovvero in numero
esteriore pari, e qui prevale necessariamente il più denso, il più
forte, il più intrinsecamente numeroso: forze che, pariteticamente,
per via della loro unitarietà non possono essere misurate,
vengono adesso invece confrontate in una battaglia che vedrà,
necessariamente, il più forte sottomettere, e non dunque uccidere
quel che non può essere scalfito in quanto non ha parti, il più
debole, finendo di espellere lontano da se ciò che ancora lo
conservava impuro, non completo, irrealizzato. È quindi giusto
affermare che nessun essere potrà mai essere puro sino a che tutti
gli altri anche non lo saranno e che dunque uno scontro, un conflitto
tra diversi si avrà solamente sino a che essi saranno ancora
diversi, e dunque più deboli o forti in quanto incompleti o
completi, ed ogni confronto rimane scontro fino alla fine, nessun
processo mai privo di attrito, nessuno spostamento non traumatico,
nessuna guerra incruenta, nessun divorzio consensuale e nessuna
alleanza: ma quando esso sarà ultimato, i partecipanti avranno
pariteticamente eliso ogni loro diversità, non avendo più sostanze
difformi, non avranno nemmeno più forme dissostanziate: qual
espressione coincide col termine Gerarchia, che appunto presuppone
ancora una diversità tra la parti, una volta eliminata la quale, non
vi saranno più Gradi, più Moto, più Numeri. Ma come abbiamo detto,
la priorità è di dissolvere la macro contaminazioni: adalfine che
il forte possa agire in maniera vincente deve essere libero, dee
conquistare se stesso, empire la sua forma fondamentale, agguantare a
se tutti gli elementi necessari, illuminarsi dunque, disperdendo le
ragnatele e le nubi entro cui la massa incolta e sterile lo
costringe. Dissi che quando un fratello di sangue subisce un danno
irreparabile s’incanala in un degrado irreversibile, non può avere
altri scopi nella vita e dunque ragioni di sopravvivenza: quando non
puoi servire una causa, puoi solo danneggiarla, ed altre non ti
sarebbero di soddisfazione, poiché non ti appartengono. Egli allora
si premura di sgravare i fratelli ancor sani ed efficienti dal peso
inutile e pertanto ingiustificabile della sua cura e conservazione.
Intima loro di essere uomini, di onorare il padre nostro, la vita che
Egli ha creato, ed i comandamenti che sono corollario dei suoi
principi di funzionamento: le sue leggi di conservazione e sviluppo.
Che essi non abbiano dunque pietà per colui, carcassa transeunte che
più non merita di vivere, che non gli recano onore piangendolo,
bensì lo offendono e lo fanno morire più dolorosamente, lo fanno
sentire in colpa del preciso terreno che stanno, con la loro mancanza
di freddezza e continuità d’azione, consentendo agli avversari di
riguadagnare, quando dovrebbero invece arrampicarsi schiacciandole
alle sue ultime forze, come gradino umano anche gli consenta o
faciliti un ultimo passo oltre prima dell’autonomia, di già
innalzati tutti dall’edificio che lui aveva contribuito a
costruire, e si ergano dunque questi soldati, a piedi uniti su tutto
quello che di passato era destinato a passare, avendo rispetto solo
per ciò che non può, non deve, e non potrà perire, abbiano essi
verso le scorie della battaglia l’unico scrupolo di
disprezzarle, spazzarle via dove questa non danneggino, dacché esse
si rivelano adora ben parte, di quel fogliame nemico e impuro che
soffoca e marcisce, che non proietta oltre, ma nel passato invece,
colui che cresce dolente di memoria, gravo dei suoi cadaveri
ambulanti incapaci a morire, gravo della sua promiscuità
imbellicosa, morbosamente compromissoria, ignobilmente sopportatrice,
suppurata, fermentata, liquefatta, riadattata a bacino di
prolificazione degli insetti, fuori luogo cauta come altrove era
irruenta, temporeggiante sul nulla quando era stata invece affrettata
su ciò che andava pazientemente costruito, rispettosa degli inutili
a scapito gli utili, conservante la vita contro la vita, respingente
la morte che serve alla vita. Il futuro che le forze giovani sono in
grado di costruire è il solo elemento per cui il morente fratello è
dignitosamente vissuto ed ora vuol dignitosamente morire, il solo
elemento in cui egli vive ancora ed è ancora con loro, la
stele di bellezza incorrotta in cui egli desidera ancora essere
riconosciuto ed amato, sostanzialmente superiore alla congerie
devastata e avvizzita dei suoi mortali difetti, di quella logora
spoglia che già la sorte avea deciso di umiliare e vispazzare dal
gioco: e qual presunzione antieroica, antiprometeica, è questo
discutere il giudizio degli dei, innalzar quel coso che loro han
condannato apper farlo tornare dall’Ade… tant’è, egli non
tornerà: ma rammentarlo, ahimè, brutto della sua brutta
fine, sarebbe solo un soffrire, un trascinare alla vita un frammento
di morte che par si voglia imperitura con lei, capace però, solo a
d’avvelenarla. Ma chi sia vissuto e morto per una causa ha
riversato in essa ciò che solo importava di se stesso, ciò
che solo era davvero se stesso, ed egli tutto vivrà in
eterno, senza alcuna diminuzione, se tutto converge senza
esitazione al podio supremo di luce ghiacciata. Dacché si perde
per sempre solo ciò che non ci appartiene, e di quel che si
perde temporaneamente non è il caso preoccuparsi: sevvero un
bel giorno ritornerà, giaccosì è scritto. Concentrati adunque su
quello che hai, godilo e spacca la prossima pietra, ignora ciò che
ti fa soffrire, issati bene sul solido ad impostare la prossima
mossa, non affidarti a fanghiglie, non invitare alla pugna cuore che
gioia non provi, braccio che nerbo non tiene, non contemplare la
forza con occhio debole, lasciale stare sgretolate tegole, languidi
impeti, improvvide scelte, intemperati climi, traumatici incontri,
incomplete immagini, inafferrate vette, ritardate tappe, inesaurite
seti… Perché sì legarsi a ciò che non ti ha meritato, forse
che meriti il suo disagio eterno? Ripenserai al mancante quando
sarà di nuovo tra le tue mani, in gratalamica s’orpresa, romantico
abbraccio, conciso fremito, rapido appago, eppoi oltre…
E oltre si vada, che la
perfezione realizza sai, il quelsi futuro che non è il passato, se
solo
smettiamo di idealizzare il presente
come non plus ultra della vita essente, qualcosa che a noi non
doveva morire sicché non potrà mai farlo: ello teniamo in vita
a forza, dobbiamo fissarcelo in casa nel suo mortalli vore,
ravvolgere a listroli sordide bende, e contemplarne l’orrore in
necrofilo amplesso, così dogni giorno, e di notte sognarlo, figliare
col lui sol piccoli zombi che perseguan le cause all’adorato padre.
Non invece abbracciare, di gusto cristallino e nordico ardore, ciò
che si slancia eterno dalla vita etri bellissimo, pacistò che nessun
si fermi, a raccogliere ciò che non ha più alcuna importanza, e
meditabbondo e piagnucolloso. Attraverso il rimpianto della sua
spoglia mortale, il fratello priva i compagni di una parte dilloro
forza, dillor fierezza ell’ibertà d’azione: egli che vive in
loro ancor muore in loro, essendo sopravvissuto in forma
zomboide, con il sentore di tornassi indietro, arrestar la causa,
effrenare la corsa, di gravare le spalle di chi ancora è capace
d’iccorrere insino ad il dover compiuto: quandillicui vebb’efferito
lasciasill’ui al suod’estino, sen zalacrime indignitose, che non
lasciano morire i morti e ne avvelenano le eternità viventi.
La nostra impurezza rende dunque
ambiguo il nostro carattere, che potrebbe presentare una apparenza
molto sgradevole e minacciosa, oppure una amabilità temporanea di
cui non è pertanto responsabile, la quale occulti affatto un brutto
carattere, qualcosa di nocivo per noi. Dobbiamo quindi distinguere la
crusca dal grano, giacché il libro e la sua copertina potrebbero non
aver lo stesso autore. Da un uomo pieno di se stesso e dunque sano si
può invece scorgere, sentire anzi, da un superficiale contatto il
suo potenziale positivo, quello che invita ad una associazione e ne
prescrive i limiti, nonché la durata, qualora si inserisca in un
percorso sociale convergente alla risoluzione complessiva e che
lascia intuire dunque un ordine di priorità nelle operazioni: quella
che migliorandosi gradualmente vede
sempre più persone, anche, collaborare ed ostacolarsi sempre meno
dal momento che sempre più chiare e univoche divengon le visioni,
conseguenza del fatto che sempre meno promiscue son le persone di
diversa levatura intellettuale. Quanto entriamo in contatto con una
persona inquinata, egli è sempre primariamente una minaccia, non già
di sconfitta ma di ulteriore inquinamento, essendo ella
prioritariamente necessitata a ricomporre se stessa, scaricando
l’estraneità, cui potremmo talvolta anche giovare se ci risulta
affine, a patto che ci rendiamo conto non provenga dal cuore. Tale
operazione di purificazione personale è necessaria perché ognuno si
volga a quella battaglia posizionatrice che compete alla teleologia
dell’essere, e nessuna posizione sarebbe stabile, può pretendere
di essere occupata felicemente da un impuro, da un ibrido. Anche il
nostro contatto col prossimo non è razionale, nella promiscuità con
cui è stato concepito, per cui i nostri scarichi di alterità
raramente sono positivi, e la socialità non rappresenta dunque un
naturale rimedio all’insanità personale: alla vita sociale, per
quanto possibile, bisogna volgersi quando si sta bene, e si sta bene
quando si è pienamente se stessi. Mettersi in relazione da malaticci
corrotti, non è solitamente un buon affare, in primo luogo perché
ci si scambiano scorie, e poi perché queste ultime nascondono il
nostro vero carattere e rendono il rapporto rischioso.
La nostra quotidianità vede infatti
continue intrusioni, contatti improvvisi e non desiderati: e poi
macchinosità, difficoltà, ipocrisia e compromesso nel
districarsene. Vittime di ingiustizia, diveniamo noi stessi più
ingiusti, perché non pienamente padroni di noi stessi, e con la
vista annebbiata dal fastidio e dalla mancanza del suo seggio ideale.
Vediamo la scena sociale e conseguentemente psichica pervadersi di un
nuovo strato temporalesco fatto di indesiderati confronti col
comportamento tenuto del prossimo, in cotali situazioni, senza che
nessuno sia completamente scevro da errori di giudizio nel valutar
dei soggetti implicati la forza, debolezza, egoismo, altruismo,
nobiltà, bassezza: nessun che abbia il tempo l’intelligenza
l’impegno o le nozioni sufficienti a determinare in linea teorica
quali siano i propri diritti e doveri in tali situazioni, visto che
il relativismo filosofico adesca con una apparente libertà e nega
poi il vero conforto ed l’affidabile guida, dacché la Dea
Filosofia, assunte le vesti dogni donna di malaffare, può essere
dolce e venale sportello, ma a tempo determinato, e privo di amore e
fedeltà, sempre qualora onesta…perché vi son Filosofesse che
prendono i soldi e scappano, lasciandoti povero ed umiliato.
L’uomo di oggi, nel regno di
contrasti e pretese e minacce, se le trova di fronte a svellere un
equilibrio precario precedentemente ottenuto e non senza fortuna, di
qualche semplificazione, affrancamento e certezza, ma questo nuovo
incontro l’accorge che non poggiava sul solido ed allora lui non sa
più come debba comportarsi, se possa proseguire tranquillo il
cammino con l’impostazione di prima, volge lo sguardo intorno e
vede disorganizzazione, insicurezza, che l’elemento perturbante sia
singolare o altrimenti ben diffuso, egli non sa cosa chiedere a se
stesso, sino a che punto compromettersi, nella sostanza e nel sistema
di pensiero, chiede che ruolo hanno gli altri, e se lo han se lo
fanno, le istituzioni, infin non si definisce chi e quando si debba
occupare di che cosa, sacrificare, sobbarcare, chi possa orbene
declinare, chi possa affermarsi con la forza o rivendicare comunque
una priorità… né si trovano persone che nei casi specifici siano
sempre in grado di distinguere il torto dalla ragione, che non
accusino dunque o vengano accusati ingiustamente: e tutto questo
genera nuovi turbamenti spirituali, rancori, ostilità e discussioni,
analogamente difficili a dirimersi causa la mancanza di un’autorità
di riferimento affidabile, sia intellettuale oppure politicamente
coercitiva, oppure odio verso la presenza effettiva di un’autorità
di questo tipo, ma con la quale non siamo per nulla d’accordo,
senza tuttavia possedere la forza di sovvertirla: da qui la nostra
vita si può incanalare in un percorso di ribellismo logorato ed
indomito oppure in un alveo di rassegnazione finto adattata che
peggiora la qualità della nostra vita e necessariamente anche il
servigio che diamo alla società, ed a chi si relaziona con noi, e
lascia di fatto tutto il peso e la responsabilità di un’eventuale
lotta per il cambiamento ad altri od alle generazioni future. Oppure
i due percorsi si intrecciano: moltiplicando i processi che facciamo
a noi stessi e quelli che ci vengono mossi dal prossimo circa
coerenza e forza personali… poi si compete analogamente tra
soggetti processati con tali nuovi parametri di valutazione, si
contestano le procedure o la loro non equa applicazione. Essendo
fattualmente contaminati siamo più deboli di quello che siamo, senza
che altri se ne possa accorgere, sicché qualora il loro giudizio sia
più potente del nostro, ci costringe a conservare in noi l’elemento
estraneo che, continuando a presenziare in noi, fa sentire la propria
debolezza come nostra, quando è solo passeggera ed inerente appunto
a tale promiscuità indesiderata, ma la nostra essenza spirituale la
rigetta per riavere se stessa e solo se stessa conseguentemente
sentire: ma sino a che è presente una pluralità fisica è presente
anche una molteplice sofferenza ed una inquietudine e bellicosità
mentale dei punti di vista che non sono altro che le percezioni
reciproche delle parti in causa sostanzialmente difformi, e questo
bellicismo interiore rallenta una azione esteriore risolutiva…
In quanto contaminati siamo tutti più
deboli, e dunque lo siamo verso i nemici esterni, che ne approfittano
per affossarci elevando lo spicco della lor posizione, che grazie
all’asservimento conflittuale delle forze estranee può dominarle
pur essendo, eventualmente, la più debole in assoluto, quella che ad
armi pari verrebbe spazzata via da chiunque e senza contraccolpi. A
questo scopo, noi veniamo quotidianamente forzati ad affrontare
esperienze ed imprese che non abbiamo avuto il modo di preparare, ed
il cui esito sarà un fallimento oppure un successo spiacevole e
denso di effetti collaterali. Nella gabbia sociale, ci imbattiamo in
moderazioni forzate dell’espressione e dell’azione, rimbecchi,
resistenze, rimproveri, critiche, raddrizzamenti, riadattamenti
all’esigenza del prossimo, influssi o riflussi della sua prepotenza
egoistica, che poi si pretendono correzioni o aggiustamenti.
Poi ecco comparire il carro dinanzi ai buoi, ecco là il tetto prima
della base, poi ragioniamo prima della corretta definizione dei
concetti, mettiamo a sistema equazioni ipotetiche, assembliamo ciò
che non funzionava singolarmente, ecco modifiche in corso d’opera
senza poter ricominciare o disporre di uno spazio costruttivo
maggiore o di maggiori risorse ora che il preventivo si è rivelato
difettivo nei costi e nei tempi. Poi alleanze improvvisate o forzate
con uomini d’estrazione e situazione altra, poi divisione in parti
di problemi che potevano essere risolti in monoblocco senza tutta
questa discrasia strutturale nel seno del sistema e poi passare alla
fase successiva senza cantieri aperti di indeterminata terminazione.
Ecco qui smontamenti e poi ricostruzioni, qui e laggiù viaggi
inutili, ovunque terapie forzate, terapie mancate, barriere psichiche
permeate, scelte processate, tempismi forzati nella rapidità o nella
lentezza. Viviamo rapporti di cui non c’è il tempo, rapporti in
cui si perde il tempo, rapporti inquinanti, disturbanti, frenanti,
logoranti, devianti. Rinnoviamo caute esposizioni verso nuove persone
ad alto rischio di delusione. La diversità sociale suscita incidenti
e scontri che turbano gli animi. Viene convogliato in essi un
coacervo di dubbi, pregiudizi, distorsioni, fraintendimenti,
questioni ancora aperte poi dibattute presso tutto il corpo dei vari
paesi, nell’irresolutezza tipica dei sistemi politici democratici
che non possono certo porre un freno a questa confusione concettuale
e dottrinaria. I sistemi politici non autoritari e già improntati al
lassismo irresponsabile si premurano invece di rallentare la
società nei naturali movimenti e nello sviluppo che questa avrebbe
se non fosse promiscua e non dovesse dunque combattere se stessa.
L’origine di tutto questo interminato dramma sta nel fatto che
siamo stati tutti quanti messi gli uni contro gli altri come giammai
ci saremmo schierati in natura, dal momento che era preferibile
restare distaccati nella propria integrità. Coloro che parlano di
integrazione hanno per scopo la disintegrazione.
Svegliati Dorian, hai ricevuto un dono
che, a patto che tu lo utilizzi senza scrupolo alcuno, può farti
avere tutto quello che desideri... Tutto, Dorian, e senza perdere
nulla. Sai quante persone sarebbero pronte a uccidere il padre per
avere un decimo di quello che puoi avere tu? Guarda il tuo volto…
Guarda il tuo corpo… Dorian. Cosa ti
manca? Un’anima bella, forse? Hai mai sentito parlare di un’anima
bella che si sia goduta la vita? O che ne abbia avuto qualche
speciale ricompensa? Esiste dunque davvero, l’anima, Dorian? O è
solo l’invenzione di chi non aveva un corpo? I moralismi sono le
invidie dei perdenti, i limiti ciò che la gente non ha il coraggio
di oltrepassare. Non esiste altro inferno che quello di colui che non
ha ciò che vuole su questa terra, Dorian... non esiste altro peccato
che perdere un’occasione. Non esiste altro male se non l’incapacità
di prendersi il proprio bene.
Dinanzi al fulgore lapidario di queste
argomentazioni, che cosa poteva mai ancor trattenere il giovane dal
prendere la strada indicata? Le preoccupazioni di un patetico
pittore?
Una cosa è dissuadere un uomo da un
comportamento che sarà effettivamente accessibile solo tra
lungo tempo e dopo impegnative
battaglie, dissuaderlo, dunque, dall’utilizzare cinicamente
qualcosa che ancora non è stata conquistata e chissà se mai lo
sarà. Ma distogliere un uomo da un piacere che questi ha a portata
di mano, per la potenza delle sue armi, ed una posizione privilegiata
rispetto ad eventuali concorrenti o avversari fustigatori, è
veramente un’impresa. Nel caso poi le argomentazioni addotte dal
proprio mentore siano oggettivamente più forti di quelle rivali…
veniamo all’impossibile.
È più facile persuadere alla resa
colui che già aveva cominciato a cedere. È più facile persuadere
alla guerra colui che già è adirato. È più facile spingere
all’espansione un uomo che già si sta espandendo con successo. È
facile spingere alla prudenza un fifone. Rabbonire un docile. Dire ad
un pigro che bisogna prendersela comoda. Convincere un ladro che il
furto è un peccato veniale e perdonabile. Sostenere dinanzi ad un
fisico che la scienza è superiore alla filosofia. Credere che una
persona che ci ha feriti è assolutamente priva di valore. Che una
persona che per noi ha avuto dei vantaggi, ne abbia avuti invero
molti di più. Che chi ci ha ingannati lo abbia fatto in maniera
molto più radicale di quanto pensiamo. Convincersi che l’entità
delle nostre ragioni possa essere approfondita. Che sia giusto che la
legislazione civile debba evolversi in senso favorevole
all’espansione dei nostri diritti, o nelle misure prese per la
sicurezza della classe di cui facciamo parte. Che la materia o
l’abilità in cui siamo maggiormente proficui è quella che
maggiormente rivela l’intelligenza umana. Che le qualità
dimostrate dal nostro atleta preferito siano le più importanti al
fine della valutazione globale, e quelle degli atleti rivali vengano
prese in considerazione solamente in maniera impropria. È più
facile credere al tizio che sta argomentando contro una tesi la cui
verità non potremmo mai accettare, o dinanzi alla quale saremmo
completamente destabilizzati.
Non
è possibile non essere razzisti perché non è possibile non
appartenere ad una razza e rappresentarne gli ideali operandone
istintivamente la realizzazione. Intendo per razza l’insieme delle
caratteristiche innate, e pertanto non modificabili, di un individuo.
Nella razza bianca esistono svariate sottorazze o sottospecie con cui
uno di noi non vorrebbe aver nulla a che fare: e nulla dovrebbe
averci a che fare senza mettere a repentaglio il proprio
benessere e infine la propria sopravvivenza. I propri stessi genitori
possono appartenere ad un’altra razza, estremamente nociva e
nemica. Non si può dunque condannare il razzismo come concetto allo
stesso modo in cui non si può condannare la guerra: ogni condanna è
infatti un atto di guerra su base razziale. I nemici del razzismo
sono dunque semplicemente dei razzisti al contrario che però,
consapevoli di essere inferiori intrinsecamente oppure per quanto
riguarda la posizione di forza contingente, non hanno interesse a
manifestare la propria volontà di sottomettere, e se necessario
annientare, le altre razze. Nessuno ti odia perché sei razzista: ti
odiano perché sei di un’altra razza, e come ogni razza anche la
tua non tollera commistioni e necessita di un determinato spazio
fisico per realizzarsi pienamente. Questi due principi: la completa
intolleranza del diverso e la necessità di realizzare totalmente se
stessi, invero l’uno la parafrasi dell’altro, sono le due
fondamentali leggi, ed in realtà l’unica legge, in cui si esprime
il concetto di Natura. E andare contro natura è innaturale e
pertanto impossibile. Allo stesso modo che l’odio e l’amore sono
una cosa sola: giacché si odia per amor di se stessi e si ama per
odio del diverso. Non esiste un essere che non odi tutti gli altri
esseri, i quali non gli siano affini e dunque parti dello stesso
essere che deve collettivamente ritrovare la sua pienezza originaria.
Quello che vien tollerato non è amato ma sopportato e quindi usato:
ed il chiasmo è lecito.
Ora
detengo ancora un ampio margine d’incertezza circa quale fosse lo
scopo finale dell’hitlerismo in ambito razziale. La mia ultima idea
era che egli non avesse intenzione di sterminare alcun popolo ma solo
di purificare il sangue originario dei fondamentali ceppi etnici e
restituire ad ognuno uno spazio idoneo sulla terra in cui costruire e
reggere la propria civiltà, nella coerenza della natura omogenea, e
sviluppare sino ai suoi limiti intrinseci la sua capacità
civilizzatrice, una volta raggiunti i quali tale civiltà dovesse
solo conservarsi. Il problema è che ciò che ad un certo punto si
ferma, necessariamente regredisce perché non ha esaurito la sua
vitalità ma non le pone altre mete. Conseguentemente mi appare
chiaro come non sia possibile che una razza esaurisca il suo
potenziale di sviluppo senza impadronirsi, prima o poi, delle intere
risorse del globo e utilizzarle per il suo scopo: ossia il
perfezionamento della propria civiltà, ottenendo così la felicità.
Quindi nessun popolo abbandonato a se stesso se ne sarebbe mai
rimasto per sempre entro i suoi confini naturali, poiché questi non
possono essere altro che i confini del mondo intero, ed è una
aberrazione o comunque un atto di semplicismo dire che un popolo sia
nato per stanziarsi e rimanere stanziato in un determinato clima e
ambiente naturale e addirittura con dei precisi limiti territoriali.
Questo implicherebbe anche che la sua popolazione non debba superare
un preciso limite anagrafico: una volta che la civiltà razziale
fosse giunta al suo apice intrinseco di organizzazione e tutti i
ruoli fossero occupati, un aumento di popolazione che non si
limitasse alla sostituzione degli elementi che invecchiano o che
muoiono vedrebbe una impossibilità di occupazione e costoro
sarebbero solo un fardello impossibilitato a migliorare la civiltà
nel solo modo possibile: ossia ingrandendola tramite
l’espansione territoriale ed operando sul rinnovato tabellone un
superiore livello di specializzazione del lavoro e la completa
occupazione. Ma se una società fosse davvero perfetta, se avesse
raggiunto il suo scopo ultimo, non sarebbe più neppure attaccabile:
nemmeno dalla vecchiaia dei suoi componenti, dalla malattia, dalla
guerra o dalla morte. Se una società è vincolata a lavorare,
lottare, e riprodursi per mantenere, tramite il rinnovamento ed il
ricambio energetico, il suo livello attuale di benessere, può essere
solo perché ciò che un popolo ha acquisito nella storia non gli
spetta mai per diritto di nascita ma solo per diritto di
conquista, e dunque chiunque può cercare, ed anzi cerca con la
medesima necessità naturale che porta ogni vita ad espandersi, di
sottrarglielo per annetterlo a sé: e solo una sconfitta totale del
nemico e dunque l’uniformazione
del
mondo può eliminare per sempre il pericolo di regressione ed essere
quindi definitiva.
Le
guerre conoscono degli armistizi e dei periodi di pace solo perché
le energie ad un certo punto scarseggiano e bisogna riguadagnarle
prima della prosecuzione: giacché nessuna vittoria mutilata felicita
davvero il paese e l’annessione dell’ultimo fazzoletto può solo
attendere tempi migliori ma non essere una rinuncia definitiva.
Quando una civiltà si trova stanziata in un territorio sul quale
abbia stabilizzato uno stile di vita e dunque un sistema creativo
della ricchezza, e la vita nazionale abbia assunto dunque un
carattere abitudinario, quello che basta mantenere per due
generazioni allorché si possa parlare di tradizione popolare, essa
sembra essersi realizzata come
tale
e quindi adagiata in tale forma e livello di organizzazione.
Il
fatto è che non bisogna mai adagiarsi, e sentirsi invece
costantemente a proprio agio.
L’agio
non è mai dato dalla pace: bensì dalla vittoria costante, dal
tenere il passo delle proprie pulsione espansive, dall’avere sempre
la forza di affermare l’istinto.
In
questo caso la durata della battaglia non è nemmeno percepibile, in
quanto unitaria, e quindi irreale, e noi siamo sempre ugualmente
giovani anche se sempre più anziani ovvero sempre più grandi, più
maturi, più vicini allo stadio finale che ci completa. Ogni agio
finisce nel momento in cui la vita regredisce, ed essa lo fa nello
stesso momento in cui cessa di estendersi. Non esiste dunque una fase
di stallo che non racchiuda una regressione interna dovuta ad un
blocco energetico imposto dalle circostanze, oppure un accrescimento
energetico interiore imposto dal possesso di un territorio ricco di
sostanze benefiche cui si contrappone un analogo blocco nemico ai
suoi confini abbastanza forte da non consentire un nuovo scontro
prima che noi ci siamo irrobustiti di queste nuove sostanze. Se la
pressione esercitata da questo blocco è inferiore alla pressione
espansiva interna consentitaci dal diritto di attingere a queste
sostanze benefiche, il nostro è un equilibrio piacevole perché
espansivo, è un’attesa piacevole, una cattività piena di
speranze, figlie dirette delle gratificazioni che ci donano i
progressi quotidiani, la sensazione di aumento energetico, che la
rende ben sopportabile, dunque quasi un rifugio, molto più
confortante del pensiero di uno scontro immediato a scopo espansivo
contro un nemico di cui non siamo ancora all’altezza.
Nessuna
abitudine può essere costante perché implica la ripetizione
di un movimento bellico contro un nemico che si ripresenta in maniera
periodica con forza identica a quella che abbiamo sconfitto una volta
e dunque, rigenerando lo stesso quantitativo di energie, vinceremo
senza ulteriori sforzi creativi: la creazione infatti non è che
conquista, espansione, e dunque costa fatica perché implica la
sconfitta di nuovi nemici ai quali non eravamo abituati perché non
li avevamo mai sconfitti prima. Se le espansioni fossero tutte
metodiche non esisterebbe il concetto di fatica, perché nessuno
avrebbe il ricordo di una resistenza tramite la quale, sebbene noi
abbiamo vinto, l’avversario ci ha logorati od inquinati che dir si
voglia: e solo con una ulteriore espansione noi potremmo scacciare
queste scorie e dunque ogni ricordo sgradevole. La conclusione è che
la guerra col diverso non sia solo posizionatrice, ma eliminatrice, e
dunque non si uccide per arrivare a sottomettere, ma si sottomette
per uccidere, e ultimata la sottomissione militare degli inferiori,
essi rappresentano comunque un fastidio perché alcun ruolo
produttivo nel seno della nostra civiltà può essere assegnato loro,
che un rappresentante subalterno ma omogeneo della nostra specie non
possa svolgere meglio, ovvero in maniera coerente con quello di tutti
gli altri professionisti: egli dovrebbe essere dunque necessariamente
eliminato come elemento intrinsecamente inutile, ineducabile, non
integrabile. Un popolo è dunque destinato, prima o poi, ad
intraprendere guerra con gli altri popoli. La guerra è una cosa
inevitabile quale necessità biologica irrefrenabile: se non ad opera
di una necessità biologica avversa e più forte. Quindi i casi sono
due: Hitler non aveva considerato questo, oppure lo aveva considerato
ed il suo obiettivo finale era davvero lo sterminio di tutte le razze
inferiori per lasciare l’intero pianeta a disposizione della sola
razza ariana che, potendosi adesso moltiplicare numericamente senza
opposizioni e crescere rapidamente di livello per le sue intrinseche
capacità civilizzatrici superiori, avrebbe saputo sfruttare le
risorse della Terra tutta e forse raggiungere la meta finale che la
Provvidenza aveva assegnato al genere umano nella storia
dell’universo. Pare che il Fuhrer, legato al concetto di Nazione,
osservando come esso fosse mortalmente minacciato dalle idee moderne
e fattualmente messo in crisi dalla loro preoccupante realizzazione
storica in rapida accelerazione, volesse solo fermare il folle
cosmopolitismo che contamina in ambito primariamente biologico e poi
culturale tutte le specificità dei popoli, con esse la loro civiltà
e dunque le sue difese naturali e materiali e la loro capacità di
completare il loro sviluppo, asservendo questa magmatica umanità
sempre più informe e promiscua, indebolita dai conflitti interni e
premuta nella frustrazione, ad una élite internazionalista senza
scrupoli, identificata nel popolo ebraico, il cui internazionalismo
era ben lungi dal perorare la causa dell’unificazione tra i popoli,
affinché collaborassero pacificamente verso uno scopo
imprecedentemente comune: ed intendesse invero distruggerli uno ad
uno tramite la vera conseguenza della contaminazione tra diversi
ossia la conflittualità. Attaccando una nazione che si reggesse
nella sua purezza etnica e nel suo uniforme sviluppo civile, questa
avrebbe avuto una coesione interna troppo forte per lasciarsi
penetrare e corrompere dalla minaccia ebraica, priva di una propria
civiltà che avesse sviluppato le risorse materiali e militari per
conquistare altri imperi direttamente con la guerra. L’ebreo
dovette sviluppare dunque una astuzia politica senza precedenti e di
grande precisione per poter volgere, lui che era privo di forze,
l’una contro l’altra le forze altrui: ed infine poter comandare
queste e quelle grazie ad un dominio intellettuale posto in locazione
sopraelevata, anche se privo personalmente di energia fisica e
concrete abilità. Togliendo alla produzione e distribuzione della
ricchezza economica sempre maggiore autonomia nei confronti del suo
rappresentante astratto ossia il Denaro, quest’ultimo da mero
strumento volto a facilitare gli scambi, divenne padrone degli scambi
alterando arbitrariamente i rapporti di valore delle merci prodotte
e, nel momento in cui non era neppure più possibile produrre nuove
cose senza l’ausilio di capitale finanziario, questo diveniva
padrone anche della produzione: chi avesse avuto in mano dunque non
la ricchezza materiale e la capacità di produrla bensì la
gestione del capitale astratto, avrebbe senza fatica soggiogato e
dominato il mondo, facendo lavorare e se necessario combattere gli
altri, visto che anche gli eserciti vanno finanziati. Ogni forza
militare ha bisogno di risorse economiche per funzionare, ma se
queste gli vengono fornite dalla classe politica imperiale, che
ancora difende gli interessi nazionali poiché non può esserne
svincolata, questa potrà schierarle immediatamente a difesa di tutti
i nemici dello Stato, e dunque anche contro questi sinistri
arrampicatori sociali. La chiave per abbattere una nazione era dunque
liberarsi della sua classe dirigente che ne garantisce l’unità e
sostituirla con la loro che promuove la disunità di cui avevano
bisogno perché potessero piegarla senza più significative
resistenze. Gli strumenti politici con cui realizzare ciò erano
stati preparati, e l’ebreo li aveva messi in moto uno dopo l’altro
a comporre la sua oscura e losca trama. Tali strumenti erano,
innanzitutto, la Democrazia che avrebbe eliso il principio di
autorità e responsabilità personale su base meritocratica,
esemplificato al suo apice dalla classe nobile e da questa imposta
come criterio generale di comportamento in ogni strato sociale. Il
trionfo della democrazia sull’aristocrazia avrebbe di fatto
sottratto alla civiltà il suo elemento civilizzatore, ossia
politico, quello che garantisce l’unità nazionale, uno sviluppo
complessivo e dunque coerente e reale. Il campo sarebbe infatti stato
lasciato, nella nuova sede politica parlamentare, agli egoismi
conflittuali delle classi economiche: portando il conflitto di classe
direttamente nell’arena intellettuale che avrebbe avuto il compito
di dirimerlo in favore dell’idea nazionale che non tollera
conflitti interni. La politica è diventata in questo modo
materialista perché privata del misticismo di popolo che si esprime
nell’idea di patria e si esalta nei suoi trionfi materiali verso la
conquista di un futuro più grande. Sono stati creati dei finti
idealismi per lusingare le fazioni di possedere ancora personalmente
quell’elemento di cui uno Stato era stato fattualmente deprivato, e
tali idealismi sono stati utilizzati per adescare gli entusiasmi
delle due fazioni e pilotarli verso le mire materialistiche delle
élites che adesso, tramite il potere economico che aveva sostituito
ed inglobato quello politico, potevano muovere tutte le pedine verso
quella disgregazione che è insita nella materia privata del proprio
spirito. Gli ebrei erano spirito senza materia, erano infelici e
decisero che per conquistare la materia dovevano toglierla a chi in
un altro spirito l’aveva dominata e plasmata. Per corrompere la
materia, tenuta insieme dallo spirito, e dalle élites intellettuali
che ne sono sempre anche i garanti sociali, essi dovevano dunque
corrompere la spiritualità di un popolo. Bisognava agire minando
preminentemente le loro certezze, ossia l’unità degli istinti
tramite la ragione: ossia una moltiplicazione conflittuale degli
istinti. Un popolo che non aveva supporti materialistici ha cercato
dunque di minare l’anima che quel corpo materiale teneva unito e
vitale: ha dunque creato ideologie contro l’ideologia, che una
volta non poteva essere discinta dalla fisiologia, egli produsse
dunque il concetto perverso di ideologia ossia una struttura
concettuale fatta di negazioni degli istinti fondamentali in cui si
esprime la vita: tramite la critica concettuale essa ha distaccato,
dunque ha astratto, i concetti dalle intuizioni, sicché privati del
loro peso essi potessero essere meglio maneggiati e capovolti nel
loro contrario: imponendo poi questo messaggio in tinte forti,
assumendo ogni termine un nuovo significato che si contrapponeva
adesso, massiccio, estremamente minaccioso, contro il vecchio e
soverchiando quest’ultimo, l’uomo avrebbe di fatto contenuto e
mortificato nell’organismo ogni pulsione vitale, tramite il senso
di colpa, ossia l’ossimoro di una attribuzione a se stessi di un
male ovvero di una contaminazione nemica che invece, una volta che è
riuscita a penetrare, adempie alla sua natura ed agisce in maniera
distruttiva senza il nostro consenso, ammesso che sia più forte, nel
nostro apparato psichico, delle nostre forze difensive. Quando il
livello di contaminazione supera la parità di elementi e dunque il
nemico è diventato più forte, esso può agire indisturbato nella
devastazione dell’organismo. La prima sublime arma dell’ebreo fu
dunque il Cristianesimo, ed il suo colpo apripista fu la scissione
dell’unità di materia e spirito: che sola garantisce salute,
forza, fierezza, serenità, prosperità, sopravvivenza, sviluppo e
futuro. La prima arma ebraica ebbe un impatto talmente efficace sul
nerbo dell’Impero, che la civiltà non si è mai veramente ripresa
da quell’evento, e le successive forme in cui l’ebreo ha
riproposto la sua anima disgregatrice hanno richiesto sforzi minori,
sia concettuali che materiali. Come si suol dire: chi ben comincia è
a metà dell’opera.
All’interno
delle classi economiche, i loro singoli elementi operano a loro volta
per fini individualistici, aumentando il conflitto, lo stridore, la
discrasia sociale, il degrado ambientale ed estetico del territorio,
soprattutto urbano dove si concentrano le masse umane, dove non
esiste più un disegno complessivo ma che anche ci fosse non potrebbe
essere rispettato perché tutto è subordinato ad esigenze economiche
e chi ha i soldi può fare quello che vuole, non importa se è
deturpante: nessuna autorità politica è più garante della salute
nazionale. L’atteggiamento solidale mostrato tra gli appartenenti
ad una classe non è vero cameratismo ma difensivismo di classe
di necessità contingente: i singoli sono quindi solamente associati,
ma non consociati con gli altri elementi della propria classe. Il
materialismo è anche necessariamente individualismo, che sottomette
ogni parte del mondo a strumento del suo benessere personale, del
tutto incurante della finalità dei soggetti con cui si relaziona,
ascrivendo ad essi solo una medialità: e dunque usandoli.
Il
misticismo può appartenere solo a chi abbia una idealità sociale, e
sino a che costui non è giunto al potere strutturando gli individui
e le classi del popolo in Nazione, tale stato non nazionale non può
assumere alcun misticismo. Non esiste una mistica dell’unico: solo
invece dei molti che diventano uno, e poi sono in grado di lottare
contro i nemici per la propria esistenza e sviluppo vitale. Non
esiste una mistica del denaro: perché l’arricchimento non muove in
altezza, e solo invece in larghezza. Esso non cambia la struttura del
sistema, ne dimagra elementi per ingrossarne altri. Ma una vittoria
che presuppone una sconfitta per un elemento che continua a far parte
dello stesso sistema è una vittoria apparente in quanto temporanea:
è una affermazione che contiene il germe della disgregazione, e di
fatto lo innesca, e lo sviluppo del mercato in questa inalterata
direzione sfocerà in una crisi economica generale. Un sistema non si
può davvero sviluppare in maniera individualistica: al contrario,
esso può solamente regredire, disgregarsi. Non esiste una mistica
del proletariato: perché la sovversione del sistema non lo porta da
nessuna parte. L’aggregazione con i suoi compagni dapprima lo può
far sentire più forte contro un sopruso che gli sia stato
effettivamente inflitto dal capitalista: e quella di punire gli
sfruttatori e conquistare condizioni di lavoro e di profitto migliori
è una prospettiva di riscatto davvero inebbriante ed anche
assolutamente giusta. Ma i reali desideri del proletario non vanno
oltre questo: se tali condizioni gli fossero state garantite, lui non
avrebbe mai desiderato modificare il suo stato sociale ovvero
appartenere ad un'altra classe, tantomeno alla classe politica. Egli
non vuole veramente prendere il potere perché non essendo in grado
di gestirlo non può ambire ad un ruolo dirigenziale. Istintivamente
egli non si muove verso di esso, non è mai stato il suo sogno
d’infanzia, e se gli venissero mostrati davvero tutti i problemi di
cui si deve occupare un uomo di governo, cosiccome un uomo di
scienza, un insegnante oppure un artista, egli si renderebbe conto
che non fanno per lui, e declinerebbe l’offerta perché non se la
sente e tali cose non gli interessano nemmeno: egli è un uomo della
mano ed è infastidito da tutti i discorsi che si astraggano più di
un certo tanto dalla concretezza ed anzi quasi sempre da una
concretezza molto settoriale. Quando un operaio discute di politica,
parla essenzialmente delle condizioni in cui lavora, del contratto,
di quanto lo pagano, di quanto è a repentaglio il mantenimento del
lavoro, di una operazione scorretta dell’azienda o del politico
legiferante, della pressione fiscale e di altre spese a cui è
soggetto, cosa gli costa questo, cosa gli costa quello, ma non perde
affatto tempo con sociologia, psicologia, pedagogia, teoria
economica, storia dei popoli, filosofia, scienza, arte, matematica. È
giusto che sia così, perché se davvero si interessasse di queste
cose impazzirebbe, sia non riuscendo a gestire la giornata in
fabbrica, e rifiutando anche, spesso, di doversene stare lì col
daffare che terrebbe in un’altra debita sede con la sua capacità
di risolvere grossi problemi, e poi dovendo passare per questa
vastità di spazi la sua concentrazione risolutiva sul problema
particolare e che la vita impone come preminente e prioritario, ne
verrebbe minata e lui in questo binomio di ruoli dato dall’essere
fuori ruolo fallirebbe in entrambi. Se in una discussione qualcuno lo
portasse insistentemente su queste tematiche in un modo che vada
oltre l’accenno direttamente applicabile alla questione che
interessa a lui, verrebbe immediatamente giudicato pesante, noioso e
fuorviante sul punto della questione, un seccatore, un saccentone
cultureggiante che vuol fare il figo ma quel che dice lui è lontano
dalle reali esigenze della vita (le sue – di cui non vede la
connessione con quelle discipline) e forse è anche uno smidollato ed
uno che vuol campare di queste menate. Ma in ogni caso, anche qualora
tale pontificatore fosse un personaggio dall’aria onesta e
rispettosa, palesemente intelligente ma anche simpatico e tutt’altro
che arrogante, che parla non per dare sfoggio di sé ma per
arricchire la discussione di elementi necessari a risolverla,
comunque la difficoltà di questi argomenti che oltre alla testa
richiedono la cultura, scoraggia presto l’uomo della semplicità e
della manualità. Anche gli svaghi che sceglie hanno un carattere
simile alla professione che ha scelto e ne sono un giusto
companatico: la vita deve essere varia di tutti gli elementi
necessari ma coerente in ogni elemento con il carattere del
protagonista, e questi aspetti vanno coltivati parallelamente in modo
che tengano sempre, nel loro incontro lungo gli anni, dell’identico
livello di sviluppo, affinché non si creino delle insufficienze da
un lato che poi si traducono in cali di forma dall’altro. I tuoi
passatempi devono avere la stessa forza del tuo lavoro: in entrambi
ti dovresti realizzare, ma laddove invece il primo sia logorante, i
secondi devono essere davvero lenitivi e distensivi e come tali
devono essere efficienti e pertanto curati nella forma, nella
quantità, nelle tempistiche. Ogni squilibrio ne genera altri, ogni
ferita non curata prepara il solco alla prossima, ogni vizio non
prontamente contrastato e corretto genera un circolo vizioso. Anche
chi svolge un lavoro intellettuale tende ad avere passatempi
intellettuali. Chi vive nel mondo degli affari e per gli affari,
difficilmente va a teatro, ma si trova attratto da un film che parla
di queste cose. L’egualitarismo democratico ha creato un danno
psichico e sociologico di proporzioni impressionati perché, con il
mito degli uomini completi ed eguali, pare che nessun uomo abbia più
il diritto di essere serenamente parziale o meglio completo nella
sua singolarità e giusto nella sua diversità, che nessuno sia
padrone a casa sua, possa essere riconosciuto esperto di quello che
fa nella vita e qualunque presuntuoso rompicoglioni possa
contestarlo, ottenere il rispetto che merita purché non esca dai
ranghi a fare il vandalo spaccone a sua volta, senza essere poi di
frequente tenuto o improvvisamente necessitato ad occuparsi anche di
altro, intendersi di altro, discutere di altro, partecipare ad una
votazione, dare consigli, prendere posizione e sostenere una persona
oppure l’altra che sono implicate in una questione personale
inerente ad una tematica di cui egli ha assai poche nozioni, trovare
lui le soluzioni a cose che hanno impegnato intere tradizioni di
professionisti, magari per correggere un errore o punire una frode di
cui è stato vittima o per sventare una minaccia creati dagli
specifici professionisti che non hanno fatto il loro dovere, e
poi sentenziare ciò che non conosce, che non ha il tempo di
conoscere e che spesso non capisce e non gli interessa neppure. La
democrazia ha negato la fattuale meritocrazia, la qual cosa ha
guastato l’efficienza dell’economia creando incompetenti in ogni
ruolo, impossibili da sostituire se non con un dibattito infinito tra
non esperti oppure con sforzi personali di alcuni volti ad ovviare
alle manchevolezze dei professionisti oppure guardarsi dalla loro
disonestà per non esserne malamente fregati. Anche il fenomeno della
corruzione è conseguenza dell’abolizione meritocratica: se uno fa
un lavoro per vocazione innata, non è facile da corrompere, perché
in un conflitto di interessi che gli venisse posto, il piatto più
pesante è quello del suo lavoro che in questo caso possiamo chiamare
missione. Allo stesso modo in cui in ambito bellico il
tradimento, la diserzione e la facilità della resa sono tutti
fenomeni legati ad un cattivo arruolamento, che ha accolto nelle
proprie file gente che non credeva fortemente nella causa, che sono
state in qualche modo coscritte al tesseramento e poi alle armi. Il
fantasma dell’uomo universale di fatto condiziona però non
modifica la particolarità dell’uomo reale: coerentemente con la
quale egli è portato a scelte e declinazioni. Però la schiera dei
principi morali e dei giudizi morali, contrastanti quanto la rete di
interessi con persone diverse con le quali ci ritroviamo relazionati
in un modo che risulta contrattuale anche se non è scritto,
costituiscono una fitta gabbia di spini che rende perigliosa ogni
nostra scelta e mancanza e di fatto le pone un prezzo assai difficile
da scucire, e che spesso è alto abbastanza da indurci a gesti contro
volontà, pur di non deludere qualcuno che aveva riposto speranze in
noi oppure che ci apprezzerebbe soltanto qualora agissimo in quella
direzione: di fatto azioni per noi dannose, e qualora per amor
proprio le evitiamo, non possiamo evitare però gli strali del
giudizio e l’ingiallimento rancido della nostra immagine. Le
istanze della morale sono schierate a difesa dei mille interessi che
ormai legano le persone che non avendo punti stabili e certi di
riferimento tendono a legarsi sprovvedutamente con persone che non
conoscono, e sittante relazioni se ne possono nuovamente creare,
taciti contratti e richieste non esplicite ma spesso reali, tutte le
cose che ci si aspetta dagli altri illudendosi della loro
disponibilità e capacità che può essere richiesta a tutti e
davvero pretesa da nessuno: eppure quando il bisogno ci ha spinti
alla richiesta e la fiducia si è improvvidamente creata e la
delusione arriva, il disagio provato travolge in rancore di cui
vogliamo incolpare qualcuno, sicché tutti veniamo in qualche modo
messi in discussione perché chiunque ha deluso speranze che erano
state riposte in lui. Da un lato pretendiamo che l’investimento
che abbiamo fatto su una persona e l’attesa della soddisfazione
vengano ripagati anche qualora egli non fosse stata la persona giusta
e ne avessimo ricevuto una sorta di consenso apparente o forzato: se
la soddisfazione non arriva piovono le accuse nei suoi confronti, e
questa è semplice prepotenza egoistica. Poi vi è anche la
trascuratezza nel valutare quel che significano le cose per gli
altri, quanto davvero gli costino, se davvero egli non ne sia
all’altezza, se la sua giustificazione sia legittima o sia un
alibi, e tendenzialmente propendiamo per l’ipotesi negativa: è un
principio di presunzione di colpevolezza, l’accusa da smentire e
non da dimostrare. Se un uomo è giustamente umile lo prendono per
uno che non ha il coraggio di esprimersi o di prendere posizione. Se
declina per disinteresse diventa un egoista. Se lo fa perché è
impegnato in altri problemi oppure stanco diventa un pigro. O magari
uno che dà delle delusioni agli amici. Da un lato il mito
democratico ha effettivamente convinto molte persone di essere
abbastanza intelligenti ed avere anche la cultura e l’esperienza di
vita sufficienti per poter trinciare giudizi su qualsiasi cosa e
partecipare a qualsiasi attività o processo. Se anche molti non si
sentissero affatto all’altezza, comunque la legislazione libertaria
che non punisce gli errori avalla la naturale trascuratezza,
faziosità e malizia con cui tutti sentenziano e vengono sentenziati,
oppure considerano un problema, facendo dei danni che non sono
nemmeno tenuti a riparare e che al massimo possono vedersi vendicare
a propria volta con la stessa moneta: sicché alla fine tutti parlano
per irresponsabilità istituita, per bassezza elevata, per faziosità
legalizzata, per egoismo mascherato, per ignoranza assolta, per
incompetenza tollerata, ed allora i rapporti sociali diventano tutti
fasulli e privi del fondamento della Fiducia, cui l’affidabilità
dell’uno incoraggia la sincerità dell’altro. Le asperità dei
dibattiti sono dovute proprio alla sinergia di siddue fattori: tutto
è opinabile da tutti, perché nessuno più è una autorità, ma
tutti sono potenzialmente tenuti ad esserlo, quindi devono stare
all’erta perché potrebbe esser loro richiesta un’opinione, e
quando la esprimessero spontaneamente, potrebbero essere criticati ed
attaccati da chiunque, senza che nessuno sappia con certezza di chi
ci si può fidare, chi sia in sostanza il soggetto autorevole che
possa fare da arbitro e sentenziatore. Oltre allo stridore
sociologico e al disagio psichico questo sistema produce di fatto una
diffrazione energetica spirituale di tutti quanti, delle continue
deviazioni e disturbi dalle proprie competenze, reali ambiti di
interesse e attività, una sospettosità circa qualsiasi cosa ci
venga detta in quanto non conosciamo bene l’autore e potrebbe
essere facilmente un idiota o un impostore, un malintenzionato,
altrimenti aver preso la notizia di seconda o terza mano e questa
essere stata più volte interpretata e distorta. Dal lato pratico il
fenomeno sociale si esprime in ipertrofia verbale inconcludente ed
una grande viscosità operativa. Con l’instaurazione del regime
democratico, nessuna personalità eminente poteva accedere al ruolo
direttivo che le sarebbe spettato: solo i mediocri potevano farlo, in
quanto eletti dal popolo e rappresentanti di un’ampia porzione di
esso che potremmo chiamare classe, sicché non era più possibile
un’azione politica animata dalla premura per l’ordine sociale e
dunque l’organizzazione che consente ad un popolo di strutturarsi
in Nazione, garantendo a se stesso la sopravvivenza a lungo termine,
fatta di grande capacità di autodifesa, autoterapia e creatività
innovatrice. Questo non sarebbe stato più possibile per la fattuale
decapitazione delle teste migliori, quelle maggiormente capaci di
governare grazie alla sensibilità di discernere le affinità e le
differenze tra gli elementi di una società, e di regolare allora i
rapporti, fattualmente non perfetti, tra questi elementi, tramite
opere di congiunzione e disgiunzione, in un determinato ordine di
priorità, all’interno del paese, di coordinare operazioni di
attacco e difesa verso un paese straniero, qualora necessario, ed
altresì di riconoscere al volo e trovare il modo ottimale di
espellere un elemento intruso e dunque molesto che si trovasse
annidato nel paese. Questi individui hanno nella loro magnanima
infatti la forma a priori della propria civiltà, nella quale compare
una rappresentanza di ogni elemento necessario, che essi sono dunque
in grado di riconoscere quando lo vedono e mettere al posto giusto.
Se tu sottrai ad una razza la sua casta nobiliare, ancor non l’hai
uccisa ma hai tolto ad essa il nerbo maggiormente capace ad opporsi
alla disgregazione per opera di colonizzatori stranieri, attirati da
loschi ed abili politicanti che si fossero a quella sostituiti. Il
parlamentarismo è stato opportunamente chiamato tale perché ha la
funzione di sostituire l’azione politica animata dalla volontà di
cambiamento con la chiacchiera politica volta a celare la volontà di
mantenimento. I rappresentanti dei partiti classisti e dunque degli
interessi classisti saranno stati eletti a maggioranza all’interno
della lor fazione, ma anche qualora il democratismo non si fosse
affermato sino ad invadere anche le fazioni medesime, in modo da
sfavorire ancora di più, stavolta anche nel piccolo, l’elezione
dei migliori o comunque rallentarla, e queste fossero ancora
strutturate secondo una meritocrazia naturale per cui il migliore
viene tutt’al più eletto all’unanimità da quelli che saranno i
suoi ministri poiché già fattualmente componenti del collegio umano
di teste immediatamente inferiori al leader nella gerarchia
intellettuale: tale rappresentante di classe, dunque, e fosse pure il
migliore della compagnia, non potrebbe mai assumere un punto di vista
differente da quello classista e dunque operare, qualora eletto,
nell’interesse dell’intera nazione. Tale cosa sarebbe comunque
difficile perché il parlamentarismo esclude la dittatorialità di
classe ed impone invece che ogni vittoria sia fittizia ed essendo le
classi fondamentali che vedono i loro interessi rappresentati in
parlamento composte da un numero pressoché analogo di sostenitori,
il bipolarismo partitico è una conseguenza scontata della vita
politica che caratterizzerà una nazione democratica, con alcuni
partiti complementari che non vinceranno mai ma parteciperanno al
trebbo, e le cui politiche sono tanto maggiormente vicine a quella
dei partiti maggiori quanto più è elevato il numero di voti che
possono sperare di prendere. Il partito che infine vince, non potrà
però mettere in discussione il sistema democratico imponendo una
dittatura di classe, ed invece dovrà accettare una mera leadership
di maggioranza la cui opposizione ha il diritto di continuare ad
operare contro le sue decisioni con la propaganda e l’ostruzionismo
numerico che determina anche il rifiuto dell’appoggio economico, ma
che non può mai diventare esplicitamente violento perché il
monopolio della forza spetta invece alla polizia e all’esercito che
devono proteggere appunto la forma dello stato che in tal caso è
costituzionale, e dunque impostata al servizio di un’entità che
sta al di sopra della Nazione e a maggior ragione di qualsiasi sua
fazione interna: sicché entrambe devono restarsene a cuccia,
prendere il loro biscottino e non chiedere troppo. Ma le decisioni
del partito al potere, per quanto rallentate dai diritti democratici
ovvero la libertà di tutti di far pesare la propria volontà su
processi che non gli competono, di relativizzare e indebolire e in
fin dei conti non obbedire e quindi vanificare l’autorità ad un
certo punto assegnata o conquistata da un altro soggetto, secondo
regole che sembravano fatte per impedirlo quasi del tutto, senza per
questo essere arrestati o subire gravi conseguenze: tali decisioni,
tuttavia, verranno infine prese ed eseguite. Esse lo faranno in
ragione del fattuale e temporaneo predominio numerico, ed avranno
certamente un carattere fazioso. La durata esigua della legislatura,
considerando poi i rallentamenti redazionali, deliberativi ed
operativi delle riforme, inerenti al sistema democratico, impone che
nessun partito al potere abbia il tempo materiale per correggere gli
errori, veri o presunti, della precedente legislatura o di tutte
quelle precedenti, e mostrare così il potenziale risolutivo della
propria nuova linea di governo. Questa si limiterà, invece, a
manifestarsi come eccessivamente favorevole ad una fascia della
popolazione, ma soprattutto per la casta al potere, ed aumentando
così i dissensi popolari quel tanto che basterà, nelle prossime
elezioni, a far pendere l’ago della bilancia verso il partito di
opposizione. Il quale farà la stessa cosa durante il suo mandato.
Infatti la volontà riformistica di chi si presenta in politica in
simili paesi già è molto ridotta e per lo più falsa, inoltre viene
ostacolata nella sua realizzazione e in questo binomio sta il
nocciolo della democrazia ossia della falsa politica rivolta da tergo
a mantenere il più a lungo possibile le cose come stanno illudendo
costosamente i cittadini che qualcuno si stia invece sbattendo per
cambiarle, prendere tempo e pilotare le cose in modo da poter portare
il piano retrostante dei veri signori del sistema al suo stadio
successivo. Se consideriamo poi che il sistema democratico nega la
possibilità che una persona seria, onesta, molto capace e
davvero credibile, ed il cui carisma vada oltre il materiale per
gossip, possa assumere il potere, è piuttosto normale che il leader
popolare che invece si afferma rovini autonomamente la sua immagine,
imbrattata fra l’altro dalla libera stampa avversaria, entro pochi
mesi dall’inizio della legislatura, e la gente voglia quindi
toglierlo di mezzo e sostituirlo: perché se non è un delinquente o
un ladro, e non è neppure un opportunista e un parolaio, resta per
lo meno un noioso incapace. Le persone in gamba e i governi
democratici si snobbano a vicenda: si respingono, in quanto opposti.
Dobbiamo
renderci conto che la democrazia è uno strumento ingannevole rivolto
a servire una tirannide retrostante. La democrazia universalizza il
diritto di discutere, non quello di decidere. Quel soggetto politico
retrostante ha già impresso il moto iniziale del sistema in
una determinata direzione, ed affinché nessuna forza interna
al paese possa modificarla, pone questa maschera politica falsamente
liberale, che sorprendentemente si interessa all’opinione di
tutti e addirittura le conferisce un peso esecutivo, quale
che sia l’argomento di discussione, fosse anche il più difficile
ed apparentemente elitario. È banale osservare come nessuno
individuo singolo, in ciò che concerne la propria vita, sarebbe
disposto a fare altrettanto: sarebbe incline cioè a chiamare in
causa il giudizio di chiunque sulle questioni che lo riguardano,
attribuire dei diritti inalienabili agli umori della gente, alle loro
volontà e sentimenti, ché abbiano un peso legittimo e possano far
di lui quel che come risultato ne esca, rimettere dunque al trebbo
popolare ed al pubblico voto una sentenza da esprimere su un
soggetto, se stesso compreso, eppoi una decisione da prendere ed
infine un atto da compiere, e mi appare ozioso affermare che nessuno
desidererebbe di essere processato e giudicato dal popolo intero ad
ogni pensiero, gesto, parola, di doversi sbattere a persuadere il
mondo delle proprie ragioni, per subire in fondo comunque la sua
autorità sentenziatrice, la cui competenza risulta insindacabile e
che si afferma con la forza del numero, avallata dalla Legge in
questo preciso senso. Un uomo ha infatti i propri interessi da
perseguire, un determinato livello di autostima intellettuale e
certezza nelle proprie conoscenze circa la questione nella quale è
implicato, e non sarebbe certamente democratico in essa, e per
estensione in tutte le questioni delle quali si sente all’altezza,
ed anche qualora l’autostima si abbassasse di livello, egli
preferirebbe qui affidarsi al giudizio autorevole di una persona
esperta e scelta, non alla piazza urlante con i suoi pescivendoli e
le sue vecchie comari. Dunque, nessuno è democratico circa gli
affari propri, ma gradisce scioccamente di essere chiamato in causa
circa gli affari degli altri e si sente lusingato che una teoria
politica gli conferisca la dignità intellettuale di occuparsi ben
delle questioni della cosa pubblica: di sapere dunque quali
provvedimenti realizzino l’interesse generale. Egli soprassiede al
fatto che il padrone però non sia lui, essendo milioni i
cittadini suoi pari cui la legge attribuisce lo stesso diritto
decisionale, che spesso hanno idee diverse dalle sue e che possono
imporle col diritto di maggioranza. Inoltre, volendo escludere le
poche forme di democrazia diretta che la legge gli mette a
disposizione, principalmente la proposta di legge e il
referendum popolare, egli sarà tenuto fondamentalmente a
designare un partito o un cittadino che una volta eletti esprimono le
proprie politiche senza nessun obbligo di attenersi ai programmi
elettorali o alle dichiarazioni fatte, con il diritto di trascurare
altresì una serie di questioni che il cittadino potrebbe considerare
essenziali alla realizzazione del proprio benessere, e che
necessitano di essere risolte ai piani alti della politica. Le
questioni sulle quali il cittadino è “chiamato a decidere” sono
dunque 1) mediate da un soggetto politico privo di vincoli
legali alla volontà del votante 2) ridotte ad un numero
preciso che ne trascuri altre di inconsiderata importanza 3)
condivise da milioni di altri cittadini che possono invalidare il
peso della sua opinione col semplice peso numerico di un’opinione
diversa. Anche gli effettivi governanti di un paese democratico non
possono inoltre attuare dei cambiamenti radicali, tali che mettano in
discussione anche la forma base dello stato, fatta per conseguire un
interesse che necessita appunto di tale forma, durevolmente
mantenuta. La democrazia risulta fatta quindi di dibattiti a
suffragio universale su questioni che sono già state decise a monte
e sulle quali proprio la compensazione reciproca delle opinioni
contrastanti, sia presso il popolo che in sede politica, impedisce un
intervento efficacemente deviante. Ma tutti sono invece convinti di
aver avuto il loro peso, che il demos abbia avuto la sua
crazia, mentre è stato solamente usato come contrappeso ad
altri soggetti che nella loro singolarità avrebbero potuto
analogamente dar fastidio ai poteri forti.
Ma
con questa provvida lusinga ed illusione, nel tempo tutti i movimenti
nazionalisti sono stati gradualmente corrosi e stroncati da quelli
democratici, plutocratici, ed internazionalisti.
Il
fenomeno del Fascismo fu interpretato dai bolscevichi come uno
strumento creato dal capitalismo per opporre resistenza alla marea
rossa rivoluzionaria che stava espandendosi in Europa: una dittatura
che si presentava come corpo sociale irreggimentato e più compatto,
capace di fare barriera, con inserite nell’ideologia alcune misure
già invero introdotte dal socialismo, da quest’ultimo mutuate al
fine di riassimilarle al Capitale. Questa interpretazione è coerente
nella sua logica classista e dunque perfettamente convincente per chi
non sia in grado di trascenderla in quanto uomo limitato ed incapace
di un pensiero sistematico, al quale è dunque inaccessibile anche il
concetto di Nazione, e pertanto inadatto ed inetto alla politica
cosiccome alla filosofia. Se uno concepisce il mondo sulla base del
materialismo storico, unito al dogmatismo egualitario nato
dall’orgoglio degli intelletti mediocri che non vogliono nessuno al
di sopra di loro, e si trovi ad analizzare una realtà storica in
cui compaiono ricchi e poveri, noti che ci sono sempre stati, anche
nelle altre epoche, ed egli faccia parte dei poveri, non è difficile
per lui concludere che il senso della storia intera debba essere una
lotta del povero per liberarsi dal giogo del ricco, e la storia si
presenta ai suoi occhi come un’evoluzione del medesimo conflitto di
classe, nella veste dell’epoca. Solo che questa volta era ora di
smetterla con le interpretazioni del mondo: era tempo di cambiarlo! E
con la rivoluzione bolscevica, era stato detto all’operaio, che
loro avrebbero potuto spaccare tutto, uccidere i padroni delle
fabbriche, assumere loro stessi la proprietà dei mezzi di lavoro,
gestire la produzione, e poi assaltare il governo per tagliare altre
teste di quelli che con le loro leggi e i loro eserciti proteggevano
gli sfruttatori capitalisti, così avrebbero preso loro il potere, e
poi i preti che servivano a dare delle giustificazioni a tutti gli
sfruttatori del proletariato, usando dei concetti fantasiosi per
distogliere dallo stato della materia che parlava chiaro circa il suo
non essere equamente distribuita. Ma come i capitalisti stessi, i
governanti, poi i preti, poi gli scrittori, poi i pittori e i
musicisti, poi gli scienziati, poi i professori, poi i medici, poi
gli avvocati, poi dannazione assolutamente nessuno che non facesse
l’operaio o il contadino poteva dirsi affatto possessore di talenti
differenti o in qualsivoglia modo superiori a quelli delle due figure
suddette: le uniche attività serie sono quelle proletarie. Senza i
proletari il mondo non esiste: quelli che pretendevano di stare più
in alto a fare altro erano degli sporchi privilegiati che avevano
solo intenzione di far lavorare gli altri e sfruttarli per il proprio
benessere, ma invero non esisteva altra gerarchia tra gli uomini che
quella che si riduce al proletariato che assorbe tutte le altre e
così si riscatta, assume anche tutte le altre cariche, che invero
gli spettano di diritto perché lui è l’operatore della materia e
dunque ne deve essere anche il padrone. Anzi, a dire il vero doveva
averla inventata lui, la materia, e deteneva dunque il diritto di
amministrarla, avendo subìto tale usurpazione e furto dalla notte
dei tempi. Se gli fosse stato raccontato che la scienza era un modo
per studiare quello che l’operaio sapeva fin dall’inizio perché
lo aveva creato lui, ma che poi essendo stato asservito al lavoro
schiavistico aveva perduto, sicché gli scienziati servi degli
sfruttatori si erano messi a teorizzare una natura che in qualche
modo giustificasse questo sopruso e dunque la scienza doveva essere
riconquistata tramite una rivoluzione e bolscevizzarsi a dovere, lui
ci avrebbe creduto. Dio non ha creato il mondo, l’operaio lo ha
creato, e qualche losco arrampicatore sociale amico per interesse
degli sfruttatori si è inventato un Dio che li giustifica con delle
visioni del mondo favolistiche che non corrispondono alla dura
realtà, sottolineo resa dura non per colpa dell’operaio che ha
creato il mondo ma per chi ha inventato lo sfruttamento: il mondo
doveva essere stato comunista, il peccato originale era l’invenzione
diabolica della proprietà privata, onta dell’umanità da estirpare
per prima. La cultura tutta è figlia dello sfruttamento: ed è nata
per giustificarlo, consolidarlo, espanderlo. La vera cultura è
quella della falce e del martello, l’arte anche, noi siamo degli
intellettuali e degli artisti, gli altri producono beni voluttuari
perché se lo possono permettere in quanto che noi li manteniamo: ma
la vita determina la coscienza e dunque la nostra coscienza che è
limitata a quello che sappiamo fare nella vita e dunque non vorremo
mai fare altro diverrà la coscienza universale nel momento in cui
noi ammazzeremo tutti, diventeremo l’unica classe sociale, ci
impadroniremo del mondo che allora sarà un paradiso perché sarà
realizzata la società comunista. Ora, tu prendi una massa di gente
ignorante e che di fatto vive in condizioni stentate e realmente
ingiuste dal punto di vista economico sanitario, perché il
capitalismo è davvero ingiusto, masse lavoratrici a favore
delle quali davvero qualcuno doveva operare una rivoluzione
dei diritti del lavoratore e abolire una serie di privilegi che erano
davvero ingiustificati in quanto non produttivi, nel
mantenimento della società presente né nel suo progresso tramite la
ricerca: prendi questi infelici e dagli in pasto questa
ideologia…come possono non farsi attrarre fatalmente ed
entusiasmarsi sino al misticismo materialistico (e non azzardare la
parola ossimoro perché ti rompono le ossa) e seguirti ovunque per
smantellare il mondo senza naturalmente chiedersi chi tu sia, se tu
sia un proletario venuto dalla preistoria pre-capitalistica e
pertanto con la scienza infusa a ridonarla a noi dopo che ci era
stata sottratta, perché risulterebbe strano come tu abbia potuto
acquisire tutta questa sapienza senza far parte di una élite
e dunque tu non possa essere onesto per definizione...ma francamente,
non ci interessa! Il fine giustifica i mezzi! E questo lo aveva detto
un pensatore che non era comunista per nulla anzi credeva nel
principe, nel tiranno, ma non importa! Non conta il pensiero, conta
l’azione! Quest’uomo ci dà il diritto di spaccare tutto
promettendoci che avremo tutto…non vogliamo sapere altro! Sarà
eletto dal popolo perché ha la ragione del popolo! Sarà il nostro
leader! Poi questo agitatore naturalmente non ti dice che dopo averti
usato per spaccare tutto, al potere ci andrà lui, senza aver mai
preso in mano una chiave inglese né potato un melo, e dei proletari
non gliene può fregare di meno visto che ne spedirà 30 milioni nei
Gulag, dopo aver consolidato il suo dominio con il terrore, la
repressione e il lavaggio del cervello, a dirigere le fabbriche ci
metterà gente della sua cerchia, avrà tolto di mezzo
l’aristocrazia, la borghesia, il clero, tutti i tuoi vecchi padroni
solo perché voleva essere l’unico grande padrone, che lo
sfruttamento sarebbe rimasto anzi si sarebbe intensificato senza
aumentare la ricchezza di nessuno anzi impoverendo tutti tranne se
stesso, che tu sotto il capitalismo eri povero ma se avevi un campo
era tuo e se avevi una mucca da mungere era la tua e potevi vendere i
tuoi prodotti, avendo una proprietà ed una autonomia, per quanto
ridotte, possedevi una identità ed una dignità, per quanto ridotte
ed ingiustamente oppresse nella miseria, figlia inevitabile, per
moltissime persone, del sistema plutocratico che consente solo una
crescita asimmetrica, competitiva ed alla fine per forza di cose
elitaria, con tante più possibilità di arricchirsi quanto più già
sei ricco, con buona pace della Nazione, della Giustizia, e
altrettali quisquilie che annoiano gli uomini d’affari, i quali non
vedono l’ora che gli Stati smollino queste scomode briglie che gli
possono far passare dei guai e limitare la sua espansione
mercatistica, liberalizzando l’economia quanto più è possibile
che dovrebbe essere invero il solo soggetto della vita nazionale, e
per quanto riguarda gli altri aspetti, devono esserle asserviti,
quindi anche la legislazione civile è bene che sia improntata alla
libertà del consumatore di cadere in tutti i tranelli del marketing
pilotati dall’industria, al diritto di inserire la pubblicità
dentro qualsiasi cosa, a sottomettere le attività culturali,
sportive, ed ad un certo punto le stesse istituzioni politiche alla
necessità di ricevere fondi privati per poter stare in piedi e
dunque dover rispettare la volontà dei finanziatori, e poi la
ricerca stessa, la scienza, devono essere privatizzate e vendute alla
gente alle nostre condizioni solo quando si saranno tradotte in
prodotti brevettati con il nostro marchio…questo è il capitalismo,
mentre l’alternativa che il comunista prometteva all’operaio
era che succedesse la stessa cosa, con una efficienza assai minore
grazie all’oppressione di ogni creatività personale che doveva
adattarsi ai dettami del regime, eppure con una maggior uniformità e
quindi coesione sul territorio nazionale, sotto la guida di un solo
grande capitalista che si chiamava Stato, sicché ora quello che
doveva toglierti l’alienazione te ne ha data una peggiore dicendo
che nulla è tuo, ma ti è solo dato in gestione dallo stato con
tanto di istruzioni da eseguire alla lettera, senza quindi la minima
autogestione, che dopo averti tolto la tua individualità ti può
trattare come un oggetto e privarti di altri diritti come la libertà,
sia d’azione, che di pensiero, che di movimento, che di contare
qualcosa nella politica o nell’industria o nella cultura come ti
aveva promesso, ed ha tolto la proprietà privata per sublimarla
concettualmente in una proprietà pubblica che poi non è altro che
la sua divenuta nazionale, e che ambisce a diventare internazionale e
lo sarebbe stata subito se fosse davvero stato possibile stroncare
gli stati nazionali parallelamente senza invece sfruttarne in parte
le strutture residue e le potenzialità produttive, con tutte le sue
maestranze specifiche e gerarchiche all’interno senza le quali si
torna all’età della pietra, per schiacciare altre nazioni più
resistenti alla rivoluzione e alla bolscevizzazione interna, e quindi
il bolscevismo dovesse essere prima nazional-comunismo e poi
internazionale, per uno che non ha nessuna intenzione di servire la
nazione visto che l’ha smantellata nella sua struttura vitale e
portante, prima teorica e culturale (coscienza che determina la vita)
quindi poi materiale, ed allora più facilmente di nuovo teorica e
culturale (vita che determina la coscienza)…svelando come fosse
consapevole fin dall’inizio che i processi storici avvengono
secondo circoli ermeneutici tra materia e spirito ma sapendo che tu
hai poco spirito ti ha lusingato che conta solo la materia e ti ha
usato per i suoi scopi, una proprietà che però è concreta e non
astratta perché lo stato continua ad avere un palazzo, delle
casseforti, dei funzionari, un esercito che lo difende, e delle
persone che prendono arbitrariamente le decisioni che ti riguardano
senza porsi il problema del tuo consenso e neppure, sia infine ben
chiaro, del tuo interesse…perché l’unica classe politica che può
avere a cuore i cittadini è quella nazionalista che vive con il suo
popolo, trionfa con il suo popolo, con esso deperisce e con esso
muore. La filosofia non deve essere classista come non deve esserlo
la politica. E tantomeno può essere democratica senza contraddire se
stessa, l’idea di ideologia come l’idea di Stato. Mussolini venne
appunto dagli ambienti socialisti ed il suo fascismo ne rappresentò
un’evoluzione in senso restauratore della civiltà gerarchica
antica. Posso definire il fascismo come il socialismo che ha
aperto gli occhi. Nulla a che vedere con una reazione capitalista
maggiormente violenta e rigida, avendo il capitale aperto gli occhi
sulla minaccia bolscevica: come a questi piacerebbe pensare.
Mussolini capì semplicemente i limiti dell’ideale socialista e la
sua conseguente impraticabilità senza che vi si apportassero
profonde innovazioni: fondamentalmente un ritorno all’ordine, la
creazione di una struttura gerarchica dello stato su base
meritocratica e autoritaria, dunque la creazione di un socialismo di
destra, di una destra sociale, uno stato organico. Il
fascismo, insomma. Il cui motto potrebbe essere: uno per tutti e
tutti per uno, ma ognuno al suo posto e ognuno al suo turno.
Senza questa innovazione, il socialismo, poi fattualmente dittatura
comunista e capitalismo di stato, era un rimedio peggiore del male.
Ma esso infine si sarebbe tolto la maschera e rivelato nella sua più
vera e perversa natura: si trattava di un diabolico e tremendo
inganno che fingeva solamente di voler essere un rimedio e una
alternativa al capitalismo, ma ne rappresentava la controparte
necessaria, dal momento che il capitalismo da solo non sarebbe
bastato a stroncare uno ad uno gli stati nazionali che ancora
nell’ottocento resistevano sotto le spinte della privatizzazione
internazionalista ebraica, soprattutto considerando gli elementi
nazionalisti che vi si sarebbero contrapposti dinanzi al suo effetto
disgregante, e necessitava dunque di un alleato che avesse un metodo
operativo diverso: più violento, più rapido nel prendere il potere,
stavolta direttamente politico ed economico, senza scomode
mediazioni. Un alleato, dunque, latente in tempi di pace ma poi
chiaramente rivelatosi nella guerra, in una coalizione internazionale
fin dall’inizio intenzionata a schiacciare il Vero Nemico di
entrambi i sistemi, le due facce dell’ebraismo internazionale: il
Fascismo, ultimo difensore dell’idea di Nazione che si indentifica
col Popolo, questa terza via che aveva sbaragliato entrambe le
funeste illusioni, quei miti che avevano tratto in inganno tutti i
popoli con false speranze di progresso e libertà, di felicità,
giustizia, amore, pace, tramite opere e discorsi zeppe di concetti
vaghi, ingenui, mal definiti oppure definiti in maniera opposta alla
realtà, cosicché i mezzi che concretamente dovevano essere
utilizzati per i fini dell’Oscuro Demiurgo paressero coerenti con
la vera essenza di quei concetti, e capaci dunque a
realizzarla. Quelle opere, tutte ipocrisia e buone intenzioni,
avrebbero soltanto demolito, confuso, mutilato, inquinato, invertito,
degerarchizzato la struttura psichica naturale degli uomini, in
sintonia con la quale era stata strutturata la società nelle epoche
antiche, sicché la struttura materiale e con essa la vita delle
nazioni non potesse che seguirla a ruota, precludendo ai loro popoli
le uniche vere condizioni in cui potessero realizzare la propria
felicità. Il capitalismo è più lento nel realizzare il dominio
ebraico perché è libertario anche se plutocratico: per cui, anche
se il maggiore detentore di capitali è comunque l’ebreo, questi
possono poi essere utilizzati dal singolo industriale per i suoi
scopi personali con cui l’ebreo è tenuto per lo meno a
patteggiare, perché, come è vero che lui non avrebbe abbastanza
mercato senza le grandi finanze, anche il grande finanziere non
farebbe nulla senza le sue capacità imprenditoriali che non sono
solo marketing o comunicazione ma anche invenzione, progettazione,
produzione, con tutte le personalità e le capacità specifiche del
suo staff di ricerca, tecnica, gestione. Quella capitalista, per il
fatto di essere politicamente libertaria sebbene condizionata
fondamentalmente dal denaro che sovrasta qualsiasi altro valore, è
una società che, nel contesto di disordine generalizzato,
competitività, spreco, insicurezza, disuguaglianza, inefficienza
istituzionale tipica della democrazia, ottiene il maggior consenso
popolare perché nel privato il progresso è comunque presente e può
essere anche stupefacente, talvolta rapido e molte persone riescono
ad appropriarsi dei suoi prodotti e se ne appagano nella misura in
cui il loro spazio di tranquillità riescono a trovarlo, senza che
debbano crucciarsi, non avendo dentro sé l’organicità e dunque
l’istinto politico, ma giovando fieramente della miopia di tutti
gli egoisti, dei destini del mondo o anche solo di quanto stride poco
lontano da casa propria, e molti parlano del tutto perché i mass
media fanno fare alle notizie il giro del mondo e con un clic
puoi essere dovunque, però alla fine si parla per parlare e si
mostra per lasciar parlare, per influenzare, perché di altro non si
parli, ma alla gente di solito interessa solo mantenere la propria
quiete e sino a che il problemi non gli strisciano minacciosi sotto
casa, egli li considera con un certo distacco: perché pensa che i
soldi lo salveranno sempre. La principale esigenza, dunque, è quella
di mantenere un buon reddito: sino a che questo non è sensibilmente
minacciato, il resto può andare per la sua strada, risanatrice o
degenerativa che sia. Infatti anche tutto questo boom boom di
mobilitazione e dibattito sulla crisi economica in corso, è motivato
dal fatto che non ci sono più i soldi e la disoccupazione è alle
stelle, ma se tornassero i soldi gli uccelli smetterebbero di
cantare: ed infatti molti rimpiangono il periodo tra gli anni ottanta
e novanta in cui dicono, si stava bene, il nostro sistema era un
gioiellino, e alludono principalmente al settore imprenditoriale,
perché non gli interessa altro, e in realtà le precondizioni perché
il sistema degenerasse nell’attuale crisi, di cui la trascuratezza
di ogni principio non sia meramente economico è quella centrale,
c’erano anche allora ed anzi c’erano fin dall’instaurazione, ed
erano anche ben prevedibili, ma tra chi non ci pensa perché non
gliene importa nulla e chi invece ci ha pensato e voleva portarci
precisamente qui e poi oltre altrimenti avrebbe architettato un altro
sistema, non è pensabile che la gente si svegli. Adesso si lagnano e
si allarmano solo perché la crisi insita nel meccanismo degenerativo
caratteristico del sistema ha toccato anche loro e minaccia i loro
figli, ma fino a che loro stavano bene, niente da dire. Tanto è vero
che ancora adesso, le proteste sono sempre settoriali e moderate,
superficiali, ed anche le dichiarazioni generalistiche di sfiducia e
sdegno della classe politica, del sistema capitalista, della finanza,
delle banche, sono solo ipocrisia di facciata: la gente non ha la
volontà, più che ancora il coraggio, di dire le cose come stanno,
perché dovrebbero ammettere di esserci coinvolti, e colpevolmente,
anche loro, perché tutto ciò in cui hanno creduto, per cui hanno
ucciso, che hanno insegnato ai loro figli come lo avevano appreso dai
loro genitori, in base al quale hanno fatto le proprie scelte,
scritto la storia, giudicato chiunque, porta a questo schifo che
abbiamo sotto gli occhi, che essi tuttavia continuano e
continueranno a ritenere preferibile a una svolta dittatoriale e
davvero socialista che spazzerebbe via dal tabellone (quale origine
del male) la principale conquista storica della loro fazione: i
diritti della maggioranza e così la supremazia della mediocrità. Il
patto d’acciaio, la santa alleanza, il doppio filo che lega
l’ebraismo alle masse, è che hanno un nemico comune e la loro
collaborazione è assolutamente perfetta per sottometterlo. Il loro
nemico è l’Eccellenza: sono gli Aristoi, sono i Nobili, sono le
persone di intelligenza superiore. Per questo gli ebrei muovono tutti
i popoli e, sebbene non li amino ed invero li schiavizzano lentamente
al loro gioco, tutti i popoli ricambiano sostenendo il popolo eletto
da qualsiasi attacco: e dicono che tutti sono attaccabili tranne
loro, e li difendono a spada tratta e lingua biforcuta. Li hanno
chiamati il popolo eletto perché sono di fatto l’élite più
popolare e populista che i popoli potessero sognare: per cui i
popoli, eleggendo gli ebrei governatori del mondo, hanno eletto se
stessi. Ecco che sono talmente imbecilli che riusciranno in tal modo
a fottersi anche da soli: perché resta il fatto, e dimmi tu se
potrebbe mai essere diversamente, che una alleanza tra un disonesto
ed un incapace possa portare una barca da qualche parte se non nel
baratro. Alla fine affonderanno tutti, il popolo eletto, e gli eletti
tra i popoli: dunque la criminalità internazionale organizzata
(ebraismo) e la mediocrità internazionale organizzata, ossia quelli
che le pagano il pizzo in cambio di protezione e vantaggi personali.
Ma questo sacrificio era la cosa migliore per entrambi: non fosse
perché prima di morire loro facendo finire il mondo avrebbero potuto
schiacciare, ridurre a nulla, tutti i grandi spiriti del pianeta.
Pare che la ruota della storia abbia come unico movente l’invidia
del successo da un lato e l’indignazione verso il successo
dell’invidia dall’altro, gli altri fattori tutti non ne sono che
elementi strumentali. È proprio così dunque…è una questione di
sangue: di razza. Tutti i mediocri hanno sentito discorsi antisemiti
e hanno la possibilità di capire la fondatezza delle accuse e
l’attuale posizione dell’ebraismo sullo scacchiere mondiale: ma
non ne vogliono sapere, per il semplice motivo che loro dagli ebrei
hanno ricevuto un beneficio inestimabile, per cui saranno loro sempre
riconoscenti. Un beneficio per cui perdonano anche i massacri di
Stalin e Pol Pot, anche la distruzione delle città italiane, la
strage dei civili e lo stupro delle loro donne, anche i conflitti
etnici (non crediate che gli piacciano gli immigrati, visto che
manifestano ostilità anche verso il loro compagno di stanza, sono
tutti addirittura campanilisti e divisi tra regioni o zone del
proprio stesso paese: è che servono ad aumentare l’humus sociale
promiscuo in cui i problemi aumentano ed i migliori non possono
emergere, ed un principio risolutivo essere generalizzato anziché
relegato nel piccolo-frammentario), un sistema che più inefficiente
e gonfio di paradossi non si può, anche di restare senza lavoro,
anche di sbattersi a prendere una laurea inutile, ammazzarsi con gli
affitti e le spese, fare un lavoro part-time ancora più inutile per
poter proseguire gli studi, vivere in città rumorose e sporche,
impararsi a memoria libri vacui e difenderli da chi dice che sono
vacui, ascoltare professori noiosi e dire la lezione interessante,
anche di perdere due ore a fotocopiare un libro che bisogna essere
criminali solo a stamparlo ed ora impiega altre risorse materiali,
ambientali ed umane, anche di perdere metà della propria vita in una
scuola che non insegna nulla e l’altra metà in un lavoro che li
affatica e non fa progredire le cose, anche di avere dei figli
drogati e ignoranti (viva l’ignoranza! Che non si sappia il vero!
Informazione sistemica per tutti – bando a quella vera fascistona!
La cultura è per tutti. Che non cada nelle mani dei soli che la
hanno creata, che meritano di gestirla e che potrebbero farla
progredire), poi perdonano una guerra in Vietnam coi suoi milioni di
morti, dove c’erano enti che finanziavano entrambi gli eserciti,
tutte le guerre del mondo scatenate dagli ebrei e poi fumigate in
castelli di menzogne, se il loro figlio primogenito fosse andato a
morire in una di quelle guerre lo avrebbero accettato perché
combatteva per Israele, tollerano anche le istituzioni ladre e
servili, incapaci, costosissime, fintodibattistiche,
chiacchierafondistiche, fingono di lamentarsene, anche i paradossi
delle buche, ogni sorta di spreco, di ridondanza burocratica, di
nuova tassa, di attese sfiancanti, di procedure macchinose, di
corruzione, anche l’inflazione e la superproduzione di cose
inutili, lo sbattimento insano di milioni di persone per produrle,
l’onnipresenza del mercato, i vizi messi in giro dallo stato per
lucro, i corsi antifumo e antigioco di rimedio, la produzione
sistematica di fattori di stress e poi i corsi per gestire lo stress
senza metterne in discussione le origini, i corsi per la
memorizzazione rapida di cose inutili, l’invivibilità delle nostre
città, il metterci 35 minuti per uscire dal centro ammesso che non
ti abbiano fatto anche una multa, quella bellezza crescente
trasferita nei singoli oggetti di consumo e circostanza nella cui
contemplazione piacevole ci perdiamo per perdere contatto con un
insieme disarmonico destinato a disgregarsi, ed ancora il rifugio di
bellissimi appartamenti cui si accede tramite un portone che sembra
quasi la porta di Alice, in cui ci ritagliamo la nostra privacy
fino alla prossima ardita uscita, su di una strada in cui potrebbe
capitare di tutto, poi le disuguaglianze di reddito ai massimi
storici, la speculazione sulle malattie, sui farmaci…non importa,
niente può far condannare gli ebrei perché il loro beneficio è
stato imparagonabilmente superiore: essi li hanno liberati
dell’Aristocrazia… e così del loro naturale complesso
d’inferiorità. E tuttora con il loro sistema pluto-democratico
sono i veri garanti di questo ordine sociale invertito, gli unici che
possono davvero impedire una rivolta ed una restaurazione in senso
Civile. Perché se tu togli la finanza ebraica da dietro, il resto
crolla perché le nazioni si ribellano e dal seno dei popoli
riemergono i leader carismatici (dio quanto odiano questo concetto, e
che poi non si azzardi la parola mistico) e le persone capaci
intorno alle quali gli altri si raccolgono perché hanno giustamente
fiducia in loro. Sicché questi pidocchiosi invidiosi della testa
altrui, che tanto si sono divertiti ad umiliarci impunemente per
decenni, paralizzarci in ogni modo, strapazzarci, sputarci,
insultarci, mortificarci, non perdere occasione per dare la
milionesima vigliacchissima coltellata al cadavere del Duce, anche
quando il discorso non c’entra veramente nulla, dare la colpa a noi
dei problemi che non riescono a risolvere nonostante siano totalmente
privi di opposizioni sul campo, ridurre la politica ad una
manifestazione antifascista e non esser capaci di fare altro, che
devono dannarsi tanto per tenere nascoste le nostre idee ed il nostro
passato perché sembra essere più forte del loro presente anche
sepolto sotto una congerie di infamie e di ignoranza, sembra che
abbiano paura di noi anche se non contiamo nulla, sembra che siamo
più forti di loro anche da morti, anche da dispersi, anche da
derelitti senza patria, anche uno contro un milione, persino quello
che deve ancora capire come stanno le cose perché purtroppo è
difficile, con tutti gli ostacoli che hanno messo tra lui e le
conoscenze che contano, sicché lui non è nemmeno abbastanza fiero e
non è manco padrone di se stesso, perché il plagio esterno e la
pressione logorante sono talmente costanti da farlo sentire in colpa
dei suoi meriti, tenere in alta considerazione le vostre non-ragioni,
quasi ammirare il vostro scempio umano e la vostra pseudo forza che
riesce a perdere anche quando non ha avversari, infelici e zombeschi
perché ci hanno rubato la vita, perché siamo nati morti, nutriti di
veleno, di polvere irritante, di suoni fastidiosi, non solo piagati
con la falsa cultura ma impediti nel tentativo di farcela da soli
dopo averci privati dell’accesso alla nostra tradizione, persino
libresca, dopo averci privati della nostra Patria, deturpata da voi
che la trovate un bel posto dove vivere e non mi stupisce perché i
turpi nell’etica sono turpi anche nell’estetica, privati di
esempi credibili, maestri e punti di riferimento in carne ed ossa,
degli insegnamenti che contano, quelli che se ci sono ti fanno
diventare un uomo a tutti gli effetti già da ragazzino e da lì
spacchi la vita come ceppi all’alba per il fuoco di domani,
fiaccati ad ogni mossa con ogni sorta di attrito e impedimento,
perché ci hanno asfissiati per vivere al nostro posto, indegnamente,
visto quello che hanno saputo creare, spadroneggiare su di noi con
arroganza e brutalità, beffardi e sofisti senza scrupoli, immuni da
qualsiasi sanzione da colpo basso perché le regole le fanno loro ed
i colpi bassi sono regolari ed anzi danno più punti, hanno il
bollino Prestige, soggiogati ad attività indegne, regole
assurde per ogni essere dotato di ragione, ridendoci in faccia mentre
deturpavano ogni cosa col loro stile di vita e la loro stupidità e
noi non potevamo farci nulla, solo rodere di rabbia e diventare
aggressivi verbalmente, deliranti nella nostra condizione
insopportabile, sicché potevano deriderci ulteriormente come dei
malati di mente o dei frustrati e dei perdenti: quando è evidente
che noi 1) siamo malati solo della contaminazione con il morbo della
vostra bassezza planetaria, verso il quale non vi è altra terapia
che la vittoria mentre voi ci volete dare la vostra merda di
pasticche al litio prescritte da quei vigliacchi gaudenti milionari
pseudo-medici farabutti servi del sistema soffocatori chimici del
dissenso e spegnitori della buona coscienza che non si vuole
arrendere 2) se siamo frustrati è per colpa vostra e 3) se perdiamo
è solo perché siamo nati che avevamo già perso la guerra sicché
nulla più ci apparteneva e poteva darci speranze: e siete bravi voi
a pigliarvela in sette miliardi di persone già adulte e che hanno
conformato il mondo a loro piacimento, inclinazione e regola, contro
pochi bambini indifesi e senza patria, nati in territorio straniero e
spersi nella massa ignobile, già plagiati da piccoli come gli altri
solo che gli altri erano d’accordo, noi no, ma non avevamo gli
strumenti per difenderci, se non la purezza dell’animo che con
eroica forza si sarebbe fatta strada negli anni a ritrovare se stessa
e la verità. Avete ridotto la nostra cultura a un culto insensato
della violenza fine a se stessa…
poi
non avete nemmeno le palle di tirarla fuori, la nostra cultura,
ammesso che molte opere si siano effettivamente salvate dal fuoco
iconoclasta della damnatio memoriae, che la mettiate vicino a quelle
vergogne che pubblicate voi da sempre, che le potete affermare senza
pudore solo perché nessuno vi può rispondere, e a questo punto
anche se potesse, non vi sarebbe abbastanza gente decente ed
onorevole tra il pubblico da mettersi dalla parte giusta, e lo
prenderebbero a sassate, quel sant’uomo che ne ha passate tante che
ormai è distrutto, voi invece forti della vita che gli avete rubato
perché non si esprimesse nelle sue potenzialità, lui che di ragioni
ne ha talmente tante che se avesse potuto sbatterle fuori
gradualmente incontro dopo incontro, in diretta risposta alle vostre
senza che vi avvantaggiaste 3000 gol a zero senza l’avversario, in
questo modo e in ogni incontro non avere un intero sistema che veglia
sul vostro interesse, la vostra voce non è mai solo la vostra ma
quella del mondo intero ebraicizzato, non è nemmeno mai farina del
vostro sacco, né nuova iniziativa responsabile, non dite nulla che
non sia già stato detto, previsto, approvato, pianificato,
ufficializzato, propagandato, chi può darvi torto? E scredita
l’avversario a priori sul gradino dell’imputato e la vostra idea
puzzoncella cacatuccola nella luce più celestiale, e minaccia i
contestatori, i quali devono dimostrare, ammesso che gliene lasci il
tempo e l’animo senza soffocarlo, mentre tu ti puoi limitare ad
affermare, e tutti gli spettatori sono dei Giuda che hanno venduto
Cristo agli ebrei per i loro trenta denari e per una sedia che un
mediocre non merita, per una mancanza di umiltà che vi poneva a
prendere ordini dai saggi anziché darli voi. Ma poi questo confronto
non lo fareste comunque: andate a intervistare gli imbecilli che
purtroppo ci sono in ogni fazione, che sono ignoranti e grezzi, ed
indossano simboli di cui manco sanno il significato e probabilmente
non verrebbero nemmeno accettati in un movimento serio, ma tantomeno
ne potrebbero essere i portavoce ideologici: per fare documentari
umilianti sugli estremisti da vendere alla gente, agendo come dei
biechi e sporchi vigliacchi senza dignità che si dovrebbero
vergognare anche di fronte ad una pisciata di gatto fritta nel
tostapane e spansa nell’aria… dio mio dominate il mondo intero,
siete in un vantaggio di proporzioni incalcolabili, di già la gente
è prevenuta e schierata con la vostra propaganda pluridecennale, e
quel che davvero resta del fascismo nei documenti d’epoca non
travisati voi lo occultate, e quel che resta di esso nel sangue di
persone di livello voi gli date forse opportunità di un confronto
equo, punto per punto, esaustivo, delle vostre idee con le loro?
Mai al mondo! Cosa fate, voi, eroi della resistenza contro il
male? Intervistate una banda di trogloditi e li filmate per
sputtanare una cosa che - di ben altra levatura come voi sapete
benissimo – non avreste mai il coraggio di confrontarvi sul serio,
alla pari, ma con la gente in gamba che gli argomenti ce li ha e ve
li fionderebbe su per quel culo che avete per faccia spalmato sui
giornali come su tutte le sedie della vergogna da cui prendete le
vostre decisioni ignobili…e da quella sedia vi farebbe saltare con
un grido di dolore unito ad una piroetta che poi non vi conviene
scendere, ma appendervi al soffitto e scappare per il condotto
dell’aria condizionata (che avendola condizionata voi forse avrà
la temperatura che gradite e concilierà la vostra fuga).
Contrapponete uno solo dei nostri testi capitali, anche solo un
aforisma, ai discorsi dei vostri politicanti, a quegli ammirevoli
articoli di giornale che talvolta vincono dei premi, le vostre
inchieste, le vostre riviste, le vostre ricerche, i vostri studi, le
vostre tesi, rigorosamente commentate solo da gente come voi,
criticate da gente che sono sempre anche loro dei vostri, pubblicate
una versione fasulla e snaturata e degenerata del Mein Kampf perché
se leggete quello vero vi andate ad infilare in una camera a gas da
soli per l’imbarazzo di essere assai peggio di come vi descriveva
Hitler, che ha perso la guerra per eccesso di pietà e di lealtà
verso nemici sleali e spietati che combattevano per una causa di
livello imparagonabilmente inferiore a quella che voi avete
demonizzato senza avere il coraggio di mostrarla per quella che era,
dite che Hitler era un pittore assolutamente mediocre, e poi
nascondete i suoi quadri per settant’anni che alla fine li ho visti
lo stesso e non mi sono affatto stupito che siano di una bellezza
commovente e di una perizia tecnica impressionante, non avevo mai
visto niente di simile, e quelli che lo hanno scartato dall’accademia
di Vienna erano, non a caso, Ebrei, come sempre campioni del cattivo
gusto e distruttori dell’arte nobile…
A
questa patetica pagliacciata che non fa ridere nemmeno se ti ci
impegni come quando un bambinozzo di cui hai tenerezza balbetta una
battuta stupidissima che avete già capito come va a finire ma lui ci
mette mezz’ora a raccontarla, voi sapete che gli provocate un
trauma a non ridere…
ma
dio ma quando la vostra mamma vi vede cosa pensa?
Che
voi siete quelli che avete ucciso il duce e la sua nulla ideologia?
Ma come è stato possibile?
Quando
l’unica cosa in cui vi siete dimostrati superiori a noi
storicamente è proprio nell’uso spietato della violenza
distruttiva (e quanto agli inganni ed alle menzogne penso che
possiate sapere soltanto voi sino a che punto parossistico siate
arrivati, perché credo che non sarà mai possibile arrivare al fondo
senza imparare che c’è un altro grande magazzino sotto) che vi ha
fatto vincere la guerra, senza contare che anche lì eravate in netta
superiorità numerica, territoriale, economica, di mezzi militari, ed
in vantaggio epocale perché il fascismo e il nazismo erano fenomeni
giovani, reattivi, creativi, avanguardistici, e quindi nati già come
opposizioni alle forze esistenti, estremamente ostili alla cosa fin
dall’inizio, e comunque nell’intorno degli squassi di una guerra
mondiale, dalla quale addirittura la Germania era uscita cadaverica,
e l’Italia, pur vincitrice, era da ricostruire da cima a fondo in
forme nuove: hanno assunto il potere in maniera rapidissima, quasi
che fossero un intervento in buona misura estemporaneo ma necessario
per arginare una minaccia terribile che avrebbe distrutto per sempre
la civiltà europea sicché doveva dispianare subito tutto quello che
aveva, tant’è che hanno dovuto affrontare una guerra anzitempo
con nazioni e sistemi politici che avevano avuto modo di consolidarsi
per tempi assai più lunghi, soprattutto il capitalismo di cui il
comunismo ha comunque giovato anche nella sua genesi ideologica ed
affermazione materiale perché è un aspetto dello stesso piano
politico, ed anche sul piano militare la Russia bolscevizzata non
avrebbe saputo fare molto contro la Germania senza le immense
forniture di armamenti da parte degli Usa (vero motivo del miracolo
di Stalingrado – grande svolta della guerra). E se la vostra
violenza fosse stata fine a se stessa, come dite della nostra che
invece è scientifica e pertanto finalizzata alla difesa della
giustizia che si compone di purezza e ordine, dell’integrità
nazionale da cui solo possono discendere la forza, il benessere, il
progresso, avrebbe avuto ancora un senso quasi carismatico…bello in
fondo un tizio che in barba a qualsiasi cosa se ne va in giro in
distruzione universale: sarei curioso di vedere cosa lo muove sul
serio, da dove viene…ma la vostra violenza invece era
sistematicamente ed intenzionalmente rivolta a distruggere tutto quel
che di nobile esistesse sulla terra per poi, grazie al potere
acquisito, poter deturpare anche il resto e soggiogarlo alla
conservazione della vostra vita senza senso, senza onore, senza
spirito correttivo e sanificante, senza ambizioni di perfezionamento,
superamento, solo auto conservativa, semovente in espansione e
restrizione competitiva (pure scorretta – ché infine non può
essere altro) ma mai in altezza, ossia gerarchizzante, che vuole dire
il suo opposto, dissolutrice della conflittualità, ordinatrice
dunque e ricercante la coerenza sul solo piano possibile, ovvero
quello verticale e non orizzontale su cui avete dispianato supine le
umane genti senza criterio e distinzione, se non quello per cui
all’innesco dei giochi, la quantità sudaticcia e ruspante avrebbe
sicuramente travolto la qualità elegante e di lucido sguardo, senza
tensione escatologica verso il futuro…senza idealismo! Perché
nessun egoismo è tale, nessun ristagno ed intento degenerativo,
nessun materialismo, arricchimento fine a se stesso, insensato
ben oltre il necessario per la vita, e nessuna menzogna, mentre voi
potete difendere la vostra posizione solo ingrossando il
volume delle menzogne, e tanto più spudorate quanto più improbabile
diventa la possibilità concreta che qualcuno vi muova un tentativo
di obbiezione che arrivi dove la gente lo legga, sempre che qualcuno
ancora riesca a districarsi nel quotidiano dalla giungla di attriti
fisici, da quelle barbariche, spudorate, prepotenti intrusioni prive
di una giustificazione al mondo, le più spregevoli quisquilie senza
significato e valore si permettono di interrompere i processi più
delicati ed importanti, la causa più miserabile di essere anteposta
a quella più grande, l’esigenza di uno che rischia di crepare
sottomessa alle pretese di un placido stronzo che se continua a stare
al mondo è intrinsecamente incapace di fare del bene e adesso deve
prendersi il suo pezzetto di nuovo terreno personale, in un giro di
continui guastamenti, blocchi, contrattempi, rimandi immotivati,
passaggi non necessari, dilungamenti ridicoli, contropiedi, multe,
lettere, buste, pacchi, imballi, incarti, carta, fatture, contratti,
etichette, bollini, comunicazioni, telefonate, proposte, discussioni,
provocazioni, spot, mail, messaggi, avvisi, gridi, frastuoni,
schiamazzi, manifestazioni, giornali, riviste, dibattiti, commenti,
richieste, modifiche, offerte, cataloghi, fototessere, fotocopie, tre
copie, una rilegata, relazioni, curriculum versione inutile 1,
curriculum versione inutile 2 europea, portfolio dell’idiozia
burocratica declinata, questionari, documenti da compilare, la
settecentomilionesima volta che hai scritto tutti i tuoi dati come
se non ce li avessero nel computer da quando sei nato, che se
trovi ancora il tempo di processare l’elemento incriminato lo
giudichi senza eccezione una boiata allucinante, sbagliata alla base,
proprio concettualmente, una puzzomerdata, una atrocità che non
meriterebbe neppure di esistere sulla faccia del pianeta perché non
ha alcuna funzione sociale costruttiva ma ne ha invece una
orrendamente distruttiva e noi invece dobbiamo vivere in funzione
di queste cose e nel più religioso rispetto di queste cose:
cioè nel rispetto del dio ebraico che odia l’umanità e ne vuole
veder affondato il cadavere, fastidi che se vai ad indagare da dove
derivano non ti conviene farlo perché il livello di indignazione
verso il motivo per cui ti è stato inflitto anche quel colpo,
quale esigenza estranea sia stata servita da quel colpo, dalla
presenza in quel preciso punto della tua vita di quell’oggetto
insidioso, potresti crollare a terra in un ultimo spasmo mortale per
l’impossibilità di contestare anche questa cosa anche solo ormai
verbalmente, perché sei esaurito, e su di essa, su quei cani e suini
che vogliono e quelli che permettono con la loro collusione
bassamente interessata queste cose tu non hai la minima possibilità
di vendetta e nemmeno di denunciare la verità sperando che qualcuno
ti dia credito e tu non finisca invece ancora più in basso per
questo tentativo, e che tu da questo nugolo di negatività agghindato
di impressioni antiestetiche e di commenti ottimistici e distorcenti,
che per tutti loro deve andar bene così, riesca in tempo utile e
conservando decenti energie a raggiungere una zona ancora non
inquinata, dalla quale la visuale sia abbastanza ampia da poter
consentirti una sana riflessione: tutto in funzione di quanto
schifosamente gettate in basso giorno dopo giorno questo mondo, e di
quanto siate proverbialmente incapaci di assumervi una responsabilità
personale. Perché gli egoisti non hanno senso civico, e non
dovrebbero parlare di cittadinanza, ma di volgare predonaggio
aggregativo garantito dall’alto dalla polizia serva di una politica
che serve la più onnibassa organizzazione criminale contro la
civiltà che la storia abbia visto, cui nemmeno gli dei dell’Olimpo
avrebbero saputo trovare un ruolo. Le menzogne saranno pertanto
destinate ad ingrandirsi, perché dovranno dissimulare il sempre
peggio, giustificarlo, dire che i nemici già sconfitti erano ancora
più brutti e cattivi di come li aveste finora dipinti perché
altrimenti, anche nelle tinte luciferine dell’ultima puntata,
confrontati con il nuovo presente allo stadio nove di devastazione
pluto-democratica, molta gente desidererà tornare indietro, perché
il sistema non si può raddrizzare senza mutar le sue basi, e quindi
scardinarvi dal vostro seggio usurpato con tutta la legislazione
incivile che vi avete impostato sopra e di cui vi siete approfittati
barbaramente e squallidamente sperando nel progresso e vivendo per il
regresso. Vale a dire: egoisticamente.
Le
loro critiche al presente, nonostante essi stessi denuncino, nei vari
settori, e anche nelle questioni personali che in essi li investano,
le stesse assurdità che vediamo anche noi, sebbene non in tinte
altrettanto nette e radicali (guai ad usare queste due parole in
democrazia se non riferite alla netta e radicale intollerabilità del
fascismo) ma si guardano bene dall’ammettere che hanno tutte la
stessa forma in quanto vengono dalla forma del sistema che tutti li
informa, dunque di arrivare a riferire la critica al sistema di
fondo: proprio la frammentarietà impedisce la risoluzione dei
problemi, ma meglio i problemi del fascismo, quindi cercano
misure comunque democratiche che li riportino alla sicurezza
economica personale, come se le persone adibite a toglierci dai guai
potessero essere le stesse che ce li hanno creati, come se si potesse
spegnere il fuoco con la benzina, senza poter arrestare la crisi
intrinsecamente determinata a priori da un sistema politico studiato
e rivolto a creare una degenerazione progressiva dell’economia, del
tessuto sociale e delle nazioni tutte, e si guarda ai revisionisti
anti-democratici (a dir bene gli unici che possono trovare una
soluzione) quasi con la stessa cinica ostilità con cui si ricorda di
averli lasciati morti sul campo. Le idee umanitarie illuministe che
fecero da viatico a questo passaggio epocale furono architettate e
tutt’oggi propagandate ed assunte come bandiera da tutti i fautori
interessati del sistema ebraico-massonico, solo perché sono
un’ottima maschera che li fa passare per persone buone e rispettose
di tutti, e che in realtà si traduce politicamente in un sistema che
lascia i problemi sociali inalterati ed anzi destinati ad aggravarsi
drammaticamente, con la possibilità per i singoli di farsi gli
affari propri e tenersi stretto il proprio benessere con la coscienza
serena, perché così oltre che dei vincenti sono anche i detentori
dei retti principi e i paladini della giustizia: concetto di cui i
loro sistemi negano la possibilità stessa di realizzazione.
Questi vili principi consentono dunque di far passare una cosa
cattiva per una cosa buona, e ai loro adepti di vincere due volte:
nella competizione personale (vera, ma spesso sleale) e in quella
idealistica (falsa, e altrettanto sleale perché con il monopolio
culturale e il potere materiale ha potuto zittire i suoi avversari
che facilmente avrebbero potuto confutarla in maniera imbarazzante,
rivoltare la frittella e parlare di ideologia criminale con
conseguenti atti criminali disseminati lungo secoli di storia, guerre
mondiali ed altre, e tuttora a spasso per il mondo in allegria auto
assolutiva ed ipermendacità incallita). Del resto una mentalità in
cui la salute è innanzitutto un business, le tecnologie ambientali
sono innanzitutto un business, l’arte è un business, la politica è
un business, la guerra è un business, la formazione è un business,
l’informazione è un business e la prima domanda che sorge dinanzi
all’apparizione di qualsivoglia cosa nuova è : quanti soldi è
possibile farci? E di fronte ad un fenomeno negativo di tipo
sociale, ambientale, culturale: che percentuale di incassi farà
perdere alla nostra azienda? Oppure: in che modo è possibile
lucrare sulla cosa?
Non
ci si può aspettare che un senso civico induca la gente ad
entusiasmarsi solo per un reale progresso che dalla scienza non
diventa un affare commerciale ma diventa una nuova prassi assunta
politicamente per tutti, che risani il sistema e non promuova nuovi
conflitti, e ad allarmarsi per le cose serie, non solo per una
circostanza che si volge contro di noi e fa pericolosamente colare
verso il basso il nostro volume d’affari, ma quelle che minacciano
tutti quanti, la società nel suo insieme e quindi a lungo termine
anche il riccone che non se ne farà nulla dei suoi soldi quando gli
crollerà il mondo intorno: ma non ci si può aspettare questo da una
società che ha la plutocrazia nella sua Costituzione, sicché anche
la classe politica, che ne avrebbe la funzione, non possa metterci
una briglia ed anzi faccia perseguire quelli che dall’esterno
provano di mettercela con un revisionismo fattualmente pericoloso per
la democrazia, e dunque per gli interessi economici privati che danno
la vera libertà a quelle persone che non potrebbero trovarla in
altro modo: interessi senza i quali non sarebbe nemmeno mai stato
architettato e neppure ipotizzato né poi reso credibile e ad un
certo punto imposto con le armi, un sistema come quello democratico.
Ma la possibilità di arricchirsi non è la sola ragione per cui il
capitalismo è il sistema più amato: è che la competizione viene
pompata come cosa positiva che stuzzica la vanità degli ambiziosi
senza senso sociale, sicché, chiunque abbia talento personale e
forza di volontà, anche se in realtà con delle forti disuguaglianze
per quanto riguarda l’accesso alle possibilità migliori che non
possono non suscitare dibattiti, si vede garantito il diritto di
vincere con essi ed andare fiero di qualcosa di personale, non
importa in fondo quanto sarà benefico nel sociale, visto che non è
il valore fondante della nostra civiltà, fatto sta che ce la
possiamo fare e se ce la facciamo la nostra vita subirà una
impennata generale: tanto che la stragrande maggioranza delle persone
non ha altro concetto di “successo” che non corrisponda
all’affermazione individualistica, economica in primis, dacché il
resto ci va dietro.
Il
progresso viene lasciato agire anche se sotto il loro controllo
perché ne hanno bisogno in prima persona e poi per soddisfare i
bisogni reali di un’ampia parte della popolazione, le cui
condizioni di salute e soddisfazione alla fine vanno tenute a livelli
sostenibili perché non si crei una rivolta generale e i grandi capi
abbiano ancora un popolo efficiente e vitale da poter sfruttare, e
dunque la deve far scivolare soltanto con molta lentezza e meno
traumaticità possibile verso l’asservimento totale, sicché senza
essersene reso conto si ritrovi un giorno completamente privo di
strumenti psichici e fisici di insurrezione, ed essere ormai
abbandonato inerte ai suoi comandi.
Il
nazismo era poesia, e la sua sconfitta per mano degli orchi
bolscevichi e dei plutocrati occidentali è poesia tragica. Invece il
castello di menzogne che hanno costruito poi non ha più nulla di
poetico, è solo bassezza giudaico-democratica, non fosse per il sole
arcaico della svastica che sembra resistere sotto di esso. La storia
del novecento, senza Hitler, sarebbe noiosa. Resta il personaggio
principale, gli altri brillano di luce riflessa, acquistano senso
solo in relazione a lui. Ma dopo il nazismo, l’intero senso della
storia viene reinterpretato. Il nazionalsocialismo rappresentò una
frattura senza precedenti, la cui portata non fu neppure troppo
chiara all’inizio, forse agli stessi tedeschi. O meglio si trattò
di una Congiuntura, di elementi che erano comparsi e si erano
intrecciati anche prima, nei secoli, nei millenni, ma la cui natura e
rapporti non erano pienamente comprensibili fino allo scontro finale.
Questo ha avuto come demiurgo la figura del Fuhrer (titolo mai usato
prima da un capo politico – o almeno non con lo stesso
significato). A Berlino, in due riprese (1933 poi 1945) parevano
essersi date appuntamento le due forze più ancestrali che muovono il
mondo. La stessa nascita di Cristo potrebbe essere indicata come
“1933 before Hitler”.
Non
vi è mai stata una guerra più decisiva della Seconda Guerra
Mondiale: il suo esito avrebbe visto la storia prendere due direzioni
diametralmente opposte, e per la prima volta su scala planetaria, in
modo da rendere apparentemente impossibile un’inversione di marcia.
Ma la vittoria davvero definitiva di una delle due forze conduce in
ogni caso alla fine della storia.
Lo
scontro è dunque rimandato, quella fu solo un grossa battaglia.
Il
tragico ha come condizione un alto sentire. Priva di un personaggio
di carattere nobile, una storia può essere oggetto di commedia, ma
non di tragedia. La tragedia può essere parodiata, ma la commedia
non diviene tragica, e nel tentativo diviene grottesca o patetica.
Quando
si sentono uomini ordinari che parlano o scrivono su uomini
straordinari, l’unica cosa interessante che dicono è il nome di
quest’uomo, che ogni tanto compare nel testo a prescindere dagli
attributi e predicati.
Gli
storici della filosofia di regime hanno sostenuto che Nietzsche non
avrebbe letto Marx perché non gli interessava. Ora,
che egli fosse giustamente uno snob nei confronti di testi mediocri
non all’altezza di un cotale spirito è comprensibile: tutti i
grandi personaggi vedono un percorso ascendente del loro snobismo ed
una sempre maggiore selettività dei contatti, non solo per sdegno ma
anche per quella razionale autodifesa che li vedrà tornare alla
gente solo quando questa non potrà più far loro facilmente ed
ingiustamente del male, ed una nuova conciliazione sarà possibile
con strumenti nuovi e l’autorità che egli si sia costruito. Non è
comprensibile invece come Nietzsche, un filosofo ormai maturo ed uno
spirito responsabile, che aveva parlato così chiaro e così duro sul
cristianesimo, che aveva sviluppato un fiuto quasi ossessivo per ogni
segno della decadenza, nuovo discriminante fisiologico a priori di
ogni costruzione intellettuale a posteriori che ne sarebbe stata
necessariamente condizionata, laddove essa si esprimesse in
filosofia, in politica, in arte, nella scienza, un uomo che appunto
aveva messo in guardia dalla democrazia, dal socialismo, dal
pacifismo, come pericoli per l’integrità della civiltà, illusioni
capaci e forse intenzionate a trasformare l’umanità in sabbia, non
è comprensibile come egli abbia potuto non menzionare nemmeno
il marxismo, come avanguardia presente e corrente più estrema del
socialismo, ideologia con all’attivo testi capitali di grande
impatto pubblicati dal 1848 in poi,
e
che Nietzsche avrebbe potuto leggere nel pieno della sua maturità, e
che già si era costituito in movimento politico e stava riscuotendo
un successo in rapida espansione. Inoltre Nietzsche non avrebbe
trascurato una critica al marxismo imperniata sulla sua stessa
precisa terminologia: avrebbe smascherato l’intento che vi era
dietro quei concetti, coerentemente col suo metodo genealogico, senza
nemmeno starne a predicare inesattezze, imprecisioni, contraddizioni,
insensatezze, ambiguità come se fosse un principiante della
filosofia che guarda l’oggetto trascurando il soggetto che ne
emette parola, e non comprende la funzione precisa che hanno
determinati errori, spesso voluti più che fatti, da parte di uomini
che per mentire e distorcere devono saper bene la verità e dunque
non sono stupidi ma solo opportunisti senza scrupoli: allorché
secondo la sua filosofia del martello avrebbe distrutto
sistematicamente anche la sua proletaria versione incrociata alla
falce e stampata su una bandiera rossa come nuova idea che avrebbe
dovuto rivoluzionare e dominare il mondo, di cui aveva preteso
addirittura di indicare la meta ultima. Proprio un discorso che
avrebbe lasciato indifferente un uomo che in fatto di mete
cercava sempre di andare oltre…
Se
c’è una cosa di cui Nietzsche era giunto a piena consapevolezza,
era la pericolosità dei simboli. E come nel simbolo cristiano egli
aveva visto impresso il più fatale inganno di cui l’umanità fosse
mai stata vittima, non avrebbe avuto difficoltà a notare lo stesso
pericolo nel simbolo della lotta bolscevica, e neppure nel
confrontare i due simboli tessendo una rete connettiva che desse un
ruolo a ciascuno. Inoltre Nietzsche era divenuto un appassionato ed
un minuto artigiano di ricostruzioni storiche, da lui ben preferite
alle disamine dottrinarie, con annesse dimostrazioni e confutazioni,
e nei suoi testi troviamo molti frammenti ricostruttivi e sintetici
delle fasi della civiltà su base psicologica: per esempio nella
Genealogia della morale, ma anche in Umano troppo umano e nella
Nascita della tragedia. Eppure notiamo che si parla soprattutto delle
epoche antiche, con l’aggiunta di un qualche accenno al periodo
rinascimentale e quello della riforma protestante, ed un povero anche
se netto giudizio sulla rivoluzione francese, sentenziata come la
rivolta degli schiavi.
Una
vera e propria storia della filosofia, parallela a quella della
civiltà in cui la prima ha trovato genesi e spazio, è assente, in
Nietzsche: ma soprattutto quasi totalmente difettiva del periodo
medievale, di quello moderno, di quello illuministico, per arrivare
alle nuove correnti ottocentesche ed alla fine quelle di cui lui fu
contemporaneo e diretto avversario. Nietzsche nacque in un periodo
storico di già così complesso, sebbene in una posizione sociale
ancora assai positiva per un intellettuale, soprattutto se di salute
cagionevole, in cui uno spirito tanto sensibile ed intricato come il
suo, così originale e sfaccettato, non poteva esimersi dall’avere
difficoltà a padroneggiare l’oceanica messe di intuizioni che la
vita gli portava in grembo, per le quali doveva trovare anche un
linguaggio nuovo ed adeguato, tanto erano innovative e spesso
appartenenti a zone ancora inesplorate dell’esperienza umana e
nelle quali tutto era ancora da scrivere, prima che qualcuno potesse
azzardare una confutazione o innescare un dibattito, e quindi alcuni
dei suoi pensieri si siano chiarificati solo col tempo: in forme
sempre più concise, sintetiche, e sistematiche. Molto dovette
prendere la forma del lirismo poetico, financo folleggiante ma mai
privo della significatività dell’oggetto che dunque non dominava
il filosofo, ma era da questi dominato. Io credo che Nietzsche stesse
sperimentando una nuova estetica all’altezza della sua nuova etica,
e non sempre l’esperimento fu pienamente riuscito, cosiccome le sue
stesse dottrine etiche presentano un residuo di discutibilità e
incompletezza, soprattutto allorché pare che egli non abbia mai
saputo liberarsi del limite del principio individualista, che
effettivamente giustifica la posizione immoralista in tutta la sua
declinazione, ma che sicuramente deve essere messo in discussione. La
non sistematicità di Nietzsche è più pretesa che reale, visto che,
salvo alcune concezioni giovanili espresse nei suoi primi libri dal
quale egli poi si distaccherà dichiaratamente, notiamo una coerenza
di fondo che è naturale in ogni pensatore che non può far altro che
sviluppare il suo spirito sino alle sue dimensioni naturali e
suggendo sempre nuove sostanze dall’esperienza, espellendo quelle
contaminanti, ma non può cambiare il suo carattere fondamentale, di
cui ogni sua frase porta incancellabilmente il marchio, laddove
davvero egli ne sia l’autore. La scrittura frammentaria non
implica l’impossibilità del mosaico in cui tutto combacia, ed è
invece il più delle volte un espediente meramente estetico nonché
la viva necessità di un pensatore originale di conquistare un
terreno alla volta, il più chiaramente possibile: curare il
particolare, come egli sosteneva nella sezione artistica di Umano
troppo umano, non per avversione alla sistematicità, ma per
l’impossibilità di approdarvi subito senza colpo sbagliare. Ma
senza arrivare al comunque credibile proposito finale di
sistematizzare il proprio pensiero in un’opera chiamata La Volontà
di Potenza, la quale si è trovata in mezzo il crollo psichico del
filosofo, il suo ricovero, la sua morte, e lo zampino della sorella e
di quanti altri sono poi stati chiamati in causa nei dibattiti circa
le contraffazioni e le interpretazioni di Nietzsche, è possibile
notare in tutte le sue opere pubblicate in vita un intento
sistematico ed una effettiva disanima ordinata dei vari aspetti delle
questioni: le opere sono scandite in sezioni, molte delle quali
munite di un titolo abbastanza categorico da testimoniare un chiaro
intento organicizzante, vi sono paragrafi coerenti nell’argomento e
ben torniti in ogni componente, come dovessero essere esauriti
lasciando solo il desiderio di saltare a quello successivo senza
nulla aver lasciato indietro se non una roccaforte affidabile e
munita di presidio, che ti introduce nel resto della cittadella nei
suoi vari segmenti, nella visita guidata al lettore, come spirito
guerriero ed insieme artista, binomio necessario per capire
Nietzsche, ed abbia sì nobili lo sguardo e la mano, che non posson
già esserlo
l’un
senza l’altra, il qual si unisca alla corte ed alle sue prossime
mete, ma in qualità di ospite giovi quest’oggi di una passerella
panoramica sui futuri scenari, avvivata dal racconto delle passate
storie, cheggià si senta verrà chiuso il cerchio e che sarà ben
solida vestigia. L’argomentazione stessa, per quanto assai poco
scolastica, ed invece maggiormente artistica, è precisa e priva di
smagliature, di passaggi saltati: è abbastanza semplice seguire il
filo logico anche quando non fosse esplicito né pedantesco, e di
certo egli non pone il carro innanzi ai buoi e ciò che viene
illustrato secondariamente è opportunamente preparato dal capitolo
precedente. La sistematicità è dunque evidente ed è stata
istintiva, anche laddove inconsapevole, con un grado sempre maggiore
in funzione della padronanza dei problemi che egli acquisiva in quei
pochi lustri di febbrile riflessione. Sebbene sia vero che in un
libro composto di frammenti sgorganti dallo stesso spirito
scintillante noi possiamo immergere la testa in un suo punto
qualsiasi per attingerne una frescura magica, dilacerante di luce ed
una scossa energetica, tale che quando la tiriamo fuori di nuovo
notiamo che intorno a noi non vi è più nulla di consueto. Ma questa
è una giusta vanità da parte di un intellettuale, il quale,
essendosi mosso nella coerenza controcorrente della sua qualità
intrinseca superiore alla propria epoca, noti infine i suoi risultati
e sia in grado di affermare una sorta di tutto quello che dico è
magico, e il corollario: mi sono conquistato il carisma, ho
fatto qualcosa di nuovo e ho vinto, adesso nessuno vorrà più
leggere altro, inizia ora la mia epoca.
Tutti
sanno che una band eccezionale ha fatto solo pezzi eccezionali e che
tu puoi ascoltarne uno a caso ed è al fulmicotone perché superiore
alla media di quello che senti, ed anche se mille volte lo avessi
sentito ti emoziona di nuovo. Ma nessuno può negare che l’intero
disco sia qualcosa di più potente, e in un artista, come in un
atleta ed un uomo qualsiasi, si conserva il desiderio di vedere unite
in un solo corpo tutte le maggiori manifestazioni delle proprie
virtù: dunque di essere sistema. Scremati soltanto di quel
che non ci soddisfa perché non ci appartiene, in quanto estraneo
oppure poco energico. Di essere dunque puri ed al massimo della
potenza: di essere, orbene, totalmente sé stessi. La frammentarietà
non è mai un principio deontologico che vieta il sistematico, e per
voler sistematizzare la frammentarietà devi essere un ebreo non un
filosofo. Quest’ultimo invece sa sempre che la disunione fa la
debolezza, ed egli non potrebbe infine avere tale sicurezza ed
entusiasmo se si rendesse conto di avere tra le mani non un
battaglione di concetti perfettamente arruolati e muniti di spade
affilate, ma una accozzaglia di frammenti contraddittori e lacunosi.
Un filosofo non è mai un uomo del particolare, e se soltanto questi
avesse conquistato nel suo percorso, egli proverebbe un brivido
schiacciante: quello di non poter sostenere, con quella sola arma in
pugno, il peso del mondo sul quale egli è chiamato a far breccia per
rivoltarlo a nuovo, considerando che egli ha dedicato la sua
esistenza a questo e non si è costruito altre posizioni,
né
una solida esperienza altrove che lo renda forte ed appagato: ad un
certo punto non si può più ripiegare sulla vita normale, di già
scarsamente praticabile in dirittura di partenza per via della
diversità personale che istintivamente l’aveva negata prendendo la
strada della filosofia: dunque egli non può permettersi di non
arrivare a destinazione, o di presentare il bilancio della sua vita
con un treno di tormenti e di mancanze su un piatto ed un pugno di
zanzare o lucciolette filosofiche sull’altro. E non potrebbe
nemmeno permettersi di aver sviluppato molto bene un solo tema
filosofico: gli investimenti che la sua opera ha richiesto esigono
risultati più sostanziosi, sia per lui che voleva una filosofia a
trecentosessanta gradi, sia per il mondo che ne attende la sfera.
Egli verrebbe dunque schiacciato dall’insufficienza dimostrata, e
quando anche la sua mono fiaccola si fosse insinuata nelle lande del
presente, non sarebbe abbastanza luminosa da essere ben vista né
avrebbe un potere calorifico abbastanza grande da poter scatenare un
incendio che generalizzi il suo spirito. Il sistema presente è molto
forte per il fatto di essere un sistema: ed un filosofo,
durante la sua vita, vive senza un sistema di riferimento poiché è
nemico di quello attuale e deve solo venirci a patti mentre ne
costruisce un altro che deve partire da lui e sostituirsi al primo ad
opera della nuova e vitale fazione dei suoi seguaci, che illuminati e
vitalizzati dal tuo potere verbale dilacerante sono pronti alla
conquista fisica come tu non potevi essere nell’epoca buia ed eri
il solo detentore di una nuova umanità, e ne eri anzi l’elemento
più forte in grado di aprire la strada con la sola energia della
ragione (cioè delle acque diffrante dell’istinto), sicché gli
altri elementi tutti riponessero in te la speranza di riscatto per
la loro specie. La scrittura aforistica era stata utilizzata
amplissimamente anche prima da Schopenhauer, nello stesso modo e con
lo stesso senso in cui Nietzsche anche l’avrebbe poi adottata. Il
saggio di Francoforte fu un altro spirito foriero di innovazioni ma
rispettoso della forma estetica di cui la storia delle belle arti
ancor consentiva e consente grandiosi esempi, e se non bastavano
avrebbe creato nuovi stilemi e portato il tutto a nuovi livelli: ma
l’animo forte detiene la predisposizione a quella struttura
senza cui nulla di complesso può funzionare, e quanto i tutti
diventano uno è solo perché li hai scolpiti ed assemblati talmente
bene che non sono più gravati dal tempo e dunque da un pluralismo,
necessariamente bellicistico, che non consente un appagamento
completo in quanto unitario, ma degli appagamenti parziali con un
riflusso negativo sulle altre passioni, i cui oggetti non ci arridono
subito, e dunque verranno annessi solo in ritardo a riprendersi lo
spazio che però è solo una compensazione di rimedio che salva dal
peggio ma rimette in discussione l’intera partita, quale dovrà
essere rifatta nell’ottica di non danneggiare nessuno. Dacché due
ingiustizie non fanno giustizia: la seconda ingiustizia è
vendicativa e necessaria, ma poi entrambi i contendenti dovranno
chiedere conto a chi aveva impostato quella partita in modo che si
creassero delle scorrettezze ed allora le debolezze non potessero
essere scremate, le identità perfettamente definite e nel conflitto
ognuno conquistare il podio che gli spetta. L’adeguata struttura
rende tutto quanto estetico oltre che nuovo, lo rende efficace e
dunque fa passare il messaggio, altrimenti destinato a
disperdersi in deboli rivoli. Con tale forza razionale il filosofo
sorregge l’impeto dei fiumi che scorrono dentro di lui a contatto
con un’epoca ostile. Se un filosofo non fosse sistematico, ossia
non possedesse una grande forza razionale, una capacità di contenere
e strutturare i pensieri, quelli che ricevono il loro carisma in
primis dall’intensità emotiva che lor sottende, scatenata dal
contesto in cui essi nacquero, nel contatto tra un uomo eccezionale
ed un ambiente, e da questo conflitto sublimati in lettera, ebbene
egli fallirebbe miseramente, e sarebbe allora giustamente definibile
come un pazzo con dei lampi di genio, non appunto un filosofo. La
follia è appunto irrazionalità: non è dunque un difetto percettivo
sugli oggetti singoli, né una insufficienza reattiva dovuta a scarsa
prestanza fisica. Gli atteggiamenti che definiamo folli, dunque
irrazionali, mancanti di coerenza, dipendono da un cedimento delle
nostre strutture mentali: da un logoramento di quel contenitore che
consente di mantenere unite anche le nostre percezioni esterne,
sempre plurali nella vita quotidiana, ognuna delle quali si
riconnette al suo corrispettivo interno nella specifica posizione,
nella forma mentis che dà forma appunto alla realtà e che
sola riconosce ogni oggetto poiché di già lo conosce, e
dunque ci rende in grado di reagire ad esse percezioni in maniera
sensata, ovvero secondo una sequenza precisa nessuno dei cui
passaggi sia mortificante per la nostra causa e dunque di fatto
interrompa il processo che l’avrebbe portata a realizzazione, come
unico vero problema composto di piccoli problemi, e nessuna delle
nostre azioni sia quindi un errore. Che non sia un passo
falso: ovvero non coerente con la nostra natura, non affermativo ma
negativo, e servente la natura altrui. Solo la debolezza contingente
può renderci servi degli ideali altrui: se siamo nel pieno delle
nostre facoltà percettive e reattive, noi siamo necessitati ad
essere coerenti e non possiamo servire estranei, non possiamo
fregarci da soli, essere nemici a noi stessi, segnare degli autogol.
Non vi è invero alcuna regola che non sia natura, quindi non vi è
nemmeno alcuna sociologia che non sia psicologia di un essere impuro,
alcune componenti del quale se ne stiano all’esterno ed altre egli
ne abbia introiettate dall’ambiente. Due oggetti si relazionano
solo perché non sono completi e vogliono prendere l’uno dall’altro
qualcosa che loro manca. I loro comportamenti non sono che le
attrazioni e le repulsioni reciproche tra elementi omogenei ed
eterogenei. Il fatto che in una stessa persona questi elementi siano
frammisti e si incontrino con altre persone promiscue a loro modo,
sembra generare in loro, nel contatto, una reazione complessa. Ma se
è complessa, non è una reazione: sono molte reazioni di fatto
indipendenti, perché per essere dipendenti dovrebbero avere qualcosa
in comune che le renda complementari e dunque relazionabili, mentre
lo abbiamo escluso dicendo che si tratta di elementi eterogenei. In
un essere plurimo convivono in realtà vari esseri, ma in nessun caso
egli ne rappresenta l’insieme, avente vita propria, loro rimangono
separati: nel momento in cui definiamo un uomo escludiamo la
pluralità, tutto quello che è in lui è necessario perché sia
definito uomo.
La
sua umanità è appunto l’insieme di cose che sole possono stare
insieme in quell’aggregato avente tale forma: se i componenti
fossero separati, essi sarebbero uomini infranti, aspiranti uomini e
nulla mai altro. La parte non è definibile senza il tutto, cosiccome
il tutto senza la parte: questo significa che non vi è reale
differenza tra i due concetti, e vi è soltanto in quanto non sono
tali. Se tu consideri la parte, essa deve essere per forza già
staccata dall’insieme: vigeva tra loro soltanto una alleanza, una
accozzaglia, un contatto, una associazione e non una fusione, ciò
che davvero è unitario non è attaccabile e dunque nemmeno
percepibile a frammenti: ciò che frammenti alla vista è già
frammentato ed i tuoi occhi penetrano quelle fessure e le dilacerano
in un intento separatore. Ecco che non è affatto sbagliato sentirsi
minacciati da colui che ci guarda e ci analizza: la sua analisi è
una catalisi oculistica, egli ci sta già di fatto tagliuzzando per
utilizzare di noi quel che gli interessa. Egli ha sfilacciato come
poteva, ma realmente, la nostra integrità: non però in maniera
grave, tant’è che se lui si toglie di mezzo non ci vuole molto a
che ci scrolliamo di dosso il suo sguardo, il ricordo, ossia
ricomponiamo quei tessuti che esso aveva cominciato a logorare. Non
esistono forze risultanti, solo le componenti in se stesse: il
concetto di forza risultante non è altro che la strumentalizzazione
di un conflitto altrui, che rimane separato nei suoi componenti, da
parte di un terzo soggetto a cui non importa l’esito di quella
guerra per quei due, ma solo il vantaggio che lui possa trarne. Egli
esercita dunque la sua forza su quel binomio in lotta: solo però una
volta che essa abbia dato il suo esito, non durante. Quindi dopo che
il binomio è diventato di nuovo un monomio. Non puoi combattere
contro o a favore di due che stanno combattendo. Tu combatti contro
un altro che sta combattendo contro di te. Quando siamo sani di
mente, ossia muniti di una robusta struttura razionale, non cadiamo
in balia del singolarismo percettivo che nella pratica può vederci
sballonzolare tra uno stimolo e l’altro al pari di un cane, in un
percorso grottesco e privo di qualsiasi disegno complessivo, quella
percezione prospettica e sferica, che pur vedendoci maggiormente
appesantiti laddove la nostra affermazione nel mondo sia ancora
lontana e noi siamo quindi necessitati a fare delle scelte non
potendo togliere di mezzo gli elementi avversari posti in essere che
a tali scomode scelte ci costringono, ci rende in grado di scansare
ciò che infastidisce il presente, senza danneggiare il futuro. Il
grado di razionalità necessario ad affrontare la vita, ossia la
tenuta mentale, diminuirà secondo il numero di avversari che
riusciamo a sconfiggere e dunque quanto più l’ambiente esterno sia
conciliante e non necessiti di essere combattuto. Quanto più siamo
felici, tanto più potremo permetterci di essere istintivi, in quanto
muniti assai spesso di un solo istinto che non incontra ostacoli,
tali da venire diffranto ad opera di molteplici avversari, di modo
che ogni frammento materico che essi hanno conquistato di noi
necessiterà di una battaglia specifica per essere riconquistato e
quindi ripresa la nostra unità che ora può volgersi ad uno
specifico conflitto esterno. Quando un filosofo diventa un folle,
cessa di essere tale. Ma non è affatto detto che la follia non possa
avere un parte nella sua vita: purché sia una parte subalterna. Egli
può folleggiare, ossia guerreggiare con chi tenta di ammattirlo,
scendendo sullo stesso piano e con le sue stesse armi. Il filosofo è
colui che folleggia con stile e quasi di proposito, per esperimento,
per affrancarsi pionieristicamente da una razionalità che si rivela
fasulla ed oppressiva, per divertimento, per sfida, per rabbia, per
sfogo, per eccessivo dolore, ma sempre più per forza che per
debolezza, per una paura a volte gelida ma che infine e dunque fin
dall’inizio non perde mai la sua sfida con il coraggio, per
soluzione estrema, per un esaurimento ed una disperazione che però
non perdono mai totalmente il controllo, la lucidità, e l’abilità
verbale: che non spengono la spina, al massimo si mettono in
stand by, fanno corrente alternata, alterata, cercano fusibili.
Stiamo dunque parlando di uomini che non impazziscono, che già
usano la follia come strumento e maschera, come fonte di guarigione,
come arma di guerra, come viatico e danza, come espediente artistico,
come elemento e personaggio di una storia, come nuovo metodo, come
cambio di pelle, come metamorfosi, ed infine inglobano anche il
concetto di follia nelle loro maglie pittoriche, nel loro sistema
filosofico, e combattono anche il trattamento che il sistema riserva
ai pazzi, proprio perché non lo sono ancora diventati, perché il
sistema oppressore non ha ancora vinto, non li ha ancora stroncati: e
nel momento in cui si concettualizza la follia si è più forti di
essa, la si domina e non si è dunque dei pazzi. Chi più non
capisce: egli si è un pazzo, egli è stato sconfitto. Colui che è
stato estromesso per sempre con il trauma ed il terrore, oppure con
l’impressione di un degrado energetico e fisiologico irreversibile,
da un ambito della realtà che potrebbe essere messo in discussione,
una zona pericolosa che agli arditi può dare una chiave di volta che
porti ad una svolta gli impulsi di rivolta: costui forse sarà meno
folle. Si sarà rimesso nelle corsie di pensiero consentite e
fiumeggianti di acque serene o serenamente increspate, pilotate dalle
sorgenti, dagli argini e dalle forze aggregative interne anche negli
impeti rabbiosi e nelle discese rapide, anche nelle alluvioni che li
sovrastano e si riversano in nuove falde. Costui non avrà più
atteggiamenti strani, non darà nell’occhio, non desterà
preoccupazioni, non farà discorsi ad elevato contenuto minatorio,
offensivo, distruttivo, diffamatorio, non parlerà anche delle cose
più normali in modo palesemente anormale, dismetterà la tendenza ad
inerpicarsi in tematiche da cui la gente vuol stare fuori e in alcuni
casi non potrebbe stare dentro poiché sono fuori dalla gamma della
sua sensibilità. Egli non sovrasterà il livello standard di afasia
che normalmente lega le persone normali: investite da contrasti,
certo, ma le cui esigenze spesso collimano, sicché i tempi vengono
rispettati senza eccessivo rancore da frustrazione, e nello stesso
modo i lavori vengono svolti, i doveri espletati, le regole
accettate, le opinioni dominanti approvate, i giudizi personali non
sono mai abbastanza ingiusti e non si inseriscono mai in un terreno
tanto piagato e avvelenato da infliggere un’offesa molto profonda,
tale da suscitare, assieme alla percezione dell’impossibilità di
pagarlo con la stessa moneta e l’angoscia che quel tipo di
incorreggibile e orrenda persona corrisponda all’uomo
medio, il quale gremente ogni strada ed ogni spalto del globo e
vocicorante di volgarità ultrasonica milliumana e cattiveria
bufalica, staffilante la sua grettezza in nuova spaventosa
intelligenza di cinico complotto ed improvviso violentissimo taglio,
si schiererà impassibile ed impunibile dalla sua parte: suscitare in
lui un’ira talmente bestiale da indurre il soggetto a pulsioni
suicide che infine respinge solo perché Ercole ha imparato a
camminare a gattoni da lui, oppure ad atti criminosi (sia ben chiaro
- secondo la legge) ma comunque compromettenti per lui su
qualche piano importante. In tale società di persone
fondamentalmente omogenee l’intolleranza è spostata laddove esse
non sono di fatto omogenee: sul terreno dell’eccezione o comunque
negli aspetti secondari della vita dove a dir bene il principio
relativista e pluralista, invece negato nei fondamentali, tramite
anche la vasta offerta di mercato conferisce ad ognuno il diritto di
defilarsi dove più gli garba e di sentire solo quel che non lo
infastidisce. Qui l’intolleranza è legalizzata e legittimato è il
rifiuto delle imposizioni altrui, che sarebbero dittatoriali anche
negli aspetti secondari della vita e dunque totalitarie, cosa che non
può giovare al sistema il quale, dovendo garantire l’interesse
delle élites che lo hanno architettato, deve venire incontro
alle grandi masse il più possibile giacché non potrebbe permettersi
di opprimere moltissime persone con un monopolio ideologico e
caratteriale di stato che informi di sé tutti gli aspetti della
vita: anche le arti, il linguaggio, l’alimentazione, i beni di
consumo, gli sport, gli svaghi, l’abbigliamento ed i costumi
sociali. Il popolo è l’apparato produttivo ed esecutivo che deve
necessariamente mantenersi efficiente nella sua parte maggioritaria
affinché non ne risentano anche le élites. Al fine
dell’asservimento generale, un livello medio-alto di soddisfazione
va garantito almeno fino a che le masse non diventino talmente
plagiate e deboli da non poter opporre resistenza ad una schiavitù
che li opprime maggiormente ma che consente loro ancora di produrre
quello che vogliono i padroni e di servire la loro volontà. Se tali
padroni bruciassero le tappe opprimendo eccessivamente la popolazione
quando ancora questa è energica abbastanza e consapevole da potersi
rivoltare in una maniera che sarebbe incontenibile, dato il grande
numero, perderebbero il loro obiettivo che richiede invece di
stroncare subito, prepotentemente e con la massima spietatezza gli
individui eccezionali: quelli che per maggiore intelligenza
capirebbero subito il loro piano e sarebbero in grado, sino a che
questo non abbia operato adeguato plagio della coscienza collettiva,
di fomentare le masse contro di esso. Se gli intellettuali superiori
non vengono ammazzati devono per lo meno essere abbandonati in un
tessuto sociale talmente eterogeneo da essere per loro un guado di
fango e di rovi, di irritazione e frustrazione continua tale da
renderlo assai lento nei movimenti e sempre più debole se non è
stato eccezionalmente abile, e appunto dargli adito di comportarsi in
maniera antisociale e folle cosicché sia consentito agire legalmente
contro di lui, anche avallati dal fastidio o dalla paura che questi
ha suscitato nella gente, e che dunque approveranno il provvedimento,
poiché le sue idee ancora non comprensibili ed il suo comportamento
risultano più negative dell’inganno che il sistema compie su
queste masse umane, perché in loro si trova ad uno stadio inferiore
di degenerazione: non li ha ancora danneggiati a sufficienza e fino a
che la gente non comincia a star veramente male, qualsiasi
cambiamento, soprattutto di natura molto destabilizzante, traumatica
e addirittura implicante una guerra, mette a disagio e spaventa di
più che non il mantenimento di una relativa insoddisfazione cui sono
possibili ancora molti calmanti e piacevoli diversivi, e che comunque
non ha ancora intaccato ne minacciato i pilastri del nostro
benessere. Il sistema distruttivo deve dunque usare le masse contro
le aristocrazie intellettuali, cosicché possano essere sostituite
dalle nuove élite e non essere più disturbate da individui che si
pongano problemi dello stesso livello, quello dei massimi sistemi
appunto, ma con delle intenzioni opposte. Quando hai tolto di mezzo
gli intellettuali che servono l’idea nazionale, e stroncato
materialmente gli stessi soggetti politici che la incarnano, a questo
punto pilotare le masse disponendo del potere finanziario, in una
società in cui questo è salito in cima alle gerarchie sociali e
dunque ingloba in sé e subordina ai suoi dettami anche quello
produttivo, legislativo, giudiziario, militare, culturale e
mediatico, non è affatto difficile. Bisogna solo stare
attenti a distribuire la frustrazione laddove maggiormente possa
paralizzare ed asservire con efficacia immediata e non regressiva, in
modo da non suscitare nella persona oppressa un impulso di rivolta
abbastanza potente a che essa si possa trascinare dietro tante altre
in un’azione anti sistemica. I più forti di mente vanno stroncati
per primi: perché possono guidare tanti corpi nella direzione
sbagliata. I forti numericamente vanno invece tenuti a bada con un
livello di benessere medio e che nel tentativo di essere migliorato
possa giovare ancora delle illusioni poste dal sistema informativo,
che non impone loro l’ignoranza ma una visione delle cose
fuorviante e deformante, che ad essi dà comunque la sensazione di
riflettere, di aver in mano conoscenze valide, di essere attivi e
partecipi e non burattini sfruttati e tenuti allo scuro di tutto, di
unirsi con altre persone in gruppi di discussione ed anche concreta
protesta che però non porteranno a nulla perché nessuno ha svelato
le verità che contano e gli strali di questi gruppi, anche laddove
non siano pilotati dalla politica stessa serva della finanza
internazionale, potranno comunque arrivare a scagliarsi solo contro
dei pesci piccoli, che non sono mai fondamentali e che possono non
solo essere messi in discussione ma anche crollare ed essere
sostituiti senza danno per la struttura fondamentale del sistema che
non viene posta in discussione perché non ce ne sono le basi
intellettuali in nessuno dei partecipanti alla protesta e questi
pensano a questo punto di aver sconfitto il vero nemico, mentre
quello se ne sta dietro le quinte a ridacchiare della loro ingenuità
e della sua nuova mossa vincente. Colui che la smetta di coltivare
simili pensieri, egli sarà stato curato dalla follia ed accolto
nell’alveo della placida schiavitù.
Se
c’è una cosa che accomuna tutti i grandi filosofi è che parlano
chiaro e parlano franco.
Due
concetti considerati capitali nel pensiero nietzscheano: l’Eterno
Ritorno ed il Superuomo, sono in tutta la sua opera quelli di
difficoltà ermeneutica maggiore, e questo li rende oltremodo
sospetti.
Sospetti
non certo dell’esitazione di Nietzsche nel fare pesanti e decise
affermazioni: mi rifiuto di credere questo di un uomo di tale
livello. Sospetto invece che siano stati alterati e camuffati, come
tutto quello che di Nietzsche ispira e spira ancora nel
nazionalsocialismo. Egli era troppo intelligente per non rendersi
conto che Eterno Ritorno è un ossimoro: un’idea troppo ebraica per
essere sua, per appartenere ad un uomo che teneva così tanto alla
salute, un’idea che richiama l’inutilità, lo spreco energetico,
avulsi a qualsiasi spirito alato e di forte nerbo. Anche il superuomo
era sicuramente, nelle versioni originali del libro, qualcosa di
molto chiaramente determinato e che legava la fisiologia alla
psicologia, in quel ritorno alla natura di ogni cultura che
rappresenta un tema centrale della sua opera. Anche il suo
richiamarsi alla civiltà antica doveva essere molto più marcato del
suo individualismo che lo associa assai più al capitalismo che non
all’idea nazionale. Certo egli era un frangi ghiaccio la cui pars
destruens doveva aver il suo spazio, anche eccedente e
temporaneamente fluttuante prima di un riassestamento, ma credo che
già allora la ricostruzione nazionalistica avesse trovato spazio nei
suoi pensieri di persona equilibrata assai più di quanto non fosse
folle. Se anche non fosse arrivato alla parte ricostruttiva, in tal
caso l’operazione sarebbe stata completata appunto dal pensiero
fascista, con il tramite del futurismo, come un ritorno vitalistico
alla patria ed alla civiltà successivo all’iconoclastia cristiana
e della sua versione laicizzata nella politica del tempo. Se
Nietzsche non ha alzato il braccio teso è perché è morto giovane:
a tale ginnastica mistica sarebbero approdati i figli suoi. Nietzsche
non è stato sicuramente travisato dalla sorella in senso fascista,
ma al contrario in senso capitalista ed ebraico. Nessuno dei
malanni di Nietzsche giustifica peraltro un tracollo psichico
improvviso come quello che sembra aver subito, guarda caso pochi
giorni dopo la pubblicazione de l’Anticristo. A leggerlo oggi è
un romanzetto filosofico, ma alla fine dell’ottocento era una bella
mina. I testi precedenti, già molto di rottura, gli erano stati
tollerati: ma questo no, stava decisamente esagerando. Io credo
fermamente che Nietzsche abbia subito, con la collusione della
sorella, della madre, degli amici, dei medici, un trattamento
sanitario obbligatorio: in manicomio glielo hanno mandato, non ci è
finito da solo come ad ultimare una romantica parabola letteraria.
Avevano paura di quello che avrebbe potuto scrivere, ancora così
giovane. Inoltre avrebbero potuto, come curatori delle sue opere,
operare tutti i tagli e i rimaneggiamenti desiderati. Anche il suo
epistolario deve essere stato modificato a piacimento.
Egli
non aveva affatto un buon rapporto con la sorella e la madre: i
filosofi hanno raramente dei buoni rapporti, soprattutto in famiglia,
e vi sono sue testimonianze e dichiarazioni in proposito.
L’internamento
di Nietzsche è avvenuto inoltre nello stesso anno ed anzi negli
stessi giorni in cui l’antisemita Forster, marito della sorella, è
stato trovato morto in Paraguay, misteriosamente suicida con una
dichiarazione fasulla di un medico locale. Si era recato in Paraguay
proprio con la moglie Elisabeth, con il pretesto ridicolo di fondare
una colonia ariana antisemita che poi avrebbe fallito…questa
colonia doveva essere una sorta di spray repellente che non comprava
nessuno dal momento che non vi erano molti ebrei in Paraguay: dunque
non mi stupisco che sia fallita.
Vuoi
vedere che la piccola e cara Elisabeth ha preso due piccioni con una
fava: il Fratello e il Marito, e si è presa in consegno le opere del
primo per farne quel che voleva…
Se
consideriamo che Nietzsche è considerato un pilastro da tutta
l’estrema destra…
E
che le edizioni che ci sono giunte (comunque di destra per chi le
sappia leggere) sono state stampate dopo la guerra…
Anche
Schopenhauer, è morto a 73 anni, era di una aristocraticità estrema
e mi rifiuto di pensare che non abbia scritto assolutamente nulla sul
marxismo, dottrina discendente da un ramo dell’hegelismo, le cui
opere avevano visto la luce 13 anni prima…
Anche
le sue interpretazioni del cristianesimo ed i suoi frammenti politici
sono manchevoli di qualcosa che lo fa apparire troppo ingenuo e
generalista…
La
cosa non mi quadra.
I
guardiani del sapere hanno scaricato gli inchiostri a molti…
Ciò che vi è di buono nel Futurismo
non è propriamente futurista. Esso è semplicemente l’apice della
miglior tradizione letteraria, che ha pienamente conosciuto e
assimilato, di cui è di fatto debitrice anche se superatrice: ed in
ogni cosa buona del presente si conserva il buono di ogni cosa
passata, poiché il tempo non è lineare, ma ha la forma del nostro
corpo. La superiorità futurista scintilla nei suoi primi manifesti,
per poi declinare laddove, assorbita la decadenza concettuale di
quegli anni, i futuristi hanno abbandonato la virtù della struttura
per avvicinarsi alla scrittura non sintattica, al teatro sintetico,
all’impoverimento contenutistico e alla non forma. Queste cose,
parenti letterari della dodecafonia, del cubismo, dell’astrattismo,
del dadaismo, del relativismo scientifico, dell’internazionalismo,
rientrano nei sintomi di quel virus giudaico che stava pervadendo
l’Europa: fenomeni per i quali il nostro Fuhrer coniò virilmente
il termine arte degenerata. Quello che i futuristi contestano
non è la tradizione, dacché senza passato non si può parlare di
futuro né di superamento o di evoluzione: ma solo i suoi aspetti
deteriori, apportati invero dall’epoca moderna. La loro è
una ribellione alla degenerazione della cultura: non al suo sano,
forte e naturale percorso, nel quale anche la loro opera rientra a
pieno titolo come ultimo elemento, anch’esso superabile. Marinetti
non ce l’ha con gli autori classici, ma con chi li considera dei
modelli insuperabili. Non ce l’ha con i romantici, solo con chi si
crogiola per debolezza nella sua estetica sino a renderla stantia
come ogni paralisi in cui le emozioni sono braccate, e pretende di
estetizzare anche ciò che andrebbe solo vigorosamente mozzato. Tu
non devi uccidere il chiaro di luna, perché saresti un volgare
assassino: tu puoi però pensare che dinanzi alla luna non ci si può
solo commuovere, ma anche arrabbiarsi ed insultarla, e che anche
questo è poesia. Che puoi pigliare un razzo mettertelo sotto il
deretano, dire ad un cammello che ti fiondi un calcione e ti spari
sul satellite terrestre, atterrare con un tuffo carpiato, costruire
un maxischermo e guardarti le Guerre Stellari in 3D. Questo è
futurista, non quella prepotenza sgradevole di chi vuol ammazzare le
gamme della sensibilità e dell’esperienza umana che hanno dato
voce a molte opere, come quelle romantiche, quelle impressioniste,
quelle espressioniste, quelle surrealiste, e che tutte sono belle
nella loro forza espressiva se non pretendono di dare voce e dignità
artistica ad una malattia oppure non possiedono la tecnica per
rendere giustizia a dei contenuti sani, di qualsiasi genere. Cantare
l’avventura sentimentale va benissimo, ma bisogna cantare anche il
pugno, lo schiaffo, il rombo, lo schianto, lo sparo, la velocità, la
macchina, l’elettricità. Quella di Marinetti è una opposizione
compensativa alla faziosità artistica che eccede in un solo aspetto
dell’esperienza umana e se ne preclude altri, e cosiccome ai
contenuti pone dei limiti alle forme, che a questi devono invece
adeguarsi secondo che ne siano all’altezza o meno. Il vero
contenuto forte del futurismo è il vitalismo, che soltanto
consente di evolversi nel percorso naturale dell’uomo e della sua
arte. È la mentalità eroica, il costante svecchiamento, la tensione
verso il completamento che ha come condizione la forza virile e la
decisione nell’eliminare le scorie nocive che rendono appunto
passato il nostro corpo, e così la nostra arte, nella precisa
misura in cui sono insane, e pretendono di conservarsi in tale stato
come forme eterne. Marinetti non si sarebbe trovato male
nell’antichità classica, dove tutte queste correnti in cui è
stata frammentata l’arte al pari dello spirito umano a dir bene non
c’erano, dal momento che la parola Classico esprime l’imperituro
ossia il perfetto. Esso mostra l’unità, l’essenza, la
completezza, l’organicità, il nulla di mancante e nulla di
superfluo, nell’arte. E sicuramente nello spirito classico, essendo
uno spirito forte e sano, è contenuto il germe dell’innovazione,
del superamento, del cambio di pelle, che realizza pienamente l’uomo
e questo è precisamente il significato della parola Cultura.
Essa è la sanità degli istinti conservativi ed evolutivi che
sottendono al perfezionamento del genere umano. Ciò che non lo fa,
merita di essere chiamata incultura, cultura involutiva, cultura
cancerosa, cultura degenerata. Marinetti non detesta i grandi autori,
ma il parassitismo sterile ed incancrenito dei professori che se ne
fanno interpreti e custodi. L’egotismo, l’edonismo, l’estetismo
senza coerenza etica. L’arte imborghesita e mercificata. Non
detesta Cristo, ma l’ipocrita pusillanimità della Chiesa
Cattolica. Non detesta il dolce, ma lo sdolcinato. Non i sentimenti,
ma il sentimentalismo, ossia il patetismo, la debolezza con
cui li si tratta: quella che non può pretendere di essere
estetizzata, rappresentata, dacché non può mai essere bella. Egli
detesta la mentalità piccolo borghese che conserva il benessere
materiale ed egoistico a scapito di un futuro migliore. Questi
aspetti del futurismo sono convogliati in pieno e si sono conservati
nel fascismo, che però ne ha disconosciuto gli aspetti deteriori
legati appunto a tutti quegli elementi di cultura moderna che
distruggevano il retaggio incrollabile della tradizione: la struttura
gerarchica, la completezza dell’anima e degli strumenti per
realizzarla.
Tutto ciò che è virtuoso nell’etica
e dunque bello nell’estetica presenta la pienezza indistinta delle
tre virtù classiche: Giustizia, Fortezza e Temperanza, in cui il
Fascismo si riconosce.
Il valore oggettivo (e quindi anche
soggettivo per chi ne sia all’altezza) di qualsiasi opera della
creatività umana è costituita dalla sua classicità divisa per la
sua democraticità, ossia per il prodotto tra sinistra (debolezza) e
destra liberale (individualismo). Solo quando un’opera d’arte
sfocia nel misticismo, ossia nell’idealità che parte
dall’individuo come tensione di quest’ultimo al proprio
perfezionamento, cessa di essere bella per diventare sublime.
Il totalitarismo classico o fascismo
non uccide l’arte.
Dona invece ad essa la piena
realizzazione e dunque totalizza anche questo aspetto della cultura
di un popolo. Il fascismo debella l’arte inutile, l’arte
degenerata, quella che non serve la vita, non purifica l’uomo, non
lo slancia nel suo percorso realizzativo, avvicinandolo a perfezioni
maggiori. Il fascismo bandisce l’estetismo: ossia l’arte per
l’arte, che pone innanzi un disegno fugace di felicità, una
finestra favolistica dalla quale dovremo prima o poi distaccarci
senza capacità di emulazione, impigrite in noi dalla filosofia del
distacco, senza averne dunque attinto la forza necessaria ad
estetizzare anche la nostra vita, tramite un’etica superiore, vale
a dire un comportamento migliore, che ci consente di limare i nostri
difetti sconfiggendo i nostri nemici. Tutte le opere artistiche
significative elevano l’uomo tramite un esempio di virtù che egli
venga stimolato a raggiungere. L’arte deve rinverdire gli arbusti
rinsecchiti degli uomini indeboliti ma ancora capaci di risorgere e
muovere verso il bene. L’arte deve liberare le energie umane,
naturalmente rivolte al perfezionamento della propria azione e
conseguentemente della propria felicità. I veri artisti sono dei
nobili soldati del regno. Ogni attività artistica che presenti i
suddetti obiettivi catartici e ne detenga le capacità
specifiche deve essere promossa, sostenuta e tutelata dal governo:
essa è universalmente utile e quindi rispettata e non è necessitata
a lottare per avere il suo spazio e nessun cittadino deve superare
ostacoli impropri, né di natura materiale né economica, per poterne
attingere secondo lo specifico bisogno. L’arte deve arrivare a
chiunque ne abbisogni, in maniera assolutamente svincolata da
interessi economici privati. Una società malata presenta delle
gerarchie naturali nella risoluzione dei propri mali. I mali si
combattono solo con l’azione. Tuttavia se il corpo è debole, le
sue energie sono braccate ed impotenti: qui deve intervenire l’arte
nella forma di stimolo sensoriale e modello virtuoso da imitare, in
tutta la varietà di forme e generi che corrisponda alle specifiche
esigenze di autoriscatto e liberazione presentate dalle varie fasce
di pubblico, che non sono degli acquirenti e dei consumatori ma degli
amanti e dei soldati, che da un’opera ricevono passione e la
stessa riversano poi nella vita, sopra amici e nemici. Questa è
l’arte che libera ed è arte nobile: mentre quella consumistica od
egotistica è un palliativo ingannevole che ne svilisce la funzione e
lascia nello spettatore un languore sgradevole, l’amaro rimpianto
di non poter essere attore, di essere escluso dalla cerchia dei
virtuosi che conseguentemente divengono anche Belli. La differenza
tra acquisto e acquisizione è appunto che il secondo
termine è futurista, ossia evoluzionista, mentre il primo si limita
a conservare lo stato presente. Il consumismo è l’atteggiamento di
chi acquista dei beni per soddisfarne un bisogno contingente e non
invece un’esigenza evolutiva: senza dunque che il contatto con tali
beni ingeneri alcun plusvalore, da investire, ossia
utilizzare, per uno sviluppo in altezza, uno sviluppo futurista
dell’esistenza. Molti beni sono e devono restare beni di consumo:
sono i nostri strumenti di sussistenza. Ma vi è una seconda classe
di beni, superiore perché porta al superamento del proprio livello
di realizzazione, che meritano di essere chiamati viatici evolutivi,
o beni evolutivi. Le opere d’arte superiore appartengono a questa
categoria. Le opere artistiche che nascono spontanee muovono dai mali
della società, cosiccome questi si presentano ai sensi dell’artista,
che ne percepisce il dislivello con i suoi limiti animistici ossia i
suoi ideali. Ogni artista che si realizzi pienamente come tale non è
però giunto alla felicità sino a che i suoi messaggi non sono
divenuti dei cambiamenti sociali tramite i cittadini che, assunto il
messaggio e fattolo proprio, non muovano concretamente contri i mali
denunciati dall’artista in maniera ideale. Nessun artista che non
presenti sommi ideali può essere preso a riferimento come legittimo
liberatore del popolo nobile e sovrano nel regno. Nessun elemento di
razza inferiore può dunque assumere il ruolo di artista nel regno,
come nessun altro ruolo: egli piegherebbe infatti alle ambizioni di
una volontà inferiore la sua opera correttiva dei mali della
società, sicchè non li correggerebbe mai appieno, ed anzi
lascerebbe intonsi dal dolce fulgore della critica emotiva e
superatrice proprio alcuni suoi elementi fondamentali, non
riconoscendoli come nemici, e salvaguardandoli invece come
condizioni basilari della sua sopravvivenza e della liberazione della
propria specie. L’arte non abbisogna di capitali e non deve
produrre capitali: l’arte abbisogna di rette passioni e deve
produrre passioni rettificate. La si sostenga materialmente e
spontaneamente per esserne infine sostenuti: questo il patto, questo
il rapporto, questa la giustizia in merito. Nessun mercato dell’arte:
e tutte le arti contro il mercato. Il mercato è una gabbia contro
l’arte, ne prescrive le forme e i limiti, di effettiva bellezza e
di efficace trasmissione e applicazione. Il mercato piega l’arte ai
suoi scopi. Tutti gli artisti che abbiano scopi superiori facciano
partire la propria ribellione dal rifiuto di vendere il proprio
ribellismo al mercato. Tutte le operazioni economiche che avvengono
nel Regno devono assumere la forma del Volontariato rispettoso dei
principi gerarchici. Nessuna spesa imposta o finanziamento negato,
nessuna coercizione economica che sostituisca quella violenta di una
politica comunque abietta e detentrice di scopi inferiori. Il
principio dell’economia sana è Intransigenza e Solidarietà. Ai
nemici non si vende, e agli amici si regala. Abolizione del denaro:
pagamenti spontanei in natura. Sostituzione della parola pagamento
con la parola aiuto. Tutti i termini che rimandano alla
spersonalizzazione dei rapporti economici, all’astrazione degli
stessi che dissolva le differenze tra le materie razziali ed
impedisca loro di unirsi in azione collettiva realizzativa, e dunque
li privi del loro misticismo, del loro senso, della loro anima: vanno
aboliti. Nessun termine che non meriti di stare in una poesia
abbia libero corso nel mondo assieme alle istituzioni corrispondenti.
Nessun codice civile, nessun codice penale, nessun giurista, nessun
ermeneuta di leggi non chiare, nessuna finta politica e nessun
politichese, nessun avvocatese, nessuna burocrazia e nessun
burocratese, nessuna banca e nessun banchese, nessuna finanza e
nessun gergo finanziario, sia il mercato inteso solamente come luogo
in cui circolano e si attribuiscono le merci e si conservino di esso
i termini che corrispondono ad operazioni sane ed oggetti degni di
esistere. Non vi sia alcun documento di identità o appartenenza,
nessuna simbologia, nessuna retorica: ognuno deve essere riconosciuto
in base al suo aspetto ed al suo comportamento, nessuna divisa che
non sia il complemento tessile del proprio corpo atto a svolgere qui
ed ora una determinata operazione necessaria al benessere del regno,
ogni ente rappresenti dunque se stesso dinanzi a chi possa
riconoscerlo e fargli del bene, e si tenga invece lontano quando è
debole ed abbia un pronto intervento distruttivo dinanzi a chi non
possa riconoscerlo oppure vederlo come nemico e fargli del male. Si
chiami ogni oggetto con il suo proprio nome. Chi non aiuta l’arte
buona, l’economia buona e la guerra buona è una persona cattiva:
bisogna primariamente cacciare fuori dal regno i nemici. Gli amici si
organizzeranno poi spontaneamente, riconoscendosi e rispettando le
naturali gerarchie.
Una civiltà il cui ministero della
cultura assuma la politica dell’Estetismo, in ambito artistico, non
consentendo l’applicazione dell’arte esso vedrà opere sempre più
decadenti che cercano di addolcire, nobilitare, rinforzare, guarire,
appunto estetizzandoli, scorci di realtà sempre più
degenerate e squallide: fino alla necrofilia, al feticismo della
morte.
Il risanamento di un corpo sociale deve
sempre partire dai suoi elementi più basilari. Il ministero della
cultura deve inizialmente promuovere gli artisti, suddivisi nei
rispettivi ambiti secondo i reali talenti e dunque le reali esigenze
espressive, a realizzare opere che parlino dei mali primari del
paese, stimolando gli agenti capaci e predisposti ad agire su di essi
con uno scrollone emotivo e con una iniezione di sostanze benefiche.
Queste opere dovranno essere rappresentate ovunque ce ne sia bisogno
(non a spese dello Stato, ma con il supporto dello
Stato, o anche ad opera dello Stato), per tutto il tempo
necessario, perché agiscano fino in fondo facendo passare il
messaggio, che non è altro che una specifica stimolazione
emotiva ad agire meglio, compiendo il proprio dovere. Una volta che
la vita abbia assunto in questo primario livello, quello della virtù
artistica di riferimento, la sua piena salute, la perfezione, la
funzionalità, l’ideale, non vi è più bisogno di tali opere. Esse
vanno conservate solamente come preventivo contro una eventuale
ricaduta. Ma si deve considerarle una risorsa di emergenza: una volta
che si è raggiunto uno stadio materiale di benessere, una fisica
prestanza, una virtù d’azione, si devono concentrare i massimi
sforzi nel conservare ed espandere quest’ultima, non nella
creazione preventiva di nuovi modelli da contemplare, e dunque
ricominciare da capo prima che ve ne sia la necessità. Di ogni
specie e livello vanno conservate soltanto le opere migliori, e
queste ultime vanno immediatamente distrutte non appena se ne sia
creata una più perfetta. Sia analogamente rifiutato il sostegno e lo
spazio agli epigoni: ogni eccesso è un regresso. Anche quello
numerico. Non si devono sprecare energie per dire ciò che è già
stato detto, o che sia stato detto meglio. Di ogni opera presente nel
regno, affrancata dalle maglie del mercato e dunque dal prepotente
utilizzo privatistico e conservativo del livello imperfetto della
società presente, cui quelle opere fingano di voler porre rimedio ed
invece appunto si vendano: di queste opere deve essere
accertato il valore oggettivo, ossia il potenziale benefico, e
verificata l’applicazione completa in tutte parti del regno che
portino quest’ultimo a giovarne. A questo punto si deve salire di
grado: gli artisti che non sappiano rinnovarsi devono cambiare ruolo.
Tutti i professionisti del settore devono creare adesso opere
all’altezza della nuova situazione materiale. Come possiamo
constatare da questi semplici ragionamenti, sebbene ogni loro
premessa sia dogmatica ovvero imperio di razza, il
perfezionamento dell’arte come di ogni altro aspetto della civiltà
passa per un suo affrancamento dalla debolezza impostale dai principi
democratici (mediocrazia) e da quella impostale dai meccanismi del
mercato (plutocrazia) ossia dall’individualismo spersonalizzante.
Cosiccome l’azione va preparata dall’arte, l’arte va preparata
dalla filosofia. Ogni grande stagione artistica della storia è stata
introdotta da una rivoluzione intellettuale: da una nuova corrente
filosofica. Questo perché i macigni spinosi del presente, prima di
poter essere smossi nella loro singolarità, anche solo teorica
tramite opere particolaristiche, ossia artistiche, necessitano di
essere abbracciati nella forma astratta e più leggera del concetto e
già qui dissestate criticamente nelle loro fattezze fondamentali:
questa è la base che illumina e scatena la fantasia creativa
dell’artista, che ora si sbizzarrisce nel tessere storie, scolpire
forme ed imprimere coloriti. Senza dubbio un’opera artistica ha un
potere stimolante superiore a quello di un’opera filosofica, per il
suo maggior grado di concretezza e singolarità.
La filosofia deve quindi muovere
l’arte. L’arte deve muovere l’economia. L’economia deve
muovere la guerra. La buona guerra uccide i nemici. Senza di essi
viene smantellata la loro economia. Senza il supporto di questa
crolla la loro arte. Senza l’arte la loro filosofia diviene
impalpabile. Anch’essa infine si dissolve nel misero ricordo, fatto
di deboli parole,
che n’era rimasto.
L’uomo schizoide del ventunesimo
secolo
La parte strumentale di questo pezzo
non è affatto inespressiva e non è progressive. Essa non
vuole nemmeno e pertanto essere simbolica della vacuità dell’uomo
moderno, perché identificarla come tale e come tale poterne parlare
significa attribuirle un significato, esprimibile anche musicalmente,
laddove invece la nullità non è assolutamente rappresentabile. Il
testo è una denuncia irritata e vomitata in pochi punti essenziali,
senza distinzione armonica, del carattere schizoide dell’uomo
moderno, cantata scimmiottando lo stesso modo di esprimersi del
soggetto descritto. La parte strumentale è un ibrido tra la colonna
sonora di un film poliziesco e quella di un film comico: questo
comunica musicalmente l’ambiguità di questo personaggio, che vuol
essere un giudice, un rappresentante di rettitudine, di regola e un
uomo d’azione o che potrebbe altresì essere considerato pericoloso
e meritevole di una azione di polizia, ma in un caso come nell’altro
appare grottesco. Ogni nota ci descrive questo soggetto mentre passa
il suo carrozzone: Irruento, sgraziato, incalzante, ripetitivo,
sfogante, squillante, arrogante, pagliaccesco, patetico, turbinante,
ritornante su se stesso, minaccioso, preoccupante, irresponsabile,
incostante, apparentemente inarrestabile, dispersivo, vacuo,
inconcludente, allucinato, pazzo, senza un disegno preciso, divertito
nella frammentarietà, che parte cauto poi ci prende gusto ad
insistere enfatizzando i suoi comportamenti, accelerandone
l’andature, e però in fondo incoerente, auto parodico, frivolo, in
tutta la sua gamma in bilico tra l’autocompiacimento e il
menefreghismo, a tratti improvvisamente composto, adesso addirittura
serio e ostentatamente tecnico, collettivizzante e intellettualoide
nelle sue argomentazioni, per poi ritrovarsi di nuovo starnazzante e
senza niente in mano.
L’estremismo consiste nella pazienza
di accettare tutti i compromessi temporanei unita al coraggio di non
accettare alcun compromesso definitivo.
La
vita di ogni essere consiste in una battaglia per la purificazione
del proprio mondo. Nessuno si astrae, né consapevolmente né
inconsapevolmente, da questa battaglia nemmeno per una frazione di
secondo, durante tutto il percorso della propria vita. Purificare il
proprio mondo significa ridurlo all’unità, e ciò che è difforme
non può stare unito: va annientato. Nessun essere nell’universo si
indignerebbe mai di questo spontaneo e voluto annientamento
perché la distruzione del diverso per la realizzazione dell’unicità
è la legge stessa della Vita: nel mondo vogliamo esserci soltanto
noi, il che è identico a dire dominare tutto, senza più residuo
nemico. Noi dobbiamo essere il Mondo ed il mondo deve essere Noi. Non
vi è nessuna colpa in questo. La colpa è la presenza del
prossimo dentro di noi. Una presenza che può essere solo dannosa e
dunque dolorosa. La particella colonizzante nemica, letteralmente,
nella forma del linguaggio, si è inserita in noi e ci corrode
dall’interno: e ci fa provare rimorso ovvero il secondo
morso, di natura interiore, che un nemico sconfitto è ancora
in grado di infliggerci. Ma non siamo mai noi gli autori masochistici
di questo rimorso di coscienza. La nostra coscienziosità consiste
nel liberarci la coscienza dal prossimo, non nel continuare a
sentirlo dopo che lo abbiamo fieramente ammazzato. Finché ti senti
in colpa la tua vittoria non è completa. Noi non dobbiamo uccidere
gli amici: ma possiamo farlo solo qualora costretti fisicamente o con
la deturpazione intellettuale da parte di un soggetto esterno nemico,
quindi quando colpiamo gli amici non è colpa nostra: solo invece del
nemico. Quando ci sentiamo in colpa gli altri sono presenti dentro di
noi in opera di devastazione: noi sentiamo gli altri, ossia le colpe,
le impurità, ma non possiamo condannare noi stessi. L’uomo
lasciato solo opera la purificazione interna ed esterna. Esternamente
egli estirpa ogni elemento di questo mondo che conservi il
carattere e dunque le fattezze delle razze nemiche, per sostituirlo
con i propri stilemi, per rendere ogni cosa uniforme alla propria
anima. Internamente, egli si discolpa: se privato di pressioni
esterne, di fatto nemiche, la sua psicologia non è altro che
un processo di liberazione dalla schiavitù, dai gioghi e dalle
trappole dilaceranti innestate in noi sotto forma di sostanze
chimiche avversarie oppure concetti avversari. Quando abbiamo le mani
libere noi ridefiniamo i concetti, riconquistiamo il linguaggio. La
forma della nostra anima, ossia la nostra Filosofia, riscrive la
Storia della nostra vita, ovvero rintraccia ed espelle tutti i
colpevoli, ossia tutti gli altri che hanno infierito su di noi, che
ci hanno resi incompleti, corrotti, oppressi. Il linguaggio, come gli
altri elementi fisici che ci circondano, è spiacevole ogniqualvolta
lo abbiamo assaporato come affermazione del nemico su di noi: ed è
possibile guarire solo vendicandosi nello stesso tempo con un gesto e
con la parola che lo ha accompagnato nel torto che abbiamo subito dal
prossimo, sinonimo di umiliazione. Dobbiamo dunque sottomettere nel
dolore il nostro avversario e poi insultarlo. Noi dobbiamo piantare
nel suo corpo lo stesso pugnale, in una situazione analoga, e
commentare la cosa con le stesse parole. Ora la vista di un pugnale
non ci darà più fastidio, l’udire quella parola non ci tormenterà
più, e quella situazione non ci farà più gemere perché non è la
conferma di una sconfitta. Non è possibile rigettare se stessi ma
appunto soltanto il prossimo, il diverso, il nemico: esso che non ha
alcuna dignità perché non può esserci utile, perché non ci
completa, al contrario soltanto ci infastidisce, logora, corrompe,
opprime, sporca, ferisce, disgusta. Non solo la storia la scrivono i
vincitori, ma non è assolutamente possibile, in condizioni di
supremazia totale, che i vincitori materiali non divengano anche
assoluti vincitori morali, scevri da ogni colpa, e riversata questa
invece, totalmente, sino all’ultimo sottilissimo strato di analisi
della vicenda conflittuale, sull’avversario. Degli che in questo
modo, come lo si è finito di sconfiggere socialmente, ossia
esternamente, or coll’istintiva opera chiamata opportunamente
damnatio memoriae, si finisce di sconfiggere anche
psicologicamente. Chi si lamenta del trattamento subito dopo una
sconfitta militare, sappia che gli è andata bene: evidentemente tale
sconfitta non è stata totale e dunque l’avversario ha ancora delle
remore a giustiziare ferocemente e radicalmente anche la vostra
anima. Egli è dunque ancora costretto a farvi delle concessioni, a
fingere di rispettarvi, a discutere ancora parte dell’accaduto come
se il processo dovesse continuare e le sentenze essere ancora in
dubbio. Ma esse restano in dubbio solo fino a che lo è la
completezza dell’affermazione fisica. Sino a che un nemico riesce a
salvare la sua anima, lo deve al fatto che anche il suo corpo è
ancora in grado di difendersi e far male. Forse nessuna guerra è
stata mai vinta completamente e questo è il motivo per cui
tutto si può mettere ancora in discussione: da qualche parte vi è
infatti una persona che sa in quanto è ancora se
stessa, vi è ancora l’ego pulsante di ogni fazione, di ogni
singola razza che vuole cantare la sua versione ossia gonfiarsi ed
esplodere la sua collera sino al ribaltamento totale delle sorti sul
campo, la remissione dei peccati, l’annientamento del nemico ed il
dominio totale dell’Universo, che è stato ben finora un Multiverso
orientato più nel verso dei nemici. Sino a che nel mondo è ancora
in vita un ariano, e sia la civiltà ariana completamente spazzata
via ed anche cancellata dai libri di storia oppure in questi
completamente alterata, egli ha la potenzialità di rifondare quella
civiltà e riscrivere quella storia: la civiltà è infatti
intrinseca al suo sangue, e la storia, nella sofferenza
necessariamente impressa in lui dal mondo nemico che evidentemente si
è preso tutto quanto massacrando i suoi fratelli e tutti i loro
averi. È sempre possibile risalire a fatti ai cui protagonisti non è
stata resa giustizia. Perché mentre la giustizia sparisce nel
momento in cui è realizzata, l’ingiustizia del passato si
ripercuote e si ritrova nella società presente: ed essa può qui
parlare per mille segni.
Non
ha neppure senso in realtà parlare di razze superiori e razze
inferiori, perché il concetto di gerarchia o anche quello di
ordinamento sussistono soltanto all’interno di un insieme, non tra
insiemi isolati, come sono state definite le razze, quali insiemi di
elementi incompatibili e irriducibili. Le visioni del mondo hanno
tutte una base razziale, un tipo umano da difendere, l’unico fine
nei confronti del quale ogni altra cosa è un mezzo, ed è dunque
sacrificabile e prima o poi invero, necessitato ad essere sacrificato
ed annientato. Penso che la cosa più sterile e ridicola operata
dalla naturale faziosità umana, legata per ognuno alla propria
razza, sia l’ipocrisia egualitaria che inganna tutti e porta le
fazioni a discutere nel solo modo in cui sia possibile farlo e
trovare una linea di ragionamento comune: accettando una forma di
uguaglianza, dei principi condivisi, ad esempio quello che condanna
la violenza come cosa negativa. Vediamo allora le due fazioni cercare
di elevarsi l’una sull’altra mercanteggiando su chi in guerra
abbia fatto il maggior numero di vittime, o in generale di crimini,
come se non sapessimo tutti che ogni sangue ha il suo colore, quindi
anche le violenze ed i morti hanno un colore, che le giustifica tutte
quando sono dello stesso colore del tuo sangue e dunque sono
perpetrate in nome della tua causa, mentre ognuno se ne indigna
quando li subisce da un’altra bandiera, dacché la propria è
sempre e soltanto l’unica meritevole di rispetto ed impossibile
a perderlo, di qualsivoglia crimine si macchiasse a propria
volta. In questo caso poi stiamo parlando di Ideologie, ovvero della
rappresentazione teorica delle massime ambizioni e dei sentimenti
dell’uomo, che toccano i suoi limiti spirituali, oltre ai quali non
vi è nulla di apprezzabile, nulla di più alto, in nome del quale
sacrificare quelle: il nostro Ideale si conferma per l’appunto
essere lo Scopo, impossibile a mercificarsi e dunque divenire mezzo,
asservito ad un altro fine. Ragion per cui la storia ci insegna che
in nome di codesti ideali diventiamo spietati e disposti alle azioni
più estreme: possiamo anche sterminare l’intera umanità se questa
impedisce il trionfo del modello di umanità che solo ci rappresenta.
Per questo le genti temono il solo termine Ideologia: poiché esso è
letteralmente, sinonimo di Sterminio - seguito da una ricostruzione
omogenea. L’ideologia è l’apice del pensiero umano, un discorso
coerente ossia completo che concerne la definizione di una Idea.
Tutte le visioni del Mondo che hanno cambiato la storia si sono
presentate con una nuova visione dell’Uomo. Ma ogni Uomo come è
stato definito da un filosofo era uno specifico tipo razziale,
altrimenti non avrebbe avuto da combattere, prima con le altre idee
di uomo, e poi con gli altri uomini, organizzati in fazioni e sistemi
politici. Le ideologie sanciscono i termini di una contrapposizione
identitaria. Esse contengono dunque una lista di entità amiche e
pertanto rispettabili, della cui esistenza sulla terra si accetta la
prosecuzione ed anzi si assegna ad esse un ruolo più o meno
precisato, ed entità nemiche che devono invece essere
necessariamente annientate dalla faccia della terra, con una
procedura più o meno precisata. La parola Ideologia indica dunque e
senza dubbi la camera di incubazione di una guerra mondiale.
Per
questo genera incubi, sebbene l’incubo più grande sia appunto
perdere una guerra totale ed invece il sogno più paradisiaco
il vincerla. Nessuno rigetta la guerra: solo teme la sconfitta. Il
concetto di umanità non è astraibile da quello di guerra, come da
quello di amore. Non è definibile senza d’essi: giacché la guerra
e l’amore sono i soli strumenti di definizione ossia di
identificazione. L’umanità consiste nel diventare uomini, e
condizione per farlo è di scremare i diversi, dopodiché
congiungersi con i complementari. Sono dunque umani tutti gli atti
distruttivi e costruttivi, animati dunque dall’odio e dall’amore,
che contribuiscono realmente alla purificazione di se stessi.
Propriamente
non vi è amore pienamente godibile se non come premio ad una guerra
vinta, non per una sorta di contratto a premi: ma in natura,
come gioia congiuntiva che è libera e piena solo quando l’abbraccio
non è guastato dalla presenza, nei due corpi o anime, di residui
nemici che provocano dolore e risentimenti negativi. Tutti gli
amplessi e le amorose tresche che ricevono il loro sapore romantico
dall’essere vissuti durante un conflitto devono questo sapore alla
necessaria incompletezza e impurità che li caratterizza: l’ostacolo
della guerra pone nei due amanti il rimpianto di non essersi
incontrati altrove, ed il ricordo sognante non è che la percezione
del vuoto impossibile da accettare come ogni natura incompleta,
quello che rende l’uomo e la donna pronti ad una nuova guerra
cosmica se solo servisse a riavere il maltolto, tant’è che il
succo delle romanticherie musicali e letterarie sul tema è proprio
l’ostentazione di questo sentimento che sfida la natura e la
storia, che si slancia through time and distance, motivato
dal fatto che il senso della vita e dunque della storia è quello di
completare la propria natura distruggendo tutti i propri nemici e
agguantando ogni elemento mancante. Anche l’odio per il nemico
sposta le montagne, può scatenare una promessa di sangue
che impegna per una vita intera, sfidando appunto il tempo e la
distanza, e l’epopea del vendicatore spreca gli esempi. Amore e
vendetta sono i moventi di tutte le tragedie. La loro disposizione
sul campo è ciò che rende interessante una sceneggiatura. La loro
debolezza, ciò che la rende scialba. La debolezza con cui i
personaggi padroneggiano le passioni,
è
ciò che rende una sceneggiatura patetica. Mentre la forza, con cui
fanno ciò, la rende epica. Non sempre dal punto di vista
drammaturgico, ma sicuramente da quello eudemonologico, nella vita
bisogna possibilmente dare la precedenza alla guerra, come il dovere
deve precedere il piacere per davvero consentire quest’ultimo, e
dunque un piacere non doveroso sia un’attrazione ingannevole e la
durezza di un dovere reale e dunque benefico sia una fatica soltanto
apparente, ben affrontabile se distogliamo la mente dal confronto con
piaceri fatui o con soddisfazioni di cui non siamo ancora all’altezza
perché non ce ne siamo costruite le condizioni: come più
semplicemente, prima ci si lava poi ci si veste, prima ci si mette in
sesto per piacer a se stessi poi si cercherà di piacere al prossimo,
prima scolpiscono le pietre poi costruisce la casa, e la gerarchia è
di tipo naturale, addirittura biochimico: nessuna congiunzione tra
esseri impuri sarà piacevole… ci si scambieranno tossine,
necessariamente, assieme al buono. Non bisogna per lo più cadere nel
tranello in cui talvolta sembra porci la vita, quello di un apparente
circolo vizioso secondo cui, per poter vivere una esperienza
libidica, dovremmo prima aver chiuso i conti col nostro presente e
dunque col nostro passato, contro tutto quello che ci ha sconfitto e
di cui portiamo le scorie dentro, combattendo per ristabilire la
nostra autostima e così la nostra identità, e tuttavia, proprio per
avere la forza di fare questo, dovremmo essere corroborati dall’amore
di qualcuno, o da qualche altra esperienza piacevole di tipo
congiuntivo e non distruttivo. Questo dilemma è solo apparente,
perché le due cose non stanno sullo stesso piano, ma sono appunto
gerarchiche: se tu metti in contatto una cosa sporca con una cosa
pulita, poi le dovrai lavare entrambe. Pertanto la strategia di amare
da impuri, come quella di giocare da malati, oppure di agire contro
volontà, sono da accogliere solo quando davvero non c’è altra
scelta perché far le cose secondo natura provocherebbe, a causa
dalla situazione esterna, una sconfitta ancora maggiore. Ma nella
maggior parte dei casi non abbiamo invece bisogno di quel piacere
ausiliario per continuare la nostra guerra in maniera vincente,
mentre abbiamo sicuramente bisogno di aver vinto la nostra guerra per
accedere ad un piacere vero, e nel primo caso abbiamo spesso la
possibilità invero di attingere a piacere più piccoli e specifici
che siano corroboranti senza effetti collaterali, e dunque non è per
niente conveniente lanciarsi nel percorso del purgatorio graduale
emotivo, secondo il quale, in ogni tappa, tu sei maggiormente puro,
ma non hai mai combattuto né amato nella pienezza delle condizioni e
dunque il tuo atto è sempre stato solo parzialmente appagante con
aggiunto un residuo di nuovo inquinamento sull’altro settore. Una
persona che ha un passato, il quale si legga nel suo presente perché
non è ancora risolto, desta sicuramente interesse, in una
donna come in un uomo, se non altro perché è una circostanza che
consente meglio di mettere alla prova quella persona: si vede come
essa affronta la vita, dimostra il suo carattere, elemento da
valutare per una proficua sociazione e che spesso due persone non
arrivano a conoscere perché si sono relazionati quando era tutto
rose e fiori, illudendosi sulle qualità dell’altro, per poi andare
incontro a cocenti delusioni quando arrivano i tempi duri e vediamo
chi è veramente la personcina che avevamo messo sul piedistallo.
Tuttavia, le persone in situazioni difficili sono interessanti dal
punto di vista estetico, non etico: per un contatto quindi in cui noi
abbiamo ruolo di spettatori e non di protagonisti. Il rapporto
fondamentale di qualsiasi coppia è una congiunzione di cui entrambi
sono pienamente all’altezza, priva dunque di attese o inquinamenti
sgradevoli.
POSTILLE
PER UN ARRIVEDERCI
Sapete qual è il modo per conquistare
la notte? Pensare che non debba necessariamente iniziare al tramonto
e finire all’alba. Sapete qual è il modo per conquistare il
giorno? Pensare che non debba necessariamente iniziare all’alba e
finire al tramonto. Sapete come conquistare l’alba e il tramonto?
Pensare che non debbano essere necessariamente così brevi. Sapete
come conquistare le ore del giorno? Pensare che non debbano durare
per forza un’ora. Sapete come conquistare i minuti? Metterli per
secondi. E per conquistare i secondi? Fate come fossero i primi.
La vita è fatta di attimi. Non
aspettarli: perché non arriveranno, oppure arriveranno in ritardo,
oppure costeranno di più, altrimenti costeranno di meno solo perché
per avere infine quelli ne hai perduti altri che valevano di più.
Non cogliere l’attimo: scaccia ogni attimo che pretenda di
coglierti senza il tuo consenso.
Sai qual è il modo di cominciare a
ridere? Smettere di piangere.
Sai qual è il modo di cominciare a
piangere? Smettere di ridere.
Sai qual è il modo di dissacrare un
capolavoro?
Dire che fa schifo. E non dare
spiegazioni.
Se ti dicono che non hai spiegazioni,
dì che è assurdo voler spiegare l’evidenza.
Se ti dicono che l’evidenza non è la
stessa per tutti, digli che non ti interessa la sua.
Se ti dice che parli così perché hai
paura del confronto, digli che qualsiasi confronto razionale potrebbe
solo confermare il conflitto istintivo, ma sarebbe più dispendioso:
come se si prendessero i soliti due grossi fiumi che vanno in
direzione opposta, e li si spartisse ognuno in diversi rivoli che per
un tratto allargano la forma del fiume, pur non alterando il volume
di acqua, che vien dalla sorgente, e dunque la portata complessiva,
né evitare che i due grandi fiumi conducano in ogni caso alle
rispettive foci. Ragionare di fronte alla pienezza di un istinto
significa fare un torto all’istinto ed anche alla ragione: non
avremmo nessuna ragione per farlo in quanto non avremmo nessun
istinto.
È infatti una cosa che può esserci
imposta solo dall’esterno: come qualsiasi regresso.
Cosa è la giustizia? L'istinto
dell'uomo superiore.
Ogni volta che si cede alla
spiegazione, si perde la propria autorevolezza.
Tu devi spiegare le cose a chi non ha
capito e vuole capire.
Mai a chi ha capito benissimo e non è
d’accordo con te.
Se qualcuno ti biasima, probabilmente
ha ragione: non siete fatti l’uno per l’altro.
Se tu lo biasimi, probabilmente hai
ragione: non siete fatti l’uno per l’altro.
Avendo dunque ragione entrambi, non
siete più in disaccordo.
Potete andarvene in pace fino alla
prossima guerra.
Se sarà solo fisica, qualcuno vincerà.
Se sarà intellettuale, perderete
entrambi.
Però sarà fastidioso, irritante,
faticoso,
disgustoso, urtante, destabilizzante,
inquinante.
Tornerai a pensarla come prima, ma non
potrai evitare i tornanti.
Sai qual è il modo per andare lisci
contro mano? Metterci contro anche il braccio.
Sai perché dopo che gli hai dato uno
spintone lui ti ha steso con un pugno?
Perché non glie lo hai dato abbastanza
forte a che si potesse spaventare.
Sai perché dopo il tuo primo colpo ne
hai preso uno più forte?
Perché non hai avuto il coraggio di
dargliene subito un secondo ed un terzo.
Sai perché dopo il suo colpo lui te ne
ha dato un altro? Perché ti ha visto esitare nella replica.
Sai perché dopo che tu lo hai toccato
su un punto sensibile lui ti ha aggredito ferocemente?
Perché non dovevi toccarlo: ma
traumatizzarlo fino a paralizzare le sue capacità di replica,
e da lì finire di smembrare quel che
meritava di essere smembrato.
Sappi che non hai detto una cosa
sbagliata: non l’hai detta con sufficiente energia.
Sai come portare un codardo ad essere
mediamente coraggioso?
Essendo molto coraggioso dinanzi a lui.
Sai perché il coraggio fa due passi
indietro? Perché non è riuscito a farne un altro avanti.
Sai perché ne fa altri due indietro?
Perché non è riuscito a farne subito tre in avanti.
Sai perché tre in avanti non sarebbero
bastati? Perché senza il quarto, ne fai subito un altro indietro.
Per rimediare, ora devi farne due in
avanti.
Ma se vuoi evitare di farne poi un
altro indietro, devono essere tre.
L’unico modo di non dover mai tornare
indietro è di non perdere mai il coraggio. L’unico modo di non
perdere il coraggio è di non tornare mai indietro. Ma in qualsiasi
punto siamo retrocessi, se invertiamo il senso di marcia e non ci
fermiamo più, possiamo raggiungere qualunque meta. Noi esitiamo
quando non siamo noi stessi, quando non siamo pieni. Quando non lo
siamo, però, non è possibile essere coraggiosi. Un uomo pieno di sé
non può esitare, e quando tutte le armi sono spianate, la guerra è
giusta perché dirime tutti i conflitti diminuendone il numero, e i
deboli vengono sconfitti. Ma quando non siamo pieni, il nostro
coraggio sta nel conquistare la nostra pienezza. Siamo innati anche
in questa capacità.
Sai come portare uno che dice che
quella cosa è buona a dire che forse non è poi così buona?
Dire duramente che è cattiva.
Sai qual è il modo per non essere il
solo a fare una cosa? Farla una volta in pubblico.
Quando molti l’avranno fatta in
privato, ora quelli che non sarebbero stati abbastanza coraggiosi da
farla per primi in pubblico, visto che per primi non la facevano
nemmeno in privato, ma sono tuttavia più coraggiosi della media,
cominceranno a farla anche in pubblico, sapendo ormai che in privato
la fanno tutti. Quando la maggioranza avrà preso a farla in
pubblico, tutti gli altri si aggregheranno. Il tabù è ora norma di
legge.
I
miei pensieri sono molto vincenti. Nessuna prolissità. Nessuna
carenza. Ogni frammento dispiana una questione. Ogni frase
stende un nemico. Nessun colpo fiacco. Nessun colpo eccessivo.
Nessun colpo impreciso. Nessun colpo a vuoto. Nessun colpo fuori
luogo, nessuna ingiustizia.
Tutti
questi nessun sono necessari ad assestare un colpo
grosso.
Nessuno
può permettersi di interrompere un mio aforisma:
e
non esistono cause di forza maggiore.
Arrivederci.
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